mercoledì 26 dicembre 2012

30 Dicembre 2012 – Santa Famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe

« Il fanciullo Gesù rimase a Gerusalemme, senza che i genitori se ne accorgessero... Dopo tre giorni lo trovarono nel tempio, seduto in mezzo ai maestri, mentre li ascoltava e li interrogava... “Figlio, perché ci hai fatto questo? Ecco, tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo”. Ed egli rispose loro: “Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?” Scese dunque con loro e venne a Nazaret e stava loro sottomesso… E Gesù cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini» (Lc 2,41-52).
La prima domenica dopo Natale la Chiesa celebra la festa della Santa Famiglia.
Quando parliamo di questa famiglia, come non pensarla tranquilla, armoniosa, serena, perfetta? Immaginiamo che Giuseppe, Maria e Gesù, non abbiano mai avuto alcun imprevisto, non abbiano mai dovuto fare i conti con le contrarietà, con i problemi della vita. Invece il vangelo di oggi ci presenta una situazione terribile, quasi drammatica, di grande ansia; un fatto imprevisto molto duro da gestire: la scomparsa del loro piccolo Gesù.
Gesù ha dodici anni: per gli ebrei è l'età in cui i bambini passano dall’infanzia all'età adulta. Fino ad allora, infatti, i ragazzi sono considerati come una “cosa”; ma a questa età diventano adulti con tutte le responsabilità e i diritti di tale posizione. È un po’ come una seconda nascita: significa affrancarsi dalle aspettative dei genitori che li amano, e imboccare la loro strada personale, la strada pensata da Dio proprio per loro.
Penso che tutti saremo passati per questa esperienza, tutti avremo atteso e vissuto questo passaggio con grande trepidazione ed entusiasmo. Ma c’è anche chi lo vede come un grande rischio, un andare verso l’ignoto, e preferisce rimanere così com’è, infantile, chiuso nel suo piccolo mondo ovattato, obbediente e ossequioso, ma privo di ogni responsabilità e di generosi slanci. Ebbene fratelli: non assecondiamo i nostri figli in una simile scelta, sicuramente infausta, magari per paura di perderli dal nostro controllo: rimarrebbero immaturi, non saprebbero mai relazionarsi in modo corretto né con la società né con Dio. Facciamoli crescere i nostri figli, facciamoli maturare, diventare uomini; non fagocitiamoli col nostro egoismo, non instupidiamoli con favolette insulse, facciamo in modo che Dio sia il loro solo Dio: nessun altro! Né la madre, né il padre.
Il vangelo dice che “come tutti gli anni”, secondo l'usanza, la famiglia va a Gerusalemme.
Già, l'usanza: ricordate le usanze di quando eravamo ragazzi? Alla domenica tutti a Messa, si pregava tutti insieme, uno vicino all’altro; poi il pranzo della festa: era l’occasione più bella per stare insieme e godere ciascuno della presenza dell’altro (durante la settimana i grandi lavoravano, i ragazzi a scuola). Un bel giorno, però, ci siamo accorti di essere cresciuti, di voler fare di testa nostra, e abbiamo cominciato a puntare i piedi: “Non vengo più a messa con voi, non vengo più in vacanza con voi!”; e i genitori: “Ma come!? Abbiamo sempre fatto così! Cos'è questa novità? Che sono questi capricci?”. Era l’usanza, si era sempre fatto così; era difficile per loro accettare un drastico cambiamento delle solite cose, riconoscere che noi eravamo cresciuti, che avevamo soprattutto bisogno della nostra indipendenza.
Anche qui, il fatto che Gesù rimanga a Gerusalemme senza che i genitori se ne accorgano e che lo trovino solo dopo tre giorni di estenuanti ricerche, la dice lunga sul dramma vissuto da Giuseppe e Maria; non erano preparati a vederlo nella prospettiva del suo domani; è successo anche a loro esattamente quello che è accaduto, accade e accadrà, in tutte le famiglie di ogni tempo.
Anche da noi: i figli sono il centro della nostra vita. Vivono con noi; li cresciamo, li educhiamo, diamo loro una istruzione, li introduciamo nel mistero della vita, insegniamo loro cosa è buono e cosa non è buono, siamo il loro modello di vita, l’esempio da imitare. Essi imparano da noi, ci stimano, ci amano perché siamo il padre e la madre; ci stimano al di là di ciò che facciamo o non facciamo, per il solo fatto che noi li abbiamo messi al mondo e siamo il loro riferimento. Comandiamo ed essi ci obbediscono. Ma poi, senza che ce ne accorgiamo, di punto in bianco come è successo con Gesù, si staccano da noi, li perdiamo. All'inizio la frattura è velata: qualche risposta, qualche incomprensione, qualche capriccio, qualche domanda in più, qualche risposta che ci mette in difficoltà. Sembra che tutto possa ricomporsi, sembrano solo delle piccole crepe. E invece no! Noi i nostri figli li stiamo perdendo e non ce ne vogliamo rendere conto.
