giovedì 19 novembre 2020

22 Novembre 2020 – XXXIV Domenica del T. O. - Cristo Re dell’Universo

“Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria, e tutti gli angeli con lui, siederà sul trono della sua gloria” (Mt 25,31-46).

 Con questa domenica si conclude l’anno liturgico, e come meditazione finale, la Chiesa ci propone la visione apocalittica di Gesù Cristo, Re dell’Universo, attorniato dai suoi angeli, che giudica tutti i popoli. È il giudizio universale, quel giudizio che tutti cerchiamo di minimizzare, di annullare dalla nostra mente, perché a tutti, inutile negarlo, incute una certa preoccupazione.

Di fronte a tale scenografia restiamo sconcertati ed interdetti. Il clima è cupo, la visione di questo giudice implacabile - come il possente Cristo di Michelangelo della cappella Sistina - fa decisamente paura. Cos’ha a che vedere questa pagina con il Gesù dolce e misericordioso del resto del vangelo? Matteo si è sbagliato? O ci sbagliamo noi continuando a professare un Dio dal volto amoroso e compassionevole?

Si tratta invece di due immagini, quelle di Gesù, che solo apparentemente sono in contrasto tra loro.

Prima di tutto la qualifica di “Re” attribuita a Cristo: una denominazione altisonante, maestosa, che mal si adatta a quel Gesù, umile e remissivo, Padre innamorato, Pastore sollecito, che siamo abituati a vedere attraverso la Parola: un Re che entra nella sua città cavalcando non un nervoso destriero bianco, ma un tranquillo e lento somaro; un Re che si mette a lavare i piedi dei suoi sudditi; un re che svalorizza il potere umano, invitando tutti indistintamente a farsi servi degli altri; un re che invece di dire ai suoi “amatemi”, li esorta con “amatevi gli uni gli altri”; un Re contestato e deriso, un Re sconfitto più di tutti gli sconfitti, fragile più di ogni fragilità. Un Re senza trono e senza scettro, appeso nudo ad una croce, un Re che per essere identificato ha bisogno di un cartello, un Re senza potere se non quello devastante dell’amore. Che c’è di “regale” in tutto questo?

C’è poi la figura di questo giudice incorruttibile e severo, che siede sul suo trono per valutare, premiare e condannare: e, guarda caso, lo fa proprio nei confronti di coloro che Lui stesso ha talmente amato da offrire la propria vita per loro morendo sulla croce.

Potrebbe dunque sembrare una contraddizione, ma non lo è: perché la Chiesa, buona conoscitrice delle necessità dei suoi figli, con questa festa di “Cristo, Re dell’universo”, ci vuol ricordare una grande realtà, un valore importantissimo, una verità fondamentale: che Gesù - per noi eletti, noi figli, noi sua Chiesa - rappresenta veramente tutto. Lui è l’essenziale, lo sposo, il testimone del Padre, il nostro intercessore presso Dio, il nostro avvocato. In una parola è il nostro “Re” indiscusso, il nostro Signore e Maestro, colui che dà misura e senso ad ogni nostra esperienza umana, che ci svela il mistero nascosto nei secoli.

Dire che Cristo è “sovrano” della nostra vita, significa riconoscere che solo in lui, con lui, per lui, ha un senso il nostro percorso di vita e di fede.

Ecco perché, alla fine dell’anno liturgico, è molto consolante ribadire con forza, tutti insieme come Chiesa, questa nostra convinzione, perché siamo stati noi che lo abbiamo eletto tale, noi che gli abbiamo detto “sì”; siamo stati noi a volere che fosse Lui a guidare la nostra vita di Chiesa e di discepoli, noi a volerlo nostro “unico rappresentante” di fronte al mondo.

Quindi, nessuna contraddizione se oggi la Liturgia ci presenta un “Re amoroso e misericordioso” e insieme un “Re giudice, giusto e inflessibile”; un re che Verifica minuziosamente la bontà delle nostre scelte di vita, la nostra coerenza su quanto gli abbiamo promesso: in una parola, se siamo stati o no all’altezza del suo amore, donando anche noi amore agli altri.

Gesù durante la sua vita terrena non ha mai “giudicato”; e non lo farà neppure allora. Dio non giudica, Dio “svela”. Dio cioè rivelerà davanti a tutti quello che noi abbiamo tenuto nascosto, quello che volutamente abbiamo lasciato nell’ombra, nell’incompiuto.

Il suo “giudizio”, il giudizio di questo Re misericordioso, consisterà quindi semplicemente nel rendere pubblica, nello svelare la reale situazione di ciascuno, nel portare tutto a galla, allo scoperto: non ci sarà più alcun angolo buio nel nostro cuore; nulla potrà più rimanere ancora nascosto nell’ombra. Quel giorno tutto “apparirà” nel vero senso della parola, tutto sarà chiaro, tutto illuminato.

E ognuno saprà da solo, senza bisogno di sentenze, se andare alla destra o alla sinistra del Re.

Ma in base a quale “codice” verrà valutata la nostra fedeltà? Il vangelo di Matteo elenca in proposito, con una insistenza quasi puntigliosa, una serie di “situazioni”, come avere fame, avere sete, essere forestieri, nudi, malati, carcerati; situazioni tutte che prevedono “azione”, che esigono cioè da parte nostra un intervento reale, che non si ferma alle belle parole, ma che è azione, interessamento, preoccupazione. In una parola, significa mettere concretamente a disposizione del prossimo il nostro amore.

È questo il “tesario” su cui alla fine saremo esaminati: non ci verranno richieste grandi azioni, eroiche imprese, perlopiù impossibili, ma piccole cose, una buona parola, una fraterna condivisione, uno slancio di carità, un sostegno morale… Qualunque cosa, purché non rimanga un vago desiderio, perché “tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”.

È questo l’unico elemento su cui poggia il verdetto finale, lo stare alla destra o alla sinistra del Re: l’aver fatto tutto personalmente a Lui.

Una domanda accorata però sgorga a questo punto da entrambe le schiere: chiedono una spiegazione: “Quando Signore? Quando mai ti abbiamo incontrato?

Già, “quando?”. Nessuno di loro se n'era mai accorto della sua presenza; nessuno aveva mai capito di aver avuto davanti a sé non delle persone bisognose, ma Dio stesso in persona! Non ci avevano mai pensato. Sì, perché Dio non è visibile a occhio nudo, non è riconoscibile, non è individuabile; è in incognito, è misterioso: e quindi tutti, sia gli eletti che i dannati, lo hanno amato o rifiutato senza rendersene conto: gli uni amando la persona hanno in lei amato Dio, pur non vedendolo; gli altri, rifiutando di amare la persona, hanno rifiutato anche Dio.

Amare Dio, quando si ama il prossimo, è un amarlo inconsapevolmente, istintivamente. I santi sono tali proprio perché amando il prossimo amavano Dio, lo amavano senza sapere di amarlo, senza sapere di ottenere per questo dei meriti divini. Se amassimo qualcuno, sapendo di ereditare le sue ricchezze, in realtà non lo amiamo, lo stiamo solo usando per un nostro tornaconto. La stessa cosa succede quando amiamo il prossimo allo scopo di avvicinarci a Dio, per ottenere da Lui dei meriti! Anche in questo caso noi “usiamo” qualcuno. L’amore non va mai strumentalizzato, finalizzato; mai, in nessun caso. Neppure per arrivare a Dio. Quindi, non “dobbiamo” amare il prossimo per “amare Dio”; il prossimo, il fratello, va amato per sé stesso, lo dobbiamo sentire nell’anima, ci deve penetrare dentro, deve toccarci il cuore.

Una preoccupazione costante del cristiano è di sapere se Dio gradisce ciò che lui fa, se è considerato meritevole del paradiso, se la sua bontà gli porta frutto, e via dicendo.

Ma non lo saprà mai, perché Dio non è “visibile” in questo mondo, non si dispone di riscontri immediati: per cui amarlo senza vederlo, amarlo nell’altro, nel prossimo, nello sconosciuto, nell’uomo della porta accanto, senza sapere di amarlo, è decisamente molto più difficile e impegnativo.

