giovedì 5 ottobre 2017

8 Ottobre 2017 – XXVII Domenica del Tempo Ordinario

«C’era un uomo che possedeva un terreno e vi piantò una vigna. La circondò con una siepe, vi scavò una buca per il torchio e costruì una torre. La diede in affitto a dei contadini e se ne andò lontano».

C’è dunque un padrone che decide di investire i suoi capitali in maniera proficua anche per gli abitanti del luogo: “pianta una vigna, la circonda con una siepe, vi scava il frantoio, vi costruisce la torre” e poi l’affida a dei vignaioli, a quelli cioè che avrebbero dovuto coltivarla. La cura che il padrone mette nel costruire le infrastrutture ci dimostra quanto egli amasse questo suo terreno, questa sua vigna. Arrivato il tempo della maturazione, egli manda ovviamente “i suoi servi dai contadini a ritirare il raccolto”. E fin qui tutto è nella normalità, tutto secondo le regole e le usanze dell’epoca.
Ma poi succede l’imprevisto. Cosa fanno i vignaioli? Hanno una reazione furiosa, esplosiva: prendono i servi e “uno lo bastonano, uno lo uccidono, uno lo lapidano”. Come mai tanta violenza? che colpa ne hanno questi “colleghi” anch’essi servi dello stesso padrone? Erano semplicemente degli incaricati, dei rappresentanti, dei messaggeri. Ma è proprio l’essere gli “inviati”, le persone che in quel momento rappresentano il padrone, che fa scattare la ribellione nei vignaioli che, con un crescendo di violenza, arriva ad uccidere.
Ciò che risalta immediatamente in questo susseguirsi di eventi è il comportamento illogico, paradossale, sia dei contadini che del padrone. È assurda la reazione dei vignaioli, perché avrebbero dovuto pensare alla inevitabile replica repressiva del padrone. Ma è assurdo anche il comportamento del padrone che continua impassibile, nonostante la violenza subita dai suoi rappresentanti, ad inviarne continuamente di nuovi, non risparmiando, alla fine, nemmeno il suo stesso figlio. È chiaro comunque che se il comportamento finale del padrone è dettato dalla logica dell’amore: “Avranno rispetto per mio figlio!”, il comportamento dei vignaioli è dettato ancor più dall’ostilità e dall’odio: “Uccidiamolo e avremo noi l’eredità”. Un ragionamento da stupidi, perché non hanno tenuto in alcun conto l’immediata e altrettanto violenta rappresaglia del padre, una volta messo di fronte all’uccisione del figlio.
A questo punto Gesù, ai capi dei sacerdoti e agli anziani del popolo presenti, pone una domanda a risposta scontata: “Secondo voi, che cosa farà il padrone della vigna a quei vignaioli?”. E loro ovviamente: “li farà morire miseramente e darà in affitto la vigna ad altri contadini”, sottoscrivendo la conseguente, logica, condanna.
Sì, perché è chiaro che il contenuto della parabola riguarda proprio loro, è diretto a Israele e ai suoi capi. A noi i particolari non dicono molto, ma tutti gli ebrei conoscevano perfettamente l’oracolo di Isaia che dice inequivocabilmente: “La vigna del Signore degli eserciti è la casa di Israele; gli abitanti di Giuda, la sua piantagione preferita” (Is 5,1-7). Israele era infatti l’orgoglio, il popolo preferito, la vigna di Dio. E loro erano fieri di esserlo! Per cui chi doveva capire, ha capito perfettamente: “I sommi sacerdoti e i farisei capirono che parlava di loro” (Mt 21,43). E lo capirono molto bene anche perché il testo della parabola affronta lo stesso tema, usa le stesse parole di Isaia: “siepe, frantoio, torre”. La vigna quindi è Israele; il padrone è Dio; i vignaioli sono i capi religiosi; i servi del padrone, infine, sono i profeti. Tutto è chiaro.
Dio (il padrone) ha amato il suo popolo (la vigna) ma questo ha rinnegato il suo amore, ha ignorato i messaggi d’amore dei suoi servi (i profeti): Isaia, Geremia, Ezechiele, e tutti i profeti, non sono stati mai ascoltati. Erano dei messaggeri che richiamavano Israele a convertirsi, a ritornare sulla retta strada, ma non furono ascoltati. Anzi, spesso furono uccisi o lapidati.
E il figlio? Il figlio, è evidente, è Gesù. Dio manda ciò che ha di più caro, di più prezioso: suo figlio. Come a dire: “Più di così, cosa posso fare per voi? Cosa posso dirvi di più perché possiate cambiare?”. Più di così Dio non poteva fare: tenta anche la soluzione estrema, ma tutto è inutile quando uno non vuol capire. E sono loro stessi ad autocondannarsi: il padrone “farà morire miseramente quei malvagi e darà ad altri la vigna”. E sarà proprio così: a Israele sarà tolto il regno di Dio e sarà dato ad altri (ai pagani, alla Chiesa) e la pietra (Gesù) che essi hanno scartato, ucciso, fuori da Gerusalemme (“fuori dalla vigna”) sarà invece la pietra d’angolo, la pietra su cui poggerà l’intera nuova costruzione.
In pratica cosa ci dice questo vangelo? Che chi è inutile, chi ha perso la sua autenticità, la sua “caratura” originale, viene inesorabilmente “scartato”, accantonato, superato.
Purtroppo oggi anche la Chiesa di Cristo sta attraversando un momento difficile; per il suo voler mettersi “al passo coi tempi”, per la sua tacita rinuncia ad essere “una, santa, cattolica e apostolica”, sta gradualmente scomparendo dalle nazioni “civili”, dalle nostre città, da gran parte del mondo. Inutile attribuire la colpa a fattori esterni (consumismo, individualismo, relativismo, amoralità, ecc.), questo non ci giustifica; il vero motivo va cercato purtroppo al suo interno, nella perdita degli autentici valori cristiani da parte dei pastori e dell’intero gregge.
La storia ci insegna che quando il Vangelo di Cristo non è più vitale, significativo, fondamentale per una comunità, questa è destinata nel tempo a scomparire dalla scena religiosa, sociale, culturale. È stato così per Israele, è stato così per molte comunità cristiane dei primi secoli; e sarà così anche per molte comunità cattolico cristiane della nostra Europa, che di Cristo hanno conservato solo la radice del nome.
Dio, il padrone della vigna, continua a fare egregiamente anche oggi la sua parte: pianta, circonda, scava, costruisce, affida: la sua attenzione, il suo interessamento, il suo amore non vengono mai meno. Il Vangelo ce lo attesta chiaramente: “Vi ho guariti, vi ho fatto resuscitare, vi ho sfamati, perdonati, illuminati; vi ho provato e vi provo continuamente tutto il mio amore; cosa devo fare ancora?”. Sappiamo bene quanto ha fatto il padrone della vigna, ma a noi questo non interessa: imperterriti, continuiamo a comportarci come i vignaioli: sperimentiamo la sua bontà nell’averci chiamati nella “vigna”, ma non vogliamo essergli riconoscenti; conosciamo il lavoro da eseguire, ma ci rifiutiamo di farlo; ascoltiamo ogni domenica la sua Parola, ma il nostro cuore si è inaridito, non si lascia scalfire; conosciamo i suoi messaggi, la sua presenza discreta e insostituibile, ma la nostra mente è chiusa in sterili discussioni neoteologiche, con lo scopo di eliminarlo, di ucciderlo ancora una volta, perché continua a farci troppa paura.
Eppure Dio non deve fare più nulla per il mondo, non deve dimostrare più nulla. Il problema non è Lui, siamo noi: è il cuore degli uomini che è diventato insensibile, pietrificato! Siamo noi che siamo allo sbando, che pretendiamo di andare avanti con gli occhi bendati, aspirando più al consenso dei popoli, alla notorietà, all’affermazione egoistica del nostro io, piuttosto che a lavorare fedelmente e umilmente nella sua vigna.
Ma così non riusciremo mai ad accorgerci delle migliaia di gesti d’amore che molte persone continuano a compiere in suo nome nel silenzio e nell’umiltà; non potremo mai vedere la bontà che nonostante tutto cresce intorno a noi; continueremo a non apprezzare chi ci aiuta, chi ci sostiene; non potremo godere della bellezza del creato, espressione dell’amore di Dio, che circonda e illumina i nostri passi ogni santo giorno; non potremo insomma capire mai quanto sia preziosa la Vita. Continueremo invece a recriminare, a prendercela con Lui, a lamentarci con Lui per qualunque contrarietà, per qualunque presunta ingiustizia ci capiti nella vita.
Quello di oggi è un vangelo che si presta molto bene ad una attenta lettura autobiografica: la vigna è la nostra vita, è la nostra esistenza: ed è una vigna bellissima, meravigliosa! Dio, il padrone, ce l’ha concessa in gestione gratuitamente con molta generosità. Ci ha detto però: “Attento che la vigna, la vita, non è tua. Non essere così stupido da pensare il contrario. È solo un dono. Lavoraci, usala bene, godi della sua fertilità, ma soprattutto falla fruttificare. Ma ricorda: non è tua, è mia”. E poiché di tanto in tanto si accorge che sbandiamo, che “usciamo” di strada, dal seminato, ci manda un preciso messaggio: “Attento, così non va! Se vivi così, muori dentro, lasci inaridire il tuo cuore, lasci soffocare la tua anima, ecc.”. Ma noi ce ne infischiamo altamente dei suoi messaggi e continuiamo a vivere come prima.
Ma Dio non desiste: ci manda un altro messaggio, un altro ancora, e poi tanti altri: gli sta troppo a cuore che la “nostra” vigna sia rigogliosa, non vuole perderla; ma noi ce la ridiamo, ci disinteressiamo, spensieratamente. Fino a quando, ci dice il Vangelo, arriva il momento in cui è troppo tardi: i “vignaioli” si sono talmente rinchiusi nelle loro idee, nella loro presunzione, nella loro cattiveria, da diventare insensibili a tutto; e a questo punto nessuno può fare più niente per loro!
Quando leggiamo questa parabola ci viene spontaneamente da esclamare: “Ma come hanno fatto quegli idioti di vignaioli a non capire? Come potevano pensare di farla franca, evitando la reazione del padrone?”. Ebbene, quei vignaioli siamo noi; siamo noi che ci comportiamo così apertamente da stolti, da insensati, da sprovveduti.
Dio con noi è sempre buono: ci manda dei messaggi, degli angeli custodi (angelo, in greco significa appunto messaggero), ci manda cioè dei consiglieri, delle guide, dei santi, che ci indicano la via giusta, la condotta da seguire. Dio non ci costringe, non ci forza, non ci toglie la libertà. Ci invita, ma mai ci obbliga. Noi però dobbiamo accettarli questi messaggi, dobbiamo essere ricettivi, dobbiamo capirli. Non esiste alcun sistema di decodifica: ogni messaggio è unico, ognuno lo “sente” in base al suo vissuto. Qualunque cosa ci accada, dobbiamo sempre chiederci: “Cosa mi vuol dire Dio questa volta? Cosa devo ancora imparare?”. Solo così ogni giornata di lavoro nella nostra “vigna” diventa fruttuoso, è per noi una lezione di vita. Fino a quando arriverà la sera della nostra vita, continueremo a imparare, a capire, ad apprezzare i frutti della vigna.
Non c’è maestro più grande della Vita per chi l’ascolta: è solo “vivendo” la Vita che impareremo a vivere. Per chi invece non ascolta, per chi non accetta questa scuola, l’esistenza diventa un peregrinare stupido, insignificante, senza senso, a volte estremamente doloroso. Più che un amico, la vita è un nemico da cui difendersi. Allora non diamo la colpa a Dio; non imprechiamo contro la vita, perché l’unica responsabile del suo fallimento è la nostra caparbia ottusità! Amen.



