Lc 21,25-28.34-36
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Vi saranno segni nel sole, nella luna e nelle stelle, e sulla terra angoscia di popoli in ansia per il fragore del mare e dei flutti, mentre gli uomini moriranno per la paura e per l’attesa di ciò che dovrà accadere sulla terra. Le potenze dei cieli infatti saranno sconvolte. Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire su una nube con grande potenza e gloria. Quando cominceranno ad accadere queste cose, risollevatevi e alzate il capo, perché la vostra liberazione è vicina». «State attenti a voi stessi, che i vostri cuori non si appesantiscano in dissipazioni, ubriachezze e affanni della vita e che quel giorno non vi piombi addosso all’improvviso; come un laccio infatti esso si abbatterà sopra tutti coloro che abitano sulla faccia di tutta la terra. Vegliate in ogni momento pregando, perché abbiate la forza di sfuggire a tutto ciò che sta per accadere e di comparire davanti al Figlio dell’uomo».
Inizia il tempo liturgico di
Avvento, tempo che ci porta e ci prepara al Natale.
Sul piano personale,
l’avvento è quello spazio aperto perché un “figlio” e una “nascita” possano
accadere in noi. Dio nasce ogni anno il 25 di dicembre. ciò non deve limitarsi
ad un dato semplicemente rituale, cronologico, tradizionale, ma deve costituire
per noi un fatto concreto, una realtà, un progetto che prende vita: Dio
continua a nascere dove trova spazio e disponibilità. Ecco allora che l’avvento
non dev’essere tanto un periodo dell’anno liturgico, ma uno stile di vita: la
certezza che una nuova nascita sta per avvenire in noi. Dio, con la sua venuta,
vuole sorprenderci, vuole meravigliarci, vuole portarci lontano, molto lontano,
dalle nostre angosciose, dalle nostre derive di insicurezza.
Questo vangelo lo abbiamo già
sentito quindici giorni fa nella versione di Marco. Anche Luca, l’evangelista
scelto per il ciclo liturgico di quest’anno, usa lo stesso termine “Figlio
dell’uomo”. Anche Lui ne descrive il ritorno su questa terra, in maniera
apocalittica, alla fine del mondo.
Ma cosa vuol dire esattamente
“Figlio dell’uomo”?
Il termine proviene
dall’Antico Testamento, esattamente da Daniele 7,13-14, in cui ad un “figlio
d’uomo” viene conferito dal “Vegliardo-Dio”, potere, gloria e regno.
Applicandolo a sé stesso,
alla sua persona divino-umana, Gesù ha voluto spostare l’attenzione dei
contemporanei dall'immagine di un Messia autorevole e glorioso, come lo
intendevano gli Ebrei, a quella di un Messia più umano, un “ben adam” (un
figlio d’uomo) umile e sofferente, come quel “servo di Jahweh” di Isaia,
immagine che meglio lo descrive nella sua missione redentrice del genere umano:
rifiutato dai suoi contemporanei, rivendicava comunque per sé una prossima
gloriosa rivincita sulla morte (Risurrezione) un suo rientro presso la maestà
del Padre (Ascensione) e un suo ritorno nella potenza e nella gloria alla fine
dei tempi (Giudizio universale).
Un termine, “figlio d’uomo”,
che delinea un programma di vita anche per quanti aspirano a seguire le sue
orme: mantenere un atteggiamento da “figli d’uomo” dev’essere infatti
l’aspirazione di tutti noi, “uomini comuni”, ai quali con il battesimo è stata
conferita una personale missione da compiere. Tutti noi siamo chiamati, infatti, a vivere qualcosa di grande, a dare alla
nostra vita un significato più profondo e meritorio sia per noi che per il
mondo.
Anche questo, però, come qualunque
altro obiettivo vero, grande, potente, ha un suo costo impegnativo: la vita
stessa di Gesù non è stata priva di sconvolgimenti, di ore di “angoscia”, di
tradimenti, di sofferenze mortali: al punto che noi, figli d’uomo ben più
fragili, guardando questa nostra investitura nella prospettiva delle
difficoltà, dei pericoli, degli obblighi, del nostro personale esporci, siamo
tentati di lasciar perdere. Ma se pensiamo alla gloria, all’Amore, alla dignità
divina cui siamo chiamati a condividere con Dio nel suo Regno, allora capiamo
che nessuna contrarietà può distoglierci, che qualunque ostacolo diventa
superabile. Perché lo scopo primario della nostra vita è meritare quaggiù ciò
che potremo vivere in Cielo.