Questo è un insegnamento importante del vangelo di oggi: ma il messaggio non si esaurisce qui: lo stesso impegno, la carità, che dobbiamo avere verso il prossimo, dobbiamo averli anche verso noi stessi; dobbiamo cioè soddisfare, oltre quelli degli altri, anche i nostri “bisogni”. Sì, perché anche a noi succede spesso di sentirci affamati, assetati, bisognosi di nutrirci, di abbeverarci.

Chi di noi, infatti, non ha fame d’amore? Chi di noi non ha sete di dolcezza? Chi di noi può dire: “Io basto a me stesso! Non ho bisogno di nessuno?”. Solo un idiota, un pazzo, un esaltato. Ecco perché non va mai sottovalutata la necessità di ottenere amore, tenerezza, affetto, comprensione; di stare con persone che ci amano, che ci apprezzano, che ci stimano, che hanno fiducia in noi.

L’amore è come la ricarica per il telefono, la benzina per l’auto, il cibo per il corpo. Non se ne può fare a meno. Non possiamo lavorare, faticare, correre in continuazione, e pensare di poter resistere senza alcuna ricarica.

Ascoltiamo dunque i bisogni del nostro cuore, della nostra anima: ascoltiamoli attentamente perché può capitare di sentirci anche forestieri e carcerati; di sentirci circondati da un mondo ostile, estranei a tutti e a tutto: ed è in questi momenti, che anche noi abbiamo bisogno di accoglienza, di un consiglio, di una buona parola, di condivisione.

Invece spesso ci teniamo tutto dentro. Neghiamo a noi stessi di aver bisogno di aiuto. Siamo così orgogliosi da scegliere di star male, piuttosto che ammettere la nostra debolezza.

Se ci sentiamo tremendamente soli, forse siamo noi che non vogliamo nessuno vicino a noi. Se talvolta gli altri non ci amano, forse è perché siamo noi che non vogliamo farci amare! Investire nel nostro orgoglio non ci ripaga mai.

Se poi ci guardiamo allo specchio dell’anima, può succedere di vederci completamente nudi, indifesi, di vederci cioè realmente per quelli che siamo, al di là di tutte le maschere e i camuffamenti con cui ci travisiamo, e ci assale un senso di rifiuto per noi stessi. Non ci vorremmo così; ci vorremmo diversi; ci vorremmo migliori; vorremmo non vivere certe esperienze, non seguire certe iniziative.

È difficile, ma dobbiamo accettarci così, capire che dobbiamo fare i conti con la nostra fragilità, che possiamo spiritualmente ammalarci e avere bisogno di aiuto; che in questi casi dobbiamo ricorrere a qualche “medico”, che illumini le nostre ombre: sì, perché quando il nostro cuore si irrigidisce, quando si rifiuta ad aprirsi, abbiamo bisogno di un “medico”; quando la nostra mente insiste nella ripetizione maniacale di certi schemi, allora abbiamo bisogno di un “medico”; quando la nostra anima non riesce più a vivere, a gioire, a stupirsi, abbiamo bisogno di un “medico”; quando la nostra coscienza fa fatica a perdonarci, soprattutto allora abbiamo bisogno di un “medico”. Non possiamo vivere prescindendo da Dio e di risolvere tutto da soli. Non possiamo pensare di essere onnipotenti e di bastare a noi stessi. Non possiamo essere così stupidi da pensare di non aver alcun bisogno di Dio.

È una faccenda seria: perché alla fine dei tempi, davanti a Cristo, Re dell’universo, dovremo dare spiegazioni sulle nostre scelte, sulle nostre decisioni, sull’intera nostra vita.

Con quale risultato definitivo? “I maledetti al supplizio eterno, i giusti alla vita eterna!”Non c’è alternativa.

Mettiamo allora da parte la nostra bella “agendina” su cui annotiamo puntigliosamente le ore di preghiera, le messe, le confessioni, le opere buone, i sacrifici fatti con cristiana rassegnazione; nonché tutte le eventuali giustificazioni, qualora Dio fosse più esigente di quanto ci è stato detto. Mettiamo da parte tutti i nostri bei discorsetti. Perché il Signore ci chiederà soltanto se lo avremo riconosciuto nel povero, nel debole, nell'affamato, nell'anziano abbandonato, nel parente scomodo. Abbiamo capito bene: l’esame finale sarà tutto sulla carità: se cioè abbiamo dispensato amore, e con che “cuore” l’abbiamo fatto.

La nostra messa domenicale, non può, non deve, a questo punto, esaurirsi in Chiesa: deve continuare fuori, nella vita quotidiana. Perché solo così la preghiera, l'eucarestia, la confessione, diventano strumenti di comunione e di amore con e per Cristo e tra di noi; solo così potremo fare della nostra vita il luogo della carità. Nel lavoro, nello studio, a scuola o all’università, nei lavori di casa o in ufficio, per strada, a piedi o in macchina: è qui che noi ci salveremo. Ma solo, e sottolineo solo, se sapremo portare il nostro amore dall’interno all’esterno, dal vicino al lontano, se sapremo riconoscere il volto di Cristo nel volto di chi incontriamo ogni giorno.

Viviamo così e non preoccupiamoci d’altro. Ma viviamo così da subito, immediatamente; perché in quel giorno, che arriverà all’improvviso, non avremo più tempo per far nulla, “actum est”, tutto sarà già compiuto: e solo se avremo amato Dio veramente, se saremo diventati trasparenza della sua misericordia, testimoni credibili del suo amore, verremo accolti tra le braccia di Cristo, nostro Re e Signore. Amen.

 

giovedì 12 novembre 2020

15 Novembre 2020 – XXXIII Domenica del Tempo Ordinario

“Avverrà come a un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, secondo le capacità di ciascuno” (Mt 25,14-30).

 La parabola è semplice: c’è un padrone che prima di partire per un viaggio affida una certa somma ai suoi tre servi, perché la facciano fruttare durante la sua assenza. Due di essi, molto attivi, si danno subito da fare, e investono con profitto il capitale; il terzo, al contrario, preso dallo sgomento e dalla paura di perdere il solo talento ricevuto, pensa bene di nasconderlo sotto terra piuttosto che capitalizzarlo.

Al ritorno del padrone i primi due ricevono una ricompensa molto più sostanziosa di quanto guadagnato con il loro investimento, mentre il terzo viene condannato per la sua inoperosità e per la sua gestione negativa.

L’insegnamento che possiamo subito cogliere è ovviamente quello classico: “Metti a disposizione di Dio e del prossimo i tuoi talenti, le tue doti, le tue capacità, e datti da fare, investi con intelligenza questo capitale, in maniera che anche gli altri ne traggano beneficio; non trascurarlo, di qualunque entità esso sia; non nasconderlo senza far nulla, perché procureresti un grave danno a te e al prossimo”.

I “talenti” della parabola, sono infatti i doni, le potenzialità, i carismi che ognuno di noi in varia misura ha ricevuto gratuitamente da Dio: si tratta quindi prima di tutto di identificarli, e di metterli a frutto con la nostra vita pratica.

C’è da sottolineare in proposito che Dio, oltre ai doni classici, ai “talenti” personali, ci ha consegnato anche dei “valori” che in genere noi non apprezziamo sufficientemente, pur meritando tutta la nostra considerazione e la nostra attenzione.

Uno di questi valori importantissimi, per esempio, è la vita; un capitale incredibile e irripetibile, cui dobbiamo primariamente ogni nostra attenzione e cura: ci pensiamo mai a tanta responsabilità? Vogliamo forse buttar via, questa nostra vita, declassarla, svalutarla, preferendole un isolamento materiale e mentale nell’ignoranza, nell’autodistruzione, piuttosto che favorirne la crescita nei nostri ruoli, nelle nostre possibilità, nei nostri meriti, in vista del bilancio finale?

Un altro valore, altrettanto importante, è la libertà: ci è stata data la possibilità di essere sempre noi stessi, di assumerci la responsabilità delle nostre azioni, di coltivare idee nuove, di lottare per un “nostro” ideale; approfittiamo di questa opportunità per combattere e vincere, oppure preferiamo nasconderci, accomodanti e indolenti, accettando qualunque compromesso pur di evitare i giudizi della gente, cui abbiamo stupidamente demandato la gestione della nostra vita?

