venerdì 18 aprile 2008

20 aprile 2008 - V DOMENICA DI PASQUA

Non sia turbato il vostro cuore.
Non ho dubbi su questo: l'immagine spontanea, inconscia che abbiamo di Dio è, mediamente, orribile. L'idea di un onnipotente egoista, bastante a se stesso, misterioso e scostante, irritabile e incomprensibile, da tenere buono, un Dio che ignora la sofferenza, che permette la morte degli innocenti, che si sveglia di malumore, batte un pugno sul tavolo e provoca la morte di centinaia di migliaia di persone travolte da un maremoto.
Gesù è venuto a smentire questa tragica visione di Dio che – ahimè – perdura nel cuore degli uomini, nonostante duemila anni di cristianesimo.
Dobbiamo convertirci dal Dio che c'è nella nostra testa al Dio di Gesù Cristo!
Il Dio che Gesù racconta è il Dio d'Israele, che si è svelato progressivamente, rispettando i tempi di comprensione dell'uomo, attento alla fatica di vivere dell'uomo. È il Dio geloso (Es 20,5), che ama sul serio, non di un amore asettico, ma di un amore talmente viscerale da esigere attenzione, e spesso la Bibbia usa immagini umane per descrivere la gelosia e la passione di Dio che sente contorcersi le interiora per i suoi figli (Ger 31,20). Un Dio che svela agli uomini la strada per essere felici, le famose dieci parole (noi abbiamo tradotto "dieci comandamenti") che indicano all'uomo il percorso verso la felicità. Un Dio che conosce la sofferenza del popolo (Nm 20,16) e che vuole liberarlo attraverso l'opera di altri uomini, che sa pazientare (Sap 15,1) e scuotere, intervenire e sostenere, amare e forzare. Un Dio che sa perdonare e dimenticare, che è ostinato nel suo amore, che perseguita Israele con i suoi benefici (Sal 103,2), un Dio bellissimo, che non si riesce a vedere se non di spalle (Es 33,23), e la cui visione provoca la morte, talmente è glorioso. Un Dio che – come dicevamo – stanco di essere frainteso si fa uomo, corpo, sguardo.

Un Dio che suda e impara, si stanca e ride, fa festa e lutto, lavora e gioisce della famiglia e dell'affetto dei suoi. Un Dio che si piega sull'umanità ferita, come un buon samaritano (Lc 10,33ss) versa sulle sue ferite l'olio della consolazione e il vino della speranza, che si prende in carico l'uomo dolorante e lo conduce alla locanda del regno. Un Dio che, come un padre (Lc 15), accetta che il figlio minore se ne vada di casa con i suoi soldi, rischiando di perderlo, purché egli faccia le sue scelte, che lo accoglie con rispetto, senza chiedere ragione della sua fallimentare esperienza e gli restituisce dignità, che fa festa ed esce a convincere il rancoroso fratello maggiore ad entrare con lui. Un Dio che si commuove fino alle lacrime (Gv 11), che ama l'amicizia e l'accoglienza, che sceglie di donarsi fino in fondo, che non ha paura del rischio, che vuole morire per sigillare le parole "ti amo" rivolte a ciascuno di noi, che piange di paura e chiede qualcuno che lo ascolti, che pende nudo da una croce. La croce svela la misura di un Dio sconfitto per amore, che preferisce morire per dire l'ultima parola. Gesù ci svela il volto di un Dio paziente, silenzioso, timido, rispettoso dell'uomo. Timido, perché egli è come la brezza del mattino (1Re 19) e rispetta (lui almeno!) la libertà dei suoi figli. Un Dio adulto che ci tratta da adulti, che dice a Mosé: "ho visto la sofferenza del mio popolo... và, io ti mando" (Es 3,7-8), quando tutti avremmo preferito sentirci dire: "Ho visto la sofferenza del popolo, ora intervengo". Dio non ti allaccia le scarpe, né ti risolve i problemi: ti aiuta ad affrontarli, ti spiega che non è poi così fondamentale superarli, che la storia ha un tesoro nascosto che sei chiamato a scoprire. Gesù ci svela un Dio discretamente vittorioso nella resurrezione, che ha un piano per l'umanità, che ha un sogno, la Chiesa, i suoi discepoli, chiamati non a salvare il mondo, ma a vivere da salvati, costruendo quel regno che lui è venuto ad inaugurare, regno di giustizia e di pace, di amore e di luce, di sguardo verso l'altrove. Un Dio che viene là dove la sua comunità si raduna e si rende presente nell'amore che si scambiano i discepoli e nei Sacramenti.
Ogni uomo è chiamato a percorrere la via che è Gesù per scoprire il vero volto di Dio. Ci vuole l'intera vita per farlo, e continua conversione. Ci vuole passione ed ostinazione, intelligenza e costanza, umiltà e autenticità. Non seguiamo una regola di vita, non una teoria, ma una persona. Gesù non ci indica la via, si fa lui stesso strada da percorrere, seguendo le sue parole.

Per vivere, però, in comunione col Padre è assolutamente necessaria la relazione con Gesù. In effetti, dopo aver parlato del suo ritorno alla casa del Padre, ora Gesù parla della via che i suoi amici devono percorrere per raggiungerla. I discepoli non soltanto vengono condotti da Gesù al Padre, ma essi stessi devono mettersi in cammino. La via però è di nuovo Gesù stesso. Egli aveva già affermato: "Io sono la porta" ( Gv 10, 7.9: scorsa domenica). "Io sono la via, la verità e la vita".
Come è l'unica porta, Gesù è anche l'unica via verso il Padre: "Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me".
E' l'unica via al Padre poiché è l'unica verità, l'unica vita. E' "la verità". La "verità" significa la "rivelazione". Gesù non è soltanto colui che rivela Dio come Padre, ma in tutto quello che dice, in tutto quello che fa', in tutto quello che è, è rivelazione di Dio, è manifestazione palpabile di Dio Amore. E non è una rivelazione parziale di Dio, ma la rivelazione completa, totale, definitiva del Padre. Per conoscere Dio non hai bisogno di nessun altro, se non di Gesù soltanto. Gesù è necessario e sufficiente. Il motivo? Gesù è il Figlio unico e in tutto quello che è e dice e fa si rivela come il Figlio in relazione perfetta d'amore col Padre. Ecco la verità, cioè la rivelazione del Padre in Lui.
Gesù è "la vita": la vita divina, cioè la comunione eterna d'amore tra il Padre e il proprio Figlio nello Spirito Santo. Chi può misurare e anche solo immaginare la qualità, l'intensità, la pienezza traboccante di tale vita che il Padre comunica al Figlio? Vita che Gesù fin d'ora dona ai credenti, immettendoli nel circuito della comunione trinitaria. Ecco allora in che senso Gesù è l'unica "via" per giungere al Padre. Egli è la "verità", cioè la rivelazione del Padre. Egli è la "vita", cioè tramite l'unione con Gesù, il Figlio, noi abbiamo l'unione con Dio Padre e quindi la vita eterna, che è la vita stessa del Padre partecipata al Figlio. In quanto soltanto Gesù è il Figlio unigenito pari a Dio, solo Lui è la porta e la via di accesso al Padre, nel quale l'uomo trova la perfetta realizzazione di sé e la felicità suprema.
Lo intuisce oscuramente Filippo quando chiede a Gesù: "Mostraci il Padre e ci basta".
Questa richiesta esprime l'anelito più profondo del cuore umano: poter vedere Dio e soprattutto Dio come Padre. Vedere Dio è, appunto, il massimo che un uomo possa desiderare. Filippo, però, pensa a una manifestazione eclatante di Dio, a una esperienza straordinaria. Non sa invece che la sua attesa e la sua preghiera Dio le ha già esaudite donando Gesù. Per questo Gesù non può nascondere la sua delusione: "Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me ha visto il Padre".
Quest'ultima dichiarazione esprime in sintesi tutto il messaggio del IV Vangelo: Colui che vede l'uomo Gesù, cioè non si ferma a ciò che è esterno e corporeo, ma attraverso le opere, le parole e la vita di Gesù - tutta donata al Padre e agli uomini -, arriva a riconoscere in Lui il Figlio di Dio, vedrà, riconoscerà il Padre nel Figlio.
Gesù precisa ulteriormente: "Credetemi: io sono nel Padre e il Padre in me". Vale a dire, il Padre e il Figlio sono legati reciprocamente da una perfetta unione, per noi inimmaginabile. Ciò significa che quando Gesù parla, il Padre parla, quando Gesù compie qualche gesto, il Padre lo compie. Tali opere di Gesù sono i suoi miracoli, le sue azioni, la sua intera esistenza, che manifestano il suo rapporto filiale col Padre e l'amore del Padre che attraverso di Lui salva gli uomini. Perciò chi guarda con fede al Figlio vede, in Lui e per Lui, il Padre. Incontrare Gesù è incontrare semplicemente il Padre.
La conseguenza è anche che chi crede in Gesù "compirà le opere che Gesù compie". Cioè continua ad amare come Gesù ha amato e a operare come Gesù ha operato. Anzi, nell'esistenza e nella attività di coloro che per la fede sono uniti a Cristo, Egli stesso continua a rivelare il Padre e a condurre gli uomini a Lui. Addirittura, Gesù aggiunge che i discepoli faranno opere "più grandi" ancora di quelle compiute da Lui. Cioè il Risorto in loro continuerà la sua opera di manifestare l'amore del Padre in un raggio sempre più vasto.

