giovedì 31 gennaio 2008

3 Febbraio 2008 - IV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


Dio è garante della mia gioia
Se da un lato questa pagina del vangelo è una delle più conosciute dalla gente (anche perché è rivolta proprio a tutti, “Gesù vendendo le folle”) è anche una delle pagine più ostiche, più difficili, una pagina che stravolge completamente quella che è la nostra comune concezione della vita:

Tutti infatti, credenti o meno, siamo dei mendicanti di gioia; ogni giorno ci accorgiamo e tocchiamo con mano di non essere veramente felici, non abbiamo ragioni sufficienti per essere davvero realizzati, totalmente appagati.
Sì, certo, viviamo momenti intensi, belli, memorabili, gioie semplici e vere che solcano – grazie a Dio! – il cuore e la vita.
Ma non sono sufficienti a realizzare tutto il desiderio di assoluto che portiamo impresso nel nostro cuore. Il nostro cuore è sempre “inquietum”
Il nostro mondo, la società in cui viviamo, poveri ingenui!, ci fanno credere che ottenere la felicità è cosa da poco: basta possedere, apparire, dominare, esagerare sempre.
Ma purtroppo chi davvero crede a questa menzogna, si ritrova inevitabilmente con un pugno di mosche in mano, inebriato, intimamente svuotato, fuori di sé.
Allora… è possibile arrivare alla pienezza della felicità? vivere la totalità dell'amore?

Matteo, nel suo discorso della montagna, ce ne traccia la via: come un nuovo Mosè, Gesù consegna alle genti la sua nuova legge, non più scolpita sulle tavole di pietra, ma incisa nel cuore dei discepoli.
Egli come al solito ci sconcerta: la beatitudine, la felicità, la gioia, corrispondono esattamente al contrario di ciò che noi consideriamo fonte di benessere: ricchezza, forza, calcolo, scaltrezza, arroganza.
Ma cosa sta esattamente dicendo Gesù? Esalta forse una visione di cattolicesimo rassegnato e perdente che troppe volte vediamo intorno a noi? Mi dice forse che, se le cose vanno male, se va tutto a rotoli, se sono povero (il testo greco è ancora più forte: “ptokòi” = pitocchi, accattoni, pezzenti), se subisco violenza, se provo dolore e piango, sono immensamente fortunato?
Allora ha ragione l'immenso Nietzsche, quando dice che i cristiani, non riuscendo a vincere, a emergere, a trionfare, dicono: "Allora beati gli sconfitti?

Non diciamo sciocchezze; lo sappiamo benissimo che non può essere così!
Dio non ama il dolore e Gesù stesso, per quanto gli è stato possibile, ha evitato la sofferenza.
E allora?
Gesù parla del Padre: ce ne descrive il vero volto, ci racconta l'inaudito di Dio, così come egli lo ha vissuto e lo vive.
Il Padre, il vero Dio, è un Dio povero, un Dio misericordioso, un Dio mite, un Dio che ama la pace, un Dio che, per amore, è pronto a soffrire. Un Dio così diverso da come ce lo immaginiamo; un Dio così straordinario e armonioso: solo Gesù ce lo può veramente svelare, perché lui e il Padre sono una cosa sola.

Dio non dona a ciascuno il suo, ma a ciascuno secondo quanto ha bisogno, privilegiando chi ha meno: un cuore povero, un cuore affranto riceve molta più attenzione e tenerezza di un cuore sazio che non ha bisogno di nulla.
La beatitudine non consiste dunque nel dolore, nella miseria, ma nel fatto che l'intervento di Dio colma il cuore di chi è affranto.
In altre parole Gesù ci dice: se, malgrado la sofferenza, la persecuzione, il pianto tu sei sereno, beato, significa che hai riposto in Dio la tua fiducia; è lui il tuo unico sostegno; stai felice: hai trovato Dio, la felicità che non ti è tolta, la risposta grande alla vita.
Le gioie che viviamo, sono un suo dono, e vanno vissute come tali, perché Dio ci chiederà conto anche di tutte le gioie che non avremo vissuto.
Ma immaginate quanta più gioia avremo nel nostro cuore se, nel dolore, resteremo aggrappati a lui, l'unico bene che non ci può essere tolto?
Conoscere Dio, sapere che in lui soltanto riposa il nostro cuore, sconvolge l'ordine delle cose.

