mercoledì 30 novembre 2011

11 Dicembre 2011 – III Domenica di Avvento

«Venne un uomo mandato da Dio: il suo nome era Giovanni. Egli venne come testimone per dare testimonianza alla luce, perché tutti credessero per mezzo di lui. Non era lui la luce, ma doveva dare testimonianza alla luce…».
Anche questa domenica il vangelo si concentra sulla figura del Battista. Ma oggi Giovanni non è l’asceta duro di domenica scorsa, non è il profeta austero, intransigente, l’annunciatore di catastrofi nel caso gli uomini non si convertano.
Oggi ci viene dipinto da Giovanni, suo omonimo l'evangelista, come un “testimone”, un “indicatore”; noi moderni diremmo come un “navigatore satellitare”, un cartello segnalatore che dice: “Non guardate me, guardate più in là, guardate oltre me; dovete guardare verso la direzione che io vi indico”.
Qui il Battista è enigmatico, non spiega, non dice chi verrà e come verrà. Dice soltanto: “Preparate la via… verrà uno che non conoscete… e io di fronte a lui sono niente”.
Bene, fratelli: è proprio questa l’essenza dell’avvento. Giovanni “sente” che qualcosa deve succedere, che qualcosa deve avvenire; e attende, aspetta. Sente che sta per arrivare qualcuno, ma non sa chi.
Attendere vuol dire aspettarsi qualcosa di nuovo, di diverso, di insolito. Dobbiamo conservare la sorpresa, l'imprevisto, il poter essere “sorpresi”, perché se conosciamo già tutto, se abbiamo già provato e scritto tutto, che Natale è? Che Avvento è?
Prepararsi pertanto vuol dire: “Acconsenti che ti succeda qualcosa di cui non puoi disporre, che non puoi controllare, che non puoi gestire. Permetti che la vita ti faccia delle sorprese”.
Noi tendiamo a controllare tutto. Pianifichiamo tutto. Gestiamo tutto, o per lo meno ci proviamo. Ma Dio è l’ingestibile, perché Dio è il sempre nuovo, è il più grande, è l’oltre, il “più in là”. Se Dio non ci sorprende, non è Dio. Se Dio non ci spiazza, non è Dio. Se Dio non ci schiaffeggia rendendoci svegli, dandoci conto di certe cose, non è Dio.
Dio lo troviamo molto di più negli imprevisti che non in tutto ciò che pre-vediamo. Lasciamo allora, fratelli, che la vita ci sorprenda! Permettiamo alla vita di manifestare tutta la sua ampiezza e ricchezza. Ricordiamoci che la Vita lavora sempre con noi e mai contro di voi; se la ostacoliamo, ostacoliamo noi stessi.
Nel vangelo viene posta a Giovanni Battista una domanda che dovrebbe farci molto riflettere: “Chi sei tu?”. Già: “Chi siamo noi?”. “Sono un uomo, una donna, un marito, una mamma, un bravo cristiano…”. Sì, d'accordo, è tutto vero, ma non è tutto. Semmai questo è il nostro “ruolo”, è il vestito che indossiamo, ma dentro… chi siamo?
Il ruolo, quello visibile, quello che tutti vedono, è limitato, è limitante: ci permette di vivere una parte, ma solo una parte della vita. Molti di noi si sono investiti in un ruolo e continuano a vivere sempre e solo quello. Del resto vivere interpretando sempre lo stesso personaggio ci rassicura: lo conosciamo, ci viene bene, è facile; lo conosciamo bene, ma ci limita. Il ruolo ci ingabbia; ne diventiamo schiavi e, invece di aiutarci a vivere, ci imprigiona. Purtroppo in molte persone si è smarrita la persona ed è rimasto solo il ruolo. Se togliessimo il vestito, il ruolo, al suo interno non troveremmo niente.
Ma la domanda rimane: “Al di là di tutti i ruoli, di tutti i vestiti, chi siamo noi?”. Chi siamo noi dentro, in profondità, nell’intimità dell’anima? Questa è la grande domanda. Cos’è, cioè, che ci fa originali, irripetibili, esclusivi rispetto agli altri? Cos’è che ci rende diversi da tutti? Cos’è che ci rende insostituibili, unici davanti a Dio? Perché se non troviamo questo elemento distintivo, vuol dire che siamo uguali agli altri, che noi e altri siamo la stessa cosa; vuol dire che non siamo importanti, che uguali a noi ce ne sono a migliaia; vuol dire che invece dell'originale, siamo una fotocopia, un doppione, uno sbaglio: come se la vita, qualunque vita, si riducesse ad essere una semplice fotocopia! Impossibile: e se per assurdo fossimo uguali agli altri, allora vorrebbe dire che non stiamo vivendo la nostra vita, che abbiamo fallito tutto, che la nostra vita non ha alcun senso.
«Tu, chi sei? Egli confessò e non negò...». Il Battista inizia a dire prima di tutto cosa non è. “Non sono Elia, né Cristo, né un profeta”. È importante, fratelli, rifiutare tutti i ruoli che gli altri ci appiccicano addosso, tutte le etichette che ci incollano; è importante ribellarsi e dire agli altri: “No, non sono uguale a voi, non sono come voi! Io sono io; non sono te e nessun altro. Io ho il mio nome. Non vi piaccio come sono? Non soddisfo le vostre aspettative? Non rientro nei vostri schemi? Pazienza!”. È l’inizio della libertà, fratelli. Della nostra libertà. Perché noi siamo “altri”!
Il primo passo da fare sulla strada della vera vita è quindi liberarsi da ciò che non si è.
La prima grande scelta, come quella del Battista, è non voler essere come gli altri: “No, io non sono questo! Io sono Giovanni il Battista, non sono Elia, né il Cristo né un Profeta”.
Riconoscere di non essere ciò che gli altri vorrebbero, toglierci le maschere, le definizioni, le aspettative, le incrostazioni che gli altri ci hanno imposto, è un’operazione molto impegnativa, difficile, spesso anche dolorosa. Ma se coraggiosamente ci togliamo di dosso ciò che non è nostro, ciò che deturpa la nostra unicità, pian piano emergerà chi siamo, ciò che ci rende immagine e somiglianza di Dio. E ne varrà sicuramente la pena, fratelli!
“Io sono voce di uno che grida: Preparate la strada”. Giovanni è dunque un profeta; è questo il suo ruolo: ma oltre a ciò, egli ha trovato chi è veramente, la sua vera identità, ha capito qual è esattamente la sua missione: “Essere voce”. Egli ha trovato il vero motivo per cui vivere, la ragione per cui è stato creato, ciò che dà senso e valore alla sua vita. Lui è la “voce” che deve dire a tutti: “State attenti, preparate la via al Signore, non dormite, non sonnecchiate; il Signore vi passerà vicino, non lasciatevelo scappare! Dio c’è, ma se voi insistete a tenere gli occhi chiusi, non lo vedrete mai”.
Il Battista dà, presta la voce, ma le parole sono di un Altro.
È testimone della luce, illumina anche, ma non è la Luce. È come la luna che riflette una luce non sua; non è lei la fonte della luce: la sua “luce” viene dal sole. Come il Battista, anche noi dobbiamo essere“voce”; dobbiamo essere strumento, mezzo, veicolo di Qualcun altro. Dobbiamo cioè essere l’altoparlante di Colui che sussurra al microfono del nostro cuore. È questo, fratelli, il nostro primo compito: dar voce all’Infinito, al Dio, all’Oltre; dare voce alla Forza, allo Spirito che ci scuote dentro, ma che non ci appartiene. L’uomo è chiamato a testimoniare l’invisibile, il di più che si porta dentro. Questo è appunto il nostro servizio che dobbiamo a Dio: dare voce a ciò che abbiamo dentro!
Certo però, che se non lo ascoltiamo mai, è piuttosto difficile avere qualcosa "dentro"! Anzi impossibile.
Essere “strumenti” di Dio vuol dire permettere che sia Dio a scegliere, che sia Lui a utilizzarci come meglio crede; che sia Lui a farci la chiamata che ritiene più consona per noi. Sì, fratelli, perché noi viviamo in Lui e per Lui. La vita non è nostra. Noi siamo padri, madri, ma la paternità o la maternità non è nostra. Non la possediamo. Noi siamo veri, ma la verità non viene da noi. Noi diventiamo liberi, ma non siamo la libertà. Noi danziamo, ma non siamo la danza. Noi facciamo esperienza di Dio, lo sentiamo, lo percepiamo, ma non siamo Dio. Noi abbiamo un’anima, ma non siamo l’Anima. Siamo un verbo, ma non siamo il soggetto che lo coniuga. Il soggetto è sempre e solo Dio. È Lui che parla, è Lui che ispira, è Lui che chiama.
Il grande male dell’uomo è sentirsi proprietario delle cose e delle persone. Sentirle sue, quando non lo sono affatto. L’uomo è soltanto un amministratore, è semplicemente voce.
Nel vangelo c’è poi una sfumatura che merita di essere colta: “In mezzo a voi sta uno che non conoscete”. Una frase che detta così non è particolarmente incisiva; ma, se tradotta bene dal greco, diventa molto forte. Dice infatti: “In mezzo a voi ci sta uno che voi non volete conoscere”; non semplicemente, come suona il testo italiano, “uno che non conoscete”; la differenza sostanziale introduce una nuova situazione, ossia la scelta di “non conoscere” volutamente, di proposito. Di norma infatti, il verbo “conoscere”, in greco, viene espresso con gignèskw. Qui, invece, Giovanni usa un altro verbo: o‡date, che indica il “voler sapere, il conoscere con cognizione di causa, il conoscere senza dubbi, il vedere con i propri occhi. Quindi il verbo “non conoscete acquista una coloritura volutamente negativa, come a dire: in mezzo a voi c’è uno che voi “non conoscete perché non avete voglia di conoscerlo, non lo volete conoscere perché non lo vedete con i vostri occhi, e quindi non ammettete ripensamenti su di lui. In altre parole, si vuole evidenziare il fatto che i Giudei e i farisei hanno scelto deliberatamente, coscientemente, di non conoscere Gesù, di non avere nulla a che spartire con “Colui che viene”. È chiaro, allora, che qualunque cosa Lui successivamente faccia o dica – e la storia lo confermerà – non riuscirà in alcun modo a cambiare la loro decisione. Chi non vuol credere non crederà.
Giovanni Battista può urlare, scuotere, gridare, strattonare: ma non servirà. Se nella nostra testa abbiamo deciso a priori che una cosa non ci interessa, niente e nessuno potrà mai farci cambiare idea. Se abbiamo deciso che l'idea di Dio è ininfluente per la nostra vita, un accessorio senza alcuna importanza, nessuna predicazione ci potrà convertire, nessun grido profetico potrà mai scalfirci. Se abbiamo deciso di non metterci in gioco, non impareremo mai nulla dalla vita, perché una vita così non avrà mai nulla da insegnarci. Una situazione che è stata determinante soprattutto nel calo verticale subito dalla religiosità dei cristiani di oggi. Molti osservatori non condividono tale analisi; anzi la contestano, e fanno notare come, per esempio, la notte e il giorno di Natale le chiese siano sempre piene.