Che cosa oggi turba il nostro cuore? Che cosa ci sta togliendo la pace e la gioia? Il Vangelo di questa domenica lega il turbamento al non avere un posto dove poter essere. E, in effetti, è proprio così. Quello che ci turba, che mette a soqquadro le nostre esistenze è la precarietà, non avere un posto, un luogo nel cui perimetro essere noi e soltanto noi. Un posto nel cuore degli altri, delle persone più vicine, come la moglie, il marito, l'amico, il fidanzato o la fidanzata, o anche di quelle meno prossime.
E invece è come se sbagliassimo posto, viviamo e cerchiamo di vivere nel luogo sbagliato.
"L'uomo può vivere rivolto verso l'alto, egli è capace dell'altezza. Di più: l'altezza che sola corrisponde alla misura dell'uomo è l'altezza di Dio stesso. A questa altezza l'uomo può vivere e solo da questa altezza possiamo comprenderlo davvero. L'immagine dell'uomo è elevata, ma noi abbiamo la libertà di tirarla verso il basso e strapparla oppure di lasciarci elevare, innalzare verso l'alto. Non si comprende l'uomo se ci si chiede solo da dove viene. Lo si comprende solo se ci si chiede anche dove può andare. Solo dalla sua altezza risulta chiara davvero la sua essenza. E solo quando questa altezza viene percepita, nasce un rispetto incondizionato verso l'uomo, un rispetto che lo considera sacro anche in tutte le sue profonde umiliazioni. Solo partendo da qui si può imparare ad amare l'umanità in sé e negli altri". Queste parole del Cardinal Ratzinger tratte da un'omelia sull'Ascensione ci guidano a comprendere la profondità di quanto oggi il Signore ci dice: l'unico luogo della nostra vita è il Padre, il luogo dove Gesù è andato, ci ha preparato un posto, e dal quale è tornato per prenderci e farci essere dove Lui è. Nel Padre.
Sbagliamo sempre luogo, non siamo mai tranquilli, ci manca sempre qualcosa, partoriamo progetti, aborriamo la precarietà perchè viviamo come orfani, non abbiamo Padre. Ogni luogo che ci costruiamo, spesso con fatica, non è mai il nostro luogo. Tutto alla fine ci va stretto, non possiamo digerire il verso che prende il lavoro, facciamo fatica ad accettare la relazione con i figli, con chi ci è accanto. In fondo non sopportiamo neanche noi stessi. Tutto questo costituisce la nostra esperienza quotidiana perchè il Padre, Dio, non è il luogo della nostra vita.
Il Padre non è dove siamo, per questo cerchiamo l'essere in altri luoghi. Così, ovviamente, anche la via che percorriamo è sballata, quello che prendiamo per verità è pura menzogna, la vita che viviamo sa di corruzione e di morte. Ma, se questa è la nostra realtà giunge a noi oggi il Signore Gesù con il Suo Vangelo, la buona notizia che Lui proprio oggi ritorna a noi, per portarci con Lui.
Lui è la via per il nostro luogo, quello che, nel Padre, ha preparato per noi.
Lui fa in noi la verità, cioè una vita vera, solida, bella, piena, una vita perduta per amore.
Lui ci dona la Sua vita, perchè non siamo più noi a vivere ma Lui in noi.
Via, verità e vita, Cristo in noi, per noi, con noi nel pellegrinaggio di ogni giorno verso l'unico luogo che ci si addice e che da senso e pienezza alle nostre eistenze. Lui ci nasconde nel cuore del Padre, da dove attingiamo tutto quello che fa di noi Suoi figli amati, per vivere da figli amati. Comprendiamo allora con l'allora Cardinal Ratzinger il rispetto che ogni aspetto della nostra vita merita, e che ci fa considerare sacra la nostra vita anche in tutte le sue profonde umiliazioni.
Così, scoperto il nostro luogo in Dio nostro Padre attraverso una profonda intimità con Gesù, ogni altro luogo della nostra vita non ci è più estraneo od ostile, da fuggire con orrore. Anzi, con Gesù ogni luogo diviene il nostro luogo, dove tutto è santo, dove tutto è Grazia, perchè tutto reca il profumo di Cristo, che è quello del Padre.
"La fede ci impedisce di dimenticare; desta in noi l'autentica, sconvolgente memoria dell'origine: del fatto che noi veniamo da Dio; e vi aggiunge la nuova memoria che si esprime nella festa dell'Ascensione di Cristo: la memoria che il luogo autenticamente appropriato della nostra esistenza è Dio stesso e che è da lì che dobbiamo guardare l'uomo. La memoria della fede è in questo senso pienamente positiva: libera la dimensione ultima positiva dell'uomo. Riconoscere questo è una difesa ben più efficace contro ogni riduzione dell'uomo rispetto alla semplice memoria delle negazioni che, alla fine, può lasciare dietro di sé solo il disprezzo per l'uomo. L'antidoto più efficace contro la rovina dell'uomo risiede nella memoria della sua grandezza, non in quella della sua miseria. L'Ascensione di Cristo risveglia in noi la memoria della grandezza. Essa ci rende immuni rispetto al falso moralismo che getta discredito sull'uomo. Essa ci insegna il rispetto per l'umanità e ci restituisce la gioia di essere uomini" (Card. J. Ratzinger, ibid.)

