giovedì 8 agosto 2024

11 Agosto 2024 – XIX DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


Gv 6,41-51 
Allora i Giudei si misero a mormorare contro di lui perché aveva detto: «Io sono il pane disceso dal cielo». E dicevano: «Costui non è forse Gesù, il figlio di Giuseppe? Di lui non conosciamo il padre e la madre? Come dunque può dire: “Sono disceso dal cielo”?». Gesù rispose loro: «Non mormorate tra voi. Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato; e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Sta scritto nei profeti: E tutti saranno istruiti da Dio. Chiunque ha ascoltato il Padre e ha imparato da lui, viene a me. Non perché qualcuno abbia visto il Padre; solo colui che viene da Dio ha visto il Padre. In verità, in verità io vi dico: chi crede ha la vita eterna. Io sono il pane della vita. I vostri padri hanno mangiato la manna nel deserto e sono morti; questo è il pane che discende dal cielo, perché chi ne mangia non muoia. Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo».

La protesta dei Giudei, la loro “mormorazione” nei confronti di Gesù, altro non è che un tentativo di manipolare, alterare, rendere diversa, quella che è la realtà, cercando di compromettere alla base la sua credibilità: “Ma costui non è il figlio del carpentiere? Conosciamo bene suo padre e sua madre, come può dire tali stupidaggini?”. Praticamente cercano di convincere loro stessi e gli altri che quanto egli dice non può essere vero. Per questo si agitano, mormorano e protestano. 
Già la protesta: siamo tutti maestri in questo.
Basta che un nonnulla si scosti dai nostri parametri che immediatamente scatta la nostra reazione. Ma contro le realtà della vita, qualunque protesta è inutile: la realtà non si cambia, va solo accettata e vissuta.
Quando stiamo per lasciarci andare alle proteste, alle lamentele, alle critiche, dovremmo prima di tutto chiederci il perché lo facciamo, il vero motivo del nostro dissentire, perché nella vita ci sono delle realtà inconfutabili, indipendenti dalla nostra comprensione e accettazione: per esempio che noi non siamo unici nel mondo, che innumerevoli altre persone vi convivono, e non sono tutte uguali: ci sono quelle più sensibili, più intelligenti, più attraenti, più affascinanti di noi; ci sono persone decisamente “più” di noi in tutto; e questo non ci piace proprio, perché, anche se pubblicamente lo accettiamo, in cuor nostro siamo sempre convinti di essere noi i migliori o quantomeno pari a loro. Nel nostro egocentrismo siamo convinti di essere il centro dell’universo, il perno su cui ruota il mondo intero. La realtà invece è un’altra: il mondo, la vita, l’universo, vanno avanti benissimo anche senza di noi. Noi siamo soltanto come un’insignificante goccia d’acqua nel mare, una minuscola foglia in una foresta tropicale, una microscopica cellula nell’universo. Non ci piace ammetterlo, ma è così. Siamo nessuno, nulla, esseri ininfluenti, insignificanti, di fronte al continuo scorrere del tempo: vorremmo invece essere “qualcuno”, vorremmo che i posteri ci ricordassero con ammirazione, vorremmo essere nel cuore di tutta la gente, menzionati nei libri di storia. Ma tutto quanto facciamo, o abbiamo fatto, nel corso della nostra vita, sia in famiglia, che nel lavoro o nel sociale, tutto, dopo un po’, viene dimenticato. Chi vivrà dopo di noi, i nostri stessi figli, faranno scelte diverse dalle nostre, adotteranno strategie contrarie, e il mondo continuerà ad andare avanti come prima, o anche meglio di prima. È normale, è giusto che sia così.
Nella vita tutto inizia e tutto finisce, tutto si evolve troppo in fretta. Noi vorremmo che certi momenti particolari non finissero mai: invece no, tutto finisce, tutto passa. Tutto quello che da stolti pensavamo fosse eterno, si rivela poi caduco e provvisorio. La nostra stessa vita, il nostro “essere”, dipende dall’evolversi dell’età e delle cose. “Panta rei” dicevano gli antichi: tutto scorre, tutto è sfuggente, tutto è proiettato nel divenire, nel domani: il presente è l’attimo che appartiene già al passato, il tempo è uno scorrere implacabile di istanti inafferrabili.
Non ci piace ma questa è la realtà! Tutti abbiamo bisogno degli altri. Vorremmo farne volentieri a meno, vorremmo essere completamente autonomi, gestori della prosperità, del benessere; vorremmo organizzare la nostra vita liberamente, senza alcuna interferenza, senza essere costretti a sorbirci il giudizio della gente, ad ascoltare ciò che pensano di noi. Vorremmo, vorremmo, vorremmo…
Ecco, sono queste le realtà contro cui non possiamo nulla, contro le quali la nostra “mormorazione”, la nostra ribellione è inutile. Le vorremmo completamente diverse, come le immaginiamo, come ci piacciono. Ma le vicende della vita sono sempre diverse, più grandi di noi, indipendenti da noi. Dobbiamo imparare invece ad accettare le circostanze della vita come vengono, con serenità e rassegnazione, perché forse Dio, proprio attraverso di esse, vuole insegnarci ciò che dovremmo sapere, farci scoprire quella realtà che ci è più difficile accettare. Realtà come il tempo, Dio, la Vita, sono più grandi di noi: noi dobbiamo non solo accettarli, dobbiamo accoglierli, fidarci di loro, rifugiarci in loro; dobbiamo lasciarci guidare solo dalle fede nell’amore e nell’intelligenza soprannaturale di Dio, perché in Lui tutto ha un senso, anche se noi non lo capiamo.