Il mondo è aggressivo e ci vuole grinta per sfondare? Dobbiamo dimostrare in continuazione e a tutti che valiamo? Al lavoro siamo misurati e pesati continuamente? A casa spesso ci sentiamo incompresi? Bene. Non c'è scampo: o ha ragione il mondo, o ha ragione Dio.

Se noi restiamo miti, costruiamo la pace, viviamo nella giustizia, noi stiamo dalla parte di Dio.
Le Beatitudini sono promessa di un mondo nuovo, diverso, di una logica che siamo chiamati a scrivere nella piccola vita delle nostre piccole comunità radunate intorno al pane di Dio.
E' difficile vivere il Vangelo, lo sappiamo bene; è difficile vivere nel quotidiano, il sogno di Dio che è la Chiesa.
Ma la fatica che faccio nel restare tassellato al Vangelo, lo sforzo eroico che compio nella conversione alla logica del Regno, anticipa e realizza le Beatitudini.
Nella nuova prospettiva chi è mite conta qualcosa; chi è povero di cuore, cioè umile, vale più di chi ostenta arrogante ricchezza; la mia presenza, la mia preghiera, sono conforto al cercatore di giustizia.
Le beatitudini affermano che la storia umana finirà come abbiamo sempre sognato: trionfa il bene, l’umiliato e sconfitto risorge, l'arroganza dei potenti è convertita, umiliata.

Il discorso della Montagna ci immette, dunque, in quel clima di particolare totale immersione della logica dell'amore, del servizio, del perdono, pace, sofferenza, bontà e tenerezza. Un discorso che ben illumina la realtà umana in una prospettiva di salvezza oltre il tempo, nell'eternità, ma che si costruisce oggi, in quanto i Beati, ora e qui, sono tutti coloro che operano nella prospettiva indicata da Cristo.
Ecco allora che le categorie etiche sulle quali dobbiamo strutturare il nostro impegno nel mondo sono quelle che si rifanno in termini lineari alle Beatitudini evangeliche.
Certo, in un mondo come il nostro queste categorie sono paradossi, per molti impossibili da assimilare, concettualizzare e praticare.
Ma senza questa prospettiva diventa impossibile parlare di Vangelo e vivere il Vangelo anche oggi.
Poveri, afflitti, miti, quelli che hanno fame e sete di giustizia, i misericordiosi, i puri di cuore, gli operatori di pace, i perseguitati nella prospettiva del Vangelo sono soggetti difficili da incontrare nella nostra vita ordinaria. Tuttavia ci sono e sono proprio loro la speranza nel pensare e volere un mondo migliore. Un mondo possibile da costruire se si fanno queste scelte di campo coraggiose. E sono scelte di beatitudine vera, che vanno al di là di ogni presunto potere che ci propina la cultura del pensiero debole o dello strapotere della tecnica e dell'economia, della politica e del progresso senza limiti.
Tutto questo nostro impegno nel costruire ogni giorno la beatitudine in questo secolo e in vista dell'eternità è motivo di profonda gioia, in quanto abbiamo la certezza di una ricompensa che supera abbondantemente le nostre attese: "Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli". E' questa la consolazione più grande per un cristiano, anche se egli dovrà molto patire e soffrire in questo mondo.

Dobbiamo quindi ritornare alle verità fondamentali.
Nel corso della vita, l'uomo deve trovare un centro interiore che orienti e dia senso alla sua esistenza.
Deve scoprire quel nucleo di verità fondamentali che lo sostengono e gli permettono di rimanere nel bene morale, mentre molte speranze superficiali continuano a sparire. Questo vale non solo per le persone più mature, alle quali il tempo ha già recato qualche delusione, ma anche per molti giovani, "appassiti nella primavera stessa della vita", che hanno perso l'incanto della vita.
Tutti dobbiamo aspirare a queste "verità fondamentali" che diano speranza al nostro camminare. Significa riscoprire la ragione della propria esistenza, l'amore di Dio, e il senso della propria dignità come persona e Figlio di Dio, per scoprire che abbiamo una missione nella vita e che il nostro passaggio su questa terra è momentaneo e provvisorio. Le beatitudini ci invitano appunto a rivedere la nostra gerarchia di valori. Ci aiutano a comprendere, alla luce dell'eternità, la relatività di tutto ciò che è creato, dei beni materiali, l'incongruenza della ricerca esclusiva del piacere e del benessere, e la relatività delle sofferenze di questa vita.
"Cercare ancora il Signore": è questo che ci propone il profeta Sofonia. Cercarlo tra le pieghe della nostra vita, cercarlo nelle sofferenze, nelle pene; cercarlo nelle proprie imprese, nella nostra famiglia; cercarlo nella vita di società e nella storia del mondo. Cercare il Signore significherà, certamente, pregare e parlare con Dio, ma non solo quello. Cercare il Signore significherà conformare la nostra condotta di vita coi suoi comandamenti, con le sue leggi, perché Egli è il Signore! Cercate il Signore e il vostro cuore rivivrà!