Non facciamoci illusioni, fratelli: le chiese saranno anche piene a Natale, ma in tutte le altre occasioni? Se potessimo leggere nel cuore di tanti di questi fedeli "occasionali", se potessimo fotografare il segreto del loro cuore, rimarremmo molto delusi: “Ma che ci sto a fare qui? Speriamo finisca presto; è tempo perso, non mi interessa; mi son lasciato coinvolgere dai figli, dalla moglie, giusto per farli contenti, ma a me questa storiella sdolcinata del Dio bambino, mi fa solo sorridere; e poi, io non so cosa farmene di Dio; a cosa mi servirebbe? Forse viene Lui a risolvere i miei problemi per arrivare a fine mese?”.
Fratelli miei, se l'uomo si ostina a non credere, a non volersi convertire, a non voler cambiare, statene certi, non lo farebbe neppure se Dio decidesse di tornare ancora lui su questa terra! Non crederebbe neppure se vedesse Dio faccia a faccia; neppure se Dio facesse chissà quali e quanti miracoli! Purtroppo, chi ha deciso di non credere, di non conoscere Dio, non crederà e non lo conoscerà. Non c’è niente da fare.
Voi mi direte che arrivare a tali conclusioni è semplicemente frutto di una mente pessimistica, contorta, maliziosa. Sono casi limite, inverosimili. E invece no, fratelli: sono anzi situazioni molto frequenti, tant'è che il Vangelo le chiama peccato contro lo Spirito Santo; l’unico peccato umano imperdonabile, perché è una strafottente e insensata negazione dell'amore di Dio.
Ecco, fratelli miei: quest’anno preghiamo per questi nostri fratelli, tanti o pochi che siano; la Luce del Natale rischiari finalmente le fitte tenebre del loro cuore.
E noi? Anche quest’anno Dio busserà al nostro cuore. Vuole ancora una volta ri-nascere dentro di noi. Gli apriremo il nostro cuore? Lo riconosceremo? Gli crederemo?
Fermiamoci un istante per tempo, e pensiamoci. Seriamente. Amen.


4 Dicembre 2011 – II Domenica di Avvento – Anno B

«Ecco, dinanzi a te io mando il mio messaggero: egli preparerà la tua via. Voce di uno che grida nel deserto: Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri, vi fu Giovanni, che battezzava nel deserto e proclamava un battesimo di conversione per il perdono dei peccati».
Oggi il vangelo si concentra sulla figura di Giovanni Battista, il cui compito è quello di preparare la strada alla venuta del Signore. Marco ci offre un Giovanni Battista singolare, vestito secondo l’usanza di quei profeti che esercitavano la loro missione ai margini delle città, predicando conversione e penitenza. Il suo vestito, come quello di Elia, è fatto di peli di cammello, con una cintura ai fianchi: una tenuta in netto contrasto con le prescrizioni giudaiche di purezza.
Il Battista non dà alcun valore al suo aspetto esteriore perché è coerente con se stesso: non ha bisogno né di vestiti, né di maschere sotto cui nascondersi. Certo, vestirsi bene è bello, vestirsi bene è segno di decoro e anche di amore per sé stessi, ma quando il vestirsi bene è più importante della persona o il vestirsi bene serve a nascondere ciò che siamo dentro, allora è schiavitù. Quegli uomini che sono sempre e solo vestiti bene, a puntino, “perfetti”, in genere sono uomini che si nascondono dietro il vestito. Valorizzano il contenente a discapito del contenuto. Mia nonna diceva sempre: “Ricordati che un asino vestito da re rimane sempre un asino”. Possiamo quindi metterci addosso tutto quello che vogliamo, ma il vestito non cambia in alcun modo quello che siamo dentro.
Giovanni Battista è consapevole di ciò: fa quello che deve fare e non guarda in faccia nessuno. È un uomo che non si lascia né condizionare né intimorire. Un uomo autonomo. Non segue nessuno e non gli interessa avere seguaci. Ha un modo diverso di concepire le cose: “Convertitevi e fatevi battezzare”. Questo è quello che conta. Punto.
Non si limita semplicemente a dire: “Fai questa cosa, comportati così, osserva questi precetti esteriori e poi sarai a posto (come facevano i farisei); ma ha una visione più ampia delle cose e del comportamento umano. Dice: “Se l’uomo non cambia dentro, nel suo intimo, nella sua anima, tutto il resto è inutile”.
Quando c’è un problema, l’importante non è trovare “una” risposta, ma “la” risposta; ciò che conta è avere la visione d’insieme del problema e affrontarlo alla radice.
Noi - soprattutto oggi - abbiamo bisogno di visioni d’insieme, di grandi visioni. Abbiamo bisogno di uomini che sappiano capire con il cuore, oltre che con la mente, qual è il bene vero per l’umanità. Abbiamo bisogno di uomini che ci insegnino a cercare, a perseguire e a lottare non solo per i nostri diritti ma per i diritti di tutti; non solo per il nostro bene ma per il bene di tutti. Difendere solo i propri diritti si chiama interesse; difendere i diritti di tutti si chiama giustizia; cercare solo il proprio bene si chiama narcisismo, egocentrismo; cercare il bene di tutti si chiama amore.
Oggi però la società ci insegna: “Trovati un bel lavoro e una bella posizione, pensa a te stesso, e gli altri si arrangino”. È pressoché impossibile sentirsi dire: “Ama tutti gli uomini, lotta per la giustizia, non pensare solo a te stesso. Non vedi quante ingiustizie ci sono nel mondo? Fa’ qualcosa”.
Tantissimi giovani non sanno cosa voglia dire battersi per qualcosa di grande, per dei valori universali, per qualcosa di trascendentale. Sanno sì lottare – quando hanno voglia di lottare - ma solo per la loro carriera, per le loro comodità, per il loro benessere, per il loro status symbol. Sono semplicemente degli “idioti”: dove, in greco, il termine “idiota” indica colui che è soltanto concentrato su di sé, che non sa vedere oltre il proprio tornaconto, oltre il proprio interesse, oltre il “se stesso”.
Oggi la quasi totalità delle persone vivono solo per il denaro, per il sesso, per la gloria, per il successo; è difficile trovare chi vive per la verità, chi vive per seguire la voce di Dio; persone insomma che facciano le cose in nome della propria coscienza, perché sono convinte che è giusto fare così, fedeli a se stesse e a Dio.
“Convertitevi e fatevi battezzare” ci grida Giovanni. “Convertirsi” vuol dire uscire appunto dal proprio egocentrismo, dal proprio infantilismo. Sì, perché siamo peggio dei bambini: avete presente? Il bambino rivendica tutto per sé; dice di ogni cosa: “È mio”. Tutto il mondo deve girare intorno a lui. Non esiste nient’altro che lui. I giocattoli sono tutti suoi. Il cibo è tutto suo. Tutti devono vivere in funzione sua.
Ecco: “convertirsi” significa diventare adulti, rendersi conto cioè che c’è un mondo più grande, più ampio, più vasto, che va oltre il nostro ridottissimo orizzonte. È accorgersi che non ci siamo solo noi al mondo. “Convertirsi” vuol dire appunto aprirsi a questo mondo, perché noi non siamo il mondo, ne facciamo solo parte; vuol dire anche combattere contro questo mondo, quando vuole imporsi con le sue discriminazioni. È capire che dobbiamo concorrere attivamente ad aiutare gli altri abitanti di questo mondo, perché sono nostri fratelli, anch'essi affamati di amore e di libertà.
Giovanni è l’icona della libertà, dell’uomo libero; non ha paura di stare da solo, di essere rifiutato, di non essere accettato. È un uomo autentico, vero, autonomo, uno che ha una strada davanti a sé e la percorre, senza esitazioni. Non gli interessa cosa diranno gli altri o se si attirerà le ire dei potenti (come Erode). Lui è portatore di un messaggio; ha un compito ben preciso: quello di essere “voce di uno che grida nel deserto”.
Egli sa bene che, nonostante siano in molti (tra cui Gesù) quelli che si fanno battezzare, la sua predicazione non avrà molto seguito, sarà disattesa, trascurata dai più; egli sa perfettamente di predicare “nel deserto”: e chi lo sente nel deserto? Chi può aderire al suo invito? Nessuno! Ciò nonostante egli non ha l’ansia dei risultati: “La gente non viene più in chiesa! Nessuno ascolta più! Ognuno si fa i fattacci suoi! Non è più come una volta! Che sto a fare qui? Perdo il mio tempo; non c’è più nessuno che voglia saperne di Dio!”.
Egli conosce i suoi limiti, che per lui non sono un problema. A lui importa svolgere a puntino, nel migliore dei modi, quello che è il suo compito, la sua missione, la sua “chiamata”: i frutti non dipendono da Lui: sarà un Altro che raccoglierà.
Anche per questo non ha molti riguardi: egli è un padre che sferza, che va giù dritto sapendo di far bene, un padre che lascia il segno, che ferisce in profondità:
“Raddrizzate i vostri sentieri, convertitevi, fatevi battezzare”. Cioè: “Svegliatevi una buona volta, non vedete che vi state prendendo in giro da soli? Vi state ingannando, state mentendo a voi stessi; siete degli “idioti”, state vivendo una vita completamente falsa! Cambiate, rinnovatevi!”.
Parole dure le sue, parole che scuotono gli ascoltatori di sempre: è un po’ come mollare loro dei sonori ceffoni. Ma ciò non significa che Giovanni Battista non ami i suoi discepoli: egli li “ama in maniera dura”: li provoca, li ferisce, mette ciascuno davanti alla propria verità; li costringe a prendersi le loro responsabilità; li avvisa che se non vogliono crescere, se non vogliono capire, si tagliano fuori da soli, rimangono lì, sono fuori.
Esattamente il contrario di quanto fa il mondo di oggi; la nostra società è falsamente buonista. È permissiva. È ipocrita, ingannatrice. Noi oggi abbiamo bisogno più che mai di tanti Giovanni Battista, di padri veri che ci mettano, senza tanti fronzoli, di fronte alle nostre responsabilità e che ci costringano a scegliere, a crescere, ad accettare le conseguenze del nostro vivere.
