giovedì 20 novembre 2008

23 Novembre 2008 - Festa di Cristo Re dell'universo

L’amore è il fondamento della regalità di Cristo; l’amore, che non è un attributo, una qualità aggiunta, ma la sostanza stessa di Dio e, perciò, del Figlio; un amore effusivo, in quanto dono incessante per il bene dell’altro; un dono infinito, libero, gratuito, che in Gesù si fa servizio.
La regalità di Cristo è amore che serve; è l’amore sollecito del pastore, nel quale Gesù stesso si identifica: quel pastore buono, che non ha pace, finché l’ultima pecorella non sia rientrata nell’ovile, al sicuro; quel pastore buono, del quale le pecore conoscono la voce e lo seguono, fiduciose nella sua guida, perché unico pastore che per il suo gregge dà la vita.
Il nostro Dio, è il Dio che salva, il Dio-Re che, nel Figlio Gesù, concretamente, è sceso in mezzo al suo gregge, per illuminarlo e risanarlo, per soccorrerlo nel faticoso e insidioso cammino della vita, per curarne le ferite ed ogni infermità.
Ora, questo Sovrano, questo Re d’Amore, cosa attende dai suoi?
Nient’altro che una risposta d’amore, la quale deve concretizzarsi nell’attenzione al prossimo; sarà, infatti, l’amore, il metro di giudizio alla fine della vita, alla fine del tempo e della Storia, quando, come ci ricorda il Vangelo di oggi, «il Figlio dell'uomo verrà nella sua gloria con tutti i suoi angeli, e si siederà sul trono della sua gloria. E saranno riunite davanti a lui tutte le genti, ed egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dai capri e porrà le pecore alla sua destra e i capri alla sinistra».
“Attraverso l’amore, scrive Tolstoj, si ha coscienza di tutto ciò che è bene, e colui, che ha conosciuto l’amore, non ha più paura di vivere né di morire…»; non ha paura di vivere perché la vita è l’occasione che Dio gli dà per beneficare il prossimo, e non ha paura di morire, perché la morte segnerà l’incontro definitivo col suo Redentore, il suo Sovrano glorioso.
È, infatti, attraverso le opere dell’amore, che noi diventiamo partecipi della regalità di Cristo, nostro Signore e Maestro, che abbiamo contemplato sfigurato dal dolore e dalla morte, Egli sarà il nostro Re glorioso, se lo sapremo riconoscere in ogni uomo affamato, assetato, pellegrino, nudo, malato, condannato, perseguitato e carcerato; forse l’ultimo e il più ripugnante degli uomini, ma sempre segno della presenza del Cristo sofferente, che, ancora, cammina sulle nostre strade.
E non importa se per questi fratelli sfortunati, noi faremo cose grandi; è segno d’amore anche un sorriso, una parola di vicinanza e solidarietà; se, poi, è nelle nostre possibilità fare di più, è nostro dovere dare, darsi da fare per risollevare quel “ Cristo sofferente”, che ci si fa incontro, e rendere la sua esistenza meno indegna della condizione umana.
Nell’orizzonte dell’amore, nessun gesto è trascurabile, neppure il più semplice, perché è destinato a trasformarsi in benedizione.
«Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno..»; un regno aperto a chiunque si lasci fecondare dall’Amore: un regno cui potremo aspirare grazie alla potenza del nostro amore.