Così possiamo scoprire come è profondamente reale e vicina alla nostra vita quotidiana la richiesta di Filippo, che esprime il desiderio più profondo di ciascuno di noi, di ogni uomo: "Mostraci il Padre e ci basta".
Sì, poter vedere nostro Padre, vedere, che secondo il Vangelo di Giovanni significa credere, appoggiare la nostra vita in Dio nostro Padre, questo ci basta. Sapere con certezza che niente e nessuno potrà mai separarci dall'amore di Dio, vivere da figli sussurrando in ogni istante "Abbà, Papà", vivere stretti a Lui. Ecco, questo è tutto.
Non si tratta di ucciderlo il padre, come ci hanno insegnato per decenni in ogni modo, si tratta piuttosto di conoscerlo, e di amarlo. Per questo proprio il Padre ha inviato Suo Figlio, immagine perfetta e nitidissima di Lui, impronta della sua sostanza. E' Cristo che dobbiamo cercare, Lui dobbiamo implorare, a Lui dobbiamo stringerci senza paura. Da Lui lasciarci amare, perdonare, consolare.
Lui, Gesù, unica nostra vita. In Lui ogni nodo irrisolto della nostra vita trova la mano pronta a scioglierlo, a riconsegnare ad ogni grumo della nostra storia dignità e luce. Tutto in Cristo acquista senso, valore, gioia e gratitudine. Non un secondo della nostra vita è assente dal cuore di Cristo. Di più, ogni istante della nostra storia reca impresse le stimmate del Suo amore. La nostra vita è opera sua, ogni incontro, i genitori, la famiglia, la scuola, il lavoro, i figli, gli amici. Il nostro corpo, gli acciacchi, gli stessi spigoli del carattere, tutto è modellato perchè Lui splenda in noi.
Noi siamo opera sua, opera del Padre. Perchè Lui è nel Padre, le sue opere d'amore compiute per noi, il perdono e la misericordia che ci rigenera testimoniano fin dentro le nostre ore più grigie la tenerezza di nostro Padre. Siamo figli, amatissimi figli. Allora ogni attività non è più nostra, non ci appartiene perchè noi apparteniamo a Dio. Le opere per le quali siamo nati, per le quali oggi ci siamo svegliati sono le opere di Dio, grandi, più grandi di quanto neanche riusciamo ad immaginare. Amare, perdonare, giustificare. Comprendere il collega di lavoro, avere misericordia con il vicino di casa, non resistere di fronte alle ingiustizie sul lavoro, umiliarci e chiedere perdono ai genitori, alla moglie, al marito, al figlio. Queste sono le opere di vita eterna che Dio ha predisposto per noi, queste sono le grazie da chiedere a nostro Padre nel nome di Suo Figlio e nostro fratello Gesù.
Vivere oggi e ogni giorno la vita di Dio, scorgendo in ogni luogo e persona su cui posiamo lo sguardo la traccia inconfondibile di nostro Padre. Tutto è per noi un'eco di Dio, la Sua volontà ove, solo, è nostra pace. Cristo vivo in noi compirà ogni opera, senza alcun dubbio. E questo è il grande mistero dell'Incarnazione che si rinnova in ciascun cristiano, nel battesimo e nei sacramenti.
L'Incarnazione nella Chiesa corpo vivente e visibile del Signore. Così chiunque fissi e guardi la Chiesa può vedere Gesù, e, in Lui, il Padre, l'approdo di ogni vita, il destino di ogni uomo. La missione della Chiesa, e di ciascuno di noi, non è dunque altro che essere quello che già siamo, per incendiare il mondo con la luce di Cristo. Essere suoi. Essere uno con Lui. Rimanere nel suo amore.
Che Dio ce lo conceda, è questa davvero la Grazia più grande da implorare al Padre nel nome di Cristo: lo Spirito Santo che ci faccia intimi a Gesù, una sola carne e un solo spirito con Lui. Per noi, per il mondo. Perchè i figli, i genitori, gli amici, chiunque abbiamo a cuore possa vedere Dio, e credere in Lui. Quante volte soffriamo, ci scoraggiamo, perchè gli altri non si accorgono di Dio, non ne vogliono sapere.
Certo, ognuno è libero, ma per esserlo davvero una volta almeno nella vita deve poter vedere Dio, toccare il suo amore. Poi potrà rifiutarlo.
Per questo siamo stati chiamati nella Chiesa. Per questo prima di tutto, prima ancora che pregare per i figli, o per chiunque, è fondamentale chiedere a Dio d'essere suoi sino in fondo. E' l'evidenza di Dio in noi che aprirà al mondo lo sguardo su Dio. E' questo il fondamento della missione della Chiesa, dell'educazione, della testimonianza, della nostra stessa esistenza.
Esistiamo perchè Gesù possa prendere dimora in noi. Lui il nostro luogo, e con Lui nel Padre, nostra eterna dimora. E noi sua dimora, qui ed ora, nella nostra carne, ed eternamente, in un vincolo d'amore che nulla e nessuno potrà mai distruggere. Anche oggi, e in ogni istante. Che Dio ce lo conceda, al di là di ogni ostacolo frapposto dalla nostra debolezza.

giovedì 10 aprile 2008

13 aprile 2008 - IV DOMENICA DI PASQUA

Io sono il buon pastore...
Gesù Signore e salvatore è raffigurato come il Buon Pastore, il guardiano delle pecore, la porta che dà la possibilità di entrare al sicuro del recinto e di uscire nelle strade della vita, contando sul suo aiuto. Sono molto belle le espressioni che dice Gesù: "Il guardiano, il buon pastore, apre il recinto e le pecore ascoltano la sua voce: egli chiama le sue pecore una per una e le conduce fuori, cammina innanzi a loro e le pecore lo seguono, perché conoscono la sua voce": Poi continua: "Io sono la porta, se uno entra attraverso di me, sarà salvo; entrerà e uscirà e troverà pascolo, perché io sono venuto perché abbiano la vita e l'abbiano in abbondanza".
Queste parole vanno solo assaporate e vissute nel profondo del cuore, in un rapporto personale con Gesù risorto e vivente. È importante sentirci amati e salvati da Gesù, buon pastore, che ha dato la sua vita per noi, perché avessimo la vera vita e l'avessimo in abbondanza. Gesù non toglie nulla, Gesù dà tutto in abbondanza, dà la vita, il senso e i valori importanti dell'esistenza, la serenità, la gioia profonda del cuore, la vera salvezza di tutto noi stessi sulla terra e per l'eternità.
Allora ciascuno di noi può chiedersi: come vivo il mio rapporto con Gesù? Mi affido a lui, mi lascio guidare dalle sue parole, mi lascio salvare dalla sua forza e dalla sua grazia, ascolto la sua voce, lo seguo, torno a lui dopo i miei errori? Cerco di seguire il suo esempio, cammino sulle orme di lui, che ha sopportato con pazienza la sofferenza, che ha portato i nostri peccati nel suo corpo sul legno della croce. Così ci dice ancora Pietro nella sua lettera: "Nelle sue piaghe noi siamo stati guariti. Eravamo erranti come pecore, ora siamo tornati al pastore e guardiano delle nostre anime".

Oggi Gesù ci raggiunge e vuole comunicarci una certezza di fede: Egli è l'unico "Pastore", l'unica "Porta", l'unico che ci dà la vita vera e piena, l'unico che ci salva, l'unico che ci ama.
L'iniziativa parte da Lui: "Chiama le sue pecore una per una".
Mai dobbiamo pensare di essere ai suoi occhi degli sconosciuti, come numeri di una folla anonima. “Ognuno di voi è prezioso per Cristo, è conosciuto personalmente, è amato teneramente, anche quando non se ne rende conto" (Giovanni Paolo II ai giovani). Lui veramente ci libera e ci "conduce" alla vita piena. Ci trascina con sé nel seno del Padre. Egli è la "Porta del Padre" (Sant'Ignazio di Antiochia).
"Le sue pecore ascoltano...conoscono la sua voce". Sono felici di appartenergli, hanno un'intesa profonda con Lui. "Lo seguono". Questo verbo esprime la relazione essenziale del discepolo col proprio maestro. Significa riconoscenza lieta e colma di stupore. Il motivo: "Eravate erranti come pecore, ma ora siete tornati al Pastore e guardiano delle vostre anime" (1Pt 2,20-25: II lettura). Quale sicurezza maggiore di questa? Posso ripetere di Gesù: "Il Signore è il mio Pastore, non manco di nulla!". Significa attenzione a Lui, dialogo con Lui, prontezza a vivere la sua parola, testimonianza gioiosa e coraggiosa, disponibilità a soffrire per Lui e con Lui, impegno ad accettare e a svolgere responsabilmente quei servizi nella Chiesa e nella società che Egli ci affida.
Tante volte ci domandiamo quale decisione prendere, che comportamento adottare in situazioni difficili e complicate. Oggi il nostro cuore si apre alla speranza: abbiamo Chi cammina davanti a noi e ci apre la strada. Fare come Lui significa lasciarsi infiammare del suo stesso amore, lasciarsi guidare dal suo esempio, oltrepassare, con Lui, e come Lui, le barriere oscure del male, il tunnel buio della morte...

In questa domenica del Buon Pastore la Chiesa ci invita a vivere l'invito di Gesù che ci ha detto "La messe è molta ma gli operai sono pochi: pregate il padrone della messe perché mandi operai nella sua messe".
È la giornata mondiale di preghiera per le vocazioni. Al Signore, che è Pastore e pastore buono di tutta l'umanità, chiediamo il dono di persone disponibili e generose che sull'esempio di Gesù possano accogliere la vocazione e diventare pastori nella Chiesa e nell'umanità, per portare avanti la missione stessa di Gesù: annunciare la parola di Dio e aiutare nella fede, celebrare i misteri di Dio e offrire la grazia del Signore alle anime, vivere e aiutare a vivere il comandamento dell'amore, per essere veri figli di Dio e veri fratelli con tutti gli uomini, per una civiltà dell'amore che sia speranza e vita per l'umanità.