Sì, fratelli, perché la vita è nelle nostre mani e nelle nostre scelte. Smettiamola dunque di fare le vittime, gli incompresi, gli offesi! Diventiamo finalmente responsabili di noi stessi. “Raddrizza la tua vita e convertiti”: che vuol dire: “Rischia una buona volta!”. Rischia questa tua vita insignificante; osala, giocala, insegui un sogno, persegui un ideale, credi con tutto il cuore a qualcosa di grande. Rischiare vuol dire “trascendersi”, andare oltre noi stessi, non accettare di essere solo “quel che siamo”, sapendo bene che possiamo essere di più. Molto di più. “Convertirsi”, allora, vuol dire anche “rischiare”: Vuol dire lasciare qualcosa di certo, di acquisito, qualcosa che conosciamo, per andare verso qualcosa di nuovo, che non conosciamo, che va oltre la nostra esperienza. A noi invece piace vivere in una botte di ferro! Ci piace non correre rischi. Non avere imprevisti. La nostra società moderna si regge su grandi dispensatori di certezze: sullo stipendio fisso, sulla pensione, sulla previdenza, sulle assicurazioni, sugli allarmi che ci proteggono, sulle droghe e sui psicofarmaci che ci danno la felicità. Istituzioni, partiti, associazioni, media, tutti tentano di venderci sicurezze, garanzie, certezze. Ma la vita non è così; quantomeno la vita dell’anima. La “nostra” vita, quella che Dio ci ha dato in gestione, è ben altra cosa: dobbiamo perciò rompere con questa mentalità, dobbiamo fare un taglio netto.
Se il bambino non avesse il coraggio di lasciare le sue sicurezze di bambino, non diventerebbe un adolescente; e se l’adolescente non avesse a sua volta il coraggio di lasciare le sue sicurezze, non diventerebbe mai un adulto. Così, se noi non tronchiamo con le ideologie del mondo, del perenne “bambino”, se non abbandoniamo le sue idee, le sue convinzioni, le sue fissazioni, non capiremo mai chi siamo realmente, non diventeremo mai noi stessi, non potremo realizzare mai la nostra vita “divina”.
Rischiare tutto per Gesù, pertanto, è crearci nuove possibilità, è diventare più forti, diversi, diventare nuovi: è ri-nascere. Allora rischiare vuol dire affrontare i problemi che contano; vuol dire mettersi in discussione e vedere i punti di vista del fratello, dell’altro; vuol dire fare una cosa che non abbiamo mai fatta; una che abbiamo paura di fare; prendere noi l’iniziativa, correre il pericolo di essere ridicolizzati dal mondo, di essere rifiutati o esclusi. Noi dobbiamo credere: credere in Lui, anche se nessuno ci crede. Tutto questo è rischiare; è andare con fiducia verso la Luce; è andare senza esitazioni verso Colui che sappiamo essere la vera Sapienza, la Fiducia, l’Amore, Dio. Rischiare è provare a vivere senza farsi condizionare e imprigionare dalla paura del mondo. Perché questa paura uccide. Dio invece è Vita, è Spirito purificatore. Giovanni l’aveva capito molto bene allora, e questo continua a ripeterci oggi.
«Io vi ho battezzato con acqua, ma egli vi battezzerà in Spirito Santo».
È il battesimo del fuoco dell’Amore. Vivere senza lasciarsi dominare dal mondo, impedire che la sua paura ci domini, ci uccida, impostare la nostra esistenza su altri parametri, ecco, questo è il battesimo del fuoco.
Il battesimo d’acqua è rendersi conto, prendere consapevolezza di essere figli di Dio. È il sentirsi amati da Lui, è il percepire la nostra dignità, le nostre potenzialità: “Io sono figlio dell’Altissimo”. Il battesimo d’acqua è sapere ciò che Dio ha fatto per noi, spontaneamente, senza alcun nostro coinvolgimento. È un dono gratuito. E tutti siamo stati battezzati nell’acqua.
Ma il vero battesimo, fratelli, è quello di fuoco; è, cioè, il modo con cui noi sviluppiamo il battesimo d’acqua, è il modo in cui noi viviamo concretamente la nostra vita, se, per dirla secondo il vangelo, ci lasciamo guidare e penetrare dallo Spirito.
Il battesimo di fuoco, è il battesimo dello Spirito, è diventare “altri”, è far crescere in noi quel progetto iniziale con cui la bontà di Dio ci ha segnati con il battesimo d’acqua. Dobbiamo diventare noi quel progetto, dobbiamo svilupparlo, completarlo, meritarlo. Non un dono, ma un guadagno sudato. È la nostra trasformazione. È raggiungere l’Amore, purificarci con il suo fuoco, toglierci le impurità (pur, in greco = fuoco); è partorirci tra fatiche, pianti, lotte e dolore; è insomma diventare a tutti gli effetti, meritatamente, quelli che eravamo già, figli di Dio; ma questa volta diventandolo di nostro, volendolo a tutti i costi, contro tutto e contro tutti.
Anche Gesù, dopo il suo battesimo d’acqua, avrà il suo battesimo di fuoco, nel deserto. Dovrà confrontarsi anch’Egli con il demonio, con la possibilità di rinunciare alla sua missione, di abdicare a ciò che era: il Figlio di Dio. Ed è proprio per diventare se stesso, che dovette diventare fino in fondo ciò che era: il Figlio di Dio.
Battesimo di fuoco è dunque far crescere in noi il Figlio dell’Uomo, è dare spazio (convertirsi, diventare nuovi) al Dio che è già in noi. È di fuoco, questo battesimo, perché “ci brucia”, ci saggia, ci prova, ci purifica, ci riscalda, ci illumina, ci appassiona, ci prende l’anima. È di fuoco perché è l’incontro con Dio, sono le nozze con Lui, è la percezione della nostra missione, è il lasciarsi condurre e trasformare da Lui: “Fidati di me e lasciati condurre dove io ti mostrerò. Lascia che io cresca e divenga in te”.
Questo è Natale, fratelli: far nascere, far crescere il Figlio di Dio dentro di noi. Dio nasce; la sua parte la fa sempre; continuamente e puntualmente. Ma noi, noi i suoi prescelti, gli permettiamo di crescere? Noi, la facciamo la nostra parte? Dio, di suo, nasce in tutti. Nasce, per esempio, in Erode ma non trova in lui possibilità di crescita perché è un uomo schiavo del potere e del piacere. Dio nasce in Giuda Iscariota, ma anche qui non ha spazio per svilupparsi, per crescere, perché Giuda è imprigionato dalla paura, e dall’avidità. Dio nasce in Pilato ma anche in lui non può crescere perché stritolato dalle sue manie di grandezza e di potere. Dio nasce nel giovane ricco, senza trovare neppure in lui possibilità di crescita, perché questa gli avrebbe comportato un radicale cambiamento di vita, lasciare le amicizie, i modi di pensare, di agire. Dio nasce nel fariseo ma anche in lui non può svilupparsi perché troppo preoccupato di non perdere la faccia davanti agli altri, di fare brutta figura, di non risultare gradito o di essere escluso.
Dio nasce proprio in tutti: ma sono pochi quelli che sono disposti a riceverlo e a consentirgli di crescere.
Ebbene fratelli: anche quest’anno Dio continua a nascere nel nostro cuore. Puntualmente come sempre. Gli faremo anche noi problema per svilupparsi? Lo soffocheremo ancora con la nostra indifferenza? Lo abortiremo con il nostro egoismo? Oppure in questo Natale, riusciremo finalmente a cambiare qualcosa di essenziale nella nostra vita? Coraggio, fratelli, guardiamoci bene dentro il cuore, dentro l’anima: sicuramente abbiamo ancora spazio per Gesù, per quello che di nuovo egli intende portarci. Non occupiamolo questo spazio, non sprechiamolo anche questa volta, non soffochiamolo, caricandolo di superfluo, di indifferenza, di ingratitudine. Prepariamoci dunque con grande cura e per tempo a questo importantissimo evento. Anzi, pensiamoci già da oggi. Da subito. Amen.


venerdì 25 novembre 2011

27 Novembre 2011 – I Domenica di Avvento - B

«Fate attenzione, vegliate, perché non sapete quando è il momento…».
Dio vuole incontrarsi con l’uomo. È il motivo chiave di queste domeniche che precedono il Natale, e che fa da filo conduttore per tutto il periodo d’Avvento. “Avvento” deriva infatti dal latino “ad-venio” che letteralmente significa: “Ti vengo incontro”.
Il vangelo di questa prima domenica, ci vuol ricordare appunto la “venuta” di Gesù: non tanto quella storica, verificatasi oltre duemila anni fa in quel di Betlemme, e neppure quella finale, la “parusia”; ma quella privata, la venuta personale, quella che farà per ciascuno di noi, quando deciderà di prelevarci da questo mondo. È la venuta che decreterà il nostro passaggio da questa vita a quella eterna, cui nessuno può sottrarsi, e che ci viene presentata oggi come il “ritorno del padrone”.
Un ritorno assolutamente certo, di cui però ignoriamo sia la data che l’ora. È questa incertezza, quindi, che ci impone una costante preparazione: dobbiamo cioè essere sempre pronti ad accogliere il ritorno di Gesù, in qualunque momento della nostra vita. Non possiamo correre il rischio di farci sorprendere impreparati, di farci cogliere di sorpresa: anche se qualunque evento della nostra vita, indipendente dalla nostra volontà, implica sempre una qualche “sorpresa”. Tutto ciò che ci viene incontro d’improvviso, anche se pensato e aspettato, non è mai come noi ce lo siamo immaginato, pianificato. Ha sempre qualche margine di imprevedibilità che ci sfugge, che va oltre. Bene: la venuta di Dio per noi, quella che stabilisce la nostra “fine”, non deve assolutamente essere un finale a “sorpresa!”. Richiede tassativamente del “nostro”.
Questo “ad-venio”, questo “ti vengo incontro” non si riferisce pertanto alla sola disponibilità di Gesù: anche noi siamo invitati, siamo sollecitati a muoverci nella sua direzione, a preparare il nostro cammino per raggiungerlo all’appuntamento finale. E come? Dobbiamo prima di tutto attutire l’effetto “sorpresa”: non possiamo cioè pretendere di essere gli unici artefici del nostro futuro, del nostro domani; dobbiamo permettere che ci sia anche Dio ad occuparsi della nostra vita, dobbiamo lasciargli volutamente un po’ di spazio, perché sia Lui a condurci, a suggerirci i comportamenti idonei. Inutile quindi voler pianificare ad ogni costo l’ignoto, finendo magari per impegnare il nostro tempo, la nostra volontà, le nostre facoltà, in cose superflue, inutili, transitorie, trascurando di proposito quelle importanti, quelle essenziali, quelle legate appunto alla imponderabilità e all’effetto sorpresa della sua venuta.