Altro talento da sviluppare è la verità: come la consideriamo? la cerchiamo caparbiamente, vogliamo trovarla, viverla, costi quel che costi, osando, rischiando se necessario anche la faccia? oppure preferiamo ignorare ottusamente l’evidenza, vivere nell’ignoranza, chiudere gli occhi della mente di fronte alla sua brillantezza, alla sua luce, alla sua chiarezza, perché la sua trasparenza ci incute troppa paura?

Altro “dono” è la nostra anima: un dono incalcolabile come la vita, cui è strettamente connessa, meritevole di altrettanto rispetto: è la nostra “essenza”, il nostro spirito vitale, il “soffio creatore” che Dio ci ha inalato quando ancora eravamo nel ventre di nostra madre.

L’anima: la nostra amica, la nostra consigliera, la nostra confidente. Come la trattiamo? Le dedichiamo tutte le nostre attenzioni, il nostro rispetto, la nostra venerazione, oppure la ignoriamo, la trascuriamo, la soffochiamo, per paura di confrontarci con Lui attraverso di lei?

I nomi con cui identificare questi e tanti altri talenti avuti in consegna da Dio, possono essere tantissimi: ma ciò che li accomuna, indipendentemente dalla loro quantità, è il nostro comportamento responsabile nei loro riguardi: riservando una cura costante, un impegno continuo, uno sviluppo attivo, propositivo: trattarli invece con un atteggiamento menefreghista, incurante, indifferente, significa relegare anche l’intera nostra esistenza all’indolenza, all’ignavia, alla codardia.

È esattamente da questa eventualità che dobbiamo prendere le distanze, per non ripetere l’errore del terzo servo, di colui che rinuncia in partenza a valorizzare il proprio talento.

Purtroppo è la storia di ogni uomo che non è spinto dall’amore ma dalla paura del suo Padrone e cerca in qualche modo di tutelarne la proprietà. Vuole essere certo di piacergli, e non si accorge che la paura lo costringe invece a fare scelte sbagliate per sé stesso e per la sua vita. Si interessa e vuol controllare tutto, è vero, ma lo fa solo per paura. Convinto di non saper affrontare e gestire la situazione, perde il controllo di tutto: chi nella vita cerca soltanto conferme e sicurezze, è un debole, uno che ha paura di sé stesso, uno che sicuramente finisce per fallire.

“Ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento”, è la giustificazione di quel servo. Una paura folle, determinata dalla sua insicurezza, dalla sua ignavia: un sentimento che, contrariamente all’amore e alla fiducia che aprono i nostri orizzonti, ci rinchiude ermeticamente in noi stessi. L’insicurezza infatti evita tutti, la fiducia li incontra. L’insicurezza crea diffidenza, la fiducia amore. L’insicurezza crea sospetto, pregiudizio, la fiducia complicità. L’insicurezza considera tutti dei nemici da combattere, la fiducia delle possibilità di nuovi incontri.

I servi operosi della parabola, infatti, non vengono ricompensati tanto per il guadagno in sé, ma soprattutto perché non hanno avuto paura, hanno dimostrato di essere sicuri, si son dati da fare, si sono aperti all’azione, hanno avuto fiducia in loro stessi e negli altri, hanno osato, si sono lanciati con entusiasmo nei loro progetti, coronandoli di meriti.

Definirci cristiani, significa allora progredire, migliorarci continuamente, ricominciare sempre da capo, non arrenderci mai; vivere intensamente, senza pause, senza soste, senza “intermezzi”; amare Dio e il prossimo deve essere la nostra unica prospettiva: in questo campo non esiste riposo: fino a quando c'è tempo e vita, dobbiamo produrre, lavorare per dare una risposta adeguata a Dio.

Vivere soltanto per cose banali, inutili, senza mai trovare il tempo per un incontro spirituale con Dio, con la nostra anima, per un atto di carità, per una condivisione col prossimo, significa disinteressarsi dei propri talenti, significa venir meno al nostro impegno di lavoratori nella vigna del Signore.

Non imitiamo il terzo uomo della parabola che si sente in regola nella sua inefficienza: noi credenti, dobbiamo invece perseverare nella fede, incrementare la carità, moltiplicare quegli utili che il Padre si aspetta da noi; dobbiamo insomma investire i suoi doni, i suoi “talenti, ovunque ci troviamo: in famiglia, nella società, negli ambienti in cui viviamo e lavoriamo: perché sarebbe un delitto imperdonabile perdere le continue occasioni che la vita ci offre per dimostrare al mondo intero che Dio è Amore. Amen.

 

  

giovedì 5 novembre 2020

8 Novembre 2020 – XXXII Domenica del Tempo Ordinario

 

“Il regno dei cieli sarà simile a dieci vergini che presero le loro lampade e uscirono incontro allo sposo...” (Mt 25,1-13).

 La parabola delle dieci vergini che aspettano lo sposo, ci invita a meditare sulle ultime ore della nostra vita, sulle realtà ultime veramente importanti, su quei doveri che sistematicamente tralasciamo. Dovremmo invece pensare più spesso e più seriamente che la vita presente un giorno finirà, che non viviamo su questa terra in pianta stabile, che la nostra è soltanto una presenza provvisoria.

Abbiamo ricordato, alcuni giorni fa, i nostri defunti, che ci hanno già preceduto là dove anche noi prima o poi dovremo andare. Sì, perché la vita è un passaggio: è il percorso da un punto di partenza ad uno di arrivo, dalla nascita alla morte; una realtà che vale indistintamente per tutti, nessuno escluso: giorno dopo giorno, il nostro nome sale inesorabilmente al primo posto sulla lista di quelli che vengono chiamati; siamo tutti in attesa del nostro turno per l’incontro finale con lo Sposo, il nostro Creatore e Signore.

“Attesa” e “Passaggio”: sono proprio queste due parole importanti che ci vengono proposte alla meditazione dal Vangelo di oggi.

“Vigilate, tenetevi pronti, perché non sapete quando il vostro Signore verrà”.

La nostra vita è dunque prima di tutto “attesa”. Una dichiarazione che apre a diversi interrogativi: attesa di chi? di che cosa? per quale motivo dobbiamo condizionarci la vita nell’attesa di qualcuno che arriva quando vuole lui? Certo, tra le tante nostre preoccupazioni quotidiane, quella di aspettare l’incontro finale con Dio non rientra certo tra le più urgenti. Anche se “attendere”, “aspettare”, rientra tra le categorie mentali più frequenti e comuni della nostra vita: tutti, in qualche modo, siamo in costante “attesa” che prima o poi si realizzi qualcosa che ci riguarda: un buon lavoro, una famiglia, la sistemazione dei figli, una vita serena. Per questo elaboriamo sempre nuove possibilità, ricaviamo esperienze, proviamo emozioni, superiamo difficoltà, addirittura ci struggiamo, pur di ottenere sempre il massimo, in vista di un domani migliore. Tutti ci aspettiamo un futuro in cui essere finalmente felici, soddisfatti, ricompensati per tutti i nostri sacrifici. È una cosa naturale, normalissima per chiunque.

Salvo poi, arrivati ad un certo punto, dover ammettere a noi stessi di aver fallito, di non aver ottenuto la completa realizzazione dei nostri sogni.

La delusione più amara arriva in particolare per chi ha investito la propria “attesa” soprattutto sull’apparire, sulla realizzazione della propria immagine, sul potere, sulla gloria, sul possedere. Ci accorgiamo di aver miseramente mancato il nostro obiettivo, di essere rimasti vittime delle gaudenti prospettive del mondo, delle sue continue trovate consumistiche, che con le loro lusinghe, ci hanno spinto in una obnubilante follia. E il rimorso per tale fallimento ci angoscia l’anima.