È che noi siamo rimasti anni luce indietro: siamo ancora fermi, sclerotizzati, su “oh, il mio bambino” (ma, fratelli miei, il bimbo ha quindici anni!); “il mio cucciolo” (ma è alto un metro e ottanta!); “il tesoruccio di mamma e papà” (ma lui si sente più legato alla sua comitiva di amici).
Per tutti i genitori, come anche per Maria e Giuseppe, i figli sono “loro”: li hanno fatti nascere, li hanno fatti crescere; hanno faticato tanto, hanno speso per loro energie, tempo e denaro, ansie e notti insonni. Sentirli quindi come una loro “proprietà”, è quasi un diritto. Soprattutto per la madre, i figli sono coloro che l’amano di più: anche se tutto andasse storto, anche se nessuno la amasse più, anche se la sua vita matrimoniale fallisse, anche se tutta la sua esistenza diventasse un inferno, per lei l’amore dei figli è sempre l’unico motivo valido per continuare a vivere e a lottare. Del resto i figli l’amano perché non possono stare senza di lei: la madre per loro è importante, è un punto essenziale di riferimento: è quindi naturale amarla. Una realtà che la rende sicura di ricevere per sempre il loro amore.
Ma attenzione: quante volte abbiamo sentito una madre esclamare: “ho un figlio così dolce che me lo mangerei!”: ora, finché si tratta di coccole e di baci va tutto bene; ma se questo “mangiarlo” lo dovesse fare sul piano emotivo, se non lo lasciasse andare, se lo soffocasse, se gli stesse sempre con il fiato sul collo, se lo iper-proteggesse, se si rifiutasse di accettare la sua crescita, allora “se lo mangerebbe” per davvero, allora rischierebbe di soffocarlo, rischierebbe di uccidergli l'anima.
Un genitore, una madre in particolare, deve invece sacrificare consapevolmente i propri figli, deve offrirli al tempio, deve “perderli”. Deve cioè accettare l’idea che quei suoi figli non sono “suoi”; sono persone “altre” da sé; deve tagliare quel cordone ombelicale che ancora li lega, e lasciarli andare. Deve accettare che quei figli sono figli di Dio, che hanno una loro strada da seguire, che devono raggiungere la loro Gerusalemme, che devono attuare il loro progetto di vita, quel piano che Dio ha pensato per loro, costi quel che costi. Devono andare là. Opporsi a questo, è combattere Dio, andare contro i suoi progetti. È duro capirlo, ma è necessario, è vitale.
Deve essere stato duro anche per Maria e Giuseppe lasciare andare Gesù; era il loro unico figlio, il prediletto, sul quale avevano puntato tutto, avevano riposto in lui tutte le loro attese.
È così difficile accettare che i figli siano grandi; è così difficile lasciare che ci provino da soli, che possano sbagliare; è così difficile smettere di tirarli fuori dai loro problemi, di preoccuparci sempre, di continuare a proteggerli oltre il normale; è così difficile lasciare loro spazio; è così difficile non appianare loro qualunque difficoltà! Vorremmo che i nostri figli non soffrissero mai, non si sentissero mai soli, mai isolati; che non litigassero mai con nessuno, che non fossero mai tristi, che non avessero mai problemi; e facciamo di tutto perché questo si avveri, convinti di fare molto bene. Siamo animati da vero amore, questo è innegabile, ma così facendo non è che facciamo loro del gran bene. Se continuiamo a togliere tutti i sassolini davanti ai loro passi, cosa accadrà quando dovranno superare i macigni, quando dovranno fare i conti con le vere contrarietà della vita? Riusciranno a reggere il peso delle inevitabili delusioni? Cadranno in depressione? Verranno travolti, sommersi?
Quando finalmente trovano Gesù nel Tempio, Maria e Giuseppe gli dicono, decisi: “Perché ci hai fatto questo?”. Sono concentrati sul loro dolore, sull’ansia, sulla disperazione provata nel momento che hanno scoperto la sua assenza. È il dolore dei genitori che di fronte allo scampato pericolo, trovandosi di fronte ad una scelta autonoma del figlio, si sentono messi da parte, traditi: si accorgono in quel preciso momento di averlo perduto: una constatazione molto dura.