giovedì 3 aprile 2008

6 aprile 2008 - III DOMENICA DI PASQUA

Lo riconobbero allo spezzar del pane
Sono due, due suoi discepoli, due persone che hanno seguito Gesù nella sua vita pubblica, hanno vissuto l'esperienza dolorosissima del Maestro, morto in croce come un brigante. Il dolore così forte li ha sconvolti, ha fatto sì che non si ricordassero più della promessa della risurrezione, delusi decidono di riprendere il cammino di ritorno a casa, tutto è finito.
Pur in quel dolore incomprensibile, stanno insieme perché discepoli, ecco il primo aspetto che vorrei sottolineare: per loro si avvera la parola di Gesù: "Dove due o tre sono riuniti nel mio nome io sarò in mezzo a loro". Gesù si fa presente tra loro e spiega le Scritture, apre la loro mente alla verità. Se vogliamo capire la Parola è fondamentale stare insieme nel nome di Gesù, cioè, nell'amore reciproco, nel volersi bene, nel perdonarsi e chiedere perdono, nel ricominciare ogni volta che ci accorgiamo di esserne usciti. La presenza di Gesù vivo in mezzo ai discepoli è discreta, semplice, per questo se siamo presi ancora dai nostri ragionamenti, dal nostro dolore, essa ci sfugge, ma se abbiamo retta intenzione, appena ci fermiamo e guardiamo dentro possiamo accorgerci come i discepoli di Emmaus che il nostro cuore ardeva, era sazio, pieno, i segni della sua presenza erano già in noi. Però, soltanto quando riusciamo a unificare cuore e mente, tutto si illumina e la verità della risurrezione splende in noi.
Pur nel dolore, pur nel cammino della vita verso la notte, la presenza di Gesù risorto tra noi comincia a infondere fiducia, apertura, siamo capaci di invitare di entrare in casa nostra, di dare ospitalità a chi si è messo accanto a noi nel nostro difficile cammino. Se non lasciamo che il dolore, pur forte e profondo, ci domini, siamo capaci ancora di vedere le necessità dei fratelli e di fare la nostra parte.
Gesù entra con loro, in una casa di famiglia: a tavola, nello spezzare il pane, si rivela pienamente ai loro occhi.
La frazione del pane, la fractio panis – gesto umile, fraterno, di condivisione… era il nome che i primi cristiani davano all'Eucaristia; il greco descrive solennemente questi tre gesti: labòn tòn àrton [prese il pane] eulòghesen kài klasas [lo benedisse e lo spezzò] epedìdou autòis [lo diede loro].
Ecco, questo è il percorso che siamo invitati a vivere nella nostra vita di fede: anzitutto restare alla presenza di Gesù risorto, vivo in mezzo a noi. Non lasciarsi mai chiudere dal dolore, anche se immenso, straziante. Restiamo fermi nel volerci bene, nello scambiarci l'amore fraterno; solo allora pian piano o immediatamente capiamo le Scritture, capiamo la volontà di Dio per noi, per i fratelli. Cresce il desiderio di rimanere con Dio, di dirgli "resta con noi perché si fa sera", di farlo entrare a casa nostra, nella nostra famiglia.
Il Signore accetta l'invito, entra e si rivela pienamente ai suoi.
Accogliere la Parola per entrare in comunione con Dio si realizza pienamente nella comunione eucaristica. Gesù risorto si dona a noi nell'Eucaristia.
Quando la comunione eucaristica è il sigillo della tensione di ogni momento della nostra vita protesa alla condivisione fraterna, allora si realizza in noi ciò che hanno vissuto i discepoli di Emmaus: il dolore non è più un ostacolo per rimanere nella sequela di Gesù; allora devono riprendere con coraggio ed entusiasmo il cammino di ritorno, a quella vita di comunità che avevano abbandonato a Gerusalemme; allora corrono di notte, diventano annunciatori dell'incontro con Gesù vivo ai fratelli di fede, non hanno più timore né vergogna di testimoniare.
Possiamo chiedere come grazia specifica di questa domenica pasquale il coraggio e la gioia di annunciare anche ai nostri compagni di fede l'esperienza di un Dio vivo nella nostra vita, di Colui che abbiamo lasciato entrare e che ha trasformato il nostro dolore, dando un nuovo senso alla nostra vita. Dio è vivo!
Tanti cristiani vivono ancora come se questo non fosse vero; e stanno aspettando la nostra testimonianza di vita, il nostro annuncio.
È vero, anche tra i discepoli c'erano quelli che non credevano. Forse anche noi troveremo qualcuno un po' incredulo, ma non ci fermeremo, anzi, queste fatiche fortificheranno ancor più il nostro impegno di testimoni e annunciatori del Cristo risorto.
Parola chiave: Gesù Cristo è veramente vivo, l'abbiamo sperimentato nella nostra vita.
È questa la risposta chiarificatrice e rappacificante che ci viene dal vangelo di oggi: ogni cristiano infatti può fare esperienza del Signore risorto, nella luce della Scrittura e nella grazia dell'Eucaristia. Un'Eucaristia che non conclude, ma apre la strada della testimonianza e dell'impegno.

martedì 18 marzo 2008

23 Marzo 2008 - PASQUA DI RISURREZIONE DI NOSTRO SIGNORE


È vivo
È vivo, fratelli, è risorto, è il “per sempre presente”!
Lo abbiamo accompagnato tra gli ulivi del Getsemani, quando ci siamo assopiti, vinti dal sonno, senza sapere che, accanto a noi, si stava consumando lo scontro titanico fra le tenebre e l’Amore.
Lo abbiamo seguito da lontano, come Pietro, dopo l'arresto al Getsemani, storditi ed impauriti vedendo tanta violenza su un uomo buono e mite.
Lo abbiamo visto, appeso, sfigurato, sconvolto, stracciato, perdonare i suoi assassini fino all'ultimo soffio di vita.
Poi, assieme agli altri, ci siamo chiusi nella stanza alta, quella della cena. Come se le pareti avessero conservato qualcosa di lui. Per farci coraggio, senza neppure avere il diritto di piangere, divorati dalla paura.
Sembrava tutto finito nel peggiore dei modi, come accade spesso nella nostra vita.
Disfatta totale, partita persa, fine dei sogni.
Pensiamo: Abbiamo inseguito un sogno troppo bello per essere vero!.
E invece, sul fare del mattino, il giorno dopo lo shabbat di Pesah, Maria di Magdala è venuta a dirci di correre alla tomba.
Sì, Gesù è risorto, fratelli.
La resurrezione di Gesù, che Giovanni evita accuratamente di descrivere, è tutta una corsa.
L'inizio, ad essere onesti, è davvero sconfortante: Maria di Magdala si muove ancora nel buio (buio del cuore, come il buio in cui si viene a trovare Giuda quando esce dal Cenacolo – Gv 13,30) e sente vicina la presenza del crocifisso; quando arriva alla tomba vede la pietra ribaltata e – stranamente – non entra, non verifica. Corre dai discepoli e trae delle conclusioni affrettate: qualcuno ha rubato il corpo di Gesù.
Grande Maria! Vede dei segni ma non li sa interpretare. Di più: quando – più avanti – entrerà nel sepolcro, non resterà turbata e piena di fede come Giovanni e Pietro ma, imperterrita, continuerà a piangere, anche davanti al Risorto!
Com'è difficile uscire dal dolore!
Maria trae conclusioni affrettate, è tutta presa dalla sua percezione, non si ferma, non entra, non capisce, non approfondisce.
Piange e basta. E questo pianto le impedisce di riconoscere le fattezze del Maestro.
Ci sono lacrime e lacrime.
Quelle splendide, di conversione, di pentimento, di dolore, che lavano l'anima di Pietro, quando incrocia lo sguardo di Gesù nel cortile del Sinedrio (Lc 22,61); quelle purificatrici della prostituta che si mette a lavare i piedi di Gesù (Lc 7,38); le lacrime stesse di Gesù che si commuove alla vista del dolore per la morte di Lazzaro (Gv 11,35).
E vi sono anche lacrime inutili, come quelle già citate delle donne di Gerusalemme, e ora quelle di Maria, inconsolabili. Il limite del suo pianto, segno di un profondo dolore che merita tutto il nostro rispetto, è quello che le impedisce di accorgersi della verità.
La conversione al Risorto è difficile, difficilissima. Occorre allontanarsi dal proprio dolore.
Condividere la gioia cristiana significa superare il dolore che ci rende tristi. Non c'è che un modo per superare il dolore: non amarlo, non affezionarvisi. La gioia cristiana infatti è una tristezza superata.
Ma resistenze, dubbi, mancanza di fede pesano sul nostro cuore.
Un'esperienza dolorosa nell'infanzia, una serie di eventi che ci hanno deluso possono davvero impedirci di entrare nella gioia cristiana, che non è un'emozione, ma una scelta consapevole.
Pietro e Giovanni corrono al sepolcro. Una corsa affannosa, mentre Gerusalemme è ancora avvolta nel sonno, e il sole ha cominciato a scaldare le pietre color ocra con cui sono costruite le abitazioni e le mura che avvolgono la città.
Ma, sapete, l'età (Pietro è sicuramente più vecchio di Giovanni) e la teologia (Pietro, l'autorità, il ruolo, deve sempre star dietro a Giovanni, l'amore e la creatività) fanno sì che Giovanni giunga per primo al sepolcro e poi aspetti Pietro che arriva ansimando, senza fiato.
È questa l'esperienza delle Chiesa: correre al sepolcro e sapersi aspettare gli uni gli altri. Abbiamo ritmi diversi, siamo splendidamente diversi, fratelli. Ma siamo tutti Chiesa.