giovedì 24 gennaio 2008

27 Gennaio 2008 - III DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


Il Dio dei confini
Dopo una lunga preparazione, durata più di trent'anni, Gesù incomincia la sua missione pubblica.
E inizia con piglio, con sfida. Quando incarcerano Giovanni Battista, Lui riprende le stesse parole che Erode aveva fatto tacere: “Convertitevi, perché il Regno dei cieli è vicino”.
Queste prime mosse svelano lo stile di un uomo, il senso di una missione. La scelta del luogo, le parole e i gesti di guarigione che compie, la chiamata dei primi discepoli mostrano un Gesù ben consapevole di quel che vuole, già con un progetto preciso in testa: “predicava la buona novella del Regno”.
Gesù lascia Nazaret per stabilirsi a Cafarnao. Cafarnao è la piazza più battuta di tutta la regione. Si trova sulla famosa “Via maris”, strada internazionale principale che collegava Damasco - capolinea di tutte le piste del deserto e della Mesopotamia - con Cesarea Marittima, porto d'attracco di tutti i commerci del Mediterraneo e transito obbligato per giungere in Egitto. Qui c'è una dogana, perché confine di Stato dove tutti si fermano, e una guarnigione militare romana. E' il centro commerciale del mondo pagano, dove regnano chiasso, confusione, disordine. È nel territorio di Zabulon e di Neftali, nella “galilea”, ossia nella regione dei pagani.
Viene subito indicato il perché di tale scelta: “Il popolo immerso nelle tenebre ha visto una grande luce; su quelli che dimoravano in terra e ombra di morte una luce si è levata”. Finalmente su tutti gli uomini - anche sui pagani - spunta la luce della salvezza promessa da Dio. Poiché l'antico Israele non ha saputo riconoscerla - “Venne tra la sua gente, ma i suoi non l'hanno accolto” (Gv 1,11) - la Buona Novella sarà rivolta ad un popolo che la sappia accogliere. Già i Magi ne erano stati il simbolo. “Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo” (Gv 1,9). Ognuno ora è chiamato: “Dio vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità” (1Tim 2,4). La fede è un dono gratuito, dato a tutti, sufficiente ed efficace per la salvezza.
É offerta di vita, quella del Regno. È riscatto da una schiavitù, quella del male, della morte e del peccato: “Poiché tu, come al tempo di Madian, hai spezzato il giogo che l'opprimeva, la sbarra che gravava le sue spalle e il bastone del suo aguzzino”. Gesù pone i primi segni di tale liberazione proprio nei miracoli di guarigioni: “Percorreva tutta la Galilea curando ogni sorta di malattie e infermità nel popolo”. “Passò beneficando e risanando tutti coloro che stavano sotto il potere del diavolo” (At 10,38).”Hai moltiplicato la gioia, hai aumentato la letizia”. Il Regno è la signoria di Dio sul male e sulla morte, è la signoria del Dio della vita, di questo Dio amante dell'uomo, “la cui gloria è l'uomo vivente” (sant'Ireneo), la cui passione cioè è la pienezza di vita per l'uomo.
Ma a questa proposta di Dio l'uomo è chiamato a rispondere, deve aderire al Regno.
“Da allora Gesù cominciò a predicare e a dire: CONVERTITEVI”. É la prima parola: metanoèite!
Si tratta cioè di cambiare testa, cambiare direzione, cambiare riferimento, aprirsi alla novità, aprirsi alla salvezza, aderire al progetto di umanità che Dio ci propone, perché il vostro progetto - ci dice Gesù - è fallito! Voi uomini avete come sfigurato l'immagine di Dio che è in voi, annebbiata l'identità dell'uomo così come era uscita dalla mano del Creatore. C'è bisogno di restauro, di una riformulazione più precisa di ciò che è veramente e profondamente umano, e di una ricostruzione. Gesù ebbe a dire un giorno: “Da principio non era così ..!” (Mt 19,8). Qualcosa s'è rotto. Va riaggiustato. L'inizio del Regno è inizio d'umanità autentica, è inizio dell'unico vero umanesimo per la riuscita d'ogni uomo.
Seconda parola: “SEGUITEMI”. Il Regno è una convocazione diretta, una chiamata da parte di Dio: “Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga” (Gv 15,16). E' Dio in persona che ti invita e richiede la tua adesione. Non per qualcosa di alternativo a te, ma per te e con te per una tua storia diversa. Ciascuno certo ha qualcosa da lasciare, cui rinunciare (affetti sbagliati, situazioni negative ..), ma per una libertà maggiore aperta ad un'opera più grande.
Ecco la terza parola: “VI FARO' PESCATORI DI UOMINI”. E' una missione che dilata la vita, che fa compiere un salto di qualità, aprendo nuove prospettive: essere costruttori di una umanità nuova, operai diretti di quella storia unica, grande, definitiva che è il Regno di Dio, l'inizio di quei “cieli nuovi e terra nuova” nei quali si consuma tutto il cammino dell'umanità e del cosmo. Chiamati quindi a dare finalità e motivazione diversa al proprio operare quotidiano. Ciascuno certo per un suo ruolo specifico e diverso entro il popolo di Dio, ma tutti per una impresa comune che esalta e riscatta la propria attività quotidiana sempre bruciata dalla insoddisfazione e dall'inefficacia. Questo è l'essere cristiano: l'umano con l'innesto del divino, il tempo nell'eterno, .. o anche: la professione elevata a missione. Quei primi quattro discepoli, da modesti e anonimi pescatori del mare di Galilea sono diventati le colonne di un edificio che si protende nell'eternità.