La nostra vita cristiana deve essere sì un’av-ventura: un cammino verso qualcuno che non conosciamo: ma deve essere anche un andare incontro prudente, ragionato, ponderato; dobbiamo arrivare assolutamente preparati a questo “rendez vous” finale, a questo “summit” riservatissimo e segretissimo tra Lui e noi. Io e Lui, faccia a faccia, completamente soli.
È difficile, fratelli, pensare a queste cose. È innaturale: chiudere la nostra esistenza, troncare improvvisamente la nostra vita, abbandonare i nostri affetti, i nostri cari, rinunciare al compimento di tutti i nostri progetti, prospettarci nella mente l’istante ultimo in cui, volenti o nolenti, saremo costretti a passare definitivamente la mano. È impensabile. È questo il motivo per cui molte persone non pensano mai a questo momento, preferiscono non approfondire la loro ricerca interiore: rimangono sempre a livelli superficiali: “E se poi scopro di aver vissuto a vuoto, di non aver concluso granché, di dover per questo cambiare radicalmente vita, di dover rinunciare ai piaceri che allietano i miei giorni?”. Troppa fatica; non vogliono sorprese, vogliono soltanto certezze, soltanto le “loro” certezze: e non si accorgono che finiranno col dover affrontare solo “sorprese”!
Come deve essere allora la nostra “attesa”? Ce lo insegna il Vangelo: deve essere vigile; un’attesa paziente; un’attesa proficua, mirata, cosciente.
Del resto tutti gli avvenimenti di questo mondo hanno un tempo di attesa, di germinazione, di incubazione, di fermentazione. Prima del loro tempo le cose non nascono: per fare un figlio ci vogliono nove mesi; prima che arrivi la primavera, dobbiamo passare attraverso il freddo e il niente dell’inverno; perché arrivi la luce del giorno, ci vuole prima il buio della notte.
L’attesa è il tempo in cui noi lavoriamo, ci diamo da fare, operiamo; indipendentemente dal fatto che tutto sembri fermo, che niente sembri nascere o crescere: “Perché mai dobbiamo insistere così a vuoto, senza poter cogliere risultati immediati ed evidenti?”; ma è nell’attesa che capiremo come insistendo su di una questione, perseverando, non solo la risolveremo, ma ci trasformeremo, impareremo a vivere, ad essere diversi.
La gente invece si stanca subito: vuole risultati, vuole successi immediati, vuole traguardi facili. Quando stanno per iniziare un cammino spirituale, immancabilmente dicono: “Ci vuole troppo tempo, è tutto troppo incerto, i risultati non sono sicuri”. E non capiscono che bisogna invece lavorare a lungo, impegnarsi molto, anche se sembra che non succeda proprio nulla. Il cammino spirituale è un cammino in cui effettivamente non succede mai niente di sensazionale, di strepitoso, di eclatante; ma con pazienza, senza chiasso, quasi per miracolo, improvvisamente qualcosa si muove, qualcosa di nuovo s’innesca nella nostra vita e pian piano tutto cambia radicalmente. Non è un miracolo fratelli: è solo il frutto di un lungo, silenzioso e costante lavoro, di una umile e operosa fiducia in Lui, nell’aver vissuto proficuamente il suo “avvento”. Perché l’attesa è tenacia: è rimanere ancorati nella certezza che la Sua semente è la migliore, che il calore del Suo amore è decisivo per la nascita e lo sviluppo, e che il frutto arriverà sicuramente, in ogni caso.
È la perseveranza, fratelli, che fa la differenza. Una virtù oggi molto trascurata, obsoleta, di altri tempi. Oggi le mode cambiano e noi con esse. Oggi tutto è in divenire, cangiante; se Gesù è “fermo” a duemila anni fa, che possiamo farci? Si adatti anche Lui ai tempi, La Parola ci segua: si allinei anch’essa con le nostre esigenze, si metta al nostro passo, e noi la seguiremo. Illusi! Pensiamo di cambiare il mondo? È il mondo che cambia noi, fratelli, questa è la verità.
Continuiamo invece a lavorare in silenzio, ad arare, a girare la terra, a concimare, a togliere i sassi: e un giorno vedremo finalmente fiorire qualcosa. La vita è tempo di attesa, è il tempo in cui dobbiamo prepararci ad accogliere Colui che verrà. Prepariamoci con cura, lasciamoci forgiare dalla sua Parola, aspettiamo: perché è nell’attesa che la nostra mente, le nostre capacità, le nostre forze si formano, si preparano alla Sua venuta.
Il vangelo di oggi ci ripete proprio questo. Dobbiamo vegliare, aspettare in piedi il ritorno del padrone. L’invito è chiaro per tutti: ognuno deve rimanere vigile, sveglio, non deve prendere sonno. Perché questo è il grande pericolo della vita: prendere sonno, vegetare, sopravvivere.
“Sii presente con la mente, non lasciarla incustodita, non essere altrove. Prega e canta insieme agli altri”, raccomandava l’anziano Maestro a noi piccoli “monaci” adolescenti, per combattere il sonno, grande nemico della preghiera notturna.
È l’invito che tutti dobbiamo accogliere: Preghiamo, rimaniamo svegli, desti, apriamo il nostro cuore a Dio; innalziamo i nostri lamenti, i nostri inni, la nostra rabbia e il nostro stupore a Lui. Facciamolo con la pienezza dell’anima e con tutta la forza del nostro cuore. È così che vivremo l’avvento della nostra vita, è così che veglieremo l’arrivo del padrone.
Non rimaniamo assenti a noi stessi: quando guardiamo, osserviamo bene, entriamo in ciò che vediamo, emozioniamoci, lasciamoci toccare da ciò che vediamo. E quando ascoltiamo, apriamo le orecchie, prestiamo attenzione; e quando piangiamo, piangiamo veramente. Siamo noi stessi in ogni istante, sempre lì, presenti dove siamo.
Lo dico anche a te, che in questo momento stai leggendo queste semplici considerazioni; rimani qui! Non scappare. Non correre via. Vivi, assapora, senti questo momento, anche se lo ritieni poca cosa. Capita a tutti di essere materialmente presenti in un posto, ma con la mente, con i pensieri, stare già altrove. È normale, fratelli: ma,e se Dio ci aspettasse proprio qui, in queste righe?
Prendiamo i nostri tempi, le nostre pause di riflessione. Non assecondiamo la nostra mente, che è in continuo movimento, che ci porta sempre in altri posti, in altri pensieri, in altri luoghi, in altri problemi. È sempre altrove. E se noi la seguiamo continuamente, in altre realtà, in altri mondi, in quale mondo finiremo a vivere noi?
Rimaniamo vivi, fratelli. Che non ci succeda di dormire nella vita, di “tirare avanti”, di vegetare. Che non ci succeda che il cuore batta soltanto perché è un muscolo o che la bocca si apra solo perché dobbiamo mangiare. Una vita da morti non si può chiamare vita.
L’invito del vangelo è forte: “Vegliate”, “state in guardia”. Fate come le sentinelle o i guardiani che prevengono possibili intrusioni. Nella vita normale, siamo pieni di allarmi, siamo circondati da telecamere, circondati da custodi, stiamo in allerta su tutto e su tutti; possibile che ci lasciamo sorprendere proprio sulle cose dell’anima?
Cerchiamo di approfondire anche altri significati di quel “vegliate”, ripetuto con tanta insistenza dal Vangelo odierno:
1. “Stai attendo a quando Lui passa”.
Vegliare non vuol dire smettere di lavorare, far finta di niente, tirare avanti aspettando che “qualcosa succeda”: se non facciamo niente, non succederà mai niente; vegliare vuol dire cogliere oggi, nel presente, la voce dell’anima che ci chiama. Vegliare vuol dire non poltrire, non sonnecchiare. Quando Dio, quando la Vita passa, bisogna seguirla. Quando la Vita chiama bisogna rispondere, bisogna andare, costi quel che costi, anche se si ha paura, anche se non si capisce, anche se sembra strano, anche se non siamo d’accordo. Venne un Dio bambino: e molti dissero: “Dio non è lui, non è qui! Tutto questo non c’entra con Lui”. E lo rifiutarono. E si misero “fuori”. Persero l’occasione di riconoscerlo al suo passaggio.
2. “Stai attento a quello che fai passare dentro di te”.
Cosa entra nel nostro cuore? Cosa entra nella nostra anima? Quando andiamo al supermercato per la spesa, stiamo molto attenti al costo del prodotto, alla sua origine, da chi è fatto, dove è confezionato, agli ingredienti, alla scadenza…. Bene: facciamo un sacco di controlli per quello che è destinato ad entrare nel nostro corpo, e poi non facciamo niente per quello che entra nella nostra anima! Non lasciamoci fuorviare; come un buon guardiano della casa, osserviamo attentamente che tipo di pensieri vogliono introdursi nella nostra anima, nel nostro cuore: perché i buoni pensieri ci rendono buoni, mentre quelli cattivi ci rendono malvagi; come siamo dentro, fratelli, così siamo fuori. Cattivi dentro, cattivi fuori. Custodiamo attentamente i nostri “ingressi”: occhi, orecchi, naso, bocca, tatto ecc.! Non comportiamoci da incoscienti. Azioniamo i nostri “buttafuori”.
Spesso i pensieri più velenosi, si affacciano travestiti da buone ispirazioni: dobbiamo fare molta attenzione, fratelli, perché se imprudentemente lasciamo loro spazio, rischiamo di ammorbare completamente la nostra anima. Lo stesso vale anche per le persone, per le amicizie. A volte capita di affidarci a persone apparentemente amabili, disponibili e generose, che poi si rivelano completamente l’opposto: persone che finiscono per essere sempre e soltanto negative, logorroiche, che criticano e sparlano continuamente di tutto e di tutti. Che facciamo? Beh, siamo noi i padroni, siamo noi che dobbiamo avere la massima prudenza nel consentire l’ingresso di chicchessia nell’intimo della nostra casa. Siamo noi che dobbiamo scegliere con oculatezza chi far entrare e chi lasciare fuori; soprattutto siamo noi che dobbiamo sbattere fuori chi si è introdotto con l’inganno. Siamo obbligati a farlo, per il nostro bene.
3. “Stai a contatto con la realtà”.
Non cedere alle illusioni. Non volerti lanciare in voli pindarici; conosciamo tutti cosa ci aspetta poi. Non contrabbandiamo per misticismo semplici devozioni a sfondo maniacale, ripetitive e ossessionanti. Il mistico non è uno sprovveduto, con la testa tra le nuvole, un maniaco che vuol farsi accreditare visioni soprannaturali, catalessi celestiali, soprattutto in presenza di testimoni; il mistico è uno molto concreto, uno che è molto “vigile”, uno che conosce bene con chi ha a che fare; è uno che non dorme sulle cose, che non si inganna sulle motivazioni del suo agire; uno che ama perdutamente, conoscendo bene il destinatario del suo amore; uno che vede le cose che lo riguardano esattamente come sono, con tutti i loro limiti e difetti, uno insomma che ha i piedi ben piantati per terra.