Il nostro Salvatore, che era morto, è risorto. Si è fatto uomo per morire. È morto per risorgere.
È risorto ed è vivo e glorioso per sempre. Ha vinto la morte ed è vittorioso per sempre.
Così ci ha amati del suo amore infinito fino a farsi come noi in tutto, fino a morire come tutti e per tutti: “non c'è amore più grande di chi dà la vita per la persona amata”.
Potevamo avere un Salvatore più grande? Una vocazione più alta? Una prospettiva più luminosa e santa?
Viviamo allora la Pasqua, fratelli.
Cos'è la Pasqua? Che cosa sa della Pasqua il mondo che ci circonda? La festa della primavera? La festa della natura che si risveglia, dell'uovo nel suo simbolo di vita? Un'altra occasione di schiavitù nella nostra società dei consumi? Una tradizione religiosa – certamente importante - ma di cui non si conosce il contenuto e di cui non interessano le conseguenze perché ci sembra più opportuno continuare a vivere solamente per i soldi, per gli affari, per i piaceri in una concezione materialistica della vita?
Occorre ridare alla Pasqua la sua autenticità, il suo respiro, la sua verità cristiana.
Pasqua è un termine che significa: passaggio, liberazione.
La Pasqua del popolo ebraico è stato il grande passaggio dalla schiavitù dell'Egitto alla libertà e alla gioia della terra promessa.
La Pasqua di Cristo è il passaggio dalla sua morte di croce alla sua resurrezione.
Gesù di Nazaret, condannato a morte, chiuso in un sepolcro, risorge, è vivo ed è vivo per sempre. Condannato per la novità che proclamava, suggella e conferma il suo messaggio con la risurrezione. Aveva affermato di essere il Figlio di Dio: la resurrezione ne è la prova più grande.
La pasqua del cristiano, inserito nel movimento di liberazione del Cristo, è il passaggio dal male al bene, la liberazione da ogni forma di schiavitù, di male, di limite e la realizzazione delle opere stesse di Dio in una vita rinnovata e diversa. “Se siete risorti con Cristo, scrive S. Paolo, cercate le cose di lassù, non quelle della terra, pensate alle cose di lassù”.
Il cristiano è chiamato ad essere il testimone della resurrezione, della resurrezione di Cristo e della resurrezione degli uomini.
Ci crede e porta questa fede agli altri. Crede a Cristo vivo per sempre, crede che tutti gli uomini, vivranno - al di là della morte - per sempre.
Il cristiano è chiamato a credere alla resurrezione già su questa terra, impegnandosi per la liberazione totale dell'uomo, per la costruzione di una vita completamente nuova, diversa, impostata su rapporti nuovi. “Questo è il mio comandamento: amatevi gli uni gli altri come io vi ho amati”.
Il mondo è vecchio perché è nel peccato, perché vive secondo l'egoismo. La novità è l'amore. Dio è novità assoluta e perenne, Cristo è novità, la Chiesa è novità, il cristiano è novità. Perché tutto è amore.
Questa novità si esprime in un comportamento e uno stile di vita che è radicalmente rivoluzionario: la rivoluzione dei consigli evangelici, la rivoluzione delle beatitudini:
«beati i poveri, i miti, i puri, i costruttori di pace, i perseguitati...».
Il cristiano trova la forza di costruire la novità, cioè la pasqua di Cristo nella sua vita, attraverso i Sacramenti pasquali che Cristo ha offerto agli uomini: l'Eucarestia, il sacerdozio, il perdono nella confessione.
Siamo invitati a vivere i sacramenti pasquali, a vivere le beatitudini evangeliche, vivere la risurrezione, cioè a costruire la nostra esistenza in pienezza.
E Cristo Gesù, risorto e vivente per sempre, è il nostro salvatore, la nostra forza e il nostro sostegno ogni momento. In particolare Cristo è nostra forza e nostra salvezza nell'Eucarestia.
“Rimani con noi Signore”, “Io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo”.
Cristo Risorto è vivo e presente con noi, in mezzo a noi nel sacramento dell'Eucarestia.

giovedì 6 marzo 2008

9 Marzo 2008 - V DOMENICA DI QUARESIMA

Io sono la risurrezione e la vita…
L’ultima opera del Messia è stata l’illuminazione del cieco: ci ha aperto gli occhi sulla realtà, mostrando la verità di Dio e dell’uomo. Ora ci dà la libertà davanti al nostro limite ultimo: la risurrezione di Lazzaro ci apre gli occhi sulla morte, ipoteca di tutta la vita. Guardare negli occhi la morte e scrutarne il mistero, è necessario per vivere. Altrimenti la nostra esistenza rimane una fuga, coatta e inutile, da ciò che sappiamo essere il sicuro punto d’arrivo.
L’uomo è l’unico animale cosciente di morire: sa di essere-per-la-morte. Per questo, di sua natura, è cultura. La cultura infatti è una «macchina di immortalità»; ogni nostro sapere e potere è finalizzato ad affrancarci dalla morte e avere più vita. E una macchina splendida e imponente. Ma anche assurda ed impotente: non potendo vincere, cerchiamo di rinviare e rimuovere, o, nel migliore dei casi, interpretare l’appuntamento ineluttabile. La morte comunque, finché viviamo, ci costringe al suo gioco e ci tiene sempre in scacco, che, presto o tardi, è matto. Salvarci da essa è il desiderio che detta ogni nostra mossa, ma sappiamo già in anticipo che sarà frustrato. Non siamo liberi di perseguire la nostra aspirazione: ci sentiamo incantati e dominati dal Fato, che vanifica ogni nostra opera. Restiamo in attesa che sia reciso il tenue filo che ci tiene sospesi nel vuoto, per ricadere nel nulla, noi e ogni nostra fatica. L’esistenza è una condanna. A pensarci bene, l’unica libertà che abbiamo è quella di chi deve essere giustiziato da un momento all’altro, con la tortura di non sapere quando.
Gesù ci salva non «dalla» morte. È impossibile: siamo mortali. Ci salva invece «nella» morte. Non ci toglie quel limite che ci è necessario per esistere, né la dignità di esserne coscienti; ci offre però di comprenderlo e viverlo in modo nuovo, divino. Ogni nostro limite, compreso l’ultimo, non è la negazione di noi stessi, ma luogo di relazione con gli altri e con l’Altro. Invece di chiuderci in difesa o in attacco, possiamo aprirci alla comunione e realizzarci a immagine di Dio, che è amore.
Gesù non ci offre una ricetta, menzognera, per salvarci dal comune destino; ci fa invece vedere come si può vivere l’amore fino a dare la vita. Questa, come il respiro, non possiamo possederla e trattenerla: morremmo subito. Siamo però liberi di spenderla nell’egoismo o investirla nell’amore, sapendo che «chi ama la sua vita la perde e chi odia la sua vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna» (12,25). Noi conosciamo una vita che è per la morte; Gesù ci rivela una morte che è per la vita.
Siamo all’ultimo dei «segni», che rivelano la gloria del Figlio di Dio. Dopo questo racconto seguirà la sua passione, che realizza il significato di tutta la sua azione: Gesù è il Figlio perché comunica la propria vita ai fratelli, e la comunica perché è il Figlio.
Gesù, come Lazzaro e ogni uomo, muore. Egli però ha il potere di offrire la vita e di riceverla di nuovo. Anzi proprio perché la offre, la riceve come Figlio uguale al Padre, datore di vita. Questo è il «comando» ricevuto dal Padre (10,18), che lo costituisce Figlio e lo rende nostro fratello.
Quest’ultimo segno richiama il primo: rivela la gloria del Figlio dell’uomo (vv. 4.40; cf. 2,11!), donata a ogni figlio d’uomo. E quella gloria che apparirà sulla croce:
la gloria dell’Unigenito dal Padre (1,14b), che dà, a chi lo accoglie, il potere di diventare figlio di Dio (1,12).
Gesù, dando la vita a Lazzaro, sarà condannato a morte (v. 53). Chi dona vita, riceve morte; ma, proprio ricevendo morte, dà vita. E il paradosso della croce, ormai all’orizzonte. Essa esprime l’apice sia del male che è nell’uomo, sia del bene che Dio gli vuole: manifesta la «sua gloria», amore senza limiti, che si fa carico di ogni nostro limite. Nel piano di Dio il nostro male è assunto come luogo in cui egli si rivela pienamente e ci salva.