venerdì 29 settembre 2017

1 Ottobre 2017 – XXVI Domenica del Tempo Ordinario

In verità vi dico: I pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio. È venuto a voi Giovanni nella via della giustizia e non gli avete creduto; i pubblicani e le prostitute invece gli hanno creduto. Voi, al contrario, pur avendo visto queste cose, non vi siete nemmeno pentiti per credergli» (Mt 21,28-32).

La tensione e la conflittualità tra Gesù e i capi del popolo (scribi, farisei, anziani, sommi sacerdoti), in quest’ultima parte del vangelo di Matteo, è altissima. Gesù, scagliandosi contro il loro perbenismo e la loro ipocrisia, dice cose tremende, inaccettabili per della gente che faceva parte del sinedrio, che si considerava pura, religiosa, pia, esemplare, e quindi intoccabile.
Tacere, ignorare, soprassedere, non rientra nello stile di Gesù: quello che non va, che non è lecito, deve essere rimosso: solo così si può ricominciare su basi corrette.
È dunque questo il contesto che offre lo spunto alla parabola di oggi.
Un racconto semplice, ma ricco come al solito di insegnamenti: c’è un padre con due figli ai quali impartisce lo stesso ordine: “Va’ a lavorare nella vigna”. Il primo, gli dice subito “Sì”, ma non ci va. È un figlio ossequioso, educato, e con molto fair play: risponde subito al padre affermativamente (mai contraddirlo!), ma poi, come se nulla fosse, fa di testa sua e non ci va.
Il secondo, invece, in maniera maleducata e insolente gli risponde: “No!”; ma poi, ripensandoci, si pente, cambia idea (metamelétheis) e obbedisce.
È chiaro che nessuno dei due ha voglia di andare a lavorare. Ma mentre il primo, da figlio educato, attento alla “forma”, risponde in maniera contraria a quanto realmente pensa in cuor suo (il suo “sì” esteriore equivale ad un “no” interiore), il secondo invece, incurante dei sentimenti del padre, è coerente con se stesso, e gli dice senza tanti preamboli quello che di getto gli esce fuori: “nossignore!”; ma subito dopo si rende conto di aver sbagliato, capisce che il suo dovere è di ubbidire al padre, quindi torna sulla sua decisione, e il suo “no” diventa un “sì”.
“Chi dunque ha compiuto la volontà del padre?”, chiede Gesù. E tutti dicono: “L’ultimo”.
E non può che essere così. Se invece giudichiamo i due comportamenti fermandoci in superficie, al solo comportamento esteriore, alle belle parole, alla gentilezza, il primo merita sicuramente una valutazione più che positiva, contrariamente al secondo che, grazie ai suoi modi sgarbati, maleducati, altezzosi, può ottenere solo una netta disapprovazione. Ed è proprio in tale prospettiva che appare subito evidente quello che Gesù vuol dirci con questa parabola: non sono le buone intenzioni, i modi aggraziati, le belle parole, le apparenze esteriori che contano: quello che conta è il risultato, sono i fatti, è quello che si fa nella vita reale di ogni giorno. Il riferimento al modo di fare dei sommi sacerdoti, degli anziani del popolo, degli scribi e dei farisei, che vendevano tutti soltanto fumo, apparenza, esteriorità, senza alcun riscontro interiore, è forte e chiaro.
Di loro infatti aggiunge:“I peccatori pubblici (pubblicani) e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio”. Inaudito, sbalorditivo, per quel tempo, riferirsi agli operatori del sacro in questi termini: sarebbe come se oggi Gesù dicesse ai cardinali, ai vescovi o ai preti: “Le prostitute sono meglio di voi!” (anche se in alcuni casi direbbe la verità!).
Ma Gesù non ce l’ha a priori con i religiosi, con i consacrati, con gli addetti al sacro. Semplicemente non fa sconti a nessuno. Ma perché proprio le prostitute passeranno loro avanti? Non poteva dire gli assassini, i ladri, i delinquenti ecc.? Semplicemente perché qualche giorno prima era rimasto molto colpito nel constatare il sincero pentimento di una di loro. Lo spunto infatti gli viene suggerito dall’episodio, riportato da Luca (Lc 7,36-50), in cui “una di quelle”, una prostituta, lo va a trovare. È chiaro che con la sua vita, con la sua condotta di pubblica peccatrice, lei dimostra di non tenere in alcun conto gli insegnamenti e la persona di Gesù. Il suo è un “no” evidente. Eppure nel comportamento riservatogli in quell’occasione, Egli legge nel suo cuore un chiarissimo, inconfondibile “sì”, un’apertura a Dio, un pentimento sincero, una ferma decisione di redimersi: sappiamo che Gesù stava mangiando a casa di Simone, un fariseo, uno dei puri per definizione; quando improvvisamente questa donna, apertamente impura, entra e si butta ai piedi di Gesù: li lava con le lacrime e li asciuga con i suoi capelli. Certo, per chi guarda le apparenze, i suoi sono gesti molto accattivanti, sensuali, quasi lascivi: ma la donna usa queste sue arti del mestiere per dimostrare qualcosa di più autentico, di più profondo, il suo pentimento, il suo amore. Quello che esteriormente appariva sacrilego, un invito provocante a peccare, grazie alla sua trasformazione interiore, al suo sincero ravvedimento, diventa fede e riconoscenza per Gesù. E poiché Egli non guarda all’apparenza esteriore, poiché guarda “dentro”, guarda il cuore, le dirà: “La tua fede (=ciò che hai fatto) ti ha salvato”.
Per i puri, gli impeccabili, i religiosi del tempio, la fede era ciò che l’uomo “fa” per Dio: per Gesù, invece, la fede è ciò che Dio “fa” per l’uomo. Così, Gesù non vede una prostituta; vede una donna, che ha bisogno d’amore, di accettazione e di perdono. E lui glielo dà. Gesù vede una donna che ama come può, ma ama; una donna che ha un cuore che batte, che è viva. E questo gli basta.
Nei farisei e nei religiosi di allora Egli vede invece molto risentimento, falsità, comportamenti malvagi. Preferisce i pubblicani e le prostitute: non perché approvi ciò che fanno, ma perché questa è gente che faticosamente, umilmente, con tanta buona volontà, prova a redimersi. È gente che si butta ai suoi piedi, che piange, che si dispera; gente che non teme di mostrarsi per quello che è, che non si vergogna, che non nasconde dietro una bella facciata le proprie miserie, i propri disagi, le proprie ferite. Gente che si accorge di aver sbagliato, gente che cambia vita. Gente dal cuore grande, che arriva a fare follie: perché chi ama sul serio, chi è veramente innamorato, arriva a fare anche l’impossibile.
Sono i gesti dell’amore: folli per chi ha il cuore duro, rigido, insensibile, ma normali gesti di carità, di misericordia, di vita, per chi dice “sì” a Dio.
Un’ultima cosa: abbiamo mai fatto caso come ogni qualvolta Gesù va in chiesa (in sinagoga) nasca sempre un problema? Anzi, che dopo quel giorno in cui, pieno di rabbia, ha buttato tutto all’aria, non ci sia più andato? Perché? Perché il grande pericolo di ogni chiesa, in ogni tempo, ieri come oggi, è quello di trasmettere solo prediche, belle parole, regole e comportamenti esteriori, tralasciando la cosa più importante: quella di trasmettere, di far sperimentare, di far vivere, di far “sentire” Dio nei cuori di ciascuno. Le parole di una predica, di un’omelia, ancorché perfetta, si fermano all’esterno: ma all’esterno non c’è vita. Rimangono vuote, sterili, gettate al vento. Non portano ad amare Dio nel profondo del cuore, nell’intimo dell’anima, dove palpita la vita; eppure quello è il suo posto, il posto che Lui ama: Lui è là dove nasce il dolore, dove sgorga la gioia; là dove la gente si commuove, dove chiede scusa, dove si mostra per quello che è, senza vergognarsi e senza nascondersi; là dove la gente non ha un’immagine esteriore da difendere, una maschera da esibire. Gesù sta dove nasce e cresce la vita, perché Lui stesso è Vita, e non può che stare lì. Amen.