Da discepoli incontro al mondo
Gesù dunque inizia la sua predicazione, dai confini della storia, da un angolo di terra emarginato e guardato con diffidenza.
Dio è sempre così, preferisce gli indisciplinati ai bravi ragazzi, invita i primi della classe ad uscire e a darsi da fare, obbliga chi lo segue ad andare verso le inquiete frontiere della storia, piuttosto che serrare i recinti delle false certezze della fede. Dio è così, ama il rischio, vuole sporcarsi le mani, parte ad annunciare il Regno là dove nessuno lo aspetta, né lo desidera.
Si, fratelli: è così che possono e devono diventare le nostre comunità cristiane, capaci di uscire dalle chiese per ridare Dio al popolo, per condividere con esso il cammino.
Gesù sceglie di abitare e di condividere tutto con questi abitanti del “confine”; porta loro la luce, dona testimonianza. La nostra fede deve uscire dalle nostre chiese; Dio è stanco di essere venerato nei tabernacoli (quando lo è!) e di non riuscire ad entrare nelle nostre quotidianità; è stufo di essere tirato in ballo nei momenti “sacri” ed essere estromesso dai luoghi usuali della nostra vita, dai luoghi del lavoro, dell'economia, della politica, del divertimento. Il movimento della comunità è l'incontro nella lode, per diventare capaci di dire Cristo nel quotidiano, nel vissuto, nel vero di ciascuno.
E l'annuncio è bruciante: “convertitevi perché il Regno si è fatto vicino”. Sì, così scrive Matteo: è il Regno ad essersi avvicinato, è lui, Dio, che prende l'iniziativa; a noi di accorgerci, di girare lo sguardo (convertirsi, appunto) immedesimandoci in Lui. Dio non esordisce con qualche reprimenda morale, con qualche sensato discorso teso a suscitare pentimento e cambiamento di condotta. Lui, lui per primo si offre, si dona, rischia. Dice: “io ti sono vicino, non te ne accorgi?”. Accorgersi significa davvero mollare tutto, lasciar andare i molti affari, le molte cose, per recuperare l'essenziale, come Pietro, come Andrea, che diventano – finalmente – pescatori di uomini. Il Regno è la consapevolezza della presenza entusiasmante e sorridente di Dio. Il Regno è là dove Dio regna, dove lui è al centro. E la Chiesa, comunità di chiamati e di discepoli appartiene al regno anche se non lo esaurisce.
A Zabulon e Neftali siamo chiamati a dire: “Dio ti è vicino”. Non perché c'è un qualche merito, ma solo per il cuore largo di Dio che viene.
Calma, fratelli, calma discepoli che prestate un difficile servizio ecclesiale con i ragazzi o con le coppie, tranquilli voi che vi giocate nel sociale, là dove l'uomo è meno uomo e dove il dolore domina: il Regno, Lui, si avvicina. Non dobbiamo salvare il mondo, fratelli: il mondo è già salvo! È che non lo sa. E vive nella disperazione. A noi di renderlo presente, questo Regno, a noi di vivere da salvati, a noi di diventare divulgatori del Regno, farne pubblicità, vivere nella luce, in mezzo alle tenebre che avvolgono Neftali e Zabulon.
Per annunciare che il Regno è vicino, Dio ha bisogno di noi, proprio là dove siamo. Chiamati a fare esperienza di fraternità (la parola “fratello” viene ripetuta quattro volte in tre versetti!), possiamo lasciare le reti che ci trattengono (paure, affari, logica mondana) per diventare pescatori di uomini e di umanità. Siamo chiamati a tirar fuori da noi stessi e dagli altri tutta l'umanità che Dio ha seminato nei nostri cuori.
I cristiani non sono a parte, hanno lasciato uscire dal loro cuore l'aspetto più autentico dell'uomo. E ogni uomo è chiamato a fare questa esperienza di comunione e di autentica umanità.
Capiamo allora l'energica protesta di Paolo (e poi ci lamentiamo del brutto carattere di certi cristiani!), che ammonisce le sue comunità a non smembrarsi in maniacali seguaci di questo o quello cammino di spiritualità... Ogni esperienza (movimento, parrocchia, cammino di perfezione) è solo uno strumento e non “esaurisce” il Regno, il Regno è oltre, cominciamo a farne parte convinta come comunità, che va già bene...
Lasciamo le reti che ci trattengono, i pregiudizi e le paure che ci tengono legati, le incomprensioni e le fisime personali che ci impediscono di essere e raccontare il Regno: e coraggio, perché sono ben altre e migliori le cose ci aspettano da fare!

