mercoledì 31 ottobre 2007

4 novembre 2007 - XXXI Domenica del T.O.


Oggi, la salvezza in casa tua.

Zaccheo è un manager scaltro, riuscito: ha fatto soldi a palate, grazie all'appalto delle tasse dall'invasore romano. Un usuraio, diremmo oggi, un furbo senza scrupoli come i caimani della nostra attuale finanza: al centro di tutto il solo profitto, il guadagno: il resto è relativo.
Zaccheo è rispettato, temuto dai suoi concittadini: basta un suo gesto e i soldati romani intervengono; forse, nella sua spregiudicatezza si sarà pure vendicato delle prese in giro, dei sorrisetti di compassione, a causa della sua statura. Si, perché Zaccheo è rimasto basso, piccolo; contrariamente alla sua ricchezza e al suo potere; e ora, coloro che lo irridevano, abbassano lo sguardo quando lo incrociano. Ma è rimasto solo. La ricchezza e il potere sono avari di amici e di gratuità.

Zaccheo ha sentito parlare del Galileo, quel tale Nazareno che la gente crede un guaritore, un profeta. Si dice che passerà da Gerico, l'antichissima città che sorge sulle rive del Mar Morto. Zaccheo è dunque piccolo: di statura, certamente, ma soprattutto di cuore, e per vedere Gesù deve salire su un albero. Meglio, così potrà vedere senza essere visto... Ha una vita di fede, Zaccheo? Non ci viene detto ma, a naso, possiamo dire che Dio non è il suo principale problema. C'è movimento, la folla si agita, vede le braccia che si alzano al cielo, le grida dei bambini. Stringe gli occhi, ora lo vede, il Nazareno è proprio lì, a qualche metro da lui. E accade l'inatteso: Gesù lo stana, lo vede, gli sorride: scendi, Zaccheo, scendi subito, vengo da te.
Zaccheo è interdetto: come fa a conoscere il suo nome? Cosa vuole da lui? Forse lo ha confuso con qualcun altro? Non importa, Zaccheo scende, di corsa.
Perché? Il fascino di Gesù lo ha riempito? Intuisce qualcosa?
Una cosa lo colpisce: Gesù non giudica, né teme il giudizio dei benpensanti di ieri e di oggi: vuole andare in casa sua; si ferma da lui, gli porta salvezza.
Zaccheo è confuso, turbato, vinto: in dieci minuti la sua vita è cambiata, il famoso Jeshua bar Joseph è venuto a casa sua.
Si sente rovesciato come un calzino, Zaccheo.
Si, perché Gesù cercava lui; non si è sbagliato di persona. Voleva proprio lui, non c'è dubbio. Gesù non ha posto condizioni, è venuto a casa di un peccatore incallito. A questo punto Zaccheo fa un proclama che lo porterà alla rovina (restituisce quattro volte ciò che ha rubato!), ma che importa? È salvo ora. Non più solo sazio, solo temuto, solo potente.
No, è salvo, è discepolo. Lui, temuto ed odiato, ora è finalmente discepolo. Che grande è Dio!

Zaccheo siamo noi: travolti dal delirio quotidiano, concentrati a riuscire, frustrati perché non riusciti.
Zaccheo siamo tutti noi che diamo retta alle sirene che ci stanno intorno, sirene che ci chiedono sempre di più, sempre il massimo: a casa, al lavoro, nella carriera, nell'aspetto fisico.
La fede non ci importa poi molto: sì, un po' di curiosità, qualche spolveratina di spiritualità orientale, o di New Age, che tratta Dio come una serva e mette noi, l’io, l’ego, sempre al centro dell'universo.
Eppure Dio ci ripesca proprio lì, dove crediamo di essere arrivati. Dio ci stana, ci rincorre, ci tampina. Perché ci ama, davvero: Lui sì ci ama come siamo!