Noi cercatori di Dio, ancorché tiepidi, conosciamo bene la vera natura di quel malessere: sappiamo che non c’è nulla di più deprimente nella vita dell’uomo che la constatazione di essere rimasti sempre sordi alla “voce” di Dio, di aver tradito la sua fiducia, il suo amore, di aver trasformato l’attesa della sua venuta in totale “disattesa”. Per non aver saputo o voluto “aspettare”, come meritava, l’arrivo dello Sposo.

Abbiamo sbagliato, ce ne rendiamo conto: forse continueremo ancora a sbagliare, perché dimentichiamo facilmente che non è il “fuori”, il transitorio, il volubile, che può riempire la nostra anima, che può appagarla, saziarla. È il “dentro” che conta, è con la fede, con la generosità del nostro cuore, con la carità, con le opere buone, che possiamo riempire di “olio” il vaso di scorta del nostro cuore, assicurandoci un incontro con Dio luminoso e sereno.

Certo, la morte è per molti un pensiero lugubre e fastidioso. “Gli uomini, non potendo evitare la morte, hanno deciso di non pensarci. Ma è un rimedio ben misero!”, scriveva Pascal.

Per il pensiero edonistico moderno, infatti, la morte è tabù: meno se ne parla, meglio è.

E invece no; il Vangelo ci insegna che Dio ci ha creati e ci ha inviati nel mondo per contribuire a perfezionare questa sua meravigliosa creazione, con l’impegno di tornare, ultimato il nostro mandato, nella nostra Casa d’origine. L’importante è non farsi cogliere impreparati, ma in vigile attesa, indossando la “veste nuziale”, muniti di una buona scorta di “olio”, prodotto lungo il nostro “percorso” terreno.

Non consideriamo una sciagura l’arrivo dello Sposo! Prendiamolo invece con la gioia di un evento importante e decisivo, di un ritorno tra le braccia del Padre, sempre amorose e spalancate, consapevoli in cuor nostro di non aver sprecato questa “attesa” con un “percorso” scellerato.

A volte, purtroppo, pensiamo scioccamente di essere immortali: siamo convinti che, dopo i 60-70 anni, raggiunta la famosa e sudata “pensione”, saremo finalmente liberi di starcene tranquilli, di dare una svolta significativa alla nostra esistenza, di iniziare cose più piacevoli, più distensive, più divertenti. E in cuor nostro ci perdiamo in mille progetti. Ma siamo degli illusi! Per quante persone, purtroppo, questi progetti rimangono soltanto un miraggio, una fantasia! Null’altro che un sogno, cancellato dall’arrivo imprevisto e imprevedibile dello “Sposo”.

Non dobbiamo mai abbassare la guardia: perché il lavoro, le responsabilità, l’impegno, per raggiungere il Regno dei cieli non finiscono mai; in questo non c’è “pensione” che tenga!

Anzi, più gli anni passano, più dobbiamo impegnare seriamente il nostro tempo, consapevoli che l’arrivo dello Sposo si fa ogni ora più vicino.

Non serve più produrre per questo mondo, dobbiamo invece raccogliere per l’altro, per il Cielo; dobbiamo approfittare di questi giorni che il Signore ancora ci concede, per fare qualcosa di più importante, più decisivo perché il nostro incontro con Lui sia veramente meritorio. È vietato scommettere sul domani! Potrebbe non esserci un domani.

Ricordate come sono i giorni che precedono una partenza importante, un avvenimento da lungo atteso? L’eccitazione che cresce, la mente impegnata a ricordare le ultime cose da fare, le ore che scorrono freneticamente. Ecco, la nostra vita dovrebbe essere sempre così, carica di tensione, perché la nostra “partenza” finale da questo mondo, arriva improvvisamente, quando meno ce l’aspettiamo: “raptim”, scrive sant’Agostino, rapidamente, precipitosamente.

Non a caso il vangelo di oggi termina con la raccomandazione: “Vegliate”, “State svegli!”; a cui fa eco Luca, nel suo brano parallelo: “Estote parati!”, “Siate pronti!”.

Prestiamo allora la massima attenzione a questi inviti, non sottovalutiamoli, per non trovarci all’improvviso, proprio per la nostra superficialità, nella condizione di trovare la porta chiusa, di non venire riconosciuti dallo Sposo, e di rimanere chiusi fuori, lontani dallo splendore delle nozze e dalla calda Luce dell’Amore divino: una possibilità purtroppo concreta e reale. Amen.

 

 

giovedì 29 ottobre 2020

1° Novembre 2020 – Tutti i Santi

“Vedendo le folle, Gesù salì sul monte: si pose a sedere e si avvicinarono a lui i suoi discepoli” (Mt 5,1-12).

 Gesù non allontana le folle; Egli le ama, le richiama, e, in questo caso, addirittura le attira sul “monte” perché possano ascoltare, tranquillamente sedute, il suo messaggio.

Matteo non ci dice quale fosse questo monte: di certo non era un monte qualsiasi, ma “quel” monte, il Sinai, che tutti conoscevano anche senza nominarlo, perché su di esso Mosè aveva incontrato Dio ed aveva ricevuto da Lui il patto di Alleanza per il “suo” popolo.

Anche Gesù, come Mosè, sale su questo monte per dare a tutti i popoli la sua Nuova Alleanza.

Per gli antichi, i monti erano la dimora degli dei (pensiamo all’Olimpo): luogo sacro, luogo di terrore, di rispetto, di paura; con Gesù, al contrario, i “monti” diventano motivo di vita, di gioia, di trasfigurazione, luogo riservato all’incontro col Padre.

Gesù dunque sale su questo monte, e si siede: in greco è “kathìsantos”: più che sedersi, Gesù si “installa”, cioè si “mette nel suo posto esclusivo”, “prende possesso” della postazione riservata a Dio: Gesù, suo figlio, si siede quindi sul quel “trono divino” che gli compete, che gli spetta di diritto: è il suo “ambone” da cui proclamare la Parola, è la “cattedra” da cui impartire la sua lezione di “Maestro” divino.

“Gli si avvicinarono i suoi discepoli”: dopo averli “attirati”, perché è Gesù che “attira” anche loro, come fa con la folla. Il Dio di Gesù non è più un Dio scontroso, terribile e temibile, ma un Dio affabile che “attrae” tutti. Non è più un Dio da evitare, da allontanare, ma un Dio da incontrare, da avvicinare. Non un Dio vendicativo che punisce, ma un Dio che come una madre, ama tutte le sue creature. È un Dio che non pretende nulla di impossibile da noi, un Dio che al contrario è sempre pronto a dare Lui qualcosa a noi. Se pensiamo ad un Dio diverso, non stiamo seguendo il Dio del Vangelo!

Nella religione ebraica, prima della venuta di Gesù, le cose non stavano affatto così: per incontrare Jahweh nel suo Tempio, gli uomini potevano arrivare soltanto fino ad un certo punto: solo il sommo sacerdote poteva avvicinarlo, entrando, una volta all’anno, nella “sancta sanctorum”, la zona più interna e sacra vietata al popolo, in cui oltre a venir conservata l’Arca dell’alleanza, si riteneva che Dio fosse presente. Quindi tra Dio e il suo popolo c’era un “muro”, una netta separazione. Con Gesù, invece, tutto cambia, tutti possono avvicinarsi a Dio, confrontarsi con Lui, intrattenere con Lui un rapporto diretto. Per incontrarlo non esistono più impedimenti, non ci sono più prescrizioni o particolari condizioni (meriti; purità; peccato; sacralità, ecc.), non esistono più barriere.  

“Prendendo allora la parola li ammaestrava dicendo”.

Una volta sistemati i presenti, Gesù prende la parola e proclama otto “beatitudini”: perché otto? Perché nella simbologia del cristianesimo primitivo, il numero otto indicava la “risurrezione” (“l’ottavo giorno”): Gesù infatti è resuscitato il “primo giorno dopo la settimana” (una settimana di 7 giorni + 1-il giorno dopo = 8). Matteo, che scrive per la gente di origine ebraica, molto attenta alla simbologia, vuol far capire che chi vive le “otto” beatitudini, vivrà da “risorto”, vivrà per sempre col “Risorto”, vivrà cioè una vita che non potrà mai essere interrotta dalla “morte”; a differenza di coloro che, osservando fedelmente i comandamenti di Mosè, avevano sì assicurata in premio una “lunga vita” su questa terra, ma anch’essi dovevano poi morire come tutti, e scendere nello Sheol. La pratica delle beatitudini di Gesù assicura pertanto, a quanti la seguono, una vita che va oltre la morte: quella vita nuova e gloriosa dei “risorti” in Gesù, che vivranno eternamente nell’amore del Padre.

“Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli”.

È la prima beatitudine, e fa da premessa a tutte le altre: è la “conditio sine qua non” per poter concretizzare tutte le altre.

“Beati”, in ebraico “ascer”: sono coloro che vivono nella felicità Divina, quella felicità che è impossibile raggiungere su questa terra. Eppure, dice Gesù, Io vi dimostro che anche quaggiù, da subito, è possibile vivere decisamente felici, gioiosi, con la pace nel cuore, da “riconciliati”.

Dobbiamo essere però dei “poveri in spirito”; dobbiamo cioè vivere liberi da fini egoistici, da ogni condizionante preconcetto, da ogni egocentrismo; dobbiamo cioè possedere una mentalità aperta all’amore.

Gesù in sostanza pone come condizione prioritaria la nostra disponibilità a “riversare” concretamente sui fratelli quell’amore divinizzante che riceviamo dal Padre. Non si tratta quindi di limitarci ad una semplice elemosina materiale, ma di aprire completamente il nostro cuore e la mente a beneficio dei fratelli.

“Di essi è il regno dei cieli”. A tutti coloro che spendono il loro “spirito” per il prossimo, fino a diventare essi stessi “poveri”, è assicurato il regno di Dio. Da notare che Gesù usa qui un verbo al presente: non dice “sarà” ma “è”; in altre parole, siamo già “santi”, da subito; il regno dei cieli, l’amore del Padre, la nostra “vita” santificata” per l’eternità, sono già possibili da ora, a condizione che il nostro stile di vita rispecchi fedelmente le beatitudini.

Oggi è la solennità di tutti i Santi del Cielo: ma è la festa anche di coloro che sono “beati” già qui su questa terra, perché vivono la loro vita donando sé stessi. È la festa di quei beati che, sull’esempio di Gesù, vivono per amare, per far del bene al prossimo, per confortarlo nelle difficoltà, per guarirlo nelle ferite dell’anima, per sostenerlo nelle contrarietà della vita. Sono insomma “beati” perché amano.

“Amare” è un po’ come “creare” una nuova vita: è dare agli altri un qualcosa di noi stessi; un qualcosa che li faccia “rinascere”, un qualcosa per cui possano riconoscere quanto è grande l’amore di Dio per ognuno di noi.

È così che i “beati” della terra sono diventati i “Santi del cielo”; è così che anche noi possiamo diventarlo sul serio, creando, nel prossimo, nuovi motivi di vita, di gioia, di riconoscenza a Dio.

“Vuoi essere eternamente felice? Vivi così”, ci ripete oggi Gesù con la sua proposta evangelica: sta solo a noi accettarla, e riempire questo nostro “passaggio” terreno, di pace, di gioia, di amore, di serenità: in una parola, di Dio. Amen.

 

  

giovedì 22 ottobre 2020

25 Ottobre 2020 – XXX Domenica del Tempo Ordinario

“Uno dei farisei, un dottore della Legge, lo interrogò per metterlo alla prova: Maestro, nella Legge, qual è il grande comandamento?”              (Mt 22,34-40).

 Solita domanda provocatoria del “sapientone” di turno. Al tempo di Gesù erano 613 i precetti della Torah, la Legge mosaica: 365 negativi e 248 positivi. Stabilire quale fosse il più importante era praticamente impossibile, poiché per gli scribi ebrei, tutti indistintamente, erano importanti e obbligatori.

La risposta di Gesù anche questa volta è molto semplice e risolutiva: Ama Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. Ama il prossimo tuo come te stesso”. Punto. Gli bastano questi due “consigli” per rendere superflue le innumerevoli prescrizioni dell’antica legge: uno sfoltimento veloce e radicale! Per lui l’amore è il solo, grande, unico, comandamento: uno stesso  amore, esclusivo, per due entità: Dio e il prossimo.

Qualcuno lo identifica come il “comandamento dell’amore”. Ma è una definizione inesatta, perché l’amore non si “comanda”. Nessuna legge potrà mai costringere qualcuno ad amare, perché l’amore ha una vita sua, è indipendente, libero, autonomo, spontaneo; non si impone, non si può pretendere: un particolare, questo, che automaticamente ci mette in crisi, ci rende deboli, vulnerabili, impotenti; perché ci fa capire che non esistono soldi, lusinghe, armi, punizioni, con cui poterci assicurare l’amore, con cui poter costringere qualcuno ad amarci; poiché è impossibile pretendere che qualcuno nutra per noi un sentimento che non ha, che non sente, che non prova: o ci ama spontaneamente, perché ci considera persone degne e meritevoli, oppure dobbiamo arrenderci, dobbiamo accettare questo nostro limite senza recriminare, anche se la cosa ci disturba, anche se ci ferisce in profondità, nella nostra autostima.

Chi nella vita non è entrato in crisi almeno una volta di fronte a qualcuno che si è rifiutato di ricambiare il nostro amore, la nostra amicizia, di fronte ad un “no” esplicito e irrevocabile? Sicuramente la maggior parte di noi!

Ma non demoralizziamoci per questo; non consideriamoci gli unici incompresi della terra, gli unici “rifiutati”, disprezzati, abbandonati del mondo! Non facciamo le vittime. Nel vissuto non possiamo pretendere sempre un “si”, negando la possibilità anche di un “no”. Entrambi i casi sono l’espressione della libertà altrui, del diritto di ciascuno di assecondare i propri sentimenti.

Se vogliamo essere veramente amati, se vogliamo che gli altri ci dicano un gioioso “si”, dobbiamo essere noi a meritarlo, con la nostra vita, con il nostro comportamento, con la nostra sincerità.

Gesù, con la sua risposta, non intende “lanciare” un nuovo comandamento: semmai vuol chiarire le antiche prescrizioni del Deuteronomio: “Tu amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze” (Dt 6,5), e del Levitico: “Ama il prossimo tuo come te stesso” (Lv 19,18). Regole che ogni ebreo conosceva perfettamente, dovendole recitare puntualmente mattino e sera.

Gesù non modifica nulla, dice semplicemente: “Fate attenzione perché ora vi spiego per bene cosa comporta amare: che chi ama Dio, ama anche l’uomo. E chi ama veramente l’uomo, non può non amare Dio”. Tutto qui, poche parole ma importanti: è lo stesso amore che va riservato ad entrambi: “Chi ama Dio ama il prossimo, e chi ama il prossimo ama Dio”. Sembra un gioco di parole: in realtà esprime due aspetti di un identico concetto, strettamente connessi tra loro. Due concetti che Gesù con la sua vita, con le sue parole, con i suoi gesti, ce ne ha confermato tutto il valore e la portata.

Noi purtroppo non siamo ancora riusciti a capirli fino in fondo questi concetti.

Noi, cristiani della strada, siamo ancora convinti che il nostro amore abbia due valori ben distinti: continuiamo a tenerlo ancora ben diviso, convinti che l’amore per Dio, in verticale, sia più importante, valga molto di più di quello in orizzontale, per il prossimo: “Monaci, preti, frati, suore - quelli santi - quelli sì che amano come si deve, in maniera giusta: quelli sì amano Dio!”, pensiamo noi: per loro esiste solo Lui, tutto il resto, compreso “il prossimo”, non può competere con Lui; la loro è l’unica scelta di vita valida, altamente meritoria, poiché l'amore per gli altri, per i propri fratelli, l’amore “umano”, è un sentimento inferiore, meno ascetico, meno nobile, più “terreno”, un sentimento che deve essere necessariamente “purificato”, spiritualizzato, sublimato.