Ma torniamo al vangelo: mentre dunque Gesù parla di un pane che scende dal cielo, i giudei non capiscono e mormorano: sono su un piano diverso, assolutamente inconciliabile con le realtà di Dio.
Un detto cinese dice: “Quando uno indica la luna con un dito, lo sciocco guarda il dito”.
È quanto succede ai Giudei: Gesù sta parlando di cose alte, elevate, profonde; sta rivelando suo Padre, il Dio vero, quello che sazia la “fame” del mondo, e loro non riescono ad andare oltre il dito. Per loro Gesù non può essere altro che il figlio di Giuseppe, il falegname; per loro il pane è solo quello di farina; per loro il cielo è solo quello che manda il sole e la pioggia; per loro Dio è solo uno da pregare perché aiuti a vincere i nemici e tenga lontane le disgrazie. Non capiscono che Dio è Amore, e che l’Amore è felicità.
Purtroppo, per gli uomini d’oggi, la felicità è “avere” qualcosa. Felicità per essi è avere denaro, ricchezze, una posizione socialmente superiore, un’abitazione sontuosa, essere stimati, invidiati, temuti. Stolti!
Non capiscono che felicità è poter “sentire”, gustare la Vita che è in loro, che cresce, che diviene, che si espande, che li “contiene”. Felicità è poter vivere serenamente quel che si è, essere consapevoli dei propri limiti, gustare le piccole conquiste quotidiane. Felicità è percepire al proprio fianco la presenza amorevole, continua, premurosa, benefica, di Dio.
Cosa fanno invece i “sapienti” nostrani? Ignorano Dio: hanno ridotto il divino ad una preghierina scaramantica da dire ogni tanto, un rito distratto da compiere, ma soprattutto ad una “rottura”, da evitare ad ogni costo, un impiccio di cui non sanno che farsene.
Sono ciechi per loro scelta. Perché Dio è Vita, è la sensazione di essere immersi in Qualcosa di più grande, di più profondo; è vivere l’esperienza divina di appartenere ad un di Più incalcolabile, di essere risucchiati da una corrente impetuosa che ci mette in salvo, al sicuro; è sentirsi amati nonostante le nostre continue meschinità; è sentirsi felici e fortunati di esistere, perché, proprio per questo, Dio ci ha regalato l’esistenza: per sentirci sicuri, per non temere mai nulla, perché Egli ci sorregge e ci difende da ogni pericolo, con il suo grande abbraccio.
Tutto nella nostra vita è importante. Prendiamo per esempio i figli: i figli sono il dono che la vita ci fa per consentirci di esprimere l’amore che portiamo dentro; sono il “mezzo” per realizzare la nostra vita, sono il senso delle nostre giornate. Ma attenzione, sono un “mezzo”, non il “fine”: sono uno stupore da vivere, una meraviglia da contemplare, una scuola di vita da cui imparare la gratuità (diamo senza avere aspettative), il distacco (li amiamo pur sapendo che se ne andranno), l’alterità (sono “altri”, diversi, opposti da noi), l’umiltà (ci fanno vedere le nostre debolezze, le nostre fragilità, i nostri difetti), ecc.; sono insomma “noi stessi” proiettati nel futuro: ma non sono e non devono essere il “fine” della nostra vita.
E così per tutte le cose. Possiamo banalizzare qualunque cosa ci riguardi, possiamo rendere tutto insignificante o inutile, ma anche entusiasmante, profondo, divino. Dipende solo da noi!
Gesù poi dice: “Io sono il pane vivo”. Quindi c’è un pane vivo e c’è un pane morto: esiste cioè un pane “vivo”, che nutre l’anima; e un pane “morto”, che nutre solo il corpo.
Ma quale dei due nutre veramente? Qual è quello insostituibile?”.
Il pane per gli antichi era il cibo normale. Dire “pane” significava dire cibo, significava nutrirsi, sfamarsi. Ogni giorno noi assumiamo cibo, ne abbiamo bisogno. Ma è sufficiente questo pane della terra a saziarci? O cerchiamo ancora qualcos’altro, qualcosa che soddisfi la nostra anima e il nostro cuore? È vero, il cibo riempie il nostro stomaco: ma cos’è che riempie la nostra anima? Esiste un cibo che può saziarla? Facciamo mente locale: ci siamo mai chiesti perché i maghi, le chiromanti, gli indovini sono sempre pieni di clienti? Perché gli studi medici dei terapeuti sono sempre stracolmi di persone? Perché siamo spesso così depressi e alienati? Perché siamo così isterici, “schizzati”, tristi, demoralizzati? Cos’è che ci manca? Ci manca semplicemente quel pane che nutre la nostra anima.
La più grande fame dell’uomo è quella dell’amore, un pane che noi non ne assumiamo mai a sufficienza. Noi siamo bisognosi di amore. Abbiamo necessità di essere amati, che qualcuno ci dimostri di credere in noi, che qualcuno ci apprezzi, ci dia importanza, fiducia. Se non siamo amati, non siamo nessuno, non valiamo nulla: esserci o non esserci è la stessa cosa, vivere o morire non cambia nulla.
Le storie e le vicissitudini della gente sono le storie di uomini e donne che soffrono di una enorme carenza d’amore, senza alcuna prospettiva diversa, senza che ci sia qualcuno in grado di porvi rimedio. Quando ci capita di sentirci soli, chiamiamo un amico, qualcuno che ci faccia compagnia; quando ci sentiamo giù di morale, cerchiamo qualcuno che ci ascolti, che ci consoli. Ecco: quando sentiamo questa fame terribile di amore, quando niente e nessuno può saziarcela, l’unica soluzione è di rifugiarci in Dio, di sentire che possiamo fidarci di Lui, di avere la certezza che Egli non ci lascerà mai soli, che non saremo mai dimenticati, perché facciamo parte di un Tutto che non avrà mai fine, che ci rassicuri e ci ripeta: Ti contemplo dalla mia santa dimora in cielo. I miei occhi brillano d’amore per te. “Non temere, perché il tuo nome è inciso sul palmo delle mie mani” (Is 49,16). Amen.