mercoledì 16 gennaio 2008

20 Gennaio 2008 - II DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO.


Dio ci viene incontro
Gesù è nato in noi, piccolo neonato da far crescere ed accudire; come Maria e Giuseppe lo abbiamo accolto; come i pastori, emarginati del tempo, abbiamo udito la notizia che egli è nato per noi; come i Magi, atei cercatori di verità, ci siamo messi in cammino.
Ora, finita la breve e intensa parentesi di Natale, vogliamo far crescere quel Battesimo che abbiamo ricevuto e che ci ha permesso di essere abitati dal Mistero di Dio.
Prima di riprendere la riflessione del pubblicano Levi, ci concediamo una parentesi teologica tratta da Giovanni. È l'occasione per meditare sulla splendida figura del Battista, che ora si mette da parte, non prima di avere dato un'ultima bruciante testimonianza su Gesù il Messia, che egli ha atteso e riconosciuto.

Giovanni Battista vede Gesù "venire verso di lui" (1,29): è Dio che prende l'iniziativa, è lui che viene incontro, è lui che muove i primi passi, sempre.
Eppure il Battista stenta a riconoscerlo. Sono parenti, lui e Gesù, e quindi Giovanni lo conosce, ma lo vede con occhi diversi, con i suoi occhi consueti, abituali; il segno del Battesimo lo spinge invece a capire, lo obbliga a riconoscere il Figlio bene-amato, nel quale il Padre si compiace; anzi: questo riconoscimento permane, come abbiamo visto nella terza di Avvento, quando il Battista in carcere è invitato a non scoraggiarsi, a non aspettare un altro Messia.
Il problema del Battista è il nostro: guardare senza vedere, sapere già, essere abituati. Giovanni deve aguzzare lo sguardo interiore per riconoscere nella banalità del quotidiano la presenza del Messia.
É questa la radice del problema, di ogni problema: la dimenticanza, l'abitudine, la compagnia di Cristo che diventa sbadiglio e vaga rassicurazione.
Non pensiamo allo scorso anno, a due anni fa, non pensiamo ad un momento passato: oggi Cristo ci viene incontro, con discrezione (come al solito), con semplicità e verità.
Abitudinari della fede, discepoli della prima ora, stiamo desti, per favore, siamo attenti.
Dio ci scampi dal rischio del professionismo nella fede.
Questo Dio che passa va riconosciuto ed accolto, ciò che ci viene chiesto è, semplicemente, di accoglierlo.

