Bisogna allontanarsi dagli uomini per trovare Dio? E chi ha trovato Dio può ancora ritornare verso gli uomini e vivere con loro, interessarsi di loro e lavorare con loro e per loro? In altre parole, l’amore di Dio e l’amore degli uomini sono compatibili o, al contrario, l’uno esclude l’altro in modo che bisogna assolutamente operare una scelta? Ognuna di queste domande ha ricevuto da Gesù una risposta essenziale: il primo comandamento è di amare Dio, e il secondo, che gli è simile, è di amare gli uomini. Non si può, dunque, pensare che l’entrata di Dio in una coscienza provochi l’esclusione dell’uomo (Vangelo). Anzi, i testi più sicuri del messaggio dell’Antico Testamento e di Gesù ci portano a credere con certezza che l’incontro con Dio rinnova e perfeziona l’attenzione e la sollecitudine verso gli uomini (Prima Lettura). «Dio quando si rivela personalmente lo fa servendosi delle categorie dell’uomo. Così egli si rivela Padre, Figlio, Spirito di amore; e si rivela supremamente nell’umanità di Gesù Cristo. Per questo, non è ardito affermare che bisogna conoscere l’uomo per conoscere Dio; bisogna amare l’uomo per amare Dio» (RdC 122b). Ma occorre approfondire alcuni problemi che sono imposti dagli stessi testi evangelici. Bisogna amare gli uomini, ma bisogna anche guardarsi dal mondo, saper lasciare il padre e la madre... Come accordare tra loro proposizioni che, a tutta prima, sembrano andare in direzione opposta? Dovendo assolutamente scegliere tra l’uomo e Dio, come fare? L’amore degli uomini non minaccia, a volte, l’amore di Dio? Mai la Scrittura e la tradizione cristiana hanno permesso al cristiano di disinteressarsi dell’uomo, sotto il pretesto di interessarsi unicamente di Dio. Mai hanno lasciato di indicare nel servizio dell’uomo un modo di servire Dio.
L’attenzione a Dio e l’attenzione all’uomo non sono così facilmente separabili. Il coltivare la «vita interiore» è un valore cristiano, un valore permanente, come il bisogno di raccoglimento. Però la “vita interiore”, quando è cristiana, non solamente non è monologo, ma neppure un parlare con Dio solo. Incontrando Dio nell’orazione il cristiano, più o meno presto, incontra inevitabilmente gli uomini che Dio crea e vuol salvare. Egli non può non sottoscrivere queste righe del p. Ricoeur: «La mia vita interiore è la sorgente delle mie relazioni esteriori. All’opposto delle sapienze meditative e contemplative della fine del paganesimo greco o dell’Oriente al di là dell’Indo, la predicazione cristiana non ha mai opposto l’essere al fare, l’interiore all’esteriore, la teoria alla prassi, la preghiera alla vita, la fede alle opere, Dio al prossimo. E’ sempre nel momento in cui la Comunità cristiana si disfa o la fede decade, che la si vede abbandonare il mondo e le sue responsabilità e ricostruire il mito dell’interiorità. Allora il Cristo non è più riconosciuto nella persona del povero, dell’esiliato, del prigioniero».
Il cristiano può allontanarsi momentaneamente dagli uomini, per pregare, per non pensare che a Dio. Può fare un’ora di meditazione senza ritrovare, espressamente, nella contemplazione di un mistero divino, il pensiero dei bisogni degli uomini... Questo, anzi, diventa, in certi momenti, una sentita necessità. Nella vita cristiana come nella vita umana in genere, esistono normalmente dei ritmi; si va dalla contemplazione all’azione, e dall’azione alla contemplazione. Ma l’allontanamento dagli uomini è sempre e solo provvisorio. Così, come accade all’interno della nostra esistenza nella quale si succedono momenti di ritiro a momenti di intensa attività; anche all’interno della Chiesa vediamo contemplativi e attivi. Il mistero di Cristo è vissuto nella Chiesa dal suo complesso, nell’insieme dei suoi membri e in quello dei secoli. Il contemplativo serve gli uomini servendo Dio, l’attivo serve Dio servendo gli uomini. I due esprimono, specializzandosi nell’imitazione dei Cristo, uno stesso e unico mistero: quello della vita religiosa del Verbo incarnato. Così è capitato e capita ancora nella storia della Chiesa. Il santo Curato d’Ars sospirava il convento e la solitudine mentre si prodigava fino in fondo a favore degli uomini; e il convento ha dato alla Chiesa grandi papi, grandi vescovi, grandi riformatori e missionari che sono passati dalla contemplazione e dalla solitudine all’azione più indefessa e senza soste.
«Amerai...». Come ricorda anche papa Benedetto XVI nell’enciclica Deus caritas est, questo verbo pone un vero dilemma. Da una parte il termine “amore” oggi è diventato una delle parole più usate e anche abusate (n. 2), alla quale annettiamo accezioni del tutto differenti. Dall’altro, «Dio è amore» esprime la centralità della fede cristiana, che ha accolto il nucleo della fede di Israele e al contempo ha dato a questo nucleo una nuova profondità in Cristo. Il divario tra il linguaggio comune e il linguaggio della fede obbliga il credente a non accontentarsi di generali e ambigue affermazioni sull’amore. E’ fondamentale che egli assuma tale termine nella ricca accezione biblica, scoprendo il cuore di Dio entro le azioni e le parole della Storia della Salvezza. L’amore cristiano ha nell’amore di Dio la propria origine, forza e riferimento, e questo è lontano da ogni retorica sentimentale e mal sopporta generiche esortazioni. Al centro ha, infatti, l’evento sconvolgente della morte di Cristo, sacrificio di perenne valore e totale donazione, croce che dice amore salvifico e di perdono, amore creatore e libero.
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