Betania:
Ci si arriva uscendo da Gerusalemme, scendendo nell'avvallamento del Cedron per poi risalire sulla collina, attraverso i polverosi sentieri che solcano i poderi coltivati del Monte degli Ulivi.
Tre chilometri che Gesù percorre spesso per incontrare Lazzaro, Marta e Maria.
Betania, per chi ama Cristo, è un nome fortemente evocativo.
A Betania, dai suoi tre amici, Gesù si rifugiava quando, col cuore gonfio di tensione e d'incomprensione, lasciava la Gerusalemme che uccide i profeti per trovare un angolo di serenità. Betania svela il volto di un Dio che sente il bisogno di essere amato, che si disseta della fede della Samaritana, cercatrice di Dio. Betania è l'icona dell'amicizia tra Dio e l'uomo, Betania è il segno di un approccio diverso, nuovo, al volto di Dio.
E, proprio su Betania, si abbatte la tragedia: Lazzaro si ammala gravemente. Qualcuno si prende la briga di avvisare Gesù, di dirgli: "Il tuo amico è malato".
Gesù ora lo sa, ma non fa nulla, e Lazzaro muore. Che mistero l'apparente silenzio di Dio. Che assordante silenzio, quello di Dio. Gesù non guarisce Lazzaro, ma scende a vedere, si fa presente.

Il tumulto è grande, c'è molta gente intorno a Marta e Maria, le nostre amiche sono conosciute e stimate. Sapendo che arriva il Maestro, finalmente, Marta prima e poi Maria, escono di casa e gli vanno incontro: cercano una Parola, un gesto, uno sguardo. Lazzaro è morto, Gesù era lontano.
Succede anche nelle nostre povere vite: qualcuno muore, e Gesù è lontano.
Qualcosa muore (la fede, la speranza, la fiducia) e Gesù è lontano.
Le sorelle non disperano. Amano.
Non capiscono, non urlano, non inveiscono, né piegano la testa in una rassegnata disperazione. Attendono, fiduciose. Lazzaro è morto, il loro amato fratello è morto. Ma ora l'amico è qui.
Marta e Maria piangono, la folla lo spinge a vedere, Dio viene accompagnato a vedere quanta disperazione suscita la morte, quanto dolore suscita il dolore.
Gesù vede la disperazione di Maria e il dolore dei giudei e ne è turbato. Chiede di vedere Lazzaro e la risposta è: "Vieni e vedi".
"Vieni e vedi". È la stessa frase che egli aveva rivolto, tre anni prima, ai suoi primi due discepoli, Giovanni e Andrea, che gli avevano chiesto dove abitasse: "Venite e vedrete" (Gv 1,39).
I discepoli (e noi) erano invitati a mettersi in gioco, a partecipare: la fede è un "andare a vedere", un'esperienza di fuoco.
Ora è Gesù che si fa discepolo. Ora è lui che è chiamato ad andare a vedere.
A vedere quanto dolore suscita il dolore.
A vedere nel volto dei suoi amici più cari la disperazione che suscita in noi la morte.
E Dio piange. È come se Gesù, fino ad allora, non avesse ancora visto la casa del dolore, come se solo in quel momento Gesù prendesse consapevolezza della devastazione della morte.
Certo: Gesù aveva incontrato ammalati e aveva anche risuscitato dei morti, come la figlia di Giairo o il figlio unico della madre vedova. Ma erano degli sconosciuti.
Qui, ora, per la prima volta Dio vede il dolore che il dolore suscita nel cuore di persone che egli ama.
Dio impara il dolore, diventa discepolo. Divenendo uomo, lui che è l'assoluta perfezione, l'immensa totalità, impara la fragilità. Dio piange, fratelli.
Davanti a quel pianto possiamo, come la folla, lamentarci del fatto che, invece di piangere, poteva fare qualcosa prima. O restare stupiti di tanto amore.
Il cristianesimo, di fronte al dolore, si pone, impotente, davanti a questa sconcertante notizia: Dio condivide il dolore e, assumendolo, lo redime. Non lo evita, né per sé, né per noi.
Non so se preferisco un Dio che condivide il dolore con me o un Dio che mi eviti la sofferenza.
Come uno dei due ladri appesi alla croce, sento dentro di me la lacerazione di volere, da chi può tutto, che mi tolga dalla croce. Oppure, come l'altro ladro, non so se stupirmi di un Dio che soffre esattamente come me (Lc 23,39-43). Non lo so.
Forse, realisticamente, preferirei un Dio assoluto e onnipotente, che mi eviti la sofferenza, piuttosto che un Dio che muore per amore. Davanti a questo dolore inatteso, Gesù, l'amico, prende una
decisione: darà la sua vita perché Lazzaro torni alle sue amate sorelle.
Una vita per la vita: un episodio che avviene appena prima dell'ingresso di Gesù a Gerusalemme.
Questo miracolo eclatante sarà la goccia che farà traboccare il vaso, la valanga che si distacca e tutto travolge, portandolo a morire.
La tensione è alle stelle, i suoi nemici si aspettano un solo microscopico passo falso per denunciarlo.
Gesù lo sa (Tommaso glielo ha detto: andremo a morire!) e accetta lo scambio.
Lo stesso scambio che, da lì a qualche giorno, farà dall'altare della croce per ciascuno di noi.
Ora che Dio conosce il dolore che la morte suscita nei cuori di chi si ama, decide di donare la sua vita.
Anche a noi, l'amico Gesù, grida: "Tu e tu e tu… venite fuori!". E allora veniamo fuori, fratelli, dalla nostra tomba, dalle nostre tenebre, dalle nostre piccole sicurezze, veniamo fuori dai nostri pregiudizi, dai nostri schemi, dai nostri egoismi. Veniamo fuori dalle nostre oscurità, veniamo fuori da tutto ciò che di freddo e di buio abita in noi, e… lasciamoci rivivere.
Crediamo, finalmente, lasciamoci raggiungere, infine.