Chi è Gesù? Tre titoli gli vengono attribuiti; tre sintesi di un cammino semplice e strepitoso fatto da chi scrive, Giovanni l'evangelista, discepolo prima del Battista e poi del Nazareno, e dalla sua comunità.
- Gesù è l'agnello di Dio che porta il peso del peccato (1,29),
- colui su cui rimane lo Spirito e battezza in Spirito (1,33),
- il Figlio stesso di Dio (1,34).
Sono titoli teologici che possiamo scoprire nella nostra ricerca di Dio.
Gesù è l'agnello che porta il peccato, come quello usato nello Yom Kippur, giorno di purificazione del popolo che scarica le sue colpe sul capro immolato in sacrificio per tutti: immagine prefigurata in Isaia del mite agnello condotto al macello.
Rispetto alla tragedia dell'umanità, all'inquietante dilemma del male e della violenza, Dio si schiera, si esprime, si coinvolge: egli è colui che si lascia uccidere, che assume su di sé sofferenza e tenebra, che la redime, portandola.
Giovanni resterà turbato dal vedere il Messia mischiato tra la folla di penitenti.
Dio condivide e assume su di sé tutta l'oscurità e la fragilità del mondo, si sporca le mani, non guarda dall'alto, redime dal basso.
Il dolore del mondo è assunto, salvato, redento.
Non è vero che vogliamo capire la ragione del dolore, ciò che vogliamo è non soffrire oppure, ed è ciò che Dio fa accadere, redimere questo dolore, dargli un peso, dargli un'utilità.

Fratelli che soffrite, fratelli travolti dalle tenebre, le vostre tenebre sono portate, accolte, salvate.
Egli è colui che dona lo Spirito in abbondanza; lo Spirito: dono del Risorto, di Colui che permette al discepolo di accorgersi di Dio, che lo mette in sintonia.
Fede che non è sforzo ma scoperta, non conquista ma abbandono, lasciando che lo Spirito che dà vita ad ogni cosa ci apra – finalmente! – lo sguardo dentro.
L'incontro con Dio non migliora né peggiora la nostra vita, non ci mette al riparo da fatica e contraddizione: gli eventi tristi e allegri si alternano come nella vita di chiunque.
Ma la presenza dello Spirito mi permette di vedere in maniera diversa, di cogliere il disegno, di percepire la tessitura nascosta della mia vita.
Il Signore dona lo Spirito senza lesinare, permette, ai discepoli che restano attenti e aperti alla Parola, di leggere la propria e l'altrui storia con uno sguardo nuovo.
Gesù è il "figlio di Dio"; non un grande uomo, non un profeta, non un uomo di tenerezza e compassione, ma la presenza stessa di Dio.
Non c'è mediazione su questo, non sofismi e ragionamenti: la comunità primitiva crede che Gesù di Nazareth, potente in parole ed opere, non sia solo ispirato da Dio, ma parli con le parole stesse di Dio poiché in lui abita la presenza stessa del Verbo di Dio.
Allora dobbiamo convincerci, fratelli: Dio è accessibile, Dio è visibile, chiaro, manifesto, incontrabile, evidente; si racconta, si spiega, si dice, si rivela.

Questo è ciò in cui crede la comunità di Giovanni, questo è ciò in cui dobbiamo credere anche noi.
Così, come Isaia sogna la comunità di Israele non più chiusa in se stessa intenta a proteggersi, ma aperta all'annuncio del vero volto di Dio alle nazioni straniere; così come Paolo augura ai cristiani di Corinto, città delirante e violenta, di essere santi perché santificati da Cristo, anche noi siamo chiamati a dare testimonianza al Figlio di Dio.
Quindi, non più stanche comunità che stentano ad assolvere i compiti istituzionali, ma gruppi di cristiani riempiti dalla luce, testimoni credibili, come il Battista e il suo discepolo Giovanni.
Ce la faremo ad accoglierlo dunque? O continueremo ad accarezzare e celebrare un Dio più approssimativo, più simile alle nostre segrete e distorte immagini di lui?
“Chi mi ama, mi segua…”.
Animo, fratelli: perché un compito serio ci aspetta.