Prima di tutto è Lui che ci cerca, è Lui che prende l'iniziativa. Noi cerchiamo, quando cerchiamo, Colui che ci cerca.
Come sempre, quando meno ce lo aspettiamo, arriva la crisi esistenziale: perché siamo al mondo? A cosa serviamo? Dove andiamo a finire? A chi va quello che abbiamo accumulato? Cosa abbiamo fatto di buono? Cosa c'è dopo la morte? E tutto il resto… Quando cominciamo a farci di queste domande non le fermiamo più. Bisogna trovare delle risposte, una per volta. La matassa è ingarbugliata, la testa va in ebollizione, i vecchi ragionamenti non tengono più, ci ritroviamo nella nebbia fitta senza il senso dell'orientamento. L'età cresce, l'epoca dei colpi di testa è crollata e nelle mani ci troviamo un pugno di mosche! Che momenti drammatici!
C'è chi si dà all'alcool, chi alla droga, chi ad emozioni di ogni tipo, chi pensa al suicidio!
Ma Gesù non ci giudica... Egli ci aspetta.
Da qualche parte Egli passa, e per ogni piccolo uomo come noi c'è una pianta per arrampicarsi per vederlo passare e poi iniziare a scendere a terra, nella vita normale, nella quale e per la quale Gesù vuole essere il nostro Salvatore. Smettiamola di correre da maghi, guaritori, cartomanti, imbonitori, truffatori, anche se hanno lo studio pieno di santi, madonne, crocefissi, candele; liberiamoci dal giogo di chi ci sfrutta, ci succhia i soldi e la vita. Andiamo da chi può dirci: Oggi la salvezza entra nella tua vita, perché hai scoperto che sei figlio di Dio.

L'amore di Dio precede la nostra conversione. Dio non ci ama perché siamo buoni ma, amandoci, ci rende buoni.
Gesù non chiede: dona, dona senza condizioni. Se Gesù avesse detto: "Zaccheo, so che sei un ladro: se restituisci ciò che hai rubato quattro volte tanto, vengo a casa tua", credetemi, Zaccheo sarebbe rimasto sull'albero. No: Dio precede la nostra conversione, la suscita, ci perdona prima del nostro pentimento, e il suo perdono ci converte: è talmente inaudita e inattesa la salvezza, che ci porta a conversione. Eccoci dunque fratelli: è arrivato il nostro momento.
Chi vuole seguire Gesù si decida, scenda dall'albero, si schieri.
Non importa chi egli sia, né quanta strada abbia fatto o che errori porti nel suo cuore.
Non importa se scruta il passaggio di Gesù soltanto per curiosità. Non importa nulla di nulla: perché oggi, oggi stesso, in questo momento, Lui vuole entrare nella sua casa.

martedì 9 ottobre 2007

28 ottobre 2007 - XXX domenica del T.O.