  

giovedì 1 agosto 2024

04 Agosto 2024 – XVIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


Gv 6,24-35 
Quando dunque la folla vide che Gesù non era più là e nemmeno i suoi discepoli, salì sulle barche e si diresse alla volta di Cafarnao alla ricerca di Gesù. Lo trovarono di là dal mare e gli dissero: «Rabbì, quando sei venuto qua?». Gesù rispose loro: «In verità, in verità io vi dico: voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati. Datevi da fare non per il cibo che non dura, ma per il cibo che rimane per la vita eterna e che il Figlio dell’uomo vi darà. Perché su di lui il Padre, Dio, ha messo il suo sigillo». Gli dissero allora: «Che cosa dobbiamo compiere per fare le opere di Dio?». Gesù rispose loro: «Questa è l’opera di Dio: che crediate in colui che egli ha mandato». Allora gli dissero: «Quale segno tu compi perché vediamo e ti crediamo? Quale opera fai? I nostri padri hanno mangiato la manna nel deserto, come sta scritto: Diede loro da mangiare un pane dal cielo». Rispose loro Gesù: «In verità, in verità io vi dico: non è Mosè che vi ha dato il pane dal cielo, ma è il Padre mio che vi dà il pane dal cielo, quello vero. Infatti il pane di Dio è colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo». Allora gli dissero: «Signore, dacci sempre questo pane». Gesù rispose loro: «Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà fame e chi crede in me non avrà sete, mai!»