Ma Gesù non condivide la nostra idea e dice no! Non ci sono diverse categorie di amore, l’amore è uno solo, uguale per tutti: se diciamo di amare Dio, dobbiamo dimostrarlo con i fatti amando i fratelli. Altrimenti possiamo anche essere preti, frati, suore, ma se nei confronti del prossimo siamo dei manipolatori, dei falsi, dei profittatori, è inconcepibile pensare che amiamo Dio. Possiamo raccontare tutte le più belle storie del mondo, ma se trattiamo male gli altri, se li mortifichiamo, se li calpestiamo, se li possediamo, mai, in nessun caso, noi amiamo Dio, non c’è scampo. Siamo degli imbroglioni.

Ovviamente, per poter amare gli altri come chiede Gesù, dobbiamo prima immedesimarci completamente nell’amore che è in noi. Perché siamo “noi” il segno tangibile dell’amore di Dio; siamo noi, per definizione, l’immagine dell’Amore; un amore che non è “altro” da noi, ma siamo noi, è Dio che vive in noi da quando siamo nati, nella nostra anima. Noi infatti esistiamo primariamente per essere amati e per amare: per essere amati da Lui, e per amare Lui e i nostri fratelli.

L’amore quindi non è un sentimento da “conquistare”, ma semplicemente da “liberare” dal nostro cuore, dalla nostra anima, dalla nostra mente. Per cui amare significa appunto far esplodere all’esterno tutta la nostra vita interiore, liberare tutta la passione e la forza che portiamo dentro; significa adeguarsi a quel Dio creatore che abita in noi, nel nostro cuore; significa essere “spalancati” all’amore dello Spirito e alla forza della Vita, inspirarli a pieni polmoni, e riversarli sugli altri, in un flusso carismatico continuo.

L’amore per Dio e per il prossimo, se è solo predicato e raccomandato, se è sola esibizione, se non è vissuto, è squallida manipolazione, scadente surrogato, vana infatuazione.

Non lasciamo spegnere allora il nostro amore. Non permettiamo che altri spezzino le nostre ali. Dio ci ha fatti per librarci in alto, nel cielo, non per grufolare nel fango. Se abbiamo perso la fiducia in Lui, se siamo stati feriti dagli altri, se siamo diventati cinici, risentiti, offesi, scuotiamoci! Le ali le abbiamo ancora: sono solo danneggiate, apparentemente inabili…

Lui, il nostro Medico, è sempre pronto a riabilitarci. Paradossalmente sembra dirci: “ama, e se sbagli, se vai fuori strada, pazienza! Nell’amore è meglio sbagliare per eccesso, che per difetto”.

Di fronte a tale prospettiva, tutto il “visibile”, tutta l’esteriorità del nostro essere cristiani: strutture, gruppi, ministeri, devozionismo, carismatismo, celebrazioni, chiesa, tutto passa in second’ordine; tutto è accessorio, tutto viene “dopo”. Perché “prima”, l’unica cosa imprescindibile, assolutamente necessaria, essenziale, è l'Amore: è amare Dio e i fratelli e lasciarsi amare. Da subito. Qui e ora. Amen.

  

giovedì 15 ottobre 2020

18 Ottobre 2020 – XXIX Domenica del Tempo Ordinario

“Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio”         (Mt 22,15-21).

Possiamo sintetizzare il testo del vangelo di oggi attraverso poche ma incisive immagini: una riunione tra incapaci, un accordo subdolo e scellerato, l’intervento di discepoli falsi, untuosi e melliflui, una proposta trabocchetto per Gesù.

È chiaro che tutto ciò che ruota intorno al tempio di Gerusalemme, non rientra nelle simpatie di Gesù. I personaggi del culto, gli scribi, i farisei, gli anziani del popolo, approfittano della loro posizione per compiere liberamente i loro loschi affari. Questa élite, più volte pubblicamente redarguita da Gesù, da lui indicata come meno degna dei pubblicani e delle prostitute, lo considera ormai un nemico acerrimo da combattere: per quella gente Gesù è un uomo pericoloso, uno che deve essere fermato ad ogni costo, poiché oltre a non rispettare le istituzioni religiose, arriva a discreditarle apertamente! Si riuniscono pertanto per decidere sul da farsi: “tennero consiglio per vedere di coglierlo in fallo nei suoi discorsi”. Ormai è guerra aperta, e riescono a coinvolgere nelle loro trame anche gli erodiani, che è tutto dire: i farisei odiavano gli erodiani, li consideravano una feccia schifosa da sterminare; però pur di coronare i loro progetti perversi, si abbassano a chiedere la loro collaborazione. Gesù è il nemico comune, e “chiunque odia il mio nemico, diventa mio amico”!

Essi dunque mandano una loro rappresentanza, con un discorsetto già preparato a tavolino: ed iniziano con delle lodi chiaramente affettate, esagerate, false: “Maestro, sappiamo che sei veritiero e insegni la via di Dio secondo verità e non hai soggezione di nessuno perché non guardi in faccia nessuno”. Ma Gesù non si scompone, li conosce molto bene, e con calma si rivolge loro: “Perché mi tentate?”. Li paragona apertamente a satana, il tentatore: Matteo usa qui infatti la stessa terminologia che ritroviamo nel racconto delle tentazioni.

Finiti i convenevoli, il gruppetto scopre immediatamente le carte: vogliono che Gesù si esprima apertamente su un argomento spinoso, controverso: “Dì a noi: è lecito o no pagare il tributo a Cesare?”. Che praticamente equivale a dire: “Devi dirci, qui e ora, ciò che pensi degli invasori romani”. La trappola è ben congegnata, poiché qualunque risposta egli darà, gli si ritorcerà contro; dicendo “sì”, si dichiarerebbe favorevole al pagamento delle tasse e quindi, riconoscendo l’invasore come “il signore” del popolo, incorrerebbe nel reato di infedeltà verso Dio, l’unico “Signore” che gli ebrei devono riconoscere e servire (Dt 6,4-13); dicendo invece “no”, si metterebbe automaticamente contro l’autorità romana, scegliendo da solo la propria morte, veloce e sicura.

Vista la situazione, Gesù la capovolge immediatamente. E lo fa magistralmente, ignorando la loro provocazione e spostando i termini del discorso su un altro piano: “Mostratemi la moneta del tributo”.

Si trattava di una moneta particolare, coniata dai Romani in argento, con incisa l’immagine dell’imperatore e una dicitura che ne decretava la sua “divinità”. Praticamente il simbolo del potere dominante: dove arrivavano quelle monete, lì arrivava il potere di Roma, il dominio del “divino” imperatore.

Gliela mostrano e Gesù: “Di chi è questa immagine e l’iscrizione?”. Gli rispondono: “Di Cesare”. E Lui: “Rendete a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio”. Cosa significa? Prima di tutto che le tasse vanno pagate, certo: le monete di Cesare vanno restituite al loro padrone. Ma la risposta continua: “Rendete a Dio quello che è di Dio”.

I doveri quindi sono due: uno nei confronti dello Stato, del potere politico, l’altro, molto più profondo e mirato, nei confronti di Dio.

Gesù non perde occasione per richiamare all’ordine i suoi nemici. In altre parole, con un tono piuttosto irritato, esclama: “Cari farisei, voi che vi date tanto da fare col popolo, che vi ritenete i depositari dell’alleanza di Jahweh con il suo popolo, voi che siete la classe dirigente del sacro, che vivete all’ombra del tempio, restituite a Dio il popolo che gli appartiene, quel popolo che Lui ha scelto, che Lui ha riscattato, e che ha temporaneamente affidato alla vostra guida. Voi invece cercate di impadronirvi di esso, di indurlo in errore con regole false, con le vostre ideologie. Cercate di attirarlo a voi, predicando un Dio, che non è il vero Dio. Subordinate Dio alle vostre teorie, al vostro pensiero, ai vostri personali vantaggi e riconoscimenti, e questo è un terribile oltraggio nei suoi confronti: il popolo è suo; vostro unico dovere è di ricondurlo a Lui”. Parole crude che, come tutto il Vangelo, sono sempre di grande attualità.

Il racconto ci offre infatti due spunti di meditazione, uno sulla domanda e l’altro sulla risposta di Gesù. Vediamoli nel particolare.