giovedì 21 settembre 2017

24 Settembre 2017 – XXV Domenica del Tempo Ordinario

«Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse concordato con me per un denaro? Prendi il tuo e vattene. Ma io voglio dare anche a quest’ultimo quanto a te: non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono?» (Mt 20,1-16).
Il Vangelo di oggi ci racconta di un padrone che in varie ore del giorno, dall’alba fino al tardo pomeriggio, esce di casa e ogni volta assume nuovi operai per lavorare nella sua vigna, concordando con i primi la paga di un denaro. Venuta la sera, egli inizia dagli ultimi assunti, a consegnare loro il compenso di un denaro. Giunto il turno di quelli ingaggiati all’alba, consegna anche a loro lo stesso importo: un denaro. A questo punto, quelli che hanno lavorato l’intera giornata, insorgono e accusano il padrone di comportamento ingiusto. Al che il padrone, prendendo il più esagitato, gli dice: “Amico, perché urli tanto? Quello che hai ricevuto non corrisponde forse a quanto abbiamo concordato?”. “Sì!”. “Per caso ti ho tolto qualcosa?”: “No!”. “E allora, cosa vuoi da me? Prendi ciò che è tuo e vattene. Non posso fare ciò che voglio con quello che è mio?”.
Ecco: Gesù vuole dare un insegnamento preciso ai suoi discepoli. Egli conosce bene le loro aspettative. Poco prima lo stesso Pietro gli aveva offerto l’occasione per affrontare questo discorso: interpretando anche il pensiero degli altri, gli aveva detto esplicitamente: “Noi per seguirti abbiamo abbandonato tutto, casa, lavoro, famiglia; cosa ci darai in cambio?” (cfr. Mt 19,27). Pietro ragiona con la mentalità del tempo: Dio premia i giusti e castiga i cattivi. Pertanto, poiché lui e gli altri discepoli sono “giusti” (hanno seguito Gesù senza alcun indugio), egli rivendica per tutti un trattamento di favore: “siamo sempre con te, ti seguiamo ovunque, facciamo molto più degli altri: cosa ci riserverai allora più di loro?”.
Gesù però non ha mai detto nulla, neppure una parola, che facesse anche solo pensare a cose di questo genere. Ha detto invece: “Il Padre vostro che è nei cieli fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, fa piovere sui giusti e sugli ingiusti”; e ancora: “Mio Padre ama tutti, buoni e cattivi”.
Quindi nessuna pretesa di ottenere particolari riconoscimenti per quanti lavorano nella sua vigna, sia che lo facciano dalle prime ore del giorno (da ragazzi), che da quelle del tardo pomeriggio (già anziani): del resto l’amore (la paga) che Dio riserva a tutti i suoi lavoratori, supera di gran lunga qualunque loro aspettativa: li soddisfa a tal punto da escludere qualsiasi altro desiderio.
Una parabola molto significativa, quella di oggi, che contiene tra l’altro due messaggi particolarmente importanti per noi; anzi addirittura fondamentali.
Il primo ci dice che “stare” con Gesù, “accompagnarlo”, non vuol dire necessariamente “seguirlo”. Gli apostoli per esempio durante la vita pubblica di Gesù, lo accompagnavano, stavano sempre con lui, ma non lo “seguivano”. “Seguire” infatti è capire, far penetrare nel proprio cuore il suo messaggio, attivarsi per metterlo in pratica, in una parola amare il suo Vangelo e viverlo.
Si racconta in proposito di un santo abate che guidava molte centinaia di monaci, sparsi nei vari monasteri da lui fondati; un giorno gli chiesero quale fosse il numero complessivo dei suoi monaci, ed egli rispose: “Quattro o cinque al massimo!”.
Troppa gente purtroppo “accompagna” semplicemente Gesù”: va in chiesa, prega, gli rivolge inni e orazioni, ma non lo “segue”: non è imbevuta cioè del suo vangelo, non segue con il cuore i suoi insegnamenti. A fine giornata si presentano alla "cassa" come instancabili lavoratori, assidui operatori del sacro, anche se in effetti non hanno mai lavorato, non hanno mai sopportato alcun disagio nella loro sequela, alcun “pondus diei et aestus”, anche se sono quelli della prima ora; la loro aspettativa di premio è pertanto improponibile: se paga buona ci sarà, dipenderà unicamente dalla generosità del Padre, non certo dalle loro pretese.
La seconda indicazione, altrettanto fondamentale, conferma e chiarisce la prima: Dio cioè ama tutti indistintamente, sia coloro che lo “seguono” dal mattino della vita, sia quelli che rispondono alla sua chiamata della sera. Nessuno deve aspettarsi trattamenti preferenziali: non è la durata o la difficoltà del servizio che fa aumentare i meriti: “Voi che mi seguite, non siete migliori degli altri”. Dio cioè non ci premia, come pensiamo noi, per la nostra bravura, per la nostra obbedienza più duratura, più coerente. Il premio finale del suo amore eterno è destinato, in ugual misura, a tutti i “lavoratori”: sia della prima che dell’ultima ora. C’è un’unica condizione essenziale che ci qualifica per la ricompensa: essere “lavoratori” di “qualità”, non di “quantità”.
Un principio che ci è difficile condividere pienamente. Scriveva Orwell: “Tutti gli animali sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri”: una verità che ci trova sicuramente più consenzienti: in pratica è quello che pensiamo noi “battezzati”: Dio ama tutto il genere umano, è vero; ma sicuramente i “segnati”, i prediletti, quelli che praticano il Vangelo, i santi, Dio li ama sicuramente più degli altri. Niente di più falso: le parole di Gesù non permettono fraintendimenti: “I pubblicani (i peccatori) e le prostitute, vi passano davanti nel regno di Dio” (Mt 21,31). Questa è la verità, e dobbiamo accettarla umilmente. Invece quanti “cristiani”, ancorché pii e religiosi, non sanno capacitarsi: “non è giusto – dicono - che chi si converte sul letto di morte, all’ultimo momento, dopo una vita intera passata nel peccato, riceva lo stesso nostro trattamento; non è giusto cioè che anche lui possa andare in paradiso come noi che abbiamo faticato tutta la vita!”.
Purtroppo è la nostra radicata mentalità meritocratica che ci porta a pensare così: “Io ho pregato tanto, io sono sempre andato in chiesa, io ho fatto questo, io ho fatto quello: è impossibile che Dio non mi ami più di quelli che non hanno fatto nulla!” No, Dio non ti ama “di più”. Dio ti ama, punto. E come te ama anche tutti gli altri. Pensare diversamente significa essere schiavi dell’invidia, significa provare per gli altri soltanto del rancore.
Ed è anche su questo aspetto che Gesù, con questo messaggio, vuol metterci in guardia: “Sei anche tu invidioso perché io sono buono con tutti?”. Già, l’invidia: non è un paradosso il suo, non allude ad una situazione inverosimile. Non capita forse proprio a noi di “prendercela” a male, di offenderci ogni volta che qualcuno “sceglie” un altro al posto nostro? Non capita proprio a noi di arrabbiarci perché altri sono più fortunati? Di “legarcela al dito” perché qualcuno ha invitato altri e non noi ad un evento cui tenevamo molto? Sì, capita anche a noi; anche noi siamo invidiosi: e lo siamo perché, come i bambini, pretendiamo di essere sempre i primi, i preferiti, gli unici. Ci sono persone che sprecano la vita per rincorrere modelli di vita impossibili, pur di sentirsi ammirati, pur di passare per qualcuno “che conta”. Purtroppo non arriveranno mai all’apice dei loro sogni, perché nella loro ansia di primeggiare, troveranno sempre sulla loro strada qualcuno con cui devono continuare a confrontarsi.
Quello che conta, invece, è che noi siamo una realtà unica: noi siamo noi e nessun altro. Ogni volta che vogliamo essere come gli altri, decretiamo il nostro fallimento: significa che ci sottovalutiamo, che non ci riconosciamo uguale valore e dignità. Ci dimentichiamo che l’essere noi stessi è il nostro più grande valore. Non serve a nulla confrontarci con gli altri: nella vita ci sarà sempre un vincente e un perdente, un superiore e un inferiore. Ma noi siamo noi: sviluppiamo allora quello che siamo; valorizziamo le nostre doti, le nostre risorse, i nostri talenti. Più saremo impegnati in questo, meno tempo avremo per guardare fuori di noi, per fare confronti con quello che sono gli altri. Chi è felice di sé non prova invidia per nessuno. Noi siamo amati. Le persone ci amano, Dio ci ama: non perdiamo tempo a quantificare se di più o di meno degli altri. Siamo amati e questo ci basti! Ringraziamo piuttosto e benediciamo Dio; gioiamo e riempiamoci il cuore di questa certezza. Che significato ha continuare a prendercela con Dio se la nostra vita non è come vorremmo? Se non è “di più” di quella degli altri? O forse siamo invidiosi anche di Dio perché pensiamo che non sappia fare il suo mestiere?
Un bambino, sulle scale di casa, giocava a “fare il prete” insieme ad un suo amichetto. Tutto andò bene finché l’amico, stufo di fare il chierichetto, salì su di un gradino più in alto del suo e cominciò a predicare. Il bambino naturalmente lo rimproverò bruscamente: “Solo io posso predicare, tocca a me, perché io sono il prete”. Allora l'amico più piccolo gli disse. “Ma io sono il vescovo, e predico perché sono su un gradino più alto del tuo!”. L’altro lo guardò, fece silenzio e decretò: “Va bene, tu sei il vescovo e puoi predicare; ma ricordati che io sono Dio!”.
Se ci riduciamo a pensare che la vita sia soltanto una questione di scale, passeremo tutto il nostro tempo a sgomitare continuamente sui gradini, cercando di salire sempre più in alto degli altri: ma le scale della vita non sono infinite; prima o poi ci accorgeremo della nostra stupidità; ci accorgeremo di aver sprecato tutto il tempo per raggiungere posizioni precarie sempre più ambiziose, rinunciando a godere dei doni veri, delle bellezze meravigliose, dell’amore profondo che Dio ci ha messo a disposizione gratuitamente in questa nostra vita. Amen.