Domenica scorsa abbiamo letto il miracolo della moltiplicazione dei pani. Oggi il vangelo ci racconta ciò che è successo subito dopo: la folla, entusiasta di Gesù, vuol farlo re: egli ha moltiplicato il cibo all’infinito, li ha sfamati tutti; é uno che fa miracoli, uno potente, uno che può prendersi cura di loro; uno che deve essere assolutamente il loro capo.
A questo punto Gesù scappa, ma la gente lo insegue, continua a cercarlo ovunque, e lo ritrova sull’altra sponda del lago: lo vogliono loro re ad ogni costo, vogliono avere assicurato ogni giorno quel pane che li sazia.
Gesù questo l’ha capito bene, tant’è che li mette subito con le spalle al muro: “Voi mi cercate solo perché avete mangiato e vi siete saziati”; e aggiunge immediatamente: “Quello che dovete cercare però non è tanto il cibo materiale, ma il pane spirituale, quello che non perisce, quello che dura per la vita eterna”.
Vita eterna”: in greco ci sono due modi per dire “vita”: il primo è “bìos”, che indica la vita fisica, biologica, quella che inizia e finisce; il secondo è “zoé” che si riferisce alla vita interiore, alla vita spirituale, quella indistruttibile, senza fine, eterna. Ed è esattamente a questa “vita”, questo termine greco, che Giovanni usa qui, nel riportare le parole di Gesù.
Ora, tutti sappiamo bene che se non mangiamo, se non nutriamo la nostra vita fisica (bìos), moriamo. È una cosa naturale, ovvia. Ma è altrettanto naturale e ovvio che se non nutriamo la nostra vita interiore (zoé), la nostra anima muore. Semplice, elementare!
Eppure, quanti di noi si preoccupano oggi di nutrire la loro vita spirituale? A chi sta veramente a cuore? Se ci capita di interpellare le persone con un banale “Come stai?”, tutti, indistintamente, rispondono riferendosi alla salute, al lavoro, agli affari. E si fermano qui. Per loro la vita è solo questa, quella fisica. Dimostrano cioè di ignorare di avere un’anima. Oppure sanno benissimo di averla, ma si vergognano di parlarne, hanno paura di ammettere qualunque riferimento a Dio, con il soprannaturale, perché conoscono bene i doveri e le problematiche che ne derivano per i loro comportamenti.
Se però ad un certo punto della nostra vita, tutto sembra andare a rotoli, se la salute viene meno, se i nostri progetti di vita si infrangono, allora non ci vergogniamo più, immediatamente ci lamentiamo con Dio, ci arrabbiamo con Lui, gli rinfacciamo le sue promesse, le sue offerte di costante aiuto. Cadiamo addirittura in depressione, piangiamo, ci sentiamo abbandonati da tutti e non riusciamo a dare un senso alla nostra vita. Solo che è da stupidi prendercela con Dio, quando siano noi soltanto i responsabili dei nostri fallimenti, per aver dissipato il nostro tempo, per non aver coltivato nulla di spirituale, di eterno; ci siamo occupati solo del nostro star bene, dei piaceri della vita, della carriera, del denaro, della gloria. Per Dio, per la nostra anima, non abbiamo fatto nulla, assolutamente nulla.
La vita spirituale non è una realtà a sé stante, autonoma, indipendente da noi: al contrario essa è strettamente subordinata al nostro agire, alle nostre opere, alle nostre scelte: se non la coltiviamo, se non alimentiamo, se non curiamo quel piccolo seme di vita immortale che Dio ha seminato in noi, essa morirà, si seccherà, la perderemo strada facendo. All’inizio c’era, è sbocciata con quel soffio divino che ci ha generati, doveva crescere, irrobustirsi, doveva diventare la guida sicura nel nostro muoverci nel tempo, ma noi l’abbiamo ignorata, trasformando la nostra esistenza in un inutile vagabondare senza meta, senza ideali spirituali: senza alcun nostro interesse, senza le nostre cure salutari, essa è deceduta, si è spenta, è morta.
Ora, se causare la morte di qualcuno, ancorché involontariamente, è ritenuto da tutti un dramma, una tragedia incalcolabile, perché la morte dell’anima, il rifiuto a Dio di vivere in noi, non preoccupa oggi più nessuno? Forse che la morte spirituale è meno drammatica di quella corporale? Forse che escluderci stoltamente dalla visione finale di Dio, dal suo amore eterno, è meno tragico?
Non facciamoci illusioni fuorvianti: anche se riuscissimo a raggiungere il massimo del benessere, anche se la nostra vita terrena fosse ai massimi vertici, privi di una concreta vita spirituale, continueremmo a non apprezzare nulla, ci sentiremmo incompleti, perennemente insoddisfatti, dei falliti. Nulla di questo mondo potrà mai appagarci, nulla riuscirà a soddisfarci completamente; non ci basta il tempo che abbiamo per vivere: cinquanta, settanta, novant’anni: quando saremo giunti al dunque, vorremo avere sempre altro tempo. La fine ci sembrerà sempre troppo prematura; la cruda realtà dei limiti umani, un’ingiustizia. È naturale, perché noi siamo stati pensati da Dio per l’eternità, per un tempo senza fine, per un mondo infinito “al di là” di questo. Non ci sarà mai in questo mondo abbastanza ricchezza che ci appaghi, che ci soddisfi. Più ne abbiamo, ancor più ne vorremmo: i soldi saranno sempre il nostro tarlo quotidiano, non ci basteranno mai. Se avessimo tutta la terra, vorremmo la luna; se avessimo la luna cercheremmo di raggiungere l’intero sistema solare; perché noi siamo fatti per godere di una ricchezza superiore, l’unica in grado di colmare la nostra anima e non le nostre case, le nostre tasche, i nostri conti bancari. Noi siamo fatti per questa ricchezza, per quella che non passa mai, per quella che resta per sempre.
Così, nessun successo sarà mai in grado di renderci veramente felici. Possiamo anche essere famosi, osannati, rispettati, emulati, applauditi. Possiamo far in modo che tutti dicano bene di noi. Possiamo essere dei “miti”, ma questo non sarà mai sufficiente a renderci davvero felici. L’uomo, intrappolato nei suoi limiti temporali, sente il bisogno segreto, costante, di nuovi e più appaganti successi, di traguardi infiniti che si perdono nell’eterno, perché nel nostro intimo, è quella la felicità che noi cerchiamo, quella che non è di questo mondo, quella che non possiamo raggiungere in questa nostra breve parentesi terrena: una parentesi però, che ci è concessa solo ed esclusivamente per consentirci di meritarla, mediante un’adeguata, puntuale preparazione.
Poi, Gesù prosegue: “Credete in me, in colui che Dio ha mandato” (Gv 6,29).
La fede dei discepoli continua ad essere insicura, non sono ancora completamente convinti, hanno bisogno di ulteriori riscontri; per cui, quasi risentiti, insistono: “Ma tu, quale segno ci dai per poterti credere?” (Gv 6,30).
Questo è il punto. I discepoli vogliono conferme, vogliono prove, altri segni tangibili. È così per tutti: chi ancora non crede, chiede miracoli, cerca all’esterno quella spinta, quell’impulso, che non trova dentro di sé; chiede cioè qualcosa di straordinario che lo convinca a credere, anzi che lo costringa a credere. Ma non capisce che Dio non vuole dei “costretti”, non gli interessa gente che crede perché non può farne a meno; egli non ama gli individui “tappetino”: vuole uomini liberi, uomini che lo seguano non perché sono obbligati per legge o attirati dalla possibilità di stare meglio materialmente, oppure affascinati dai suoi miracoli o dalle visioni soprannaturali, ma soltanto perché ricambiano il suo amore, perché apprezzano quelle sue parole che fanno palpitare vivo il loro cuore.
Gesù è chiaro: il miracolo che mi chiedete, l’opera di Dio che voi volete imitare, è una sola: “che crediate in colui che egli ha mandato”. Tutto qui: “fides sufficit”, per fare “miracoli” basta la fede in Lui, perché è Lui che Dio ha mandato; non serve nient’altro. Una fede però che deve essere vera, profonda, autentica, animata dall’amore; perché solo così, nel suo nome, sarà possibile a chiunque compiere “meraviglie”, opere “divine”, sensazionali. Niente esibizionismi funamboleschi, niente spettacoli da baraccone: il divino non si rivela su ordinazione, ad un nostro cenno; Gesù non sopporta le false commedie da palcoscenico. Se sono i miracoli che servono oggi nel mondo, se di “segni” c’è bisogno, siamo noi stessi che dobbiamo diventare “miracoli” umani, “segni” viventi di Dio. Come? Credendo sul serio in Lui: aderendo a Lui con una fede libera, sincera, convinta, espressione del nostro sincero e umile amore per Lui; una fede che deve essere supportata e alimentata da quel cibo divino, da quel “pane consacrato” che, unico, è in grado di dare vigore alla nostra anima.
Io sono quel pane”, dice Gesù. Ecco perché ogni giorno dobbiamo aver fame di lui, ogni giorno dobbiamo sentirne un bisogno assillante, ogni giorno dobbiamo avvertire la necessità vitale di assumerlo. Lui è sempre a nostra disposizione, continua ad aspettarci ogni giorno; la sua è un’offerta costante di amore, perché conosce questo nostro insaziabile bisogno di Lui.
Allora, ogni volta che ci accostiamo all’Eucaristia diciamogli: “Ti aspettavo, Gesù, ho bisogno di te!”, e sentiremo Lui che, entrando nel nostro cuore, ci risponderà dolcemente: “Sono qui solo per te, non vedevo l’ora di venire qui con te, per aiutarti, per darti una mano, per amarti, per guarirti, per servirti, per tenerti stretto a me”. Amen.