giovedì 13 novembre 2008

16 novembre 2008 - XXXIII Domenica del Tempo Ordinario

Nella prospettiva del rendiconto
La parabola dei talenti, oggetto del vangelo di oggi, è tra le più note. Un uomo, partendo per un lungo viaggio, affida i suoi beni ai dipendenti: a uno cinque talenti, a un altro due, a un terzo uno, “secondo le capacità di ciascuno”. Al ritorno chiede loro conto di come li hanno amministrati, e loda i primi due che si sono dati da fare e li hanno raddoppiati, mentre rimprovera il terzo che non ha fatto nulla e si limita a restituirgli quanto aveva ricevuto. Il significato è chiaro: Dio affida a ciascun uomo un tesoro, con l’incarico di farlo fruttare perché un giorno vorrà sapere come è stato impiegato. All’epoca di Gesù i talenti erano monete, le monete in oro di maggior valore; in seguito, proprio in base a questa parabola il termine ha assunto il significato che gli si dà oggi. Per talenti di una persona oggi si intendono le sue doti naturali, di mente o di cuore; per estensione vi si possono comprendere le capacità acquisite con l’impegno nello studio, con la costanza nell’applicazione, o anche per dono della sorte. Insomma, le capacità positive a disposizione di ciascuno, le possibilità di bene che ciascun uomo è in grado di gestire.
Allora è chiaro il significato della parabola, a cominciare dal diverso numero di talenti affidati ai singoli: tutti ne hanno almeno uno; Dio non lascia nessuno privo di capacità. Non tutti sono Leonardo o Einstein, ma tutti sanno dare una carezza o mormorare una preghiera. L’importante è non chiudersi in una presunta autosufficienza, non farsi vincere dalla pigrizia o dall’indifferenza. Tutti siamo parte di un’unica grande famiglia, del cui benessere siamo tutti corresponsabili: ciascuno secondo le sue possibilità, o contribuisce al miglioramento delle sue condizioni o inevitabilmente le peggiora. L’impegno di trafficare i propri talenti è un’applicazione della suprema, onnicomprensiva legge dell’amore, risuonata anche nel vangelo di qualche domenica fa: mettendo a frutto le proprie capacità di bene si dimostra di amare Dio che lo comanda, e di amare il prossimo che ne trarrà vantaggio. Ma per tale impegno, la parabola dei talenti offre una motivazione in più: un giorno ce ne sarà chiesto il rendiconto, e solo gli operosi si sentiranno dire: “Bene, servo buono e fedele: vieni, prendi parte alla gioia del tuo padrone”. La prospettiva finale, l’esito annunciato degli atteggiamenti assunti durante la vita terrena, dice anche quanto sia infondata l’opinione di chi ritiene che la fede si occupi soltanto dell’aldilà, che i credenti disdegnano questo mondo corrotto e destinato a finire e pensano soltanto a salvarsi l’anima. Niente di più sbagliato; è vero che salvarsi l’anima è il fine di ogni uomo, ma questo avverrà soltanto se qui, ora, a beneficio di questo mondo, ciascuno impegna tutti i talenti che Dio gli ha affidato. 'Tutti' i suoi talenti, perché, come si dice altrove nella Scrittura, a chi più è stato dato, più sarà richiesto. E nel rendiconto non importerà se il talento ha riguardato il creare una medicina che ha salvato migliaia di vite, o l’umile dare ogni giorno le medicine a un solo ammalato; l’inventare una macchina che allevi la fatica, o il lavorare con fatica quotidiana per sostentare la famiglia. L’importante è “mettercela tutta”, e in ogni caso con umiltà, senza dimenticare che quanto di buono un uomo sa fare è reso possibile da talenti di cui non è il dispotico padrone, ma soltanto il responsabile amministratore.