giovedì 14 settembre 2017

17 Settembre 2017 – XXIV Domenica del Tempo Ordinario

«Pietro si avvicinò a Gesù e gli disse: Signore, se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?».
Il Vangelo di oggi continua a proporci insegnamenti per la nostra vita “comunitaria”. Domenica scorsa ci ha dimostrato quanto sia importante in una comunità ascoltare le ragioni del proprio fratello, rapportarsi con lui; quanto sia importante aprirgli il nostro cuore e accogliere il suo. Oggi ci offre un ulteriore approfondimento del tema: uno dei modi più efficaci per esprimere l'amore, è il perdono.
A Pietro, come al solito, la teoria non basta, egli vuol saperne di più, avere certezze, vuol vederci chiaro, nero su bianco. «Quante volte devo perdonare?». Egli ha capito perfettamente che bisogna perdonare: ma quali sono i limiti di questo perdono? Egli pensa di mettersi in linea con la predicazione di Gesù, andando oltre le tre, quattro volte, previste dall’antica legge (come per es. in Amos 2,4 e Giobbe 33,29) e, per tenersi sul sicuro, propone “sette volte”. Ma la risposta di Gesù va ben oltre: rovesciando il canto di Lamech che prevedeva un crescendo di violenza scatenata dal gesto di Caino: «Sette volte sarà vendicato Caino, ma Lamech settantasette…» (Gn 4,24), Gesù fa capire quali impensabili risorse di misericordia siano legate all’avvento del suo Regno:«Non ti dico fino a sette, ma fino a settanta volte sette». In altre parole, caro Pietro, non hai scampo: devi perdonare sempre! Perché? Semplice: il perdono non è frutto di un gesto eroico che nasce dal grado di bontà del discepolo, ma è la logica conseguenza di chi si rende conto di quanto perdono, lui per primo, abbia ricevuto dal Signore... Chi si guarda un po’ dentro, e vede quanto male gli è stato perdonato, non può esimersi dal perdonare a sua volta qualunque torto. Quindi l'unica misura del perdono è perdonare sempre, senza misura e senza calcoli, perché è così che Dio fa con noi. La nuova giustizia che Gesù introduce nel Regno, infatti, non è quella che ristabilisce la parità, in base alla regola “chi sbaglia paga”; la sua è una giustizia superiore, è la giustizia propria di chi ama senza limiti. Egli sostituisce la giustizia della legge che uccide, con la sua, quella dello Spirito che dona vita.
Perdono incondizionato, dunque. Ma cos'è il perdono? È possibile il perdono? Come si giustifica? Come viverlo? Cerchiamo di chiarire un po’ questi interrogativi.
Per ciascuno di noi è una cosa naturale, istintiva, reagire alle offese degli altri e in qualche modo vendicarci, anche se si tratta di piccole cose. Se poi subiamo torti o azioni cattive più gravi, lesioni alla nostra dignità, alla salute o alla vita nostra e dei nostri cari, sentiamo non solo il bisogno di far valere le nostre ragioni giudizialmente (e fin qui può andare bene), ma soprattutto di affrontare con altrettanta durezza e cattiveria il responsabile, per fargli pagare ad ogni costo il “male” che abbiamo ricevuto. Ma è una soluzione che non paga. Perché ci fa cadere inevitabilmente in quel meccanismo in cui il male richiama altro male, la violenza (di qualunque tipo) richiama e moltiplica violenza; in questo modo non plachiamo certamente l’odio, ma lo alimentiamo facendolo crescere sempre più; inoltre l’idea della vendetta ci illude, ci corrode l’anima, inducendoci a pensare che è lei, la ritorsione, a rimettere le cose a posto; ma il risultato è ingannevole perché ci fa vivere nel tormento, con l'inferno nel cuore. Conosciamo tanti piccoli casi intorno a noi: vicini di casa che hanno litigato per un nonnulla e lasciano passare anni, decenni, senza scambiare una parola, un saluto; genitori e figli che interrompono ogni rapporto per motivi futili e banali; fedeli impegnati nella parrocchia, attivi nella pastorale e nel volontariato, che si dilaniano l’anima per soprusi o per sgarbi di “lesa maestà” inesistenti; fratelli e sorelle apertamente ostili tra loro, che al momento della pace nell’Eucaristia domenicale, invece di aprirsi all’amore e alla misericordia secondo l’insegnamento di Gesù, preferiscono fingere e mantenere immutato nel cuore tutto il loro rancore. Ciascuno rimane orgogliosamente arroccato sulle proprie posizioni, su versanti di vita diametralmente opposti. Eppure il perdono è l'unica strada, umana e cristiana, che ci assicura una vita vera, autentica, serena e felice. Vi sono poi altre situazioni ben più dolorose e strazianti, come rovinare per capriccio la vita e la serenità di una famiglia, rubando l’amore del marito o della moglie, oppure causare per gioco, per superficialità, la morte di un figlio, di una persona cara. Cosa fare allora? Come gestire queste gravi situazioni? Come continuare a vivere, dopo aver subito azioni così distruttive? Ebbene, nel perdono non ci sono eccezioni, non ci sono “distinguo”: sempre, anche in questi casi, dobbiamo perdonare. Dobbiamo farlo noi per primi, portando gli altri a fare altrettanto. Sembra impossibile, non è vero? Certo, umanamente parlando, visto dall’esterno, il perdono può sembrare un gesto eroico, irrazionale. Ma a ben vedere, non è altro che un gesto di equità, un concedere all’altro lo stesso beneficio che noi abbiamo già ricevuto da Dio in larghissima misura. Difficile da praticare, questo si. Ma Gesù ci dimostra continuamente che tutto quello che gli uomini non riescono a fare da soli, lo possono sempre fare con il Suo aiuto. Per questo dobbiamo chiedergli la forza di cui abbiamo bisogno.
Molti pensano che perdonare sia un atto riservato a chi ha molta fede, a quanti sono già avanti nel difficile cammino della perfezione. Nossignori. Il perdono è un atto che tutti possono e devono fare: un impegno forte, che deve normalizzare la nostra vita, il nostro modo di pensare, il nostro relazionarci, il nostro vivere da cristiani. Certo non è una cosa naturale, spontanea, semplice, quanto piuttosto un gesto irrazionale, contro natura, incomprensibile: esattamente come lo è l’intero messaggio evangelico di Gesù. Egli, perdonando e scagionando contro ogni logica umana i suoi torturatori, i suoi carnefici, ci ha lasciato il più sublime esempio di perdono: ecco perché le sue non sono raccomandazioni astratte, ma vita vissuta, scuola pratica che tutti possono e devono seguire.
Il cristiano è chiamato a perdonare, sempre e in ogni caso, soprattutto perché Dio lo ha sempre fatto, e continua a farlo con lui. Inoltre il vangelo di oggi, con la sproporzione del debito dei due servi, (migliaia e migliaia di talenti contro pochi denari) ci ricorda proprio l’enorme divario che esiste fra il perdono di Dio e il nostro. Ecco: noi siamo chiamati a perdonare perché siamo dei “perdonati”, perché noi per primi abbiamo fatto e facciamo esperienza continua del gratuito perdono di Dio, non certo perché siamo più buoni, più cristiani degli altri. Non dobbiamo perdonare per dimostrare qualcosa a qualcuno; ma solo perché anche noi abbiamo bisogno assoluto di perdono, e perché portare rancore, fa più male a noi che agli altri. Sicuramente il nostro perdonare, come quello di Gesù, rischierà di essere ridicolizzato dalla gente, forse ci verrà rinfacciato come segno di debolezza, di meschinità. Poco importa: chi ha incontrato sulla propria strada il grande perdono di Dio, non può sottrarsi dal guardare sempre suo fratello con amore e comprensione.
È in questo senso che dobbiamo leggere il famoso detto di Paolo: “dove abbonda il peccato, sovrabbonda la grazia!” (Rm 5,20). Il perdono che, da peccatori perdonati, accordiamo ai fratelli, diventa in noi il “respiro di Dio”, diventa cioè quello Spirito divino che alimenta la nostra vita. Una comunità è “osservante”, è “santa”, non perché i suoi membri sono perfetti cristiani, assidui praticanti che non sbagliano mai e non mancano di rispetto a nessuno; ma perché tutti, consapevoli di essere loro stessi dei “perdonati”, perdonano immediatamente a loro volta gli altri, ricambiando qualunque offesa con l’amore. In questo modo, e può sembrare assurdo, il male reciproco che troppo spesso ci facciamo, non costituisce un elemento dirompente di divisione ma, nel reciproco perdono, diventa il collante che ci unisce saldamente in Cristo.
Anche a noi succede di essere dei giudici giusti ma spietati, onesti ma scorretti! Non basta infatti praticare la giustizia umana per essere uomini perfetti, e men che meno per essere figli di Dio. Se capiamo che il perdono guarisce, matura e fortifica soprattutto chi lo esercita, cioè noi, e non coloro che lo ricevono, allora capiremo che perdonare significa fare soprattutto il nostro interesse!
E concludo: Gesù suggella il suo insegnamento, proponendoci una pietà, una misericordia, un perdono, razionalmente incomprensibili quanto si vuole, ma di una coerenza estremamente semplice: “Servo malvagio, io ti ho condonato tutto quel debito perché tu mi hai pregato. Non dovevi anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te?”
Due sono dunque i motivi per cui dobbiamo avere pietà e perdonare: per conquistare il cuore di Dio e per introdurre nell’apparente equilibrio di questo nostro mondo garantista, il “disordine divino”, scompaginante, del suo messaggio d’amore. E dobbiamo farlo col cuore. È difficilissimo perdonare veramente di cuore: comporta prima di tutto un profondo atto di fede con cui dare fiducia assoluta all’altro, senza tenere conto del passato, ma guardando solo al futuro. Esattamente come Dio fa con noi. Dio infatti ci perdona per un suo preciso atto di fede, Egli crede in noi, si fida di noi! Perdonandoci, Egli investe su di noi, conta sul nostro cammino di perfezione. E allora, come non rispondere positivamente al suo invito di essere operatori di bontà?. Amen.