  

giovedì 25 luglio 2024

28 Luglio 2024 – XVII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


Gv 6,1-15 
Dopo questi fatti, Gesù passò all’altra riva del mare di Galilea, cioè di Tiberiade, e lo seguiva una grande folla, perché vedeva i segni che compiva sugli infermi. Gesù salì sul monte e là si pose a sedere con i suoi discepoli. Era vicina la Pasqua, la festa dei Giudei. Allora Gesù, alzàti gli occhi, vide che una grande folla veniva da lui e disse a Filippo: «Dove potremo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?». Diceva così per metterlo alla prova; egli infatti sapeva quello che stava per compiere. Gli rispose Filippo: «Duecento denari di pane non sono sufficienti neppure perché ognuno possa riceverne un pezzo». Gli disse allora uno dei suoi discepoli, Andrea, fratello di Simon Pietro: «C’è qui un ragazzo che ha cinque pani d’orzo e due pesci; ma che cos’è questo per tanta gente?». Rispose Gesù: «Fateli sedere». C’era molta erba in quel luogo. Si misero dunque a sedere ed erano circa cinquemila uomini. Allora Gesù prese i pani e, dopo aver reso grazie, li diede a quelli che erano seduti, e lo stesso fece dei pesci, quanto ne volevano. E quando furono saziati, disse ai suoi discepoli: «Raccogliete i pezzi avanzati, perché nulla vada perduto». Li raccolsero e riempirono dodici canestri con i pezzi dei cinque pani d’orzo, avanzati a coloro che avevano mangiato. Allora la gente, visto il segno che egli aveva compiuto, diceva: «Questi è davvero il profeta, colui che viene nel mondo!». Ma Gesù, sapendo che venivano a prenderlo per farlo re, si ritirò di nuovo sul monte, lui da solo.