giovedì 6 novembre 2008

9 Novembre 2008 - Dedicazione della Basilica Lateranense

Curiosa, la festa di oggi: in tutto il mondo i cristiani romani celebrano la dedicazione della Cattedrale di Roma, come se fosse la propria Chiesa e la domenica assume un contorno di riflessione particolare. La ragione di questa festa è semplice: la liturgia ci richiama al ruolo centrale della Chiesa di Roma nella nostra esperienza e al ruolo del luogo di culto per i cristiani. Per alcune chiese italiane la prossima settimana sarà, tra l'altro, l'occasione di riflettere sul proprio essere chiesa locale. Cos'è "chiesa"? Ci viene spontaneo pensare ad un luogo, vero? D'altronde la storia dell'arte ci consegna scenari straordinari, gare di bellezza, Cattedrali che sfidano il tempo per dare lode al Signore. Nel cristianesimo come in ogni cultura e civiltà, l'arte esprime il proprio meglio quando cerca di raggiungere Dio, quando cerca di esprimere il concetto assoluto di bellezza. Ma, amici, la chiesa ha senso solo se contiene una Chiesa, cioè una comunità. La visione cristiana del tempio è piuttosto dissacrante: non esistono luoghi che contengono Dio, ma luoghi che contengono comunità che lodano Dio. Perciò le nostre chiese sono un riferimento continuo alla Chiesa fatta da persone vive. Anzi: il rischio di ridurre a museo i nostri luoghi di culto è reale e questo ci deve spronare a costruire comunità. Cos'è la Chiesa? E' il sogno di Dio, fratelli e sorelle radunati dalla sua Parola che, mettendo al servizio del Regno i propri doni, costruiscono il luogo che rende presente l'amore di Dio. Detta così è poetica e bella, concretamente, poi, ci scontriamo con la nostra fragile esperienza di comunità... Comunità stanche gestite semi-dispoticamente da sacerdoti troppo legati al proprio ruolo, comunità-alloggio che vengono vissute come un'istituzione distributrice di servizi, comunità-fantasma nella nostre grandi città in cui chi partecipa chiede solo di essere lasciato in pace ad assolvere le proprie devozioni. No, amici, realizziamo il sogno di Dio, diventiamo – finalmente – Chiesa: radunati intorno alla Parola, vivendo il proprio ministero e la propria vocazione, lasciando da parte guru e santoni, consapevoli di essere stati scelti, facciamo diventare i nostri templi dei luoghi di incontro e di accoglienza, luoghi di stile e di vangelo, luoghi che custodiscono il pane del cammino e la parola. Conserviamo le nostre chiese, valorizziamole, ma soprattutto il restauro del fuori sia sempre secondo o contemporaneo al restauro dentro la comunità. Celebrare la Cattedrale di Roma significa prendere a cuore il destino di quel pezzo di Chiesa che abita il mio quartiere, la mia città, significa rendere presente nella realtà povera che è la Parrocchia un pezzo di Regno. Ma la dedicazione della Basilica Lateranense ci spinge ad una seconda riflessione sulla cattolicità romana, cioè sulla chiesa universale (senza confini, questo significa "cattolica"!) in comunione con la chiesa madre di Roma. La Cattedrale, luogo in cui si custodisce la cattedra, il luogo da cui il Vescovo annuncia la parola, è segno di unità per tutte le parrocchie di una Chiesa locale. Nell'esperienza della Chiesa cattolica Roma, sede dell'apostolo Pietro e luogo di martirio suo e di Paolo, riveste una centralità spirituale e una vocazione particolare, la vocazione alla custodia del deposito della fede. Di cosa si tratta? Un compito difficile affidato a Pietro e alla sua comunità: custodire la fede. In parole semplici: amico che ascolti, chi ti garantisce che la mia interpretazione della Parola sia quella vissuta da duemila anni di cristianesimo? Che io non sia uno dei tanti mullah con una mia carismatica e personale interpretazione del Vangelo? Chi garantisce a me di essere nel solco scavato dall'esperienza delle comunità illuminate dallo Spirito dono del Risorto? Semplice: la comunione con Pietro e la sua Chiesa, il guardare a quella cattedra, a quell'insegnamento che diventa tutela e custode della Parola, non la Parola influenzata dalle correnti di pensiero, interpretata a proprio comodo dall'ultima moda di turno, no: la Parola vera quella pronunciata da Gesù e riecheggiata dai testimoni. Oggi è la festa della cattolicità della Chiesa e della sua unità, della bellezza della diversità e della ricchezza dell'unione intorno al carisma di Pietro, rude pescatore chiamato ad essere roccia irremovibile nella custodia delle parole del Maestro.