giovedì 7 settembre 2017

10 Settembre 2017 – XXIII Domenica del Tempo Ordinario

«Se il tuo fratello commetterà una colpa contro di te, va’ e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello…» (Mt 18,15-20).
Il Vangelo di oggi ci rivela un Matteo preoccupato di veicolare gli insegnamenti di Gesù alla comunità del suo tempo. Il suo è un tentativo di “tradurre” lo spirito di Gesù in comportamenti e regole, destinati ai suoi contemporanei, a uomini che hanno vissuto più di duemila anni fa, in un ambiente e in una cultura molto diversa dalla nostra. Le sue sono regole destinate a mutare nel tempo, in quanto legate ad una particolare cultura. Quello che deve interessare a noi, e che rimane immutato nei secoli, è invece il messaggio di Gesù, quello che scaturisce dal suo insegnamento e dalla sua vita.
Ecco allora che il senso profondo del Vangelo di oggi ci deve impegnare tutti, perché nella sua semplicità, comporta uno sforzo costante, per nulla scontato: nei nostri rapporti con gli altri, cioè, dobbiamo usare umiltà, sollecitudine, discrezione e amore.
Se noi siamo convinti discepoli di Gesù, se Dio abita realmente nel nostro cuore, lo dimostriamo non attraverso la quantità delle nostre preghiere o mediante la frequenza con cui invochiamo il suo nome, ma da come ci comportiamo nelle nostre relazioni interpersonali, dalla qualità dei nostri rapporti con le persone che ci stanno vicino, da come insomma stiamo con gli altri. 
“Nella tua vita, qualunque cosa fai, falla sempre con amore”: è questa la massima che dobbiamo seguire sempre fedelmente. Anche quando litighiamo, quando lottiamo, quando entriamo in conflitto, non dobbiamo mai dimenticarci di amare l’altro. Può sembrare una battuta ma non lo è; perché nella vita può succedere che non si litiga mai con nessuno, che si è sempre ossequiosi con tutti, senza per questo amare nessuno; al contrario si può anche litigare continuamente con i fratelli, ma nello stesso tempo amarli sinceramente, di vero cuore. Possibile? Certo: a condizione che il “litigio”, il “robusto” scambio di opinioni (chiamiamolo così!), poggi su una reale onestà mentale, sia fondato nella carità, nell’amore fraterno: in questo modo ogni “scontro” lascerà ricchezza di vita, verità da imparare, apertura verso gli altri, e non una totale chiusura nelle proprie posizioni, nell’astio irrazionale, come di solito avviene. Ci sono persone infatti che per anni litigano testardamente sempre per lo stesso identico motivo: ciò vuol dire che non hanno saputo imparare, non hanno voluto capire. Ma a che pro allora litigare? Non serve assolutamente a nulla, è inutile, fa solo male: se per principio non si vuole imparare, non si crescerà mai. Non riduciamo la nostra vita ad una perenne disputa tra sordi!
L’insegnamento di oggi però va oltre: in una eventuale disputa, in una controversia, è indispensabile adottare sempre due atteggiamenti fondamentali: il primo è di evitare la pubblicità, di non mettere in piazza la lite col fratello, di non dare in pasto all’opinione pubblica i dissapori personali; la seconda è di riservare all’altro la nostra migliore carità, un maggiore esercizio dell’amore. Se un nostro fratello sbaglia, se c’è tra noi un problema, dobbiamo capire che in quel momento egli ha ancor più bisogno della nostra comprensione, del nostro amore: dobbiamo quindi agire nei suoi confronti con maggior riservatezza, con maggior gentilezza, con maggior attenzione. In una parola dobbiamo comportarci con grande carità e discrezione. È esattamente quanto ci sottolinea in apertura il vangelo di oggi: “Se c’è una questione irrisolta fra te e tuo fratello, va di persona, da solo”; e lo fa in aperto contrasto con quanto la legge antica imponeva: “Rimprovera apertamente il tuo prossimo, così non ti caricherai di un peccato per lui” (Lv 19,17). A quel tempo era infatti normale denunciare apertamente l’operato di una persona: “se sai una cosa dilla a tutti”. Gesù, invece, propone una condotta del tutto nuova, rivoluzionaria, decisamente contro la legge e l’usanza del tempo. C’è qualcosa che non va, hai subito un torto da parte di qualcuno? Va da lui e chiarisci privatamente la cosa con lui. Solo così conoscerai personalmente il suo punto di vista: e forse ti ricrederai; forse le cose non stavano proprio come tu pensavi. Mai, in ogni caso, basare il nostro giudizio sulle chiacchiere, su quello che dice la gente.
Solo se ci parleremo lealmente, potremo capirci, potremo aiutarci, potremo venirci incontro e smettere di giudicare: perché quando le persone fanno qualcosa, lo fanno per motivi che esse ritengono buoni, per motivi che a priori noi non conosciamo; anzi, molto spesso non agiscono per cattiveria, ma per paura, per fragilità caratteriale, per ignoranza.
Noi, invece, cosa facciamo in genere? Piuttosto che chiarire con il fratello, corriamo dai nostri “confidenti” per sparlare, per malignare su di lui; confidenti, che poi a loro volta si sentono immediatamente in dovere di commentare il fatto con i loro “confidenti”, innescando così una reazione a catena di maldicenze inopportune, senza alcun fondamento, il più delle volte crudeli, ipocrite, ingiuste.
Smettiamola allora di creare incomprensioni di questo genere: comportiamoci da adulti! Ragioniamo da adulti! Soprattutto ascoltiamo l’interessato! Per ben quattro volte il vangelo insiste sul verbo “ascoltare”. “Se ti ascolterà ti sarai guadagnato un fratello; se non ti ascolterà prendi con te dei testimoni; se non ascolterà neppure loro, dillo alla comunità; se non ascolterà neppure la comunità, solo allora lo tratterai come un nemico”. Una incalzante ripetizione che ci impone con forza il comportamento da tenere con gli altri: ascoltare, ascoltare, ascoltare, ascoltare. Punto.
Chiediamoci allora: noi, in concreto, siamo sempre disponibili ad ascoltare il fratello? In particolare cosa preferiamo ascoltare? Forse preferiamo ascoltare le parole false e volubili dei ciarlatani di turno, piuttosto che la voce profonda e veritiera del nostro cuore? E poi, in che cosa consiste esattamente questo nostro ascoltare? Se abbiamo già deciso a priori che il fratello è colpevole, che ha sbagliato, significa forse ascoltarlo? Se rimaniamo caparbiamente attaccati alle nostre idee preconcette, significa che l’ascoltiamo? Se non accettiamo vedute diverse dalle nostre, possibilità e modi diversi dai nostri, quanto vale il nostro ascoltare? Ancora: se alcune cose le vogliamo sentire e altre no, questo per noi significa ascoltare il fratello? Se quello che ci dice ci ferisce, “ci manda in bestia” e ci chiudiamo nel nostro silenzio tirando su un muro tra noi, oppure “non vogliamo sentire ragioni”, come possiamo dire di ascoltarlo? Se mentre lui parla noi pensiamo soltanto a cosa ribattergli, significa ascoltarlo? Se abbiamo sempre già pronte le risposte ad ogni domanda, illudendoci di essere come Dio, significa ascoltarlo? Se il nostro problema è cosa diranno gli altri, preoccupandoci più di noi che di lui, vuol dire ascoltarlo? Sicuramente no: e se non sappiamo ascoltarlo, come possiamo pensare di amarlo?
La prima comunità cristiana di Matteo non era certamente perfetta: anche in essa c’erano senz’altro dei conflitti. Ecco perché egli sente la necessità di raccomandare: “In tutte le situazioni, ci sia fra di voi l’amore”. Del resto anche le comunità moderne non sono da meno; non esiste convivenza che sia esente da tensioni, da lotte, da scontri. Ma ciò è dovuto soltanto alla naturale conflittualità tra mentalità diverse, che però non esclude in alcun modo la possibilità di amare; litigare è facile, inevitabile, ma questo non è un problema, non pregiudica l’uso dell’amore fraterno; semmai un problema serio è quando due persone non litigano mai, quando due persone si dimostrano sempre e in tutto perfettamente concordi: perché nel migliore dei casi vuol dire che una delle due ha rinunciato ad essere se stessa, a camminare con le proprie gambe, “conformandosi” completamente all’altra. E questo non è un atteggiamento basato sull’amore; l’amore vero si dimostra soprattutto nel modo in cui si affrontano e si risolvono i problemi comuni, le abituali conflittualità. Solo in questo modo una comunità dimostrerà di aver raggiunto una piena maturità.
Senza la conflittualità, senza le difficoltà, senza le tensioni, una comunità non cresce. Ecco perché è determinante il modo con cui affrontiamo gli altri, perché dalla qualità del nostro approccio possono dipendere armonie o separazioni, unioni o rotture, involuzioni o crescite. Non c’è cosa peggiore del pensare che tutto vada sempre bene, del voler vedere sempre e tutto in rosa, anche quando il nero è d’obbligo! La politica del nascondere la testa sotto la sabbia, come fa lo struzzo, non è mai soddisfacente.
Dobbiamo essere sempre sinceri, accomodanti, ma anche risoluti, perché non è facendo valere le nostre ragioni che ci dimostriamo cattivi, che offendiamo l’altro o gli manchiamo di rispetto: ma è la forma, il modo con cui lo facciamo. Non esprimere né difendere il proprio punto di vista, non è indice di carità né di amore fraterno; spesso infatti lo facciamo per finto buonismo, per disinteresse, o per falsa modestia: ma questo adeguarci passivamente, talvolta irrazionalmente, alle idee, alla volontà del partner o del leader, non è sicuramente prova di bontà, quanto di una preoccupante carenza di personalità, di convinzioni, di maturità, di certezze personali.
Da qui l’importanza di confrontarci con gli altri senza pretendere di essere superiori a loro, esprimendo quello che abbiamo dentro, senza peraltro sentirci inferiori a nessuno; dobbiamo soprattutto agire empaticamente, ossia saper ascoltare l’anima delle parole di chi abbiamo davanti; dobbiamo avere sempre un ascolto che non giudica, che non cambia, che non stravolge, che non vuole fagocitare l’altro. Dobbiamo imparare a non manipolare gli altri per i nostri scopi; dobbiamo imparare a gestire, a dominare, l’invidia, la gelosia, la competizione, i sentimenti di odio, di rabbia o d’altro: sentimenti che disgraziatamente sono molto comuni anche in una “civile” convivenza. Purtroppo, per imparare bene tutto questo, non c’è una scuola specifica: per tutto c’è una scuola, ma non per imparare a “con-vivere”, a vivere bene insieme. Solo la vita può farlo, ma deve essere una vita guidata dal Suo Amore e dall’ascolto della Sua Parola. Amen.