Non illudiamoci dicendo: “Ma col tempo le cose cambieranno”. In genere il tempo passa e le cose restano come sono! Il tempo da solo non cambia nulla, scorre soltanto. “Quando sarò più libero, allora mi dedicherò a Dio”: sono parole senza senso; non c’è bisogno di essere liberi da nulla per amare Dio; serve solo volerlo incontrare, volerlo vedere, saperlo riconoscere nel prossimo, assaporarlo, viverlo nel presente. Se non lo amiamo oggi, come pensiamo di farlo domani? Non cambierà nulla, fratelli. Sono solo fantasie e stupidi alibi per giustificare il nostro non far nulla. Soprattutto non illudiamoci: non lasciamoci cullare dalle mille illusioni del nostro vivere da mediocri. A volte ci illudiamo pensando che l’amore basti, che con l’amore si vada dappertutto. No, non basta; se non c’è convinzione, se non c’è la volontà di cambiare, di mettersi in discussione, di evolvere, di migliorare, di essere sempre più onesti e sinceri con noi stessi e con gli altri, anche con l’amore più grande siamo destinati a fare ben poca strada.
Altra illusione è quella di pensare di non essere poi così tanto cattivi, di essere quantomeno migliori di tanti altri, di essere tutto sommato dei buoni, di essere dei “quasi a posto”, bisognosi al più di qualche ritocchino ogni tanto! Facciamo attenzione, fratelli miei, non dimentichiamo che Gesù, con questi “quasi perfetti”, ebbe i suoi problemi più grossi. Fu ucciso proprio dalle persone che pensavano di essere buone, brave, senza problemi e tanto religiose. No, fratelli: non creiamoci ansie inutili, tranquilli: non siamo assolutamente migliori di nessun altro. Convincersi di esserlo, è soltanto superbia.
Evitiamo anche di illuderci pensando che per non avere problemi, sia sufficiente non considerarli, non farci caso; tanto, come vengono, così se ne vanno: “chiodo schiaccia chiodo”! Niente di più falso, fratelli: chiodo più chiodo, fanno due chiodi con due buchi distinti che non scacciano un bel niente!
Altra illusione: siamo convinti di fare molta strada soltanto perché ci agitiamo molto, perché siamo sempre in movimento. Ma anche chi sta per annegare in mare si agita tanto, si sbraccia, ma ciò non gli basta per stare a galla, per mettersi in salvo.
Sono solo alcune delle tante illusioni che cercano di sedurci, fratelli: sono inutili tentativi di aggrapparci, per non cadere, a qualcosa che non c’è, che non esiste che, anche se ci fosse, non può tenere, perché non ha consistenza alcuna. La più grande illusione è rifiutarsi di vedere ciò che invece è necessario vedere, perché se non guardiamo tutta la nostra bella costruzione prima o poi crollerà (illusione, da ludere, giocare, divertirsi: il bel gioco è finito)
Quando ero giovane studente, mi capitava di incrociare spesso, anche nello stesso giorno, un monaco molto anziano e sofferente, che invariabilmente ricambiava il mio saluto sussurrandomi: “Sta’ in campana, Mario!”. Nient’altro. Solo queste parole. Una “perla” della sua saggezza, con la quale evidentemente voleva mettermi in guardia dalle illusioni giovanili: “Svegliati, non dormire, stai attento, apri gli occhi!”. Una raccomandazione che ancora oggi mi risuona severa nella mente. 
E chiudo con una storiella che può far sorridere ma che è anche molto indicativa su come anche noi a volte rischiamo di comportarci. «Si incontrano due tipi: “Henry, come sei cambiato! Eri tanto alto, e adesso sei così basso! Eri così robusto, e ora sei magrissimo! Eri tanto biondo, e ora sei castano. Cosa ti è successo, Henry?”. E l’altro: “Non sono Henry, sono John!”. “Oddio, hai cambiato anche il nome!”».
Fratelli miei, non c’è peggior cieco di chi non vuol vedere!
Bene: il vangelo di oggi ripete anche a noi: “Sta’ in campana”. Sì, fratelli: stiamo tutti in campana, in ogni momento; apriamo bene gli occhi, perché non succeda che Colui che viene all’improvviso “non ci trovi addormentati”.
«Gesù, fammi parlare sempre come se fosse l’ultima parola che dico. Fammi agire sempre come se fosse l’ultima azione che faccio. Fammi soffrire sempre come se fosse l’ultima sofferenza che ho da offrirti. Fammi pregare sempre come se fosse l’ultima possibilità, che ho qui in terra, di parlare con te». Amen.


venerdì 18 novembre 2011

20 Novembre 2011 – Nostro Signore Gesù Cristo, Re dell’universo

«Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria, e tutti gli angeli con lui, siederà sul trono della sua gloria. Davanti a lui verranno radunati tutti i popoli. Egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dalle capre, e porrà le pecore alla sua destra e le capre alla sinistra».
Con questa domenica si conclude l’anno liturgico. E come meditazione finale, la Chiesa ci propone una visione apocalittica: Gesù Cristo, Re dell’Universo, attorniato dai suoi angeli, che giudica tutti i popoli. È il giudizio universale, quel giudizio che tutti cerchiamo di minimizzare, di accantonare nella nostra mente, ma che a tutti, inutile negarlo, incute una seria preoccupazione.
Di fronte a tale scenario noi restiamo sconcertati ed interdetti. Il clima è cupo, la visione di questo giudice implacabile - come il possente Cristo di Michelangelo della cappella Sistina - fa decisamente paura. Cos’ha a che vedere questa pagina con il Gesù dolce e misericordioso del resto del vangelo? Matteo si è sbagliato? O ci sbagliamo noi continuando a professare un Dio dal volto amoroso e compassionevole?
Due aspetti, quelli di oggi, che solo apparentemente sono in contrasto tra loro. Prima di tutto la qualifica di “Re” attribuita a Cristo: una denominazione altisonante e ieratica che male si adatta anche questa al Gesù, umile e remissivo, Padre innamorato, Pastore sollecito, che siamo abituati a vedere attraverso la Parola: un Re che entra nella sua città cavalcando non un nervoso destriero bianco, ma un tranquillo e lento somaro; un Re che si mette a lavare i piedi dei suoi sudditi; un re che svalorizza il potere umano, invitando tutti indistintamente a farsi servi degli altri; un re che invece di dire ai suoi “amatemi”, li esorta con “amatevi gli uni gli altri”; un Re contestato e deriso, un Re sconfitto più di tutti gli sconfitti, fragile più di ogni fragilità. Un Re senza trono e senza scettro, appeso nudo ad una croce, un Re che necessita di un cartello per essere identificato, un Re senza potere se non quello devastante dell’amore. Che c’è di “regale” in tutto questo?
C’è poi la figura di questo giudice incorruttibile e severo, che siede sul suo trono per valutare, premiare e condannare: e, guarda caso, lo fa proprio nei confronti di coloro che Lui stesso ha talmente amato da offrire la propria vita per loro morendo sulla croce.
Ripeto: potrebbe sembrare una contraddizione, ma non lo è: perché la Chiesa, buona conoscitrice delle necessità dei suoi figli, con questa festa di “Cristo, Re dell’universo”, ci vuol ricordare una grande realtà, un valore importantissimo, una verità fondamentale: che Gesù - per noi eletti, noi figli, noi sua Chiesa - rappresenta veramente tutto. Lui è l’essenziale, lo sposo, il testimone del Padre, il nostro intercessore presso Dio, il nostro avvocato. In una parola è il nostro “Re” indiscusso, il nostro Signore e Maestro, colui che dà misura e senso ad ogni nostra esperienza umana, che ci svela il mistero nascosto nei secoli.
Dire che Cristo è "sovrano" della nostra vita, significa riconoscere che solo in lui ha senso il nostro percorso di vita e di fede. E, permettetemi, è molto consolante, alla fine dell’anno liturgico, ribadire con forza, tutti insieme, questa nostra convinzione. Sì, fratelli, perché siamo stati noi che lo abbiamo eletto tale, noi che gli abbiamo detto “sì”; siamo stati noi a volere che fosse Lui a guidare la nostra vita di Chiesa e di discepoli, noi a volerlo nostro “unico rappresentante” di fronte al mondo.
Quindi, nessuna contraddizione se oggi la Liturgia ci presenta un “Re amoroso e misericordioso” e insieme un “Re giusto e inflessibile giudice”; un re che Verifica minuziosamente la bontà delle nostre scelte di vita, la nostra coerenza su quanto gli abbiamo promesso; in una parola, se siamo stati o no all’altezza del suo amore, donando anche noi amore.
Gesù durante la sua vita terrena non ha mai “giudicato”; e non lo farà neppure allora. Dio non giudica, fratelli, Dio “svela”. Dio cioè farà vedere quello che non abbiamo voluto far vedere, quello che noi ci siamo nascosti, quello che abbiamo lasciato appositamente nell’ombra.
Il suo “giudizio”, il giudizio di questo Re misericordioso, consisterà semplicemente nel rendere pubblica, nello svelare la situazione reale di ciascuno, nel portare tutto a galla, allo scoperto: non ci sarà più alcun angolo buio nel nostro cuore; nulla potrà più rimanere nascosto nell’ombra. Quel giorno tutto apparirà nel vero senso della parola, tutto sarà chiaro, tutto illuminato. E ognuno saprà da solo, senza bisogno di sentenze, se andare alla destra o alla sinistra del Re.
Il testo di Matteo pone una insistenza quasi puntigliosa su alcuni “bisogni”: fame, sete, essere forestieri, nudi, malati, carcerati; ed è in funzione della loro “soddisfazione”, che noi saremo chiamati a documentare pubblicamente il nostro operato: È chiaro che si tratta di una provocazione voluta: sono tutti “bisogni” che implicano “azione”, esigono cioè da parte nostra un amore concreto, attivo, un amore che non si deve fermare alle belle parole; un amore azione, interessamento, preoccupazione, un reale darsi da fare.
Ci sono milioni di uomini che muoiono di fame ogni anno: conosciamo bene questa realtà, perché ciclicamente viene riproposta all’attenzione del mondo da alcune organizzazioni internazionali. Ma parliamo, parliamo, e poi nessuno fa nulla: il nostro alibi è che c’è già chi ci deve pensare; e poi noi abbiamo il lavoro, la spesa da fare, mille cose da sbrigare, le pulizie di casa che non finiscono mai, guardare la tv, qualche meritato divertimento. Insomma ci sono tante cose per noi ben più importanti dei cinquanta milioni di morti di fame.