Giovanni, nel vangelo di oggi, ci mette di fronte ad una situazione molto concreta: una grande folla (circa cinquemila uomini), attratta dalle parole e dai “segni” compiuti da Gesù, lo segue fin oltre il Lago di Tiberiade; è ormai mezzogiorno, e poiché il luogo è deserto, immediatamente si pone il problema di come poter dare qualcosa da mangiare a quella moltitudine, ormai da molto tempo lontana dalle loro case. Gesù, per provare la fede dei suoi discepoli, chiede loro cosa si può fare: molte soluzioni in realtà non ci sono, poiché essi non hanno proprio nulla con sé; trovano soltanto un ragazzo che casualmente ha cinque pani e due pesci: un niente per tutta quella folla! 
E qui Gesù ci offre il primo insegnamento: la “condivisione”. Condividendo, mettendole cioè in comune, le poche cose si moltiplicano, diventano molte. Se si condivide, ce n’è per tutti. Senza la condivisione ce n’è solo per l’arroganza di pochi. Ecco: condividere tutto, con grande fede, invocando la benedizione di Dio, questo è il significato del miracolo di Gesù: egli sa perfettamente che i cinque pani e i due pesci del ragazzetto sono un niente di fronte alla massa dei presenti, eppure ordina la condivisione, e man mano che il poco, il niente, viene distribuito, automaticamente si moltiplica, non si esaurisce mai, ce n’è per tutti… addirittura ne avanza! 
In pratica, Gesù ci invita a non nascondere il nostro poco, ma a tirarlo fuori, ad usarlo, a fidarci di quel poco che siamo; a non fare gli indifferenti, nascondendoci dietro alla scusa che siamo poveretti, che non abbiamo nulla, che non siamo nessuno. Anche se questa è la verità, anche se effettivamente non valiamo niente, Dio non guarda mai il quanto, il numero delle nostre opere, il volume delle nostre azioni: Dio guarda invece il “come” noi le facciamo le nostre opere, Dio guarda le intenzioni, l’amore che mettiamo nel farle; per questo Egli “scruta” il nostro cuore. 
Tutte le cose all’inizio sono niente. Ma se ci fidiamo di quel poco che abbiamo, se lo usiamo correttamente, se lo mettiamo amorevolmente a disposizione degli altri, un giorno diventerà sicuramente grande, crescerà, si svilupperà. Agli occhi di Dio nulla in noi è meschino, tutto ha un suo valore: anche quando, guardandoci allo specchio dell’anima, ci vergogniamo e ci butteremmo via molto volentieri. Ma dobbiamo ricordarci sempre che veniamo da Dio! Che Egli ci ha creati a sua immagine: una dignità, un dono smisurato, di cui ogni giorno della nostra vita dobbiamo ringraziare e benedire Dio: ogni giorno dobbiamo ringraziarlo per quel poco che siamo, cercando però ogni giorno, con il suo aiuto, di trasformarci, di migliorarci, di diventare un po’ alla volta sempre più assomiglianti a Lui. 
Il miracolo di Gesù ci insegna, dunque, che più si condivide, più le cose si moltiplicano: così in una comunità, se ognuno fa la sua parte, l’impossibile diventa possibile: in un’azienda, infatti, più ognuno mette a disposizione di tutti le proprie informazioni, le proprie capacità, le proprie risorse professionali e umane, più quell’azienda funzionerà; così in famiglia, più si condivide ciò che ciascuno ha vissuto durante la giornata, ciò che ha provato, i suoi alti e bassi, e più quella famiglia troverà unione, serenità, diventerà forte, tetragono nelle avversità. 
C’è un altro insegnamento importante nel vangelo di oggi: dobbiamo cioè “benedire” quel poco che abbiamo. “Benedire” vuol dire accontentarsi di quel che c’è, di quello che siamo, di quello di cui disponiamo. A Gesù “bastano” quei cinque pani e due pesci, e Dio moltiplica quel poco. “Benedire” vuol dire: “Accetto quel poco che sono, perché sono cosciente che viene da Dio; perché se sono così è perché Lui, che sa ogni cosa, che conosce ciò che è bene per me, permette che io faccia quel “particolare percorso” per giungere a Lui. Allora smettiamo di cercare in tutti i modi di essere diversi, di non essere noi stessi, smettiamo di voler essere e fare come tutti gli altri; smettiamo di invidiare gli altri, chissà poi per che cosa! Benediciamo invece ciò che siamo e ringraziamo Dio per questo; cerchiamo di scoprire da Lui, partendo proprio da ciò che siamo, cosa dobbiamo fare per migliorarci, convinti che con Lui possiamo anche noi fare miracoli! 
Forse ci sembra troppo, stante la nostra pochezza, ma fidiamoci di Dio. Ci ha creato Lui, Lui sa! 
Quando Gesù “benedice”, tutto è possibile, il poco diventa abbondanza per tutti.
“Benedire”, inoltre, è ricordarsi da dove viene ogni cosa. Ogni cosa non è nostra. Non è una nostra proprietà. Quindi ricordiamoci la sua origine; quindi ricordiamoci che è di tutti; quindi ricordiamoci che tutti ne hanno diritto.
Spesso invece noi scambiamo per proprietà ciò che abbiamo semplicemente in uso. Chiamiamo proprietà ciò che non è nostro, ciò che non possiamo portare con noi, che non possiamo vincolare a noi.
Abbiamo mai visto un uomo portare con sé i suoi beni dopo la morte? No. E Perché? Unicamente perché non è possibile, non è di “sua” proprietà (anche se ci piacerebbe!). Eppure mentre è in vita, l’uomo si arroga il diritto di chiamare “suo”, ciò che usa soltanto. È una grande illusione. Neppure la vita è “nostra”. Una malattia qualunque ce la può togliere. Basta un qualunque incidente, e la vita improvvisamente si spegne, in un istante ci viene sottratta. Dobbiamo restituirla. E se siamo chiamati a restituirla, è chiaro che non può essere nostra. Allora, cosa possiamo considerare di “veramente nostro”? Solo come viviamo l’attimo presente; l’istante che stiamo per vivere; l’adesso, l’hic et nunc, come dicono i latini, il “qui e ora”: è questa l’importanza enorme di questa inafferrabile frazione infinitesimale di tempo!
Noi pensiamo invece che la vita ci sia dovuta, sia un diritto, senza fine, senza scadenze. E, invece, no. È un regalo, un’opportunità. Ci arrabbiamo quando ci viene tolta; ma ci dimentichiamo di gustarla degnamente quando ce l’abbiamo, ci dimentichiamo di benedire chi ce l’ha data, di ringraziare Dio per le immense possibilità che con essa ci offre continuamente, ad ogni battito di orologio. Se ringraziassimo di più, se vivessimo nel modo giusto la nostra vita, se fossimo coscienti del grande dono che in ogni istante ci viene confermato, in ogni battito di cuore, in ogni respiro, saremmo più riconoscenti e meno angosciati dalla paura di perderla.
Chi pensa di essere “proprietario” delle cose, non ha motivo di ringraziare nessuno, non ha motivo di stupirsi, di benedire: sono sue, perché farlo? Al contrario soltanto chi sa di non avere nulla può provare gratitudine: per quello che è, per tutte le cose che gli sono date in consegna; soltanto chi sa che nulla gli è dovuto, che niente gli spetta di diritto, che tutto è dono, solo costui può vivere veramente sereno e felice. Solo così penserà meno a sé, e più ai fratelli.
In questo senso quel “distribuire a tutti il pane” diventa automaticamente: “siamo tutti un’unica famiglia”.
Quel giorno, in riva al lago, c’era tanta gente, ognuna spinta da proprie motivazioni: alcuni gli credevano ciecamente, altri intuivano soltanto che in quell’uomo c’era qualcosa di grande e di diverso; altri lo seguivano solo per egoismo, per ricavarne qualcosa; altri addirittura lo odiavano, stavano lì per metterlo alla prova, cercavano solo giustificazioni per ucciderlo; altri ancora erano solo curiosi. Ma Gesù li abbraccia tutti con il suo sguardo amorevole; non fa distinzioni, non guarda in faccia alle singole persone, non si chiede se chi gli sta davanti sia amico o nemico. A tutti indistintamente Egli dà il pane, offre il nutrimento. A tutti Egli offre la stessa opportunità: perché sono tutti suoi figli. 
Cerchiamo di metterci anche noi nella stessa prospettiva di Gesù; guardiamo anche noi questa povera umanità tanto martoriata, così violentemente fratricida; guardiamola con gli stessi suoi occhi: non ci sono buoni o cattivi, di destra o di sinistra, bianchi o neri, ricchi o poveri, intelligenti o stupidi, religiosi o no. Ci sono solo uomini, creature che hanno fame di Dio, di verità, di pace. È Lui il solo Padre, tutti siamo suoi figli. A tutti infatti Egli offre il pane del Vangelo, dell’Amore: alcuni lo mangiano, altri non sanno che farsene; Lui ci ama tutti: alcuni si aprono al suo amore, altri no; si preoccupa per tutti: alcuni lo ascoltano, altri no; vuole nutrirci tutti di Vita: alcuni si sfamano, altri no; ci vuole tutti nella sua casa: alcuni ritornano, altri no; non vuole che nessuno si perda: alcuni lo accolgono, altri lo rifiutano. Tutti, tutti, sono suoi figli. Tutti gli stanno a cuore. È il padre di tutti. Li ama tutti. È il Pane di tutti. Il banchetto celeste è aperto a tutti: sta a noi, però, sta ai singoli, avere il buon senso di presentarci con la “veste nuziale”. Se il suo amore è incondizionato per tutti, dimostrare di esserne degni è l’unica risposta d’amore che spetta a noi.
Ecco: questo è il grande miracolo su cui oggi siamo chiamati a meditare. Amen.