Primo spunto, la domanda: “Di chi è quest’immagine?”. L’immagine incisa sulla moneta richiama la persona che l’ha fatta coniare, decide quindi chi ne è il proprietario: quella di Cesare stabilisce che la moneta viene da lui, gli appartiene e a lui deve tornare.

Un discorso ovvio, che implica però considerazioni paritetiche: sappiamo infatti che l’uomo è stato creato a “immagine e somiglianza di Dio” (Gn 1,26): noi quindi apparteniamo a Lui, siamo sua proprietà, a Lui dobbiamo tornare! Dimenticare, perdere, trascurare questa nostra indelebile dipendenza da Dio, significa tradire la vita che lui ci ha donato, significa vivere una non vita, cadere in un falso vivere, in una finzione esistenziale: per cui qualunque nostro legame ad altre realtà che non siano Dio, qualunque attaccamento a persone, a cose, al mondo intero, svilirebbe, deturperebbe la nostra somiglianza divina, ci renderebbe schiavi, dipendenti e prigionieri: non saremmo mai più completamente liberi, assolutamente liberi, come prima.

Ci capita mai, guardando il cielo stellato, ammirando la meraviglia di tutti quei punti luminosi, di pensare che è da lì che noi veniamo, di sentirci “parte” di tutte quelle luci, di provare una certa nostalgia di casa, una nostalgia di cose grandi, immense? Ci capita mai, in certi giorni, di veder riflettere il sole, la luce, nel volto e negli occhi delle persone amate? Ci succede mai di essere pieni, quasi gonfi, di una inspiegabile felicità? Ecco, è in quei momenti che possiamo sentire chiaramente il vero motivo per cui siamo nati, da dove veniamo, a chi apparteniamo, chi è la nostra vera madre, il nostro vero padre (Dio l’Altissimo).

Secondo spunto, la risposta di Gesù: “Rendete a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio”. Certamente nel dare questa risposta, Gesù alludeva all’aspetto politico: “Dai a Cesare, allo Stato, quello che è di Cesare, dello Stato”: è quindi nostro dovere pagare le tasse; non possiamo essere uomini di fede se evadiamo il fisco, se imbrogliamo la gente, se sfruttiamo i nostri dipendenti, se noi ci arricchiamo e gli altri muoiono di fame, se creiamo lobby di potere.

Ma la risposta di Gesù si presta anche ad un’altra considerazione: non basta restituire il dovuto a Cesare, non basta riconsegnare la nostra anima a Dio; c’è un altro dono essenziale, di proprietà divina, che Dio concede in uso all’uomo, e che gli deve essere restituito: la vita! Ogni giorno, infatti, Dio ci offre gratuitamente la meravigliosa possibilità di poter dire: “Sono vivo!”.

Purtroppo la vita per molti è un fatto scontato: non lo apprezzano, non sanno che farsene del tempo: giornate, mesi, anni che hanno a loro disposizione; continuano a lamentarsi con Dio per qualunque banalità, piuttosto che ringraziarlo umilmente per questo suo incalcolabile dono.

La vita è un dono che va custodito, onorato, amato: non ci è “dovuta”, non ci appartiene, un giorno infatti dovremo riconsegnarla nelle mani di Colui che ne è il padrone assoluto. Finita la vita presente, non ne abbiamo un’altra di scorta con cui poter rimediare al tempo sprecato in questa: quello che non facciamo oggi non potremo farlo mai più.

Viviamola allora seriamente questa nostra vita, viviamola con intensità, pienamente: disponiamo solamente di questa per amare, agire, provare, sentire, per realizzare i nostri ideali, per diventare insomma ciò che dobbiamo essere: immagine del Padre.

Non lasciamoci condizionare dal timore di sbagliare, dal giudizio della gente, da tutte quelle paure che ci impediscono di vivere pienamente. Rimaniamo positivi, entusiasti: chiudiamo gli occhi, e nel silenzio ascoltiamo ciò che il nostro corpo ci grida: “Voglio vivere: voglio sentire la fragranza dei prati, della natura in fiore, il profumo del mare; voglio provare la gustosità del cibo, dei frutti della terra; voglio entusiasmarmi per i miei progressi, correre, ridere spensieratamente, svagarmi, accarezzare, abbracciare, amare; voglio piangere quando sto male, condividere il dolore degli altri, commuovermi per la loro gioia; voglio inseguire i miei sogni, lottare per un mondo migliore e sentire che il tempo che mi è stato concesso non sta fuggendo invano, ma ha un senso profondo e meraviglioso per me e per il mondo intero. Sì, voglio vivere!”.

Se arriveremo a tanto, quando moriremo saremo in grado di restituire a Dio questa nostra vita “da vivi”: ci troveremo ancora, cioè, nel pieno della vita. A Dio che ce l’ha consegnata, riconsegneremo allora una vita palpitante, con tutto il suo entusiasmo, con tutto il suo fascino: certamente non nella immobilità mortale dei rinunciatari, dei falliti, di quanti si sono spenti per strada, senza provare, senza sognare, senza combattere.

L’uomo si lamenta, impreca, quando le cose belle finiscono; ma non sa ringraziare, non sa viverle adeguatamente quando sono nella sua disponibilità; non capisce che all’amore si risponde con amore: che per amore ha ricevuto la sua vita, e con amore deve restituirla al suo donatore. Amen.

 

giovedì 8 ottobre 2020

11 Ottobre 2020 – XXVIII Domenica del Tempo Ordinario

 

“Il regno dei cieli è simile ad un re, che fece una festa di nozze per suo figlio…” (Mt 22,1-14).

 La parabola di oggi paragona il Regno di Dio ad un banchetto nuziale: una immagine molto accattivante, molto conosciuta e comprensibile a tutti. Quale occasione infatti è più aggregante e gioiosa per parenti e amici di un matrimonio da favola, con un sontuoso pranzo di nozze?

Le nozze celebrano l’unione di due persone, sanciscono l’amore, la comunione di due cuori; sono l’apertura di una finestra sul mondo della speranza, della novità di vita, della intensità di sentimenti.

Non a caso i contemplativi parlano di nozze dell’anima con Dio, per indicare l’incontro intimo, il matrimonio celestiale, l’unione mistica dell’anima col suo Sposo divino.

Ai nostri giorni, essere invitati al matrimonio di una personalità molto importante, è una circostanza impegnativa, di grande rilievo, molto ambita e apprezzata, un segno di particolare stima, di amicizia, di considerazione.

E lo era anche ai tempi di Gesù: le nozze erano considerate un evento importantissimo, duravano una settimana, il banchetto era fornitissimo, straricco, e per chi riusciva a malapena a mangiare una volta al giorno, era un’occasione imperdibile; il non andarci era impensabile, perché rifiutare l’invito significava, sì perdere un lauto pranzo gratuito, ma soprattutto offendere gravemente gli sposi: era un affronto, cui spesso potevano seguire spiacevoli conseguenze. Tant’è che il re della parabola, indispettito per il rifiuto degli invitati, non capacitandosi di tanta stupidità, manda per ripicca i suoi servi nelle piazze, nei crocicchi, per le strade, per invitare a nozze chiunque incontrino.

Cosa vuol dirci Gesù con questa parabola? Il significato più semplice, quello evidente, è che uomini e donne, vecchi e bambini, saremo un giorno tutti invitati all’eterno banchetto celeste: tutti; anche quelli più umili, quelli più poveri (gli straccioni), quelli, in una parola, che sono considerati il rifiuto della società. Ad un’unica condizione però: che tutti ci presentiamo indossando la veste nuziale: ossia tutti dobbiamo indossare la veste della “grazia di Dio, nuova, immacolata, o quantomeno lavata e stirata dal Sacramento della Penitenza e dalle “opere buone”.

Ma non basta: questa parabola ci offre, per l’immediato, anche un’altra interessante spiegazione: quel banchetto nuziale, cui tutti siamo invitati a partecipare, si tiene nell’anima di ciascuno: Dio invita tutti ugualmente ad entrare in quella personalissima esperienza di amore, di felicità, di intimità con cui il Figlio celebra le sue nozze perenni col nostro cuore, con la nostra anima.