giovedì 31 agosto 2017

3 Settembre 2017 – XXII Domenica del Tempo Ordinario

«Se qualcuno vuol venire dietro a me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua» (Mt 16,21-27).
Gesù oggi, per la prima volta, annuncia ai discepoli la sua morte. La sua missione è di cambiare il mondo, di cambiare la religione del suo tempo, di dare al mondo un volto nuovo: ma per fare tutto questo deve andare a Gerusalemme, centro del mondo; deve andare là, anche se conosce perfettamente la situazione che l’attende, anche se sa che il clima in cui deve operare sarà molto diverso rispetto a quello della Galilea, dove attualmente svolge la sua predicazione. Gesù sa che a Gerusalemme il potere religioso è in mano a scribi e farisei, e per loro Lui è un sovversivo, un anarchico, un trasgressivo, uno che deve essere eliminato ad ogni costo.
Così, quando Gesù anticipa ai suoi la possibilità di uno scontro frontale decisivo, duro, mortale, con i suoi nemici, Pietro reagisce e con la sua solita irruenza gli grida: “Signore, questo non ti accadrà mai!”.
E qui decade Pietro, il “beato” di poco prima. Come mai? Guardiamo meglio: Gesù ha deciso di raggiungere la sua destinazione, Gerusalemme. Deve compiere la sua missione: e Pietro che fa? lo “trae in disparte”, lo distoglie, cerca di sviarlo, di chiudergli la strada; in altre parole lo “tenta”; gli dice: “No, non fare così!”. E glielo dice con forza, con rabbia, gridando, come si fa quando si rimprovera uno che sbaglia e che non vuol capire il proprio errore: il verbo greco “epi-timao” significa proprio questo. Praticamente Pietro gli si para davanti, lo affronta, vuol decidere lui la vita di Gesù, vuol dirgli cosa deve o non deve fare; in pratica gli urla in faccia: “Tu non capisci, ti sbagli, non puoi fare così!”. E Gesù: “No, amico, tu sei satana. Vai indietro e non ti permettere di intralciare la mia strada”. Gesù infatti usa qui nei confronti di Pietro le stesse parole con cui aveva cacciato satana, il tentatore del deserto: “Vattene, satana(Mt 4,10). E quel Pietro che poco prima era il discepolo guida, che era il “beato, perché ispirato dal Padre”, qui, improvvisamente, diventa il demonio, il diavolo, satana, il tentatore. 
Esattamente come siamo noi quando ci ostiniamo, quando ci mettiamo contro, quando testardamente facciamo resistenza al piano di Dio. Siamo anche noi altrettanti “satana”.
Ma chi è esattamente questo Satana? Satana nella Bibbia non è mai un nemico di Dio; lo è però continuamente nei confronti dell’uomo. È un ostacolo forte nella strada che l’uomo deve percorrere per andare a Dio: “satana” (l’avversario), oppure il “diavolo” (colui che divide), è un’entità che separa, che spezza, che sconquassa l’uomo: ma attenzione: non è un’entità esterna, separata dall’uomo, autonoma, divisa da noi; non è un’entità altra da noi. Satana, il diavolo, è in noi, siamo noi stessi, è la proiezione della nostra volontà deviata, la nostra “mala manus”!
Certo, il male c’è, la perversione e il diabolico esistono! Sarebbe sciocco negarlo: ma sono realtà che non nascono spontaneamente, di loro iniziativa, autonomamente: esistono perché noi le vogliamo; sono il prodotto del nostro cuore, siamo noi quando non ci evolviamo nell’Amore divino, quando nel nostro cuore non lasciamo spazio a Dio, e veniamo dominati dal buio, dalle tenebre, dall’ignoto; quando i nostri impulsi prendono il sopravvento; quando la rabbia e l’odio ristagnano nell’anima e ci dominano.
Certo, è più semplice per noi pensare all’esistenza di una entità esterna, personalizzata, chiamata “demonio”, su cui scaricare la colpa di tutto ciò che ci capita di male, di tutto quello che non capiamo, di quello che nella nostra vita non riusciamo a spiegarci: è sicuramente molto più comodo che accettare la realtà, che cioè tutti noi, e solo noi, possiamo essere i “satana”, gli artefici del male. 
Dopo dunque aver ridimensionato la figura del povero Pietro, Gesù prosegue: “Se qualcuno vuol venire dietro a me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua”. Un invito perentorio, categorico, le cui parole meritano di essere approfondite. 
Prima di tutto c’è quel “rinneghi se stesso”; letteralmente: “dica di no a se stesso”. Un’espressione che in passato veniva generalmente spiegata con la necessità, per raggiungere la perfezione, di penalizzare se stessi, ignorarsi, spersonalizzarsi, spendersi completamente per gli altri, piuttosto che, più positivamente, coltivare quel personale seme di vita che Dio ha posto in noi: con i risultato che esaudire, ascoltare i bisogni del proprio cuore, promuovere i propri carismi, realizzare i propri sogni, era considerato peccato, un fatto negativo, sicuramente in contrasto con la fedele sequela di Cristo.
Ebbene, niente di tutto ciò: quel rinnegare, quel dire no, va riferito a satana che è in noi, significa, in altre parole, dire “no” a quanto ci divide, ci allontana da Dio; dire “no” a qualunque cosa ci sia d’inciampo sulla strada che abbiamo scelto per seguirlo. E con quanti “no” dobbiamo fare i conti! Con quanti “no” abbiamo dovuto e dobbiamo rispondere ai suggerimenti, alle lusinghe, alle tentazioni del nostro io-satana che ci tormenta in continuazione! 
Questa è la nostra croce: la croce, come dice Gesù, che ognuno deve prendere su di sé. Sì, perché tutti, indistintamente, abbiamo la nostra croce, nessuno escluso. 