Certo, non è impresa
semplice: dobbiamo evitare soprattutto di “addormentarci” sulle difficoltà,
sulle fatiche, sulle contrarietà, che sono inevitabili.
Alcune persone dicono di star
male, di soffrire tanto, di sentirsi vittime della loro vita. Ma in realtà
dimostrano di trovarsi molto a loro agio, non muovono un dito per uscirne, per
cambiare, per migliorare. Preferiscono continuare a dormire, auto giustificandosi
con i vari “non ho tempo; è difficile, è troppo impegnativo”.
Altri, invece, impostano il
loro cambiamento buttandosi a capofitto in mille iniziative: frequentano in
parrocchia qualunque riunione, ogni incontro di spiritualità; sono
onnipresenti, super impegnati, senza tregua: ma se si fermano un solo istante
per guardarsi dentro, scoprono loro malgrado di essere sempre fermi al punto
iniziale, non fanno un passo in avanti. Tutta la loro iperattività risulta
completamente inutile, è come se dormissero profondamente.
A volte, purtroppo, i
percorsi spirituali diventano una droga: ne facciamo tanti, troppi, ci muoviamo
in ogni dove, pensando erroneamente di avere in questo modo maggiori
possibilità per migliorare. Succede invece, paradossalmente, che queste
iniziative individuali, frequentate al di fuori delle nostre comunità, invece
di portarci ad un effettivo miglioramento, sono in realtà delle vie di fuga
dalle nostre responsabilità, diventano un alibi per non impegnarci nelle
iniziative “domestiche”, nelle nostre comunità: “Io non posso esserci, non sarò
presente, ho un incontro di “formazione” in un’altra sede, in quel Centro di
spiritualità, al quale non posso mancare! E poi, diciamocelo francamente: quanto
facciamo qui è troppo elementare, è poco istruttivo, non mi attira, non vedo
“carismi” particolari, non vedo guide veramente “illuminate”; io miro a livelli
più impegnativi, più avanzati! Sento di poter incontrare Dio solo in quelle
specifiche realtà”.
Quanto ci illudiamo! Non
capiamo che Dio viene proprio là, in quel paese, in quella città, in quella
piccola porzione di Chiesa, in cui Lui ci ha chiamati: è là che lui ripete per
noi il suo Natale! Tutto il resto è solo un paravento, una droga, una deleteria
ubriacatura di noi stessi, del nostro “ego”.
Per Dio è esattamente come se
continuassimo a dormire: perché pregare Dio “a modo nostro”, seguendo le “nostre”
ispirazioni, non significa essere svegli, vigilanti; non vuol dire vivere nella
giusta attesa della venuta di Dio, ma nell’attesa umana di auto-esibirci.
Per questo il vangelo,
concludendo, ci raccomanda: “Vegliate e pregate” (21,36).
Il
vegliare, lo stare vigili, il non “dormire”, è il presupposto per poter
esprimere una preghiera attenta e gradita a Dio. Il verbo “pregare”, in greco “deomai”,
significa pure “aver bisogno, necessitare, desiderare”: quindi noi, oltre che
di pregare, abbiamo anche un “bisogno” vitale di stare svegli, di impedire al
nostro cuore di prendere sonno e non provare più la gioia di sentirci figli, di
chiamare Dio Padre nostro, di godere delle cose umili, l’entusiasmo per le cose
piccole, la passione per la nostra “casa”, il luogo dove Dio ci ha chiamati;
dobbiamo evitare che la nostra anima, stanca di cercare Dio in ogni dove, si
assopisca e non riesca a sentire più la Sua voce proprio là dove Lui ci ha
chiamati e dove Lui si aspetta l’impegno laborioso della nostra risposta.
Non permettiamo che la nostra mente si lasci plagiare
da spiritualità troppo “mistiche”, da “percorsi di santità” esclusivi:
rimaniamo “figli dell’uomo”, rimaniamo nella nostra normalità, nella nostra
umiltà, nel luogo in cui Dio ci vuole, tra i nostri fratelli più vicini. Perché
quando ci addormenteremo nel sonno della pace, Dio che ci verrà incontro per
chiederci quanto conosciamo di Lui, quanto abbiamo studiato per capirlo, quanto
lo abbiamo cercato di qua o di là al seguito dei troppi pseudo-santoni; più
semplicemente ci interrogherà su quanto abbiamo fatto in “casa nostra”, nella
nostra comunità, a beneficio del prossimo; su quanto insomma siamo stati attivi
nel conoscere, amare, servire Lui, attraverso i nostri fratelli, proprio in
quell’angolo di mondo in cui Lui ci ha chiamato. Amen.