venerdì 29 febbraio 2008

2 Marzo 2008 - IV DOMENICA DI QUARESIMA


Ora siete luce nel Signore
Quaresima tempo di desertificazione, tempo di autenticità per riscoprirci più uomini e scegliere di essere discepoli. Il Tabor ci aspetta, la bellezza di Dio è il termine ultimo del nostro cammino. Come la Samaritana, anche noi scopriamo che Dio solo può dissetare la nostra vita, e Dio ci svela che lui per primo ha sete di noi e della nostra fede. Un percorso iniziatico che in passato preparava i catecumeni a ricevere il Battesimo e che oggi porta noi a prendere consapevolezza di ciò che possiamo diventare.
Per trovare Dio occorre scoprire la sete di infinito che abita nel profondo del nostro cuore e che nulla, neppure la vita affettiva della donna di domenica scorsa, può davvero saziare.
Nel racconto del cieco nato Giovanni non si accontenta, come negli altri Vangeli, di raccontare un miracolo, ma di questo miracolo ne dona interpretazione e significato.
L'uomo è cieco, ma Dio ci vede benissimo. L'inizio del brano, che ci mostra Gesù che vede, è una provocazione alla nostra poca fede. Quante volte abbiamo l'impressione che Dio sia cieco? Che non veda la sofferenza degli uomini, che non si chini a vedere le mie difficoltà?
Dio ci vede benissimo, noi, spesso, no. La nostra miopia interiore, la nostra cecità, ci fanno esprimere giudizi affrettati, ingiusti nei confronti di Dio. Gesù ci svela il volto di un Dio misericordioso, attento, delicato, rispettoso, che conosce e guarisce le nostre miserie interiori.
Come il colloquio strepitoso con la donna di domenica scorsa, diffidente, all'inizio, che viene portata dal Maestro a guardarsi dentro con serenità, a riconoscere il proprio limite. E quando scopre, lei che non poteva entrare nel Tempio di Gerusalemme perché ebrea e non poteva entrare in quello di Garizim perché giudicata, che Dio la faceva diventare Tempio, abbandona la brocca dell'appartenenza relativa per riconoscere in Gesù il Messia atteso. Un Messia che conosce il dolore, nel suo caso il dolore di un'affettività a pezzi, e lo redime.
La cecità del personaggio di oggi è la nostra cecità, la nostra incapacità a credere, la nostra fatica a credere. Al tempo di Gesù, malgrado secoli di riflessione sulla sofferenza (Giobbe insegna), molti erano convinti che la malattia fosse punizione divina. Ragionamento corretto e implacabile: se sgarri Dio ti punisce con la malattia, se nasci malato hanno peccato i tuoi e Dio ti punisce attraverso i figli. Dio crudele ma ineccepibile.
Al tempo di Gesù. Oggi, grazie a Dio, nessuna più pensa queste cose orribili.
Gesù scardina quest'opinione: il punito, il maledetto diventa discepolo, la cecità non è più limite ma apertura ad una dimensione più profonda, più luminosa della realtà stessa. L'abbandonato, il reietto giudicato (i malati non suscitavano compassione: se l'erano cercata!) viene salvato, guarito, illuminato.
Anche noi discepoli siamo chiamati a superare la cecità, ad essere accesi e illuminati. L'uomo, così bravo a scoprire e usare le leggi della natura e del cosmo, ancora si vive come un Mistero irrisolto, si percepisce con profondità vertiginosa, non sa darsi risposta.
Manchiamo di coscienza di noi stessi. Pur conoscendoci, non riusciamo a sondare tutti gli aspetti della nostra vita, del nostro carattere; Dio, allora, ci rivela a noi stessi.
Con il dono della fede, ci illumina la vita.
Tempo fa un amico diventato credente diceva: "E' come se fossi sempre vissuto in una stanza al buio. Certo: mi orientavo, mi muovevo, ogni tanto urtavo qualche oggetto che mi provocava dolore. Poi, d'improvviso, qualcuno ha aperto le ante e la luce è entrata".
Sì: l'esperienza della fede è illuminazione interiore. A noi, solo, di non tenere gli occhi chiusi per ostinarci a dire: "E' buio".
Questa coscienza di chiarezza era così forte che in origine i cristiani chiamavano il Battesimo proprio "illuminazione". Riscoprire la fede diventa allora esigenza portante, fondamentale, per acquistare una prospettiva sulla vita e sulle cose completamente diversa.
Davanti alla vista del cieco nato, però, occorre aprire il cuore, fidarsi. I dotti del tempo di Gesù, davanti a questa guarigione si irrigidiscono, non vogliono capire, non vogliono vedere. Così i genitori del cieco hanno paura del giudizio dei Farisei: anche loro vivono nelle tenebre del pensiero altrui, dell'omologazione che impedisce di essere liberi di fronte alle scelte.
Il grande Giovanni, al solito, gioca sull'ambiguità: chi è cieco e chi ci vede dentro questo racconto? Chi credeva di vederci benissimo è, in realtà, inchiodato ai suoi pregiudizi (anche religiosi!) o al giudizio degli altri. Il cieco, maledetto da Dio secondo gli uomini è, in realtà, l'unico a vederci benissimo!
Il miracolo conduce il cieco ad un'altra luce, ben più profonda.
Le domande che Gesù gli rivolge, portano ad una conclusione: sì ora può vedere chiaramente che Gesù è il Messia, il Figlio dell'uomo.
Cosa significa camminare nella luce? Significa innanzitutto abbandonare le luci false: la luce fredda e fatua del pregiudizio contro gli altri, perché il pregiudizio distorce la realtà, falsa le proporzioni, ci carica di avversione contro coloro che giudichiamo senza misericordia, condanniamo senza appello. Non possiamo pretendere di essere luce di noi stessi. Un'altra luce falsa, perché seducente e ambigua, è quella dell'interesse personale: se valutiamo uomini e cose in base al criterio del nostro utile, del nostro piacere, del nostro prestigio, inevitabilmente non facciamo la verità nelle relazioni e nelle situazioni. Il buio del nostro cuore ci acceca: non riusciamo a vedere oltre la superficie dei fatti e delle cose; come possiamo discernere con obiettività? Tante volte poi la vista ci si appanna perché ci autocondanniamo a camminare con la luce fioca del lumicino del tran-tran quotidiano: come possiamo orientarci nel groviglio di situazioni complesse e delicate se a forza di vivere il giorno-per-giorno ci riduciamo poi a vivere alla giornata?
Camminare nella luce - ci ha detto s. Paolo - consiste "in ogni bontà, giustizia e verità"; consiste nel "cercare ciò che piace al Signore". Camminare nella luce significa saper vedere Dio alla regia di una storia che sembrerebbe condotta solo dagli uomini; significa saper leggere le tracce della sua sapienza e bontà sui sentieri a zig-zag della nostra vita; significa riuscire a decifrare i misteriosi messaggi del suo amore anche nelle pagine striate di lacrime e sangue nel nostro calendario.
Ci valga di incoraggiamento questo passaggio di s. Agostino: "Forse tu cerchi di camminare, perché ti dolgono i piedi. Per qual motivo ti dolgono? Perché hanno dovuto percorrere i duri sentieri imposti dal tuo tirannico egoismo? Ma il Verbo di Dio ha guarito anche gli zoppi. Tu replichi: Sì, ho i piedi sani, ma non vedo la strada. Ebbene, sappi che egli ha illuminato perfino i ciechi".
Non chiudiamoci quindi nei pregiudizi e nella vergogna della nostra fede: sappiamo che tutta la luce che abita nel nostro cuore è dono della tenerezza di Dio.
Accogliamo la sfida, fratelli, non opponiamo resistenza alla luce, lasciamo le dita di Gesù toccare i nostri occhi e guarirli. Che la nostra vita diventi testimonianza di quest'illuminazione.
Non abbiamo paura ma fidiamoci di Colui che, solo, può guarire la nostra cecità. Il nostro Battesimo, ancora tutto da riscoprire, ci ha aperto gli occhi della fede. Usiamoli, ora, per rileggere la nostra vita con lo sguardo stesso di Dio.

giovedì 21 febbraio 2008

24 Febbraio 2008 - III DOMENICA DI QUARESIMA


Cristo, acqua per la nostra sete di assoluto
É facile, leggendo lentamente questa pagina di Giovanni, socchiudere gli occhi ed immaginare la sassosa terra di Palestina: il sole cocente, l'aria che evapora, il caldo che si appiccica alla pelle. Mezzogiorno in Palestina equivale ad una frustata di aria calda e polverosa nei polmoni. Qui, al pozzo di Sicar, nel brullo deserto di Giuda, Dio siede, stanco. Stanco di cercarci, stanco di elemosinare attenzione dalle sue creature.
É lo strano destino di un Dio che per amore accetta la nostra indifferenza. Nel deserto cocente anche Dio prova sete. Sete della nostra fede, sete di vedere colmato il suo infinito desiderio di amare ed essere amato.
La Samaritana viene al pozzo ad attingere acqua. Un' ora inconsueta per far acqua, che rivela il suo desiderio di non incontrare nessuno. Non incontrare soprattutto gli occhi e i giudizi degli abitanti di quel minuscolo paesino che conosce e disapprova la sua frammentata vita sentimentale.
E lì, in questo affresco che Giovanni sa descrivere con grazia e pudore, avviene l'incontro. Un incontro di sete e di acqua, di attenzioni e di scoperte, d'interrogativi e di frescura che riempie il cuore. L'incontro della sete di Dio che brama di dissetarsi della fede della donna, e dell'acqua della presenza di Dio che, sola, placherà la sete di felicità di questa donna inquieta.
Gesù inizia, prende l'iniziativa, ci interpella: "Dammi da bere".
Una richiesta che rimanda ad un'altra richiesta – tragica – che Gesù farà dall'alto del legno a cui è inchiodato: "Ho sete". Sì: Dio ha sete di noi, della nostra fede, della nostra attenzione. Ci chiama, ci parla di senso e di pienezza, risveglia la nostra ricerca. La Samaritana non ci sta, non si scopre, gira intorno all'essenziale. "Chi è mai - pensa - questo sconosciuto che mi parla? Che vuole?".
Lei come noi, sta sulle difensive, come se Dio fosse un avversario, un concorrente.
Il dialogo continua, e rivela alla donna il volto di un Dio sempre meno duro, un volto sempre più attento e rispettoso. Gesù la sa condurre sapientemente, passo dopo passo, dentro a se stessa. La porta, con sbalorditiva delicatezza, a mettersi in discussione, a riconoscere il suo limite, a superarlo.