Gesù ha avuto la sua di croce, noi abbiamo la nostra. Ma la vera croce di Gesù non è stato tanto il suo patibolo materiale, la morte in croce: questa è stata la “forma” esteriore, gloriosa, di accettarla: ma la sua vera croce, quella che lui ha coraggiosamente portato, è stata quella di essere fedele, lui Dio, alla sua umanità, a se stesso, alla sua missione di uomo-Dio; l’essere cioè fedele al volere del Padre, al Dio che era in lui (Padre, sia fatta la tua volontà).
E questa è anche la nostra croce: l’essere anche noi autentici fedeli al Dio che abbiamo dentro: l’essere fedeli sempre, ogni momento, senza ricorrere a stupidi compromessi; questa è la nostra vera “croce”, una croce pesantissima, poiché è motivo di continui scontri, di dure opposizioni, di rifiuto totale, di odio profondo da parte del mondo. Ci saranno giorni in cui le nostre convinzioni, le nostre scelte, non allineate alle ideologie di massa, ci esporranno alla disapprovazione, allo scherno, al disprezzo, alla commiserazione.
La nostra croce, insomma, come per Gesù, è seguire la volontà del Padre, andare fino in fondo senza mai deflettere, alla nostra vocazione, alla nostra strada, a ciò che Dio-Vita ci chiede singolarmente di vivere. Significa non sottrarci alle inevitabili contrarietà, non cedere alla voce della paura e del compromesso. 
Poi Gesù dice: “Chi vorrà salvare la propria vita la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà”. La vita non può essere conservata! Non si può rimanere sempre giovani! Non si può vivere per sempre! Non ci si può garantire contro ogni imprevisto! Non esiste un’assicurazione sulla vita che ci preservi da ogni malanno o contrarietà! Chi vive così, non vive, perché tutto il suo esistere è concentrato a conservare un qualcosa, piuttosto che a sfruttarlo, svilupparlo, goderlo. 
Prima o poi la vita finirà per tutti! È illusione pensare di conservarla! Allora spendiamola, giocamola, investiamola per qualcosa di elevato, di nobile, di meritorio, per qualcosa che sia utile, che sia significativo. Solo così sentiremo che la nostra esistenza ha un senso, il “suo” senso. Che ha prodotto cioè quei frutti per cui ci era stata donata. Altrimenti abbiamo fallito: la nostra vita è stata una vita insulsa, banale, sprecata.
Ironicamente Gesù commenta: “Qual vantaggio infatti avrà l’uomo se guadagnerà il mondo intero, e poi perderà la propria anima?”. Questo è il punto. Ci sono persone che spendono la propria vita per conquistare l’intero mondo, e ci riescono anche, ma non sono felici, non possono esserlo. Perché ciò che dà vera felicità è la Vita della propria anima. Se l’anima (la parte di noi spirituale, divina) vive, si sviluppa, cresce, dà frutto, allora noi viviamo in pace con tutti, siamo soddisfatti, felici, sereni; altrimenti no. Possiamo avere i figli più dotati del mondo, ma se non abbiamo trasmesso loro la nostra anima, la comprensione, la presenza costante, la tenerezza, l’amore e il timore di Dio, il meglio della nostra vita spirituale, alla prima difficoltà li perderemo. Possiamo avere la più elegante e ricca casa del mondo, ma se nella nostra famiglia non c’è comunicazione, non c’è scambio di sentimenti, intensità, coinvolgimento, amore, a che ci serve una reggia faraonica? La nostra persona può godere di fama, prestigio, considerazione, onori, possiamo essere rispettati, acclamati, apprezzati da tutti, ma se dentro di noi, nella nostra anima, ci sentiamo vuoti, senza valore, falliti, depressi, a che ci serve la gloria? Possiamo avere un sacco di soldi, possiamo permetterci cose grandiose, ma se non sentiamo, se non percepiamo la vitalità, l’ebbrezza, la gioia che viene dall’essere fedeli servitori di Dio, riconosciamolo, a che ci serve tutto il resto?
E Gesù conclude: “Poiché il Figlio dell’uomo verrà e renderà a ciascuno secondo le sue azioni”. Alla fine della nostra vita raccoglieremo i frutti che abbiamo seminato. La vita è onesta, leale: ci restituisce sempre quello che le chiediamo: se le chiediamo chiasso, frastuono, spensieratezza, delirio di onnipotenza, poi non chiediamoci perché siamo così ansiosi, stralunati, pieni di nevrosi; una esistenza proiettata esclusivamente all’esterno, non può amare il silenzio, la tranquillità, la quiete, indispensabili per poter parlare con la nostra anima, ascoltare la sua voce. Se non preghiamo mai e non coltiviamo mai i sentimenti del nostro cuore, non chiediamoci perché ci sentiamo così aridi, così inutili. Se non abbiamo mai tempo per stare con i nostri cari, con i nostri figli, se li ignoriamo, se non li ascoltiamo, se le nostre anime non comunicano tra loro, non chiediamoci poi perché li sentiamo così lontani, indifferenti, duri e ribelli. Se siamo chiusi nella nostra mentalità, se non cambiamo mai, se rimaniamo bloccati nelle nostre posizioni, se non ci rinnoviamo aprendoci allo Spirito, non chiediamoci poi perché non siamo capiti dagli altri, perché ci sentiamo “fuori”, perché ci sentiamo vecchi, fuori posto.
Il vero problema, in definitiva, è uno solo: dobbiamo affrontare i nostri demoni interiori, le nostre paure, dobbiamo saper rispondere a tono al nostro satana, dobbiamo puntare i piedi e gridare i nostri “no”: altrimenti è inutile poi, alla resa dei conti, piagnucolare “Signore, Signore”, tendendogli le nostre mani sporche e vuote. Sì, la misericordia divina è senza limiti, il cuore di Dio trabocca d’amore, ma non vi sembra un po’ troppo illusorio e pretenzioso contare unicamente sulla bontà divina, buttandoci alle spalle qualunque richiamo della nostra coscienza, ora che abbiamo ancora il tempo di rimediare? Non vale forse la pena di ascoltarla quella voce di Dio, per saperla almeno riconoscere quel giorno in cui ci chiamerà? Pensiamoci. Amen.