Guardarsi dentro
La preghiera è una questione di fede: credere che il Dio che invochiamo non è una specie di sommo organizzatore dell'universo che, se da noi corrotto, potrebbe anche concederci ciò che chiediamo. Dio non è un potente da blandire, non un sottosegretario da cui farsi raccomandare, ma un padre che sa ciò di cui abbiamo bisogno. Se la nostra preghiera fa cilecca, sembra suggerirci Gesù, è perché manca l'insistenza, o manca la fede. Oggi, con la parabola del pubblicano e del fariseo, ci viene suggerita un'altra pista di riflessione.
I due personaggi, il fariseo e il pubblicano, sono due modi diversi di essere discepoli.
Modi molto diversi. Il fariseo - leggete - dice il vero, tutto sommato: vive la fede con entusiasmo, pratica la giustizia, è un fedele modello, e sa di esserlo. Prega anche nel modo giusto: ringrazia Dio, subito, prima di chiedere qualcosa. Ma presume d'essere giusto e disprezza gli altri, ha un nemico, fuori di sé. Guarda con disprezzo il pubblicano (che è davvero peccatore!) e ne prende le distanze. Il pubblicano - invece - non osa alzare lo sguardo: conosce il suo peccato, non ha bisogno di fare l'esame di coscienza: glielo ha già fatto il fariseo! Solo chiede pietà. Succede anche a noi: facciamo fatica a guardarci dentro con equilibrio. Fatichiamo a non deprimerci nei momenti di difficoltà, in cui emergono più evidenti i nostri limiti e i nostri difetti. Fatichiamo a non tentare di mostrare il nostro "meglio" quando stiamo con gli altri. Ma soprattutto fatichiamo a paragonarci agli altri in maniera serena. Se capissimo di essere unici, imparagonabili! Se sapessimo amarci come Dio ci ama, senza eccessi! No, non abbiamo bisogno di guardare al peggio o al meglio di chi sta intorno per esaltarci o deprimerci, specialmente nella fede. L'errore del fariseo è questo: è giusto e sa di esserlo, ma non ha compassione né misericordia. Misericordia e compassione che - invece - Dio ha verso il pubblicano, che esce cambiato. Ecco una buona battaglia per noi discepoli: l'equilibrio in noi stessi: senza trovare colpevoli "fuori", senza autolesionismo depressivo. Consapevoli della nostra fragilità e della nostra grandezza, perdonati che sappiamo perdonare, pacificati che sappiamo pacificare.
Tutti dobbiamo avere il coraggio di fare un passo indietro! Di scendere dal piedistallo che ci costruiamo per crescere in umanità e verità! Il nemico è dentro, non fuori. È il nostro egoismo, la parte peggiore di noi, che deve essere illuminata dal Vangelo; è scoprire l'altro, accoglierlo e accoglierci. Iniziamo a costruire la pace dall'unica persona su cui abbiamo influenza: noi stessi. Quanta più armonia ci sarebbe nella coppia con un po' più di umiltà e verità, con qualche "scusami" in più...
E la Chiesa, comunità di credenti, è popolo di perdonati, non di perfetti. Le paranoie, le prese di distanza dalla Chiesa che sentiamo in giro (non vado più a quella messa perché Tizio è veramente insopportabile; non mi va di incontrare Caio perché in chiesa si dà un sacco di arie... ma scusate, ma di quale "chiesa" si tratta? Giusto di quella che immaginiamo nella nostra testa!), il più delle volte si basano su questo equivoco di fondo: il mio fratello che si professa cristiano, deve essere irreprensibile, deve essere “santo”… dentro e fuori la chiesa! È vero. Ma solo in parte. E non facciamo gli ipocriti! Il cristiano è e resta peccatore, ma è un peccatore toccato dalla tenerezza del perdono. E come tale, con grande umiltà, deve comportarsi...
Noi tutti ci troviamo in chiesa non per lucidarci l'aureola, o per guardare in cagnesco i fratelli che non riteniamo alla nostra altezza.
Ma ci troviamo tutti insieme per celebrare coralmente quella misericordia divina che ci ha cambiato.
Non è splendido?

21 ottobre 2007 - XXIX domenica del T.O.