 

giovedì 18 luglio 2024

21 Luglio 2024 – XVI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


Mc 6,30-34 
“In quel tempo, gli apostoli si riunirono attorno a Gesù e gli riferirono tutto quello che avevano fatto e quello che avevano insegnato. Ed egli disse loro: Venite in disparte, voi soli, in un luogo deserto, e riposatevi un po’. Erano infatti molti quelli che andavano e venivano e non avevano neanche il tempo di mangiare”. 

Ci siamo lasciati domenica scorsa con la partenza missionaria dei discepoli: Gesù li ha mandati per le strade della Palestina a “guarire”. Nel vangelo di oggi gli apostoli ritornano dalla loro missione e gli riferiscono tutto quello che hanno fatto, tutto quello che è loro successo. E a ragione. Perché essi considerano Gesù l’inizio e il termine del loro viaggio. Sono partiti da Lui, sono stati mandati da Lui, e adesso ritornano a Lui. Lui è il polo di attrazione, il loro riferimento, il loro centro. 
Perché lo fanno? Per verificarsi, per condividere le esperienze, per rallegrarsi dei risultati ottenuti. Sono questi, fondamentalmente, i motivi che ci devono guidare nel nostro personale rapporto con il Maestro. 
Innanzitutto dobbiamo fare anche noi una “verifica” della nostra vita, del nostro operato. Verificarsi, vuol dire infatti controllare se siamo nel giusto, se agiamo secondo i “canoni”, secondo Verità. Ci verifichiamo non per darci un giudizio, un voto, ma per controllare se come viviamo corrisponde esattamente alle “regole di ingaggio”, se cioè siamo coerenti con la Sua chiamata, con quanto professiamo e crediamo. 
Nella vita sono molteplici gli elementi che concorrono alla nostra crescita e maturazione umana e spirituale: elementi che necessitano ogni tanto di essere esaminati, controllati, di essere sottoposti a vere e proprie “verifiche”: uno fondamentale, per esempio, è il nostro lavoro: “Quello che facciamo è definibile un buon lavoro? Il nostro modo di lavorare è corretto? Contribuisce a realizzare i nostri ideali, la nostra personalità, la nostra sensibilità?”. Attenzione, perché noi “siamo ciò che facciamo”, noi cioè siamo, ci identifichiamo, con il nostro lavoro: ora, considerando che per circa un terzo della giornata siamo tutti impegnati nelle nostre attività, se queste non le svolgiamo correttamente, nello spirito del vangelo, in pratica buttiamo via un terzo della nostra vita: uno spreco enorme, decisamente inutile. 
Altro elemento importantissimo è l’amare, il donarsi, il dare e ricevere: anche su questo ogni tanto dobbiamo fare una verifica: “Ciò che chiamiamo amore è veramente tale, oppure è qualche suo surrogato?”. Perché non basta dire semplicemente: “Io amo”, e sentirci a posto. Il nostro è un amore sincero, oblativo, oppure un morboso attaccamento umano? Amiamo soltanto perché abbiamo paura di rimanere soli, per risvolti economici, per assicurare un futuro alla nostra vita? Ma questo non è amare, è semplicemente un contrabbandare per amore il nostro egoismo, il nostro interesse personale. 
Altro elemento vitale che periodicamente bisogna verificare, è la preghiera: “Come e con quale frequenza noi preghiamo? La nostra preghiera consiste solo in una sequenza automatica di parole? È una lista della spesa, un pozzo dei desideri, una richiesta ossessiva di ciò che non riusciamo ad avere?” E ancora: “Da dove sgorga la nostra preghiera? Dalla paura di un Dio vendicatore o dall’amore per un Dio-che è Amore?”. 
Anche la felicità, la serenità interiore sono elementi basilari: sono il condimento di una vita positiva, buona, altruista; per cui ogni tanto dobbiamo chiederci: “La nostra vita è davvero felice? Viviamo, oppure ci trasciniamo come dei morti viventi? Oppure viviamo una vita che non è la nostra? Una vita sdoppiata, bella e meritevole all’esterno, ma falsa e infedele nell’intimo?”. Certo scoprire la coesistenza di un così lacerante dualismo, scoprire che la nostra vita spirituale è un completo fallimento, non è per nulla consolante, anzi ci fa decisamente male; ma è molto peggio continuare a vivere mentendo a noi stessi, continuare a fare per convenienza cose che sappiamo essere non corrette, che non ci convincono, che non sentiamo nostre. In tal caso continuare nell’inganno di noi stessi, equivale accettare l’inutilità di una vita fallimentare, invece di metterci in gioco, rischiare, cambiare.
Ultimo ma non meno importante elemento è il nostro “stare insieme”, il fare comunità; un punto su cui la nostra verifica deve essere severa: magari quello che scopriamo ci metterà in crisi, perché dovremo misurarci con situazioni che non vorremmo mai conoscere. Forse è per questo motivo che molti non si fermano mai, non riflettono sulla loro esistenza, non si pongono questioni profonde: preferiscono illudersi che tutto vada bene o che, ignorandoli, i problemi non esistano. Ma la politica dello struzzo non ha mai dato frutti apprezzabili… Del resto, “fare verità” su noi stessi vuol dire anche essere preparati ad affrontarne le conseguenze, qualunque esse siano. Solo guardandole in faccia possiamo cambiare; soltanto non raccontandoci “balle” possiamo affrontare e risolvere i nostri veri problemi.  
Per poter fare una “verifica” come i discepoli, dobbiamo anche noi considerare Gesù come nostro maestro, la guida, il punto di riferimento, il nostro “confidente”; dobbiamo imparare a parlare con Lui, a confidarci con Lui sul nostro cammino, sulla nostra vita, sulla qualità del nostro lavoro: avremo sempre, nuovi e validi motivi per confrontarci con Lui. Soprattutto per condividere tutto con Lui: una vera, autentica condivisione che crea unione, intimità, quel donarsi senza ambiguità, senza falsità; quel raccontarsi, che ci introduce, sempre più, l’uno nel cuore dell’altro.
Una condivisione intima che non dev’essere una “cronaca” sterile di ciò che abbiamo fatto: “Ho fatto questo, e poi questo, e poi questo…”, ma un’apertura totale della nostra mente, della nostra anima, del nostro cuore, dei nostri sentimenti. Condividere così, è vero, vuol dire esporsi, mostrarsi inermi, senza difese, diventare completamente vulnerabili: ma non c’è unione vera con Gesù senza questo “annullamento”. Purtroppo, nella nostra vita, nelle nostre “condivisioni”, siamo invece abituati a parlare molto e a condividere poco. Preferiamo parlare tanto degli altri, invece che di noi stessi. Preferiamo non guardare dentro di noi, e rimaniamo soli, all’esterno, nel superficiale. Al contrario se provassimo questa intima condivisione con Lui, la vita acquisterebbe improvvisamente colore e calore: ci sentiremmo accolti, capiti, sentiremmo dentro di noi la sua presenza, percepiremmo tutto il suo amore. E sperimenteremmo quella gioia, quell’intima soddisfazione di comunicargli che, con Lui, riusciamo a fare veramente cose belle, importanti, entusiasmanti: cose concrete, che anche umanamente ci soddisfano e ci rendono orgogliosi, felici.
La vita è un suo dono: solo se viviamo questo dono in costante confronto con Lui, potremo avvertire la sua presenza concreta, potremo riconoscere la sua mano nei nostri successi, potremo percepire la sua piena fiducia in noi: nonostante tutto, nonostante Lui sappia bene chi siamo, nonostante conosca i nostri limiti, i nostri errori, i nostri orrori.
Confrontiamoci allora con Lui. Immergiamoci nella meditazione, scendiamo nella nostra anima, misuriamoci, là dentro, con Lui. Ricarichiamoci: gustiamo nella meditazione silenziosa quella Parola che siamo chiamati a testimoniare. Verifichiamoci, controlliamo l’autenticità del nostro efficientismo, per scongiurare la possibilità di investire tutto il nostro lavoro, tutte le nostre fatiche, in una costruzione inutile, effimera, inaffidabile, fondata sulla sabbia. 
“Andate…”, ci dice Gesù. È vero, è Lui che ci manda, ma non ci manda allo sbaraglio; Egli si preoccupa di noi, ci vuole sempre all’altezza, ci sta costantemente vicino; ci lascia ampia libertà decisionale, ma si preoccupa che le nostre scelte siano sempre corrette, sempre in linea con la sua Parola. Il nostro cammino è in questo modo chiaro e percorribile. Spetta quindi a noi, ora, piantare il buon seme e innaffiare come si deve. E alla fine, quando torneremo a Lui, perché è sempre e comunque a Lui che dovremo ritornare, auguriamoci di potergli consegnare, soddisfatti, un buon raccolto. Amen.

  

giovedì 11 luglio 2024

14 Luglio 2024 – XV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


Mc 6,7-13 
Chiamò a sé i Dodici e prese a mandarli a due a due e dava loro potere sugli spiriti impuri. E ordinò loro di non prendere per il viaggio nient’altro che un bastone: né pane, né sacca, né denaro nella cintura; ma di calzare sandali e di non portare due tuniche. E diceva loro: «Dovunque entriate in una casa, rimanetevi finché non sarete partiti di lì. Se in qualche luogo non vi accogliessero e non vi ascoltassero, andatevene e scuotete la polvere sotto i vostri piedi come testimonianza per loro». Ed essi, partiti, proclamarono che la gente si convertisse, scacciavano molti demòni, ungevano con olio molti infermi e li guarivano.