giovedì 24 agosto 2017

27 Agosto 2017 – XXI Domenica del Tempo Ordinario

«Disse loro: Ma voi, chi dite che io sia? Rispose Simon Pietro: Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente» (Mt 16,13-20).
I discepoli che seguivano Gesù, quelli che lui aveva scelto e che stavano sempre con lui, hanno potuto constatare quanto egli fosse seguito e amato dalle folle; hanno potuto assistere a miracoli e guarigioni, hanno visto morti tornare in vita, ciechi vedere, sordi udire; hanno visto tantissima gente cambiare vita; lo hanno sentito dire parole forti, vive, parole che svegliano il cuore, che fanno venire “voglia di vivere”, di sperimentarsi, di donarsi, di amare, di buttarsi nella mischia. 
Nonostante ciò, nel loro intimo, essi non riescono a staccarsi dai vecchi schemi: sono ancora imbevuti della vecchia religione, della vecchia mentalità. Hanno fatto certamente degli aggiustamenti alla loro vita, hanno effettuato degli smussamenti, delle variazioni, ma sostanzialmente sono rimasti quelli di prima.
Per questo Gesù, come ci racconta il vangelo di oggi, li mette alla prova ponendo loro una domanda a bruciapelo, per vedere in concreto cos’hanno capito di lui: “Va bene: questo è quello che gli altri pensano di me: “Ma voi chi dite che io sia?”.
A questo punto l’imbarazzo generale: la loro risposta è desolante, la confusione è totale: un guazzabuglio di idee; ciascuno pensa qualcosa di diverso, nessuno riesce a dire chi sia per loro Gesù. Non lo vedono per quello che è; lo vedono alla luce dei loro “vecchi schemi”: in lui, come tutti, essi vedono un profeta, un personaggio importante della Bibbia. È sicuramente un bel paragone, ma Gesù non è “come” qualcun altro. Gesù è Gesù, e soprattutto Gesù è completamente diverso da tutti: da quelli venuti prima e da quelli che verranno dopo.
Gesù non è uno dei tanti profeti biblici: Gesù è il Profeta, è il figlio di Dio. E questo essi non l’hanno capito.
Non è come Giovanni il Battista, il grande moralizzatore, che chiedeva insistentemente una totale conversione di vita, obbligando chi voleva battezzarsi ad una vita di penitenza e opere di misericordia. Gesù al contrario non impone mai nulla, a nessuno. La sua è una “proposta” di vita: chi vuole la segue. Seguirla, significa sentirne la bellezza, la forza, la vitalità che trasmette, la fiducia che suscita, la pace interiore che infonde. Nessuna costrizione!
Non è come Elia, zelante e intransigente difensore di Dio. Annunciava un Dio severo, duro, rigido, patriarcale, che non ammetteva nient’altro che una strada, una verità, una legge. Ha fatto uccidere quattrocentocinquanta profeti di Baal e li ha sgozzati uno per uno (1Re 18,22.40); ha “bruciato” cento uomini (2Re 1,9-12) solo per dimostrare che egli era “uomo di Dio”. Gesù non può assolutamente essere come Elia. Certo, gli apostoli lo avrebbero voluto in qualche modo così. Avrebbero voluto un uomo forte, potente, che sistemasse, una volta per tutte, le cose sia dal punto di vista religioso che sociale e politico. Ma Gesù non è così. Non c’è traccia di violenza o di sopraffazione in Lui. 
Gesù non è un profeta legato ai canoni del tempo. Gesù è profeta perché mostra il Padre fuori dal tempo.
L’autorità religiosa e profetica del tempo si fondava su due principi: paura ed obbedienza. Se i sacerdoti e le leggi religiose dicevano che uno “non era in regola” c’era da aver paura. Dio, più che da amare, era da temere, uno che bisogna tenerselo buono perché, non si sa mai, magari ci manda all’inferno! La gente era sottomessa. Non veniva aiutata ad ascoltare il proprio cuore. Anzi: era pericoloso ascoltare il proprio cuore perché ascoltarlo voleva dire sentire in maniera diversa dalle autorità, avere altri punti di vista, dissentire, e ciò era sinonimo di condanna.
Il Dio di Gesù al contrario non crea servitori, schiavi; mai! Dio crea uomini liberi. Dio non sa che farsene di esecutori senza cuore, di funzionari senza cervello, senza un pensiero autonomo, libero e personale.
Del resto obbedire (dal latino ab-audire) significa letteralmente “ascoltare da dentro”: l’obbedienza non è eseguire ciò che uno vuole, ciò che comanda, perché questa è schiavitù; obbedire, in senso stretto, vuol dire assecondare i desideri di chi abbiamo dentro, cioè di Dio; obbedire è dar voce al Dio che parla, canta, grida, sussurra, dentro di noi; obbedire è dargli voce, dargli spazio, dargli vita; obbedire invece agli altri, e non a Lui, significa farlo morire, lasciarlo sepolto, inascoltato, abbandonato dentro di noi. Obbedire, insomma, vuol dire ascoltare il nostro cuore e rimanergli fedele, vuol dire ascoltare Dio e non tradirlo; anche se sarebbe più comodo fare come tutti, adattarci alla situazione, seguire la corrente comune, evitando magari insulti, conflitti, contrasti, a volte dolorosi.
Sicuramente gli apostoli quando guardavano Gesù lo vedevano ancora così, con le vecchie categorie: paura e sottomissione. E quando Gesù pone loro la grande domanda, il silenzio che ne segue è perché proprio non sanno chi Egli sia veramente, non l’hanno ancora capito; non sanno pensare a nient’altro che ai loro “modelli”.
Solo Pietro, per un attimo, ha uno slancio vitale, un’intuizione fuori dal coro:”No, tu non sei un profeta, non sei un sacerdote così. Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente” (16,16).
In realtà i discepoli avevano già riconosciuto Gesù come “Figlio di Dio” (Mt 14,33): è che non avevano capito cosa volesse dire “Figlio di Dio”.
La novità di Pietro non è tanto dare a Gesù un titolo, una etichetta identificativa, quanto dare la spiegazione di tale titolo: “Tu sei il Cristo, il Figlio di Dio; “Tu sei il Vivente, colui che fa vivere, che dà e porta alla vita”.
E Gesù gli dice: “Beato te, Simone figlio di Giona, perché né la carne né il sangue te l’hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei cieli”.
Ci siamo mai chiesto perché Gesù chiama Pietro, “figlio di Giona”? Giona è stato l’unico profeta che nell’Antico Testamento ha fatto il contrario di quello che Dio gli aveva comandato: inviato a Ninive a predicare la conversione, lui se n’è andato nella direzione opposta (Gn 1,3). Ebbene, Pietro è “bar”, figlio, di Giona, perché è sanguigno e testardo come lui; perché anch’egli andrà contro il Signore, lo rinnegherà; ma anche lui alla fine si salverà.
E Gesù conclude: “Queste cose non le hai imparate dai libri o perché qualcuno te le ha insegnate o te le ha ordinate (né la carne né il sangue). Queste cose le cogli solo se hai un cuore vivo, solo se hai un’anima che pulsa, solo perché Dio può parlare liberamente dentro di te (“ma il Padre mio che è nei cieli”). Solo chi obbedisce a Dio, cioè solo chi lo lascia parlare dentro di sé, lo può conoscere. Gli altri riportano, deducono, pensano, ma non sanno e non possono sapere”.
Solo su questa pietra, pertanto, solo su questa certezza (che Lui è il Vivente!), è possibile costruire la chiesa; e contro questa certezza nessun potere ha potere, le porte degli inferi e il diavolo stesso non possono nulla. Essa è la chiave della felicità, la chiave di una vita piena. “Regno dei cieli”, nel vangelo, non significa un regno dell’al di là, ma una vita dove Dio vive e si fa vedere, dove si rende visibile, anche nell’al di qua.
La chiave del Regno di Dio, è allora far uscire, sprigionare tutta la vita, l’energia, la forza, che abbiamo ora dentro di noi, perché una vita “viva” è lode a Dio, una vita vissuta bene è un canto a Colui che è la Vita. Perché è solo in questo modo che i nostri legami di vita, intrecciati sulla terra, rimarranno vivi per sempre; poiché la vita di ora, liberata, sciolta dalle catene di morte, sublimata, rimarrà viva e libera per sempre nell’Amore eterno.
Le relazioni quaggiù a volte finiscono per tanti motivi: scelte diverse, egoismo, incomprensioni, lontananza, morte. Le relazioni finiscono, non l’amore. “A-more” (alfa privativo-mors, mortis) vuol dire infatti ”non-morte”. Se la nostra vita è stata Amore, vissuta nell’Amore, saremo vivi per sempre, saremo per sempre uniti con chi abbiamo amato. Anzi, nell’aldilà, non rimarrà nient’altro che la forza di attrazione dell’Amore: ecco perché non dobbiamo temere di perdere le persone amate: perché è nell’amore che rimarranno per sempre parte di noi, indissolubilmente legati a noi. Vivere l’amore è vivere Cristo, è vivere il Vivente, è vivere Colui che ci fa vivere in eterno.
Gli apostoli, solo dopo la Pentecoste, una volta liberi dai loro schemi politico-religiosi, capiranno finalmente chi è veramente Gesù; e andranno per il mondo a predicare e testimoniare esattamente questo: “Lui è vivo! Lui è la Vita! Lui ci fa vivere!”.
Anche noi, nel nostro peregrinare, non dobbiamo mai perdere di vista il Dio della Vita, il Dio dell’Amore: dev’essere Lui il nostro vero obiettivo, colui che merita tutta la nostra attenzione, i nostri interessi. Il nostro vivere da cristiani, le nostre preghiere. La nostra messa domenicale, le nostre preghiere, la nostra carità, sono solo dei mezzi che ci devono portare a Lui: anche se efficaci e fondamentali, essi rimangono pur sempre dei mezzi; e se non riescono a farci “vivere”, se non riescono ad andare oltre i semplici “riti”, le semplici “abitudini”, se non riescono a metterci in contatto vivo con Lui, sono assolutamente inutili. Non servono a nulla!
Così quando entriamo in Chiesa, dobbiamo entrarci solo per incontrare Lui, non per fare intrattenimento o promozione personale; dobbiamo entrare per ossigenarci, per consentire alla Vita di scorrere in noi più forte e più viva di prima; perché è lì, ascoltando la sua Parola, mangiando la sua carne, bevendo il suo sangue, pregando e parlando con Lui, che riusciremo a scoprire nuove ragioni di vita, nuovi spazi vitali per noi e per il mondo. Solo in questo modo, una volta usciti, ci sentiremo più motivati, più vivi, più pronti ad affrontare e superare qualunque difficoltà: non in Chiesa, ma è qui, nel mondo, nella società, che siamo chiamati a tradurre l’Amore per i fratelli in gesti concreti. Dio è Vita e Amore: ed Egli vive, si fa presente e continua a farsi riconoscere soprattutto là, dove noi esprimiamo Vita e Amore. Amen.