venerdì 31 ottobre 2008

Chi crede nel Figlio ha la vita eterna, e io lo risusciterò nell'ultimo giorno

"Non vogliamo, fratelli, che ignoriate la condizione di quelli che dormono nel Signore, affinché non siate tristi come quelli che non hanno speranza” (l Ts 4,13). Così l’apostolo Paolo scrive alla comunità cristiana di Tessalonica. Con questa memoria liturgica oggi la Chiesa vuole sostenere la nostra speranza. Non è a caso che la festa di Tutti i Santi sia così strettamente unita alla memoria dei nostri cari che ci hanno preceduto. Per certi versi direi che è la stessa festa che continua. Se pensiamo a coloro che sono morti, particolarmente a quelli che sono più cari al nostro cuore, non possiamo non sentire la tristezza della separazione. Tuttavia l’apostolo Paolo ci invita a non dimenticare il futuro che è riservato ai figli di Dio. “Voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto uno spirito da figli... E se siamo figli, siamo anche eredi”, scrive Paolo ai Romani. Aggiunge: “Io ritengo che le sofferenze del momento presente non sono paragonabili alla gloria futura che dovrà essere rivelata in noi” (Rm 8,15.18). Oggi, la santa liturgia schiude ai nostri occhi uno spiraglio di questa “gloria futura”. Per noi è futura; per i nostri cari è svelata. Essi abitano su quel monte alto ove il Signore ha preparato un banchetto per tutti i popoli. Il velo “che copre la faccia” e che fa ripiegare su se stessi è stato definitivamente strappato; i loro occhi contemplano il volto di Dio, nessuno più versa lacrime di tristezza, semmai sono di commozione senza fine. La liturgia ci dona oggi questa visione, perché sappiamo dove essi sono e dove noi andremo. La morte ci separa, è vero, e ne sentiamo tutta la tristezza; eppure non ci allontana gli uni dagli altri, non rompe i vincoli di amore che abbiamo legato sulla terra, non ci fa uscire dalla famiglia di Dio alla quale siamo stati chiamati. È quanto il Signore Gesù ci dice nel brano evangelico che abbiamo ascoltato (Mt 25,31-46). Sì, l’unica cosa che conta nella vita è l’amore: l’unica cosa che resta di tutto quel che abbiamo detto e fatto, pensato e programmato, è l’amore. L’amore è sempre grande: sebbene si manifesti in gesti piccoli come un bicchiere d’acqua, un pezzo di pane, una visita, una parola di conforto, una mano che stringe. L’amore è grande perché è sempre una scintilla di Dio che infuoca e salva la terra. Quell’abside d’oro, care sorelle e fratelli. ove vivono i santi e i nostri cari, quel mosaico infuocato possiamo costruirlo già da ora con le piccole tessere dell’amore per tutti e particolarmente per i poveri. Beati noi, se seguiremo poveramente ma decisamente il Vangelo. Ci sentiremo dire al termine dei nostri giorni: “Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo” (Mt 25,34). Allora la nostra gioia sarà piena.