Oggi il vangelo ci offre l’opportunità di fare alcune considerazioni sui discepoli di Gesù, sia su quelli che lo seguivano allora, che su quelli di oggi. 
Va premesso che non tutti coloro che seguivano Gesù da vicino, si sono rivelati un esempio di fedeltà: molti infatti lo contestavano, altri lo rifiutavano, alcuni arrivarono a tradirlo: ciò che conta però è che la stragrande maggioranza di essi, conquistati dalla passione per quell’uomo che aveva rivoluzionato la loro vita, si lasceranno poi catturare, imprigionare, martirizzare, pur di rimanere coerenti con la loro fede. 
Per lo più erano persone, uomini e donne, che appartenevano agli strati sociali più poveri; gente semplice, ignorante, contadini, pescatori, mendicanti; gente che viveva lontana dalle regole dell’Alleanza, dalle regole religiose del Tempio; erano quindi gli impuri, gli esclusi, in una parola gli “scarti” della società. 
Ed è proprio tra queste persone che Gesù ad un certo punto sceglie i Dodici; erano quasi tutti galilei: alcuni, come Giacomo e Giovanni appartenevano ad un livello sociale un po’ più alto (avevano barca e garzoni a loro servizio) altri, invece, come Pietro e Andrea erano dei poveri pescatori, proprietari soltanto di una rete, di cui si servivano per pescare quel poco sufficiente a sfamarsi, lungo la riva del lago.
Ebbene: cosa ci fa capire tutto questo? Che per seguire Gesù non ci sono canali preferenziali, non ci sono categorie speciali agevolate: tutti gli aspiranti sono sullo stesso piano, ricchi e poveri, colti e ignoranti.
Gesù può scegliere chiunque, a condizione però che la sua disponibilità sia veramente sincera, reale, con il cuore aperto, pronta a mettersi in gioco, a lasciarsi sconvolgere completamente la vita.
La “vocazione” non è altro che la risposta dell’uomo alla libera iniziativa di Dio: un particolare, questo, molto importante, che dovrebbe indurre noi discepoli moderni - in particolare quelli che sgomitano per essere più vicini al suo altare, che si considerano la parte “eletta” della Chiesa, i “ripieni” di Spirito Santo, i puri, gli eletti, i consacrati, quelli che si ritengono i prediletti da Dio – ad essere decisamente più umili, più consapevoli del loro “nulla”; perché anche oggi come allora, Egli continua a chiamare al suo seguito gli umili, i poveri nello spirito, i sofferenti, gli abbandonati, i deboli, quelli che nella Chiesa cercano solo salvezza, accoglienza, comprensione, conforto, salute spirituale, amore.
Anche perché, è comprovato, gli autoreferenziali, i “ricchi” di idee, i possessori di velleità carrieristiche, i cercatori di denaro e di notorietà, difficilmente sono disponibili a seguirlo, proprio perché, quando arriva Lui, spazza via qualunque zavorra, tutto ciò che è inutile, qualunque cosa che non sia utile alla costruzione del suo Regno.
Gesù è radicale. È impossibile seguirlo soltanto un po’: o lo si segue tutto in tutto, o niente. Gesù è un’esperienza unica, totale, indivisibile.
Sappiamo dalla Scrittura che tutti gli ebrei, a quei tempi, aspettavano la restaurazione del regno politico di Davide e di Salomone: ma in questo senso Gesù li ha profondamente delusi. Il Regno da lui annunciato e difeso non è politico, non è materiale. Il suo è un Regno riservato esclusivamente al cuore e all’anima degli uomini, un regno in cui le persone guariscono e si liberano dai loro “nemici” interiori. È l’autentico regno di Dio: un regno che sarà sempre così, che non è al di fuori di noi, ma dentro di noi. È lì che deve avvenire la nostra “grande liberazione” personale. Siamo noi che dobbiamo liberarci dai nostri demoni, dai nostri tiranni, dai nostri nemici, per poter aderire alla sua chiamata: ricordiamocelo questo, perché chi non vuole guardarsi dentro, chi non vuole conoscersi nel profondo, chi non vuole combattere i prepotenti usurpatori del proprio cuore, non potrà mai seguire seriamente il Gesù del Vangelo!
Impresa particolarmente difficile anche per noi, se consideriamo che allora nessuno dei suoi compaesani, dei suoi parenti, lo seguì: anzi furono proprio loro che lo criticarono apertamente, gli impedirono di parlare e di agire liberamente, facendolo passare per “pazzo”. Una situazione veramente insostenibile che lo costrinse a fuggire da quell’ambiente, a trasferirsi a Cafarnao, sulle rive del lago di Galilea.
Non per nulla, riferendosi a sé stesso, dirà: “Le volpi hanno le tane e gli uccelli del cielo i nidi, ma quest’uomo non ha dove posare capo” (Lc 9,58).
Egli conosce bene la portata del suo programma: “Non pensiate che io sia venuto a portare pace sulla terra, bensì la spada. Sì, sono venuto a mettere il padre contro il figlio e il figlio contro il padre, la madre contro la figlia e la figlia contro la madre, la suocera contro la nuora e la nuora contro la suocera” (Lc 12,51-53). Per Gesù, quindi, vi è qualcosa di più importante della stessa famiglia: è il regno di Dio; per cui “chi non odia suo padre e sua madre, suo figlio e sua figlia, non può essere mio discepolo” (Lc 14,26).
Pertanto: se il rapporto con i genitori, con gli amici, con le persone che amiamo, è per noi più importante della nostra vocazione, della nostra libertà interiore, della verità che cerchiamo, non possiamo seguire Gesù. Per poterlo fare, dobbiamo essere totalmente “liberi” da ogni costrizione; non dobbiamo giustificare le nostre scelte di vita a nessuno, se non a Dio; solo davanti a lui dobbiamo inchinarci.
La sequela di Gesù non va fatta per motivi logici o teologici: ma semplicemente per passione, per amore. I suoi discepoli erano infatti degli innamorati, perché solo degli innamorati o dei pazzi, potevano fare quello che essi hanno fatto! 
Del resto Gesù stesso ha dato loro l’esempio con la sua vita: Egli era tenero con i piccoli, si emozionava di fronte alle sventure e alle sofferenze degli ammalati, non aveva paura di toccare, di abbracciare donne e uomini lebbrosi; quando c’era da difendere la dignità delle persone, era tenace e irremovibile; era appassionato della verità, se ne infischiava delle regole stupide o disumane e se c’era da trasgredirle lo faceva senza alcun indugio; piangeva, gioiva, si stupiva di fronte agli uccelli del cielo e ai gigli del campo; credeva nella forza delle persone e se queste gli credevano, immediatamente guarivano dai loro mali. Egli amava per davvero, non a parole; la sua era veramente vita! La sua fu una scuola carica di insegnamenti: un materiale preziosissimo che Egli condensò in quell’unico termine, “eu-anghelion