Anche perché Gesù risponde altrettanto deciso: “Non sapevate che devo occuparmi delle cose del padre mio?”. In altre parole: “Di che vi lamentate? Dovreste sapere bene anche voi che il mio vero padre è Dio, e che la mia vera madre è la Vita”. Egli ha già fatto il grande salto; è già passato dalla paternità e maternità terrena, a quella più importante del Dio della Vita; deve seguire il mandato del Padre, la Vita, lo Spirito, la Voce della Sua chiamata; e non già la loro di voce.
E qui il vangelo fa scrupolosamente notare che essi non “compresero ciò che aveva detto loro”.
A ben guardare, Maria e Giuseppe non capiscono tante cose nella loro vita: Giuseppe non capisce cosa sta accadendo alla sua fidanzata che è incinta; poi deve scappare in Egitto senza sapere il perché; vede nascere questo suo figlio tra canti, tra angeli e Gloria e non sa spiegarsene la ragione; e ora al tempio, non capisce la risposta di Gesù. Maria dal canto suo non capisce la sua gravidanza; l'angelo le comunica un mistero enorme al quale dice “sì”, ma rimane turbata, perplessa, piena di paure e di domande; alla nascita di Gesù anche lei cerca di darsi una spiegazione in cuor suo di ciò che le sta accadendo; e anche lei, come Giuseppe, non capisce a questo punto la reazione decisa del figlio; e più avanti faticherà ancora molto per capire i gesti di suo figlio: sembra quasi non capacitarsi di avere un figlio così decisamente diverso dagli altri.
La storia di Maria e di Giuseppe è costellata quindi dal non capire, dal non comprendere, dal mistero: anche se tutto quanto succedeva aveva un senso ben preciso, se tutto era chiaramente legato da un filo conduttore, se tutto rientrava in un evidente progetto soprannaturale. Non capivano, ma accettavano e si uniformavano, umili e obbedienti, al volere di Dio.
Allora a questo punto chiediamoci: perché noi vogliamo capire sempre tutto? Perché noi vogliamo avere ad ogni costo tutte le risposte e le spiegazioni? Perché dobbiamo avere tutto sotto controllo, razionalizzare tutto, avere chiaro tutto il progetto fin dall'inizio e in tutti i suoi particolari? E se ci lasciassimo anche noi semplicemente portare, condurre? E se ci fidassimo? Se smettessimo di voler capire tutto, confidando un po’ di più in Dio?
Ebbene, fratelli, fidiamoci dunque di Dio: sappiamo che Lui sa tutto, sappiamo che Lui agisce sempre per il nostro bene; sappiamo che ogni cosa è inscritta nella sua provvidenza; che noi stessi abbiamo un senso solo in Lui, in un Suo progetto. Non pretendiamo di capire tutto nella vita: viviamo accettando quello che Lui ha previsto per noi, per i nostri figli, per la nostra famiglia, per tutti i nostri cari; viviamo sapendo di fare la Sua volontà. Accettiamo che i nostri figli si affranchino da noi: perché in questo modo “perderli”, significherà “ritrovarli”.
Tornò con loro a Nazareth”, dice il vangelo. Gesù, dopo questa esperienza, rimane con i genitori. Ma niente sarà più come prima. La famiglia si ricompone, ma tutti hanno imparato qualcosa di nuovo, tutti sono maturati. Gesù ora ha capito chi è, cosa deve fare, cosa deve essere. Ma non è ancora arrivato il suo tempo: egli aspetta la sua ora, all’ombra della sua famiglia. Giuseppe e Maria hanno ora capito che quel loro figlio non è “loro”, che non possono decidere per lui, che lo devono lasciare andare. E gli stanno vicino; come prima, anzi più di prima; lo rassicurano con tutto il loro amore, lo introducono nella vita umana, gli danno tutto, pur consapevoli che un giorno lui se ne andrà per realizzare la sua missione. Verrà questo suo tempo. Ma intanto, nella famiglia, cresce in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini. Un piccolo esemplare spaccato di vita familiare: serena, piena di amore, di rispetto reciproco, di abbandono alla volontà del Padre. Ecco, fratelli: confrontiamo questa atmosfera con quella che viviamo nelle nostre famiglie, nelle nostre comunità; verifichiamo i rapporti che abbiamo con i nostri figli, con i nostri fratelli in Cristo, con tutti i nostri compagni di viaggio. E soprattutto meditiamo.
Siamo agli sgoccioli di questo anno. Porgo a voi tutti gli auguri per un radioso 2013.
Anche se fatti con il cuore, so perfettamente che non vi cambieranno la vita. Ma sono altrettanto sicuro che Dio, nel Suo amore, ha il potere di rinnovarla sul serio. Basta chiederglielo umilmente. E meritarcelo. Amen.

 

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