Chi sono i santi

Da tempo gli scienziati mandano segnali nel cosmo in attesa di risposte da parte di esseri intelligenti esistenti in qualche pianeta sperduto. La Chiesa da sempre intrattiene un dialogo con abitanti di un altro mondo, i santi. Questo è ciò che proclamiamo dicendo: "Credo nella comunione dei santi". Se anche esistessero abitanti al di fuori del sistema solare, la comunicazione con essi sarebbe impossibile perché tra la domanda e la risposta dovrebbero passare milioni di anni. Qui invece la risposta è immediata perché c'è un centro di comunicazione e di incontro comune che è il Cristo risorto. Forse anche per il momento dell'anno in cui cade, la festa di Tutti i santi, ha qualcosa di particolare che spiega la sua popolarità e le numerose tradizioni ad essa legate in alcuni settori della cristianità. Il motivo è in ciò che dice Giovanni nella seconda lettura. In questa vita, "noi siamo figli di Dio, ma ciò che saremo ancora non appare"; siamo come l'embrione nel senso della madre che anela a nascere. I santi sono quelli che sono "nati" (la liturgia chiama "giorno natalizio", dies natalis, il giorno della loro morte); contemplarli è contemplare il nostro destino. Mentre intorno a noi la natura si spoglia e cadono le foglie, la festa di Tutti i santi ci invita a guardare in alto; ci ricorda che non siamo destinati a marcire in terra per sempre come le foglie. Il brano evangelico è quello delle Beatitudini. Una beatitudine in particolare ha ispirato la scelta del brano: "Beati coloro che hanno fame e sete di giustizia perché saranno saziati". I santi sono coloro che hanno avuto fame e sete di giustizia, cioè, nel linguaggio biblico, di santità. Non si sono rassegnati alla mediocrità, non si sono accontentati delle mezze misure. Ci aiuta a capire chi sono i santi la prima lettura della festa. Essi sono "coloro che hanno lavato le loro vesti nel sangue dell'Agnello". La santità si riceve da Cristo; non è di produzione propria. Nell'Antico Testamento essere santi voleva dire "essere separati" da tutto ciò che è impuro; nell'accezione cristiana vuol dire piuttosto il contrario e cioè "essere uniti", s'intende a Cristo. I santi, cioè i salvati, non sono soltanto quelli elencati nel calendario o nell'albo dei santi. Vi sono anche i "santi ignoti": quelli che hanno rischiato la vita per i fratelli, i martiri della giustizia e della libertà, o del dovere; i "santi laici", come li ha chiamati qualcuno. Senza saperlo anche le loro vesti sono state lavate nel sangue dell'Agnello, se hanno hanno vissuto secondo coscienza e hanno avuto a cuore il bene dei fratelli. Una domanda viene spontanea: "Cosa fanno i santi in paradiso? La risposta è, anche qui, nella prima lettura: i salvati adorano, gettano le loro corone davanti al trono, gridano: "Lode, onore, benedizione, azione di grazia...". Si realizza in essi la vera vocazione umana che è di essere "lode della gloria di Dio" (Ef 1,14). Il loro coro è guidato da Maria che in cielo continua il suo cantico di lode: "L'anima mia magnifica il Signore". È in questa lode che i santi trovano la loro beatitudine ed esultanza: "Il mio spirito esulta in Dio". L'uomo è ciò che ama e ciò che ammira. Amando e lodando Dio ci si immedesima con Dio, si partecipa della sua gloria e della sua stessa felicità. Un giorno un santo, S. Simeone il Nuovo Teologo, ebbe una esperienza mistica di Dio così forte che esclamò tra sé: "Se il paradiso non è che questo, mi basta!". Ma la voce di Cristo gli disse: "Sei ben meschino se ti accontenti di questo. La gioia che hai provato in confronto a quella del paradiso è come un cielo dipinto sulla carta rispetto al cielo vero" (padre Raniero Cantalamessa).