giovedì 10 gennaio 2008

13 Gennaio 2008 - BATTESIMO DI NOSTRO SIGNORE


Bene-amati
“Prediletto”, traduce la nostra Bibbia, ma preferisco il più letterale “bene-amato” che soggiace al termine greco originale (agapetòs).
Gesù è anzitutto “bene-amato” e in lui Dio si “compiace”.
Il Padre è contento, orgoglioso del proprio figlio.
In Cristo – dice san Paolo – anche noi siamo figli, anche noi divenuti co-eredi, anche noi, anch'io sono bene-amato e in me il Padre si compiace.
Iniziamo l'anno civile e finiamo il tempo natalizio con questa sconcertante verità: Dio ci ama, e ci ama bene.
Non è forse l'ultimo tassello della meraviglia che ha accompagnato le tre settimane di Natale? Pensavamo ad un Dio sulle nuvole, ed eccolo a Betlemme; ci aspettavamo un Dio astratto e concettuale, ed eccolo uomo; speravamo in un Dio a cui chiedere, ed ecco un bambino che chiede; ci aspettavamo un Dio accolto trionfalmente dall'autorità costituita e dai sapienti, e invece chi lo riconosce sono gli abitanti della periferia della vita; ci aspettavamo un Dio evidente e palese, ed invece viene un bambino timido che chiede l'ansia della ricerca per trovarlo, come i magi sanno fare.
Infine – oggi – la conversione più grande: ci aspettavamo un Dio preside, severo ma benevolo a cui dover dimostrare di essere buoni, ed invece troviamo un Dio a-priori, che per primo, pregiudizialmente, ci ama.

Tutti noi veniamo educati a meritarci di essere amati, a compiere delle cose che ci rendono meritevoli dell'affetto altrui; sin da piccoli siamo educati ad essere buoni alunni, buoni figli, buoni fidanzati, buoni sposi, buoni genitori, bravi preti, brave suore, monaci e monache... il mondo premia le persone che riescono, capaci e – dentro di noi – si radica l'idea che Dio ci ama, certo, ma a certe condizioni.
Tutta la nostra vita è l'elemosina di un apprezzamento, di un riconoscimento. Anzi, se una persona ci contraddice, ci accusa, reagiamo ma in fondo pensiamo che abbia ragione, diciamo dentro di noi: “devi arrenderti all'evidenza, tu non vali”.

La reazione spontanea – lontani da Dio – è allora di difesa e aggressività o di eccessiva superficialità, ci omologhiamo, diamo il massimo, passiamo la mia vita ad inseguire l'idea di noi che gli altri ci restituiscono.
Invece Dio ci dice che noi, io, siamo amato bene, dall'inizio, prima di agire: Dio non ci ama perché buoni ma – amandoci – ci rende buoni.

Dio si compiace di noi perché vede il capolavoro che siamo, l'opera d'arte che possiamo diventare, la dignità di cui egli ci ha rivestiti. Allora, ma solo allora, potremo guardare al percorso da fare per diventare opera d'arte, alle fatiche che ci frenano, alle fragilità che dobbiamo superare.
Il cristianesimo è tutto qui, Dio ci ama per ciò che siamo, Dio ci svela in profondità ciò che siamo: bene-amati. È difficile amare “bene”, l'amore è grandioso e ambiguo, può costruire e distruggere, non si tratta di adorare qualcuno, ma di amarlo “bene”, renderlo autonomo, adulto, vero, consapevole.