Troverò la fede sulla terra?
Di interrogativi Gesù ne ha posti a sufficienza, nel suo ministero. Ma quello di oggi ci fa veramente pensare. Gesù, con un velo di tristezza chiede: "Quando tornerò, ci sarà ancora fede sulla terra?". Attenzione, non dice: "Ci sarà ancora un'organizzazione, la gente andrà ancora a Messa, si farà ancora l'elemosina?". No, Gesù è angosciato perché vede che, troppe volte, la nostra religione è senza fede, la nostra preghiera è senza fede, la nostra lotta per un mondo diverso è senza fede. Davanti al grido della vedova invadente che chiede giustizia, simbolo del grido dell'oppresso di tutti i tempi, la fede vacilla.
Come può Dio permettere la sofferenza, la guerra, la malattia? Davanti agli avvenimenti che percepiamo "ingiusti", la nostra fede vacilla, retrocede. Il dubbio ottenebra il nostro cuore, perché credere è difficile. La sofferenza dell'innocente è e resta la più grande obiezione dell’uomo della strada alla bontà di Dio: intuisce che sotto sotto c'è una risposta, ma gli sfugge.
La sofferenza che esiste nel mondo, più che mettere in discussione Dio, coinvolge e responsabilizza ciascuno di noi. Noi facciamo le guerre e Dio le deve fermare! Bella pretesa!Al grido dell'oppresso, davanti alla violenza, davanti agli uomini che si massacrano, gridiamo: "Dio dove sei?" E Dio ci risponde: "Tu dove sei?". Il Signore ci ha consegnato un mondo che potrebbe essere un capolavoro di misericordia e di fraternità. Noi lo abbiamo ridotto a un covo di malfattori, di indifferenza, di ingiustizia. La nostra preghiera, spesso, cade nel vuoto perché, semplicemente, non facciamo nulla perché si realizzi. Dio infatti fa prontamente giustizia, afferma Gesù alla fine della parabola della vedova... Sì, mi fido, lo credo! Stento a capire, ma mi ci metto, ci sto, lavoro!
Devo credere in un mondo in cui la giustizia inizia dal mio cuore, per poi uscirne e contagiare il mondo. Nella lotta per la giustizia, per creare spazi e luoghi di amore solidale, abbiamo bisogno di fede per pregare, abbiamo bisogno di costanza per tenere le braccia alzate durante la battaglia. Solo la preghiera autentica, profonda, incarnata, ci può sostenere nella conversione del mondo che parte da me. Non esiste dualismo tra vita interiore e impegno sociale: l'uno scaturisce a approda all'altro. Un mondo che cambia necessita di interiorità; un'interiorità che non diventa impegno, è sterile devozione. Nella lotta della vita, dobbiamo osare la preghiera.
Mosé che tiene le braccia alzate, per far vincere il suo popolo, è l'immagine di come la preghiera ci porti in una dimensione nuova, capace di vincere la lotta della vita.
Chiediamoci se l'insistenza della vedova è la nostra insistenza, se la sua costanza è la nostra, quando si tratta di rendere giustizia, di dare una testimonianza di trasparenza nel nostro essere "prossimo". C'è purtroppo il rischio di stancarci, per strada, c'è il rischio di lasciar cadere le braccia, perché stanchi di pregare.
Allora, com'è successo a Mosé, saranno i fratelli vicini, quelli della nostra comunità, ad aiutarci a tenere alzate nella preghiera le nostre braccia.
La dimensione comunitaria, che ancora tanto dobbiamo scoprire, è questa volontà, questa capacità di camminare insieme, di lasciarci anche trasportare dalla preghiera della Comunità. L'Eucarestia, allora, diventa il momento in cui ci raduniamo per tenere le braccia alzate gli uni per gli altri, e invocare la benedizione di Dio su noi e sul nostro cammino.
Allora potremo rispondere al Signore Gesù convintamente: "Signore, oggi se verrai, troverai ancora fede sulla terra.
Si, Signore: la mia, quella della comunità in cui vivo, quella di altri milioni di fratelli sparsi nel mondo".

14 ottobre 2007: XXVIII domenica del T.O.