Ancora: un miliardo di persone bevono acqua non potabile, contraendo ogni genere di infezione, o ne sono completamente senza. Allucinante al giorno d’oggi. E noi che facciamo? Anche qui grandi conferenze, grandi parole, grandi convegni. Certo per noi è facile parlare, con il frigo e la dispensa pieni di bevande, o con l’acqua potabile che scorre in abbondanza quando apriamo il rubinetto di casa. Anzi, guai se per caso dovessero temporaneamente sospenderne l’erogazione: andremmo in mille escandescenze. Ci arrabbieremmo. Per così poco? Dovremmo invece pensare un pò di più a chi non ce l’ha mai, a chi muore per la sua mancanza!
I forestieri sono i vicini, quelli che vivono attorno a noi: sono gli immigrati, quelli che vengono da altre città, quelli che abitano qui per lavoro, quelli che per necessità hanno abbandonato il loro ambiente, la loro famiglia, quelli che non hanno amicizie o compagnie. Forestieri sono anche persone che conosciamo, persone anziane, colleghi di lavoro, che per i motivi più disparati non hanno nessuno con cui condividere una gioia, una bella notizia, un dispiacere; non hanno nessuno con cui passare qualche ora, andare al cinema, passeggiare, mangiare una pizza. Piccole cose di una serena convivenza. Ma tanto si sa, noi siamo a posto: noi gli amici li abbiamo già, che possiamo farci?
I nudi sono quelle persone che nessuno copre, che nessuno difende, che nessuno considera; quelli che sono privi di qualunque conforto umano, che vivono alla deriva, ai quali viene negata la loro dignità di persone: una esagerazione? Nossignori; facciamo un giro per le grandi città, nelle periferie, e ce ne renderemo conto!
I malati. Quante persone sono malate nel fisico o nell’anima. Per chi è in ospedale, nella solitudine, avere qualcuno vicino è come vedere la luce alla fine di un tunnel completamente buio. Quando un malato è triste, disperato, quando non intravvede alcuna soluzione possibile, quando si sente infermo anche nell’anima, quando con tutte le forze cerca qualcuno che si interessi a lui, che lo ascolti, che condivida le sue sofferenze, ecco: avere questo qualcuno vicino potrebbe essere la sua salvezza. Noi, come ci comportiamo in proposito?
Le nostre carceri sono sovraffollate. Ma non è solo questo il dramma. Il dramma è la solitudine, lo squallore di certi ambienti. Il dramma è che il carcere è un’onta dalla quale non ci si riprende più. Il dramma è che nessuno vuole più il carcerato nel mondo del lavoro, nella società. Il dramma è che se uno non era un criminale incallito, in carcere impara a diventarlo. Hai voglia a strombazzare di “recupero”: spesso la cura è peggiore del male. Non possiamo proprio far niente in proposito?
Ecco: il “tesario d'esame” è questo: situazioni che esigono tutte un nostro coinvolgimento. Non grandi cose, ma anche piccole condivisioni, una fraterna comprensione, un piccolo slancio di carità, un sostegno morale… Qualunque cosa, purché non rimanga un pio desiderio. Ripeto: non saremo giudicati sui nostri pii propositi; non saremo giudicati su quello che avremmo voluto fare, se avessimo avuto tempo o possibilità; non saremo giudicati sulle nostre buone intenzioni, ma su ciò che concretamente abbiamo fatto, su come l’abbiamo fatto, sulla nostra buona volontà.
Dopo l’esame personale di ciascuno, il testo del Vangelo introduce, come risultato, due possibilità diverse, due destinazioni opposte, in funzione dei singoli comportamenti: una per gli eletti, l’altra per i condannati. Uno è invece l'elemento che giustifica questa scelta: una domanda accorata che sgorga da entrambe le schiere: consolante per i primi, tragica e disperata per i secondi: “Quando Signore?”. Già, “quando”? Nessuno se n'era accorto; nessuno aveva capito di aver avuto a che fare non con dei bisognosi, ma con Dio in persona: non ci avevano mai pensato. Sì, fratelli, perché Dio non è visibile a occhio nudo, non è riconoscibile, non è individuabile; è in incognito, è misterioso. E tutti, sia gli eletti che i dannati, lo hanno amato o rifiutato senza rendersene conto: gli uni hanno amato l’uomo e, pur non vedendo in lui Dio, lo hanno comunque amato; gli altri, non amando l’uomo, hanno rifiutato anche Dio.
L’amore per Dio, quando si ama il prossimo, è un amore inconsapevole, inconscio. Nessun santo sapeva di essere santo amando il prossimo. Chi ama Dio non “sa” di amarlo. Se noi amassimo uno sapendo che poi erediteremo le sue ricchezze, è chiaro che lo stiamo usando. Lo stessa cosa succede quando noi amiamo il prossimo per avvicinarci a Dio! Anche in questo caso noi stiamo usando qualcuno. Perché, se noi amiamo il prossimo semplicemente per essere dei cristiani in regola, per sentirci a posto con Dio, perché c’è un comandamento che ce lo impone, scusate, ma che razza di amore è il nostro? Stiamo veramente amando, o stiamo facendo dei progetti per il futuro? L’amore non va mai strumentalizzato; in nessun caso. Neppure per arrivare a Dio. Pertanto, e lo ripeto per maggior chiarezza, non “dobbiamo” amare il prossimo per “amare Dio”, perché in questo modo lo facciamo per nostra comodità, per avere un tornaconto, elevato quanto si vuole (Dio), ma pur sempre un tornaconto. Invece il fratello, il prossimo, va amato per se stesso, perché ci entra dentro l’anima, perché il suo volto ci penetra dentro, ci tocca il cuore.
La prima preoccupazione di chi cerca la perfezione, è di sapere se la sua vita è gradita o no a Dio, se piace o no a Lui, di sapere se è bravo o no, se ha fatto giusto il suo compitino: non lo saprà mai. “Quando Signore?” Nessuno lo sa: d’altronde, se Dio venisse qui da noi in veste ufficiale, tutti faremmo a gara per aiutarlo, per metterlo a suo agio, per farcelo immediatamente “amico”; vorremmo ovviamente entrare tutti nelle sue grazie, tra i suoi intimi, perché tutti vorremmo essere presentati da Lui al Padre, essere considerati bravi figli, bravi discepoli. Ma Dio non è visibile in questo mondo, fratelli; se lo fosse, amarlo sarebbe molto facile per tutti; difficile è invece amarlo senza vederlo, amarlo nell’altro, nel prossimo, nello sconosciuto, nell’uomo della porta accanto. Diceva Madre Teresa: “Non so mai se chi dice di amare Dio, lo ami davvero. Ma so che chi ama l’uomo, lo sappia o no, ama Dio”.
C’è dunque una diversa destinazione: quelli a destra, sono i salvati; quelli a sinistra, i dannati. Ma perché mai “destra” e “sinistra”?
La destra, per gli antichi, è il segno della luce, della ragione, di chi vede le cose e se ne preoccupa. La sinistra, invece, è segno del buio, dell’inconsapevolezza, del non accorgersi, del disinteresse. Ecco, la differenza tra i due schieramenti è proprio qui: c’è chi si lascia toccare, colpire, segnare da chi incontra, c’è chi gli parla, chi si immedesima con lui, e chi, invece, alza una barriera, si protegge, si schernisce, si difende. La differenza quindi è tra chi “sente” la vita dell’altro e vi partecipa con la sua, e chi al contrario ne rimane fuori, non entra, non si lascia coinvolgere, non si lascia toccare da ciò che l’altro vive; rimane insensibile, indifferente, schermato, menefreghista.
C’è una parola moderna che stabilisce bene ciò che differenzia le due schiere: è l’“empatia”.
Empatia vuol dire infatti entrare dentro, sentire dentro; percepire, cioè, quello che anche l’altro percepisce. Viene dalla parola greca “patos” - che vuol dire sentire, patire, e indica un sentimento forte e profondo, simile alla sofferenza - e dalla desinenza “in” che vuol dire dentro.
L’empatia è dunque la capacità di lasciarsi toccare dalle persone. Noi piangiamo con facilità davanti alle scene commoventi di un film, ci identifichiamo con i nostri campioni sportivi ed esultiamo con essi per la vittoria. Ma ci risulta difficile “sentire” cosa l’altro sente, “vivere” quel che l’altro vive; non riusciamo a percepire il suo dolore, la sua sofferenza, l’intensità delle sue parole e dei suoi gesti. Non siamo in sintonia con lui, gli siamo fuori e lui non ci è dentro. In questo caso, fratelli, non può esserci amore: dove c’è distacco, divisione, non esiste amore. L’amore è invece vicinanza, è unione, è entrare dentro l’altro: è, insomma, “empatia”, un sentimento che ci cambia, che ci fa diversi, che ci modella, che ci fa vedere le cose da altre prospettive.
Ma il vangelo non si esaurisce qui: lo stesso impegno che dobbiamo avere verso il prossimo, dobbiamo averlo anche verso noi stessi; dobbiamo cioè soddisfare, oltre quelli degli altri, anche i nostri “bisogni”. Sì, fratelli, perché succede anche a noi di essere affamati, di essere assetati, e dobbiamo quindi darci da “mangiare e da bere”. Chi di noi non ha fame d’amore? Chi di noi non ha sete di dolcezza? Chi di noi può dire: “Io basto a me stesso! Io non ho bisogno di nessuno!?” Solo un pazzo, solo un esaltato. Dobbiamo invece tener sempre nel giusto conto anche il nostro bisogno di amore, di tenerezza, di affetto, di complimenti; di stare con persone che ci amano, che ci apprezzano, che ci stimano, che hanno fiducia in noi.
L’amore è come la ricarica per il telefono, la benzina per l’auto, il cibo per il corpo. Non se ne può fare a meno. Non possiamo lavorare, faticare, correre in continuazione, e pensare di poter resistere senza alcuna ricarica.
Ascoltiamo dunque i bisogni del nostro cuore, della nostra anima: ascoltiamoli attentamente perché capita anche a noi di sentirci forestieri e carcerati; anche noi ci sentiamo talvolta di vivere in un mondo ostile, estranei a tutti e a tutto: ed è qui, in questo momento, che abbiamo bisogno anche noi di accoglienza, di un consiglio, di una buona parola, di assicurazioni.
Invece spesso noi ci teniamo tutto dentro. Neghiamo a noi stessi di aver bisogno di aiuto. Siamo così orgogliosi da preferire di star male, piuttosto che ammettere la nostra debolezza. Ma il nostro orgoglio non ci ripaga mai, fratelli, ricordiamocelo. Se ci sentiamo tremendamente soli, forse dipende dal fatto che non vogliamo nessuno vicino a noi. Se talvolta gli altri non ci amano, forse siamo noi che non vogliamo farci amare!