Entrarvi, significa entrare nell’intimità con Dio, rapportarsi con Lui nella nostra coscienza, e conseguentemente, dare un senso alla nostra vita.

Quando il cuore e l’anima dell’uomo entrano in simbiosi con Dio, l’unione mistica che si instaura tra di loro, altro non è che una pallida anticipazione dello stato di perenne beatitudine che proveremo nel banchetto paradisiaco.

Gesù ci invita caldamente quindi a “partecipare” a questo banchetto, a saziarci di Lui, a “vivere” la nostra anima, e questo fin da subito, immediatamente. Viviamola allora la nostra anima, viviamola intensamente, non abbandoniamola, non ignoriamola, non oltraggiamola.

Se oggi la gente è depressa, esaurita, non ha più voglia di vivere, è perché ha dimenticato di avere un’anima, ha dimenticato completamente di rifugiarsi in essa, di trovare in essa la soluzione di tanti nostri problemi, instaurando un colloquio intimo, umile, sincero, con lo Spirito di Gesù, che l’ha scelta a sua stabile dimora.

Un quarto degli italiani prende farmaci contro l’ansia e la depressione: c’è chi li prende per dormire, chi per alzarsi la mattina, chi per non deprimersi, chi per controllare l’aggressività, chi per sopportare le contrarietà della vita. In una parola per “sopportare” la vita. Ciò che dovrebbe essere fonte di felicità, è diventato un peso da sopportare: perché tutto appare vuoto, inutile, tutto è vertiginosamente proiettato all’esterno; l’introspezione, la meditazione, la moderazione, sono categorie sconosciute all’uomo d’oggi, sono “out”. Adesso tutto è proiezione “estrema” della persona: attività estreme, sport estremi, viaggi estremi, esperienze estreme, vacanze estreme, sesso estremo. Il vivere “ordinario” non offre più niente, non emoziona più, non ha più stimoli apprezzabili.

Purtroppo però non ci accorgiamo che dopo lo “sballo estremo”, segue il collasso psichico, la depressione, la disperazione: guardandoci alle spalle ci rendiamo conto di aver ignorato e calpestato i limiti di un sano equilibrio, di aver sperperato ogni possibilità di ascoltarci nel profondo, di seguire quei suggerimenti che Dio, pazientemente, continua ad inviare al nostro cuore, all’anima, alla mente. Abbiamo, in poche parole, soffocato stoltamente la nostra anima.

Ma cosa vuole esattamente da noi quest’anima? Semplice. Vuole la nostra salvezza, il nostro star bene, il nostro andare incontro a Dio, lo Sposo; l’anima vuole il meglio per noi, per la nostra vita spirituale, vuole suggerirci i motivi veri per cui valga la pena di vivere.

Ci siamo mai chiesto “perché” viviamo? Quale sia lo “scopo” ultimo della vita? Proviamo a chiederlo alle persone che ci stanno intorno, a quelle che incontriamo: “Perché vivi?”; vi assicuro che le risposte saranno tutte di una banalità spiazzante, perché nessuno conosce più la ragione unica, importante, vera, profonda, trascendente per vivere: c’è chi vive per il lavoro, chi per il denaro, chi per fare carriera, chi per i figli, chi perché “questa è la vita che fanno tutti”! Nessuno si sognerebbe più di rispondere: “Per amare e servire Dio fedelmente”.

Ma se ignoriamo questo motivo fondamentale, vuol dire che alla nostra vita manca autenticità, vuol dire che tiriamo a campare, trascinando i giorni, senza alcun mordente; vuol dire che siamo pronti a cogliere al volo qualunque occasione, anche quelle più astruse e inconcludenti, pur di dare una parvenza di senso alla nostra vita.

Non penso di esagerare: è sufficiente guardare le “moderne” trasmissioni televisione: un concentrato di nullità, che ogni giorno esibisce una miriade di deficienti (nel senso che hanno un deficit di anima) orgogliosi di fare sfoggio nei loro interventi di una preoccupante insipienza; gente che si cimenta in comparsate insulse, che paga un prezzo esoso in termini di dignità, pur di “esserci”, di essere ammirati, notati, imitati: “influencer” è l’etichetta ambita cui aspirano tutti i nullafacenti professionali di oggi!. Tutta gente che pur di provare un soffio di notorietà, ancorché insignificante, si abbassa a fare di tutto.

Ma cos’è che fondamentalmente manca a questa società? Manca la percezione della presenza di Dio, manca la percezione dell’anima. Non la sentono più, non sanno neppure cosa sia. Non a caso le discoteche, sempre zeppe di giovani, stordiscono con una musica che collassa, che copre e annienta tutto: con migliaia di watt sparati nelle orecchie, in uno stato confusionale e catatonico per alcool e droga, non c’è discorso, non c’è emozione, non c’è ispirazione dell’anima che tenga: ci si immerge tragicamente nel nulla.

Purtroppo i risultati di tali alienazioni sono quotidianamente trasmessi dai telegiornali.

È una difficile e drammatica situazione: ma l’invito di partecipare alle nozze regali vale anche per loro, per questi “storpi”, questi “zoppi”, questi “ciechi”.

Spetta a noi il compito di aiutarli nella ricerca della veste nuziale appropriata da indossare: con il buon esempio, con l’umiltà, con la carità: anche se sappiamo, in cuor nostro, di non essere proprio dei santi. Perché anche noi talvolta ci “perdiamo” per strada, viviamo da “frastornati”, in sbandamenti spiritualmente preoccupanti; capita purtroppo anche a noi di buttarci allo sbaraglio, di “fuggire” dalla “prigione” della nostra anima. Come facciamo allora a sentire Dio, i suoi suggerimenti, la sua voce? Come possiamo entrare nel banchetto nuziale della nostra anima, se ci lasciamo risucchiare dal vortice dei “piaceri” esteriori?

Dobbiamo fermarci: tiriamo i freni, usciamo dall’autostrada invitante e comoda di questo mondo provvisorio, facciamo uno stop, imbocchiamo a piedi quel sentiero solitario e silenzioso che porta al nostro cuore e ascoltiamoci! Facciamolo, perché il vero coraggio, quello autentico, non sta nel combattere contro i mulini a vento, contro gli specchietti per le allodole, ma nell’ascoltare la propria anima, nell’obbedire alla propria coscienza, al proprio cuore.

Fermiamoci e ascoltiamoci: e se sentiamo dentro di noi qualcosa che ci tormenta, qualcosa che ci rende insoddisfatti, se sentiamo un senso di vuoto, un senso di tristezza, di depressione diffusa; se proviamo disagio a vivere la nostra chiamata, la nostra vocazione cristiana; se siamo insofferenti delle nostre scelte di vita: del matrimonio, della famiglia, della vita religiosa, del vivere impegnato; se ci sentiamo ingabbiati in qualcosa che non riusciamo a capire, allora vuol dire che stiamo vivendo male la nostra anima; vuol dire che stiamo vivendo “il male” che è dentro la nostra anima; in una parola stiamo provando tutto il disagio di un’anima che si è allontanata da Dio.

Un disagio che soffoca la nostra vita, che ci impedisce di accedere al nostro banchetto di nozze, di vivere la festa, la gioia, l’amore con Dio, lo Sposo.

Oggi purtroppo sono poche le persone che conoscono il piacere che viene dall’anima. Tutti cercano il piacere, nessuno cerca l’anima. Ci accontentiamo dei surrogati di felicità: ci copriamo di “giocattoli” costosi (auto, gioielli, telefonini, vestiti, ecc); cerchiamo esperienze inebrianti ai limiti dell’assurdo, ci tuffiamo nel virtuale (internet) isolandoci dal reale; cerchiamo ogni tipo di piacere: del sesso, della tavola, della gloria, della notorietà.

Ma in profondità percepiamo la mancanza di un qualcosa di “vitale”. Sentiamo l’assenza proprio di ciò che nessuno può comprare, che nessuno può regalare, se non Dio stesso: la nostra anima, il soffio di Dio, la carezza dello Spirito.

E allora: “A che serve all’uomo guadagnare il mondo intero se poi perde la propria anima?”. Già, a che serve?! Amen.