sabato 25 ottobre 2008

Amerai il prossimo tuo come te stesso

"Amerai il prossimo tuo come te stesso". Aggiungendo le parole "come te stesso!", Gesù ci ha messi davanti uno specchio al quale non possiamo mentire; ci ha dato un metro infallibile per scoprire se amiamo o no il prossimo. Noi sappiamo benissimo, in ogni circostanza, cosa significa amare noi stessi e cosa vorremmo che gli altri facessero per noi. Gesù non dice, si badi bene: "Quello che l'altro fa a te, tu fallo a lui". Questo sarebbe ancora la legge del taglione: "Occhio per occhio, dente per dente". Dice: quello che tu vorresti che l'altro facesse a te, tu fallo a lui (cf. Mt 7,12), che è ben diverso.
Gesù considerava l'amore del prossimo come il "suo comandamento", quello in cui si riassume tutta la Legge. "Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi" (Gv 15, 12). Molti identificano l'intero cristianesimo con il precetto dell'amore del prossimo, e non hanno del tutto torto. Dobbiamo però cercare di andare un po' oltre la superficie delle cose. Quando si parla di amore del prossimo il pensiero va subito alle "opere" di carità, alle cose che bisogna fare per il prossimo: dargli da mangiare, da bere, visitarlo; insomma aiutare il prossimo. Ma questo è un effetto dell'amore, non è ancora l'amore. Prima della beneficenza viene la benevolenza; prima che fare il bene, viene il volere bene.
La carità deve essere "senza finzioni", cioè sincera (alla lettera, "senza ipocrisia") (Rom 12, 9); si deve amare "di vero cuore" (1 Pt 1,22). Si può infatti fare la carità e l'elemosina per molti motivi che non hanno nulla a che vedere con l'amore: per farsi belli, per passare da benefattori, per guadagnarsi il paradiso, perfino per rimorso di coscienza. Molta carità che facciamo ai paesi del terzo mondo, non è dettata da amore, ma da rimorso. Ci rendiamo infatti conto della differenza scandalosa che esiste tra noi e loro e ci sentiamo in parte responsabili della loro miseria. Si può mancare di carità, anche nel "fare la carità"!
È chiaro che sarebbe un errore fatale contrapporre tra di loro l'amore del cuore e la carità dei fatti, o rifugiarsi nelle buone disposizioni interiori verso gli altri, per trovare in ciò una scusa alla propria mancanza di carità fattiva e concreta. Se tu incontri un povero affamato e intirizzito dal freddo, diceva san Giacomo, a che gli giova se gli dici: "Poveretto, va', scaldati, mangia qualcosa!", ma non gli dai nulla di ciò di cui ha bisogno? "Figlioli, aggiunge l'evangelista Giovanni, non amiamo a parole né con la lingua, ma coi fatti e nella verità" (1 Gv 3,18). Non si tratta dunque di svalutare le opere esteriori di carità, ma di far sì che esse abbiamo il loro fondamento in un genuino sentimento di amore e benevolenza.
Questa carità del cuore o interiore è la carità che tutti e sempre possiamo esercitare, è universale. Non è una carità che alcuni -i ricchi e i sani- possono solo dare e gli altri -i poveri e i malati- solo ricevere. Tutti possono farla e riceverla. Inoltre è concretissima. Si tratta di cominciare a guardare con occhio nuovo le situazioni e le persone con cui ci troviamo a vivere. Quale occhio? Ma è semplice: l'occhio con cui vorremmo che Dio guardasse noi! Occhio di scusa, di benevolenza, di comprensione, di perdono... Quando questo avviene, tutti i rapporti cambiano. Cadono, come per miracolo, tutti i motivi di prevenzione e di ostilità che impedivano di amare una certa persona e questa comincia ad apparirci per quello che è nella realtà: una povera creatura umana che soffre per le sue debolezze e i suoi limiti, come te, come tutti. È come se la maschera che gli uomini e le cose hanno posto sul suo volto venisse a cadere e la persona ci apparisse per quello che è veramente. (Padre Raniero Cantalamessa)