Quando ci guardiamo nello specchio dell’anima, succede a volte di sentirci nudi, di vederci cioè per quelli che siamo in realtà, al di là di tutte le maschere e i camuffamenti con cui ci travisiamo, e ci assale un senso di rifiuto per noi stessi. Non ci vorremmo così; ci vorremmo diversi; ci vorremmo migliori; vorremmo non vivere certe cose e non fare certi pensieri. Ecco, è proprio in questi momenti che ci dobbiamo amare e accogliere per quello che siamo. È difficile, ma dobbiamo accettarci così, capire che dobbiamo fare i conti con la nostra fragilità, che possiamo ammalarci e avere bisogno di aiuto; che in questi casi dobbiamo ricorrere a qualche “medico”, che illumini le nostre ombre. Un “medico”? Sissignori: perché quando il nostro cuore si irrigidisce e rifiuta di aprirsi, allora abbiamo bisogno di un “medico”; quando la nostra mente insiste nella ripetizione maniacale di certi schemi, allora abbiamo bisogno di un “medico”; quando la nostra anima non riesce più a vivere, a gioire, a stupirsi, allora abbiamo bisogno di un “medico”; quando il nostro spirito si rifiuta di perdonare, allora soprattutto abbiamo bisogno di un “medico”. Non possiamo pretendere di essere Dio e di risolvere tutto da soli. Non possiamo pensare di essere onnipotenti e di bastare a noi stessi. Non possiamo infine essere così stupidi di credere di non aver bisogno dell’aiuto di nessuno, neppure di Dio.
È una faccenda molto seria, fratelli. Perché alla fine dei tempi, davanti al Cristo in maestà, al Re dell’universo, dovremo dare testimonianza anche su questo.
Il risultato? “I maledetti al supplizio eterno, e i giusti alla vita eterna”. Non c’è alternativa.
Fratelli miei: mettiamo allora da parte il nostro bel “taccuino” su cui abbiamo segnato puntigliosamente le ore di preghiera, le messe e le confessioni, le opere buone e i sacrifici fatti con cristiana rassegnazione; nonché le eventuali giustificazioni da tirare fuori nel caso Dio fosse più esigente di quanto ci è stato detto. Mettiamo da parte tutti i nostri bei discorsetti. Perché il Signore ci chiederà soltanto se lo avremo riconosciuto nel povero, nel debole, nell'affamato, nel solo, nell'anziano abbandonato, nel parente scomodo. Sì: avete capito bene. Il giudizio sarà tutto sulla carità che abbiamo praticato. E sul cuore con cui l’abbiamo praticata.
La nostra messa domenicale, fratelli, non può, non deve esaurirsi in Chiesa: deve continuare fuori, nella vita quotidiana. Perché solo così la preghiera, l'eucarestia, la confessione, diventano strumenti di comunione e di amore col Cristo e tra di noi; solo così potremo fare della nostra vita il luogo della carità. Nel lavoro, nello studio, a scuola o all’università, nei lavori di casa o in ufficio, per strada a piedi o in macchina: è qui che noi ci salveremo. Ma solo, e sottolineo solo, se sapremo portare il nostro amore da dentro a fuori, da vicino a lontano, se sapremo riconoscere il volto del Cristo adorato nel volto di chi incontriamo ogni giorno.
Non c’è altro da dire, fratelli. Viviamo così e non preoccupiamoci d’altro. Ma viviamo così da oggi, da ora, da subito, immediatamente; perché in quel giorno non avremo più tempo di far nulla, tutto sarà già compiuto. Allora Cristo sarà nostro Signore e Re nei secoli eterni se avremo amato veramente, diventando trasparenza della sua misericordia e testimoni credibili della sua compassione. Amen.


venerdì 11 novembre 2011

13 Novembre 2011 – XXXIII Domenica del Tempo Ordinario

«Avverrà come a un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, secondo le capacità di ciascuno; poi partì…».
La parabola è semplice: c’è un padrone che affida i suoi beni, i talenti, ai suoi tre servi che, di fronte alla sua iniziativa, assumono due atteggiamenti contrastanti: i primi due, molto attivi, si danno da fare, investono, rischiano e fanno fruttare il capitale; il terzo, al contrario, si lascia prendere dalla paura, dallo sgomento, si emargina e pensa bene di nascondere la somma ricevuta piuttosto che impegnarsi nel capitalizzarla. Al rendiconto finale i primi due riceveranno una ricompensa molto più sostanziosa di quanto essi stessi abbiano guadagnato, mentre il terzo verrà condannato per la sua inattività, per il suo inutile isolamento che lo ha portato ad una gestione dei beni affidatigli totalmente negativa.
L’insegnamento che si può cogliere da tale parabola è ovviamente quello classico: “Metti a disposizione di Dio e del prossimo i tuoi talenti, le tue doti, le tue capacità e datti da fare, investi con intelligenza questo capitale, in maniera che anche gli altri ne traggano beneficio; non trascurarlo, di qualunque entità esso sia, non nasconderlo senza fare nulla, perché procureresti un grave danno a te e al prossimo”.
Abbiamo parlato di “talenti”, ossia di doni, di potenzialità, di carismi che ognuno di noi in varia misura ha ricevuto gratuitamente da Dio: identificarli e applicarli alla nostra vita pratica, è molto semplice. C’è da dire, prima di tutto, che ci sono “talenti” che di solito non li pensiamo immediatamente come “dono”, e che invece meritano tutta la nostra considerazione, meritano di essere trattati con estrema cura e messi doverosamente a frutto.
Per esempio: un talento importantissimo è la vita; un capitale, un dono incredibile e irripetibile la vita, cui spetta ogni attenzione e cura: ci pensiamo mai a tanta responsabilità? Vogliamo forse buttarla via, declassarla, svalutarla, preferendo l’isolamento materiale e mentale, l’ignoranza, l’autodistruzione, piuttosto che la crescita nei nostri ruoli, nelle nostre possibilità, nei nostri meriti, in vista dell’inserimento finale nel regno?
Un talento altrettanto importante è la libertà: ci è stata data la possibilità di essere sempre noi stessi, di assumerci la responsabilità delle nostre azioni, di coltivare idee nuove, di lottare per un “nostro” ideale; approfittiamo di questa opportunità per combattere, per lottare e vincere, oppure preferiamo nasconderci, accomodanti e indolenti, accettando qualunque compromesso pur di evitare i giudizi della gente, ai quali abbiamo condizionato la nostra vita?
Altro talento da sviluppare è la verità: come la vediamo? la cerchiamo caparbiamente, vogliamo trovarla, viverla, costi quel che costi, osando, rischiando se necessario anche la faccia? oppure preferiamo nascondere stupidamente l’evidenza, vivere nell’ignoranza, chiudere gli occhi della mente, perché la sua luce, la sua chiarezza, la sua splendida trasparenza ci incutono troppa paura?
Un altro talento ancora è la nostra “chiamata”, la nostra vocazione: talento preziosissimo. Come lo curiamo? Lo viviamo con generosità, con entusiasmo, perché sappiamo che rappresenta la volontà di Dio? Rispondiamo al suo invito, accettiamo senza indugio il ruolo che Lui ci ha assegnato, senza condizionamenti e meschini “distinguo”; viviamo le conseguenti contrarietà e sacrifici, accettandoli con animo gioioso, consapevoli che essi sono strettamente legati al progetto di vita che Dio ha previsto per noi? Oppure pensiamo di vivere rinunciando a noi stessi, a tutte le nostre concrete possibilità di servizio, nascondendoci dietro al pretesto di non essere all’altezza di alcuna chiamata? Ci trasciniamo stancamente in una esistenza piatta, priva di ideali e di interessi? Ma, fratelli, ci pensiamo mai a come potremo giustificarci poi?
Un altro talento, infine, è soprattutto la nostra anima: forse il più dimenticato, pur essendo la nostra essenza, quel soffio di vita che il creatore ci ha donato con la nascita. L’anima: la nostra amica, la nostra consigliera, la nostra confidente. Cerchiamo con tutte le nostre forze di farla crescere, maturare, sviluppare, oppure preferiamo accantonarla, lasciarla lì a dormire, a vegetare, inascoltata e tradita; in altre parole non è che la lasciamo morire di inedia, solo perché abbiamo paura di confrontarci con Lui attraverso di lei?
I nomi che possiamo dare ai vari talenti, come abbiamo visto, possono essere tanti. Ma il possesso di ciascuno, anche di uno solo, presuppone sempre un comportamento responsabile, un lavoro costante, attivo e propositivo: rinunciare a ciò con un atteggiamento di menefreghismo, di abbandono, di indifferenza, significa cedere inesorabilmente alla paura, all’indolenza, all’ignavia, alla codardia.
È da questa serie di sentimenti negativi che noi dobbiamo guardarci, fratelli; la vicenda del terzo servo ce lo insegna: perché egli fu indubbiamente vinto dalla paura; anzi da un insieme di paure che lo spinsero a seppellire il proprio talento, vanificandone qualsiasi potenzialità.
Sono sentimenti, questi, sempre di grande attualità, sempre negativi e invalidanti, che meritano quantomeno una veloce analisi.
La prima paura è quella del “confronto”, del giudizio della gente: il servo ha il terrore di come gli altri potrebbero valutare le sue iniziative. Avverte un ingiusto svantaggio perché, con un solo talento in dotazione, si sente nettamente inferiore agli altri, meno dotato di loro, e quindi rifiuta categoricamente di dimostrare anche quel poco che ha, quel poco che è, pur avendo una sua realtà, una sua innegabile dignità. Sembra dire: “Io, con un solo talento, sono il più sfortunato! Loro ne hanno tanti! Io non ho le stesse possibilità. Non posso rischiare di sbagliare, ho soltanto questo talento e me lo devo tenere molto stretto. Del resto la colpa non è mia; è del padrone che me ne ha dato uno solo!”. Ma il padrone, che gli legge dentro, lo redarguisce: “Malvagio, bugiardo, falso: vuoi giustificare la tua stupidità, la tua inefficienza, la tua pigrizia, dando la colpa a me? Vuoi giustificare la tua paura di rischiare, dicendo che l’hai fatto per me? Prenditi le tue responsabilità. Fuori da qui, nelle tenebre!”. E questo, fratelli, la dice lunga: perché chi vive senza far niente, nell’abulia, nel disinteresse, rinunciando a qualunque iniziativa, finisce inesorabilmente nelle tenebre del nulla!
Quando uno comincia a chiedersi se è più dotato degli altri, se è migliore o peggiore, se l’altro è più o meno bravo di lui, se ha più soldi, più intelligenza, più simpatia, più consensi, più donne… beh, allora vuol dire che è già sulla buona strada per rovinarsi da solo.