La donna ora accetta una domanda personale, che coinvolge la sua affettività e rivela la sua allergia all'incontro con i compaesani: è una donna fragile, giudicata, che incontra solo sguardi e commenti offensivi e che ora – invece – incontra uno sguardo buono sul serio, che non giudica e ama.
Anche lei ha sete, una sete tormentata che ha creduto placare offrendo amore disperatamente, usata nei suoi affetti e nel suo corpo, una sete che nessun abbraccio ha colmato, ma solo temporaneamente zittito. Quella sete, sentendo parlare quel maschio straniero che la tratta come una persona, che la guarda con amore rispettoso e virile, ora esplode nel suo cuore. Prima timidamente e con durezza (troppe cicatrici nel suo cuore), poi come un urlo tanto a lungo compresso e negato.
Imparassimo – noi educatori, genitori, insegnanti – a saper ascoltare chi ci parla, a forzare con delicatezza e rispetto il suo cammino, a fidarci della capacità di cambiare che abita il cuore di ogni uomo come fa Gesù con questa donna.
Gesù rivela un'inconsueta capacità di dialogo, di relazione, nel rispetto e nell'amore. La Samaritana passa dalla discussione accademica sulla "religione" ("E' qui che dobbiamo adorare?") alla percezione che davanti a questo sconosciuto può aprirsi, di lui può fidarsi, perché parla di Dio come mai nessuno le ha parlato.
Tace, la donna. Mai nessuno le aveva detto di essere un tempio, di essere amata. Mai nessuno l'aveva amata. Il mondo si era diviso in chi l'aveva usata e in chi l'aveva condannata. Nessuno, mai, le aveva detto di essere amata senza condizioni. Beve, ora, la samaritana, beve come se mai avesse assaporato il gusto dell'acqua, come sei mai avesse assaggiato l'acqua fresca di sorgente. Beve e sente in lei aprirsi la sorgente, spezzare la roccia del dolore, come quella che Mosè diede al popolo nel deserto.
Corre. E crede. La peccatrice diventa discepola, la donnaccia, un'opera d'arte. Il suo limite diventa il trono della gloria di Dio, la sua vita disordinata l'epifania del volto di Dio. Beve, ora, e lei stessa diventa sorgente.
Lascia la brocca - che importa ormai? - e corre dai suoi sospettosi vicini. Non ha più paura, non si vergogna, non si difende. Ha capito, ha trovato l'acqua viva, ne parla, contagia col suo stupore chi l'ascolta.
Il suo limite diventa addirittura mezzo di evangelizzazione: le persone che prima guardava con sospetto diventano persone da contagiare: lei ha incontrato qualcuno che le ha letto la vita, che sia lui il Messia tanto atteso? E in questo crescendo di grazia, l'acqua corre, come un rivolo, prima, poi sempre più energica, come un torrente in piena.
É l'acqua della presenza di Dio che da quel giorno ha sostituito il limaccioso pozzo di Giacobbe. L'acqua, la stessa acqua nella quale siamo stati immersi, il giorno del nostro Battesimo. L'acqua della Presenza di Dio, la sola che può dissetarci.
Pagina semplice, fresca, luminosa, che non necessita di troppi commenti.
A te che leggi, fratello, sorella, il Signore chiede di dargli da bere, di chiacchierare, di passare dalle belle definizioni astratte su Dio al coinvolgimento della tua e della nostra storia, anche della più oscura. Il Dio che disseta, il Dio che stanco ci attende al pozzo delle nostre giornate, il Dio che non ci giudica quando tutti puntano l'indice, il Dio che riempie e cambia la vita della Samaritana, il Dio che cambia il volto di quel minuscolo paese che spalancherà le proprie case al fiume di grazia, ti attende.
Un Dio da incontrare, alla fine del cammino del deserto, da ammirare stupiti sul Tabor, che ci cerca, stanco, per dissetarci, il Dio bellissimo di Gesù.
No, nessuna sete potrà mai essere spenta se non dall'incontenibile sguardo di Dio.

In pratica….
È questo allora il suggerimento stupendo che ci viene dalla Parola di Dio di questa domenica: per prepararci bene alla Pasqua dobbiamo lasciarci dissetare dall'acqua viva che è l'amore di Dio.
Dobbiamo tuffarci in quest'acqua viva, spruzzarci a vicenda, bere a sazietà!
E come si fa?
Chi ha già la possibilità di accostarsi al sacramento della Riconciliazione, sa perfettamente che ogni incontro con il perdono del Signore è una lunga sorsata dell'acqua viva del suo amore.
Non perdiamo le occasioni in Quaresima per tuffarci nella gioia di vivere il perdono del Padre Buono, lasciandoci sommergere dall'acqua viva del suo amore!
E poi, tutti, possiamo mantenere sempre fresca la sorgente dell'acqua viva che Dio Padre ha messo in noi con il Battesimo. Ci ha detto Gesù che anche in noi zampilla l'acqua viva dell'amore e questo zampillo è alto, limpido, fresco, ogni volta che doniamo amore.
Ogni volta che diciamo una parola gentile, un incoraggiamento, una frase che consola chi è triste, facciamo zampillare l'acqua viva dell'amore. Ogni volta che sorridiamo a qualcuno, che siamo accoglienti, che scacciamo via i musi lunghi e trattiamo tutti con bontà e simpatia, ecco che zampilla la sorgente dell'acqua viva. Tutte le volte che sappiamo essere generosi, in famiglia, a scuola, con gli amici; quando sappiamo condividere i nostri giochi, il nostro tempo, ci stiamo spruzzando allegramente con l'acqua viva.
Ogni volta che siamo capaci di perdonare uno sgarbo o una presa in giro, ogni volta che siamo capaci di non offenderci per un dispetto o una cattiveria, stiamo tuffandoci profondamente nell'acqua viva.
Adesso restiamo un istante in silenzio, ripetendo nel segreto della mente le parole della Samaritana: "Signore, dammi quest'acqua".
Sì, Signore Gesù, dacci sempre l'acqua viva che solo tu sai donare. Dissetaci con il tuo amore, o Maestro e Signore, e il nostro cuore sarà nella felicità che non finisce mai.

Meditiamo…
«La samaritana crede nel miracolo, nel miracolo più che nella felicità, come tutte le donne. Per questo, solo le donne sanno attendere, sperare e forzar la mano del Signore con parole e slanci che costituiscono una delle meraviglie del vangelo.(…) I motivi della samaritana sono buoni, ma il primo è espresso in modo sbagliato, il secondo in modo incompleto. Dio, è vero, acqueta e vince la nostra sete, ma non la spegne: non vuole spegnerla, essendo una nota sostanziale della nostra spiritualità. Come non ci toglie la croce, così non ci toglie la sete. Senza croce cesseremmo di progredire e di assomigliargli: senza sete non lo cercheremmo più. “Come il cervo cerca le fonti, così l’anima mia cerca te, o Signore”. Egli leva alla mia sete il tormento, ma me la lascia. Nell’acqua viva che egli mi dà, c’è anche di più di quanto la mia sete richieda: io però vi attingo di continuo per un bisogno che, cessando di essere un tormento, è divenuto il mio gaudio: “La mia anima ha sete di te, Dio forte e vivo”.(…) Molti pretenderebbero di ridurre la religione ad una forma assicurativa di quiete. Non mi pare che il Signore possa essere soddisfatto di gente che arrivi a lui con animo dimissionario e di pensionato.(…) l’adorazione in spirito e verità, voluta dal vangelo, c’impegna di più dopo che prima dell’arrivo. Anche la grazia di arrivare in porto non è di esclusivo godimento di colui che arriva. Ogni possesso è un dono in funzione di carità, perché anche gli altri abbiano e in maniera anche più abbondante di noi stessi. Oltre la mia sete c’è la sete dei fratelli: oltre la mia stanchezza, la loro stanchezza» (Don Primo Mazzolari).