Così Dio fa con noi.
Il Battesimo, segno del bene-amore di Dio. In quel preciso momento è stato messo nel nostro cuore il seme della presenza di Dio. Non un rito scaramantico, ma un seme da coltivare, da accudire che, se trascurato, fragile, scompare.
Dentro: è lì che trovo Dio: e tutto ciò che nella vita mi porta dentro (arte, musica, silenzio, natura) tutto mi avvicina a Dio, mentre tutto ciò che è fuori (caos, apparenza, superficialità) me ne allontana.
Col Battesimo sono entrato a far parte della Chiesa, quella del sogno di Dio, non lo sgorbio che ho in testa io: la Chiesa dei santi e dei martiri, la Chiesa che cammina, canta e spera, non quella grottesca dei miei giudizi superficiali.
Col Battesimo sono salvo, redento, mi è tolto il peccato originale, la fragilità nell'amore: come Cristo sono reso capace di dare la vita per i fratelli.
Passiamo la vita a riuscire, a diventare.
Ognuno ha un suo sogno segreto: diventare famoso, un uomo in carriera, una madre dinamica ed esemplare, un punto cardine per l’umanità… ma per quanto facciamo non riusciremo mai a diventare più di figli di Dio bene-amati; non potremo mai esserlo, perché già lo siamo.
Questa festa, oggi, è la festa di ciò che è nascosto in noi e che va riscoperto: cristiano, diventa ciò che sei!

Il battesimo nel Giordano, espressione di umiltà..
Gesù, con il suo atteggiamento, ci indica chiaramente quanto sia grande la virtù dell’umiltà.
Un atteggiamento mentale che ci porta a rinunciare definitivamente ai nostri progetti di grandezza, alle prerogative di superiorità e di dominio sugli altri, che più o meno inconsciamente coltiviamo nel nostro intimo; una prerogativa, l’umiltà, che molto spesso comporta l’accettazione da parte nostra di situazioni estreme, fastidiose, sgradevoli, in vista di ideali di amore per il prossimo.
Anzi, l'umiltà richiede che non ci si consideri meritevoli di nulla e che ci si privi di qualsiasi vanto, mettendo da parte qualsiasi auto-esaltazione e vanagloria; comporta che si accetti con rassegnata pazienza che gli altri siano superiori a noi e che non si venga presi in considerazione per i nostri meriti, per i nostri incarichi, per le nostre mansioni, in qualsiasi campo o dimensione essi si verifichino.
L'umiltà si affina nell'umiliazione di quando si accettano le altrui ingiustizie e le altrui cattiverie con mitezza, senza ricorrere a comprensibili repliche o rivendicare diritti sacrosanti.
Tutto questo è certamente molto difficile, e – salvo i santi – tutti noi siamo in profonda difficoltà non solo per realizzarlo in prima persona, ma anche solo di pensarlo.
Eppure è proprio in questa prospettiva di umiltà e di umiliazione che possiamo incontrare la vera serenità di spirito e la pace interiore...

In questa prospettiva il cielo della nostra vita ci appare decisamente chiuso: una prospettiva decisamente limitata, oscura, invivibile; ma così doveva apparire anche a Gesù, quando si mise umilmente in fila con gli altri peccatori sulla riva del Giordano.
Ma Gesù non disse: “non è giusto!”. Come al contrario diciamo noi regolarmente quando ci imbattiamo in qualche contrarietà.
Glielo disse invece Giovanni, che non voleva battezzarlo perché non era giusto che il Messia fosse messo allo stesso piano degli altri peccatori.
Ma a Giovanni Gesù non diede ascolto: “Lascia fare per ora, poiché conviene che così adempiamo ogni giustizia”.
E cioè: Gesù si mette in cammino come tutti gli uomini; ma a differenza di tutti gli altri uomini, Gesù non pretende di capire subito tutto; non pretende di liquidare subito ogni ingiustizia; non pretende di cancellare subito ogni peccato.
Non capisce per esempio perché Lui, Dio, debba farsi battezzare da Giovanni; e tuttavia si mette in cammino, fidandosi solo della volontà del Padre, sicuro che essa condurrà tutto a compimento.
“Lascia fare per ora...”: e cioè, non preoccuparti di giudicare subito quello che è giusto e quello che non è giusto; non preoccuparti di dividere in fretta la tua vita da tutto quello che accade in questo mondo ingiusto; non preoccuparti, ma mettiti subito in cammino, anche tu con umiltà, obbediente alla volontà del Padre. Perché soltanto questa umiltà e questa obbedienza ti permetteranno di squarciare il cielo, e di respirare finalmente in pienezza.
Seguiamo dunque Gesù, in tutto, anche attraverso la croce, perché Egli è “colui che attraversa i cieli”, come dice La Lettera agli Ebrei (4,14). Si, fratelli: Egli è veramente Colui che attraversa i cieli, Colui che ci apre finalmente i cieli radiosi: e li apre per lui, per noi, per tutti.