Nella vita, fratelli miei, ci sarà sempre qualcuno inferiore a noi, che noi puntualmente disprezzeremo; ma soprattutto ci sarà qualcuno superiore a noi, che noi, altrettanto puntualmente, invidieremo con tutto il cuore, approfittando della cosa per commiserarci e per piangerci addosso dalla rabbia. Le persone si rovinano perché non guardano mai a loro stesse, a quel che sono, a quel che possiedono, alle loro possibilità; ma guardano sempre con invidia agli altri: a quel che hanno, come vivono, cosa fanno. Pensate all’assurdità del comportamento di questo disgraziato che, frastornato dalla ricchezza dei colleghi, nasconde agli occhi di tutti, sotterrandola,l’unica cosa preziosa che è veramente sua, di cui potrebbe invece andarne fiero: preferisce non confrontarsi, si limita a guardarli da lontano in azione, macerandosi nell’invidia e nello sconforto. Non riesce ad accettare che essi siano più bravi di lui, e rinuncia stoltamente alla possibilità concreta di esprimere umilmente quello che lui è e quello che sa fare.
Non sono pochi, fratelli miei, quelli che si comportano così; sono più di quanti ne possiamo immaginare: si credono umili, remissivi, provati e tartassati dalla vita pur essendo dei giusti e timorati di Dio; si sentono bravi e santi, perché fanno delle rinunce (che poi non volontarie, e meritorie ma inevitabili, imposte dalla vita); in realtà sono pieni di orgoglio, rinunciano a fare perché hanno paura di rischiare, di mostrarsi deboli e insicuri, di essere giudicati negativamente. E così perdono ogni dignità, ogni credibilità; e per questa loro ossessione, vivono decisamente male, nei pregiudizi e nelle paure.
La seconda paura del servo, sicuramente quella determinante, è la paura che gli deriva dall’immagine distorta di Dio che egli si è fatta. Quest’uomo prova nei confronti di Dio soltanto paura, un sacro terrore: «Signore so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso; per paura andai a nascondere il talento sotterra» (25,25).
Ma che Dio è questo, fratelli miei? Chi non sarebbe terrorizzato, paralizzato, da un Dio implacabile che non ammette errori? Che idea di Dio si è mai fatta questo poveraccio? Come avrà fatto? Che razza di uomo è? Semplice, fratelli: è un uomo che agisce in maniera speculare all’immagine di quel Dio che lui stesso si è costruito nel suo intimo. In altre parole, lo stesso terrore che ho nei confronti di Dio, lo nutro anche nei confronti di me stesso: ho una paura folle di vivere, di quello che potrebbe rivelarmi la mia anima; ho il terrore di ascoltarmi, di vivermi. Se invece sono convinto che Dio è amore, allora la mia vita è serena, posso guardarmi tranquillamente dentro l’anima, dando nome e spazio a tutto ciò che di bello vi trovo. Se Dio mi ama, mi sento di provare, di rischiare e anche di sbagliare, ma sono comunque tranquillo, so che Lui mi ama, mi consola, mi perdona: la condanna arriva soltanto se non ne può fare assolutamente a meno, e dipende sempre e soltanto da me, mai da Lui. Se Dio per me è fiducia, mi spingo ad osare, volo sempre in alto; non mi rinchiudo in una falsa sicurezza, nel terrore e nel legalismo. Se Dio per me è Vita, mi riesce naturale vivere, espandermi, realizzarmi; trovo invece assolutamente innaturale lasciarmi appassire, lasciarmi morire.
È proprio così, fratelli: se ho paura di Dio, non posso vivere; se penso di non poter vivere, vuol dire che ho paura di Dio; non c’è alternativa. Gravissima malattia, fratelli, quella di pensare Dio come un padrone autoritario, un giudice severo, spietato e inappellabile. Una malattia che anche in un passato non troppo lontano mieteva le sue vittime. Nell’educazione dei giovani del mio tempo veniva inculcata la paura di Dio, il terrore delle conseguenze implacabili del peccato, il terrore di affrontare per causa sua pene indescrivibili, fiamme e fuoco eterni. Si viveva nel terrore del peccato – e una volta tutto era peccato, proprio tutto – nel terrore di perdere la grazia, di sbagliare, di commettere qualcosa di non gradito a Dio: con il risultato di creare in essi una concezione distorta di Dio. Io stesso ho conosciuto più tardi persone che, condizionate allora da questa terrificante immagine di Dio, sono cresciute con una personalità bloccata, sterile, rigida, vuota; persone incapaci di amore e di umanità; persone che magari si buttavano nella preghiera, persone devotissime, sempre in chiesa per rosari e giaculatorie, ma che avevano un’anima priva di Vita, perché non conoscevano la gioia e la felicità dell’amore di Dio.
Ebbene, Dio non è così, fratelli! Non è quello il nostro Dio: se noi lo temiamo soltanto, se abbiamo solo terrore di Lui, vuol dire che di Lui non abbiamo capito nulla, vuol dire che dobbiamo immediatamente cambiare idea. Perché Lui è soprattutto amore; è Lui stesso che ci sussurra amorevolmente: “Venite a me voi tutti… affaticati e oppressi, ed io avrò cura di Voi”. Ascoltiamolo!
Una terza paura è quella legata all’insicurezza. Il servo del Vangelo ha paura di sbagliare. Non vuole fare errori; ma proprio perché non li vuol fare, compie l’errore più grande. Vorrebbe controllare ogni minima sfumatura della sua vita, renderla assolutamente sicura, in tutto. Ma non si può! Non ci si può proteggere da tutto e da tutti; non si può vivere convinti di non sbagliare mai. Pensare così significa pretendere la perfezione assoluta, umanamente impossibile: in realtà equivarrebbe a non vivere. Perché vivere è sì crescere, diventare migliori, più profondi, inseriti nel mistero della vita. Ma vivere è anche sbagliare, innamorarsi, perdersi e ritrovarsi; chiudersi e aprirsi; andare anche in depressione, in fallimento, in crisi, ma poi rialzarsi. Vivere è piangere, è ridere. Vivere è sentirsi addosso tutta la tristezza del mondo, percepire in certi giorni un dolore profondo, antico, ancestrale; ma vivere è provare anche quella felicità ed ebbrezza che ci fanno sentire beati e felici già su questa terra. Ecco: volersi precludere tutto questo è precludersi la vita.
L’uomo del vangelo ha paura del padrone e cerca di tutelarsi. Vuole essere certo di piacergli, e non si accorge che la paura lo costringe a fare scelte sbagliate di se stesso e della sua vita. Purtroppo chi vuol controllare tutto - e lo fa per paura, perché sente di non essere in grado di affrontare e gestire la situazione - alla fine perde il controllo di tutto. Chi nella vita cerca solo sicurezze, è fondamentalmente un debole, uno che ha paura di se stesso, e che finisce sicuramente per sbagliare.
«Per paura andai a nascondere il tuo talento». Una paura folle, quella del servo, dovuta anche alla sua insicurezza. Sì, perché l’insicurezza chiude, quando invece l’amore e la fiducia aprono. L’insicurezza evita, la fiducia incontra. L’insicurezza crea paura e diffidenza, la fiducia amore. L’insicurezza crea sospetto e pregiudizio, la fiducia complicità. L’insicurezza fa vedere tutti gli uomini come dei nemici, la fiducia come semplicemente delle persone, delle nuove possibilità d’incontro. L’insicurezza ha bisogno di combattere, di difendersi, di proteggersi, di mettere barriere; crea ansia, crea controlli e difese su tutto.
Abbiamo paura del giudizio degli altri? Tranquilli: è la vita. Non potremo mai impedire agli altri di pensare e di parlare, qualunque cosa facciamo, in qualunque modo la facciamo. Accettiamo allora che essi possano non essere d’accordo con noi, che possano non capirci o fare scelte diverse, perché noi tutti siamo venuti a questo mondo non per rispondere alle aspettative altrui, ma per vivere la nostra vita, per capitalizzare quel grande talento che Dio ci ha affidato. E dobbiamo farlo combattendo sempre, provando e riprovando, nonostante la paura e l’insicurezza. Anzi, dobbiamo combatterla proprio, l’insicurezza, perché è nemica dichiarata della fede, del nostro “credo” fiducioso.
E concludo: penso, fratelli, che l'insegnamento per noi e per i nostri giovani che crescono con la mentalità di oggi - che privilegia il divertimento, il consumismo, le chiacchiere inutili – sia proprio questo: nella vita, sia materiale che spirituale, bisogna impegnarsi sempre, ricominciare sempre da capo, non arrendersi mai; vivere intensamente, senza pause, senza soste, senza “intermezzi”; questa è la prospettiva giusta: perché per un cristiano il tempo libero non esiste: fino a quando c'è tempo e vita, egli deve essere in azione, deve darsi da fare per il Signore, per il prossimo, per la Chiesa, per la società. Un cristiano inattivo, che non faccia nulla, che si consideri in “vacanza”, che abbia nascosto il suo talento per tenerlo al sicuro senza preoccupazioni, è semplicemente inconcepibile. Vivere solo per cose futili, senza mai trovare il tempo per un incontro, un'attività, una collaborazione, una presenza, non è vivere da cristiani: significherebbe venir meno agli impegni di fede, di preghiera, di carità, con tutto quel che segue. La vita di chi vuol seguire Cristo è una vita in continua tensione, nel bene, nella carità, nelle opere buone. Non possiamo arrenderci mai, fratelli miei, neppure quando, avanti negli anni, pensiamo di aver raggiunto il nostro meritato “traguardo”: niente di più falso; perché quello che abbiamo guadagnato per Dio, durante tutta la nostra vita, sarà sempre nulla, una miseria, rispetto a quello che abbiamo ricevuto da Lui.
Non imitiamo, fratelli, il terzo uomo del Vangelo che si sente in regola nella sua inefficienza: noi, che ci dichiariamo discepoli di Cristo, noi che abbiamo avuto in consegna da Lui, tutti indistintamente, un “talento” importantissimo, che è l’amore di Dio, noi, dobbiamo impegnarci seriamente a metterlo a frutto: ogni giorno, instancabilmente. È un “talento”, un tesoro, di inestimabile valore; non lasciamolo inerte, non trascuriamolo, perché il nostro vivere, il nostro crescere, il nostro dare frutto, sono strettamente proporzionali all’offerta che di esso ne facciamo agli altri.
Sì, fratelli, possiamo aumentare il nostro guadagno da presentare al Padre, elargendo la carità e l’amore avuti da Dio, ai nostri fratelli: in parrocchia, nella società, in famiglia, negli ambienti in cui viviamo e lavoriamo. Le opportunità per realizzare questa nostra missione, sono anch’esse altrettanti doni che Dio ci ha affidato, altrettanti “talenti”: e anche su questi dovremo rispondere a Lui. Pensiamoci con calma ma seriamente, fratelli: perché è un vero delitto perdere qualunque opportunità di dimostrare al mondo che Dio è Amore. Amen.