giovedì 23 ottobre 2008

26 Ottobre 2008 – XXX Domenica del Tempo Ordinario

Bisogna allontanarsi dagli uomini per trovare Dio? E chi ha trovato Dio può ancora ritornare verso gli uomini e vivere con loro, interessarsi di loro e lavorare con loro e per loro? In altre parole, l’amore di Dio e l’amore degli uomini sono compatibili o, al contrario, l’uno esclude l’altro in modo che bisogna assolutamente operare una scelta? Ognuna di queste domande ha ricevuto da Gesù una risposta essenziale: il primo comandamento è di amare Dio, e il secondo, che gli è simile, è di amare gli uomini. Non si può, dunque, pensare che l’entrata di Dio in una coscienza provochi l’esclusione dell’uomo (Vangelo). Anzi, i testi più sicuri del messaggio dell’Antico Testamento e di Gesù ci portano a credere con certezza che l’incontro con Dio rinnova e perfeziona l’attenzione e la sollecitudine verso gli uomini (Prima Lettura). «Dio quando si rivela personalmente lo fa servendosi delle categorie dell’uomo. Così egli si rivela Padre, Figlio, Spirito di amore; e si rivela supremamente nell’umanità di Gesù Cristo. Per questo, non è ardito affermare che bisogna conoscere l’uomo per conoscere Dio; bisogna amare l’uomo per amare Dio» (RdC 122b). Ma occorre approfondire alcuni problemi che sono imposti dagli stessi testi evangelici. Bisogna amare gli uomini, ma bisogna anche guardarsi dal mondo, saper lasciare il padre e la madre... Come accordare tra loro proposizioni che, a tutta prima, sembrano andare in direzione opposta? Dovendo assolutamente scegliere tra l’uomo e Dio, come fare? L’amore degli uomini non minaccia, a volte, l’amore di Dio? Mai la Scrittura e la tradizione cristiana hanno permesso al cri­stiano di disinteressarsi dell’uomo, sotto il pretesto di interessarsi unicamente di Dio. Mai hanno lasciato di indicare nel servizio dell’uomo un modo di servire Dio.
L’attenzione a Dio e l’attenzione all’uomo non sono così facilmente separabili. Il coltivare la «vita interiore» è un valore cristiano, un valore permanente, come il bisogno di raccoglimento. Però la “vita interiore”, quando è cristiana, non solamente non è monologo, ma neppure un parlare con Dio solo. Incontrando Dio nell’orazione il cristiano, più o meno presto, incontra inevitabilmente gli uomini che Dio crea e vuol salvare. Egli non può non sottoscrivere queste righe del p. Ricoeur: «La mia vita interiore è la sorgente delle mie relazioni esteriori. All’opposto delle sapienze meditative e contemplative della fine del paganesimo greco o dell’Oriente al di là dell’Indo, la predicazione cristiana non ha mai opposto l’essere al fare, l’interiore all’esteriore, la teoria alla prassi, la preghiera alla vita, la fede alle opere, Dio al prossimo. E’ sempre nel momento in cui la Comunità cristiana si disfa o la fede decade, che la si vede abbandonare il mondo e le sue responsabilità e ricostruire il mito dell’interiorità. Allora il Cristo non è più riconosciuto nella persona del povero, dell’esiliato, del prigioniero».
Il cristiano può allontanarsi momentaneamente dagli uomini, per pregare, per non pensare che a Dio. Può fare un’ora di meditazione senza ritrovare, espressamente, nella contemplazione di un mistero divino, il pensiero dei bisogni degli uomini... Questo, anzi, diventa, in certi momenti, una sentita necessità. Nella vita cristiana come nella vita umana in genere, esistono normalmente dei ritmi; si va dalla contemplazione all’azione, e dall’azione alla contemplazione. Ma l’allontanamento dagli uomini è sempre e solo provvisorio. Così, come accade all’interno della nostra esistenza nella quale si succedono momenti di ritiro a momenti di intensa attività; anche all’interno della Chiesa vediamo contemplativi e attivi. Il mistero di Cristo è vissuto nella Chiesa dal suo complesso, nell’insieme dei suoi membri e in quello dei secoli. Il contemplativo serve gli uomini servendo Dio, l’attivo serve Dio servendo gli uomini. I due esprimono, specializzandosi nell’imitazione dei Cristo, uno stesso e unico mistero: quello della vita religiosa del Verbo incarnato. Così è capitato e capita ancora nella storia della Chiesa. Il santo Curato d’Ars sospirava il convento e la solitudine mentre si prodigava fino in fondo a favore degli uomini; e il convento ha dato alla Chiesa grandi papi, grandi vescovi, grandi riformatori e missionari che sono passati dalla contemplazione e dalla solitudine all’azione più indefessa e senza soste.
«Amerai...». Come ricorda anche papa Benedetto XVI nell’enciclica Deus caritas est, questo verbo pone un vero dilemma. Da una parte il termine “amore” oggi è diventato una delle parole più usate e anche abusate (n. 2), alla quale annettiamo accezioni del tutto differenti. Dall’altro, «Dio è amore» esprime la centralità della fede cristiana, che ha accolto il nucleo della fede di Israele e al contempo ha dato a questo nucleo una nuova profondità in Cristo. Il divario tra il linguaggio comune e il linguaggio della fede obbliga il credente a non accontentarsi di generali e ambigue affermazioni sull’amore. E’ fondamentale che egli assuma tale termine nella ricca accezione biblica, scoprendo il cuore di Dio entro le azioni e le parole della Storia della Salvezza. L’amore cristiano ha nell’amore di Dio la propria origine, forza e riferimento, e questo è lontano da ogni retorica sentimentale e mal sopporta generiche esortazioni. Al centro ha, infatti, l’evento sconvolgente della morte di Cristo, sacrificio di perenne valore e totale donazione, croce che dice amore salvifico e di perdono, amore creatore e libero.