Essere guariti non significa essere salvati (Lc 17, 11-19).
Dei dieci lebbrosi, uno di loro è samaritano: la sofferenza li accomuna. Gli ebrei consideravano i vicini samaritani "cani bastardi" e come tali venivano trattati. Eppure qui tutti gridano ma, una volta guariti, le differenze tornano (mistero dell'umana fragilità!): nove vanno al Tempio e il samaritano, di nuovo solo, senza un Tempio in cui essere accolto, corre dal Tempio della gloria di Dio che è Gesù.
I nove ingrati sono la perfetta icona di un cristianesimo molto diffuso, che ricorre a Dio come ad un potente guaritore da invocare nei momenti di difficoltà. Che triste immagine di Dio si fabbricano coloro che a lui ricorrono "quando c'è bisogno", che lasciano Dio ben lontano dalle loro scelte, dalla loro famiglia, salvo poi arrabbiarsi e tirarlo in ballo quando qualcosa va storto nei loro (badate, non nei suoi) progetti.
I nove sono guariti: hanno ottenuto ciò che chiedevano, ma non sono salvati. Rimasti chiusi nella loro parziale e distorta visione di Dio, guariti dalla lebbra sulla pelle, non vedono neppure la lebbra che hanno nel cuore. Il Dio che hanno invocato è il Dio dei rimedi umanamente impossibili, non il Tempio dell’Amore in cui abitare; è il Potente da corrompere e convincere, non il Dio che, nella guarigione, testimonia che è arrivato il tempo della vera salvezza. Che triste idea di Dio hanno questi lebbrosi! Una visione della fede superstiziosa e magica, che accusa Dio delle nostre malattie, che mette Dio alla sbarra, accusandolo. La malattia e la morte ricordano al nostro mondo contemporaneo, perso nel delirio di onnipotenza, che siamo creature fragili, che, come gli alberi e gli uccelli del cielo, viviamo la nostra vita come un soffio, che il nostro corpo è mortale. Ma il faggio e il passerotto, quando arriva l'autunno, accettano la propria condizione serenamente, sapendo di far parte di un immenso disegno d'amore e che la morte non è una condizione definitiva. L'uomo, invece, la rifiuta. La malattia può allora diventare, paradossalmente, la porta attraverso cui entriamo nel nostro ricco mondo interiore. Davanti alla sofferenza, come i due ladroni sulla croce, possiamo bestemmiare Dio accusandolo di indifferenza. O accorgerci che sta morendo accanto a noi. Cadere nella disperazione. O cadere ai piedi della croce. Basta la salute? Certo, la salute è bene prezioso, e va conservato, con uno stile di vita salubre ed armonioso, ricordandoci che la pace del cuore di chi incontra Dio e scopre il proprio progetto di vita, apporta anche benessere psicofisico profondo. Ma non è vero, non basta la salute, ci necessita la felicità. Gesù ci dice che la salute non è tutto, più della salute c'è la salvezza. Vi sono malati relativamente felici e pieni di Dio, e giovani in piena forma che si buttano via nella droga. La salvezza è un benessere più profondo, assoluto, uno scoprirsi al centro di un Progetto d'amore... La gratitudine, la festa, lo stupore, sono atteggiamenti connaturali all'uomo, eppure manifestati troppo poco nella nostra vita. Siamo tutti molto lamentosi, sempre pronti a sottolineare il negativo che pesa come un macigno nelle nostre bilance. Diamo tutto per scontato: è normale esistere, vivere, respirare, amare; normale e dovuto nutrirsi, lavarsi, abitare, lavorare... Il nostro sguardo, un po' assuefatto dalle troppe cose scontate e dovute, non sa più aprirsi alla gratitudine. Come sarebbe bello veder uscire dalla chiesa - almeno ogni tanto! - qualcuno che torna a casa sua lodando Dio a gran voce... Come sarebbe bello vedere più sorrisi sulle labbra dei cristiani, più lode nelle loro preghiere, più gratitudine nei gesti di coloro che, guariti dalle loro solitudini interiori e dalla lebbra che è il peccato, sono anche salvati e fatti Figli di Dio. Un sano esercizio alla lode dovrebbe essere insegnato ai giovani, non come pesante moralismo ("i giovani d'oggi hanno tutto"), ma come educazione allo stupore.
Andiamo tutti insieme, giovani e non, con fede dal Signore, per guarire da ogni lebbra, da ogni malattia del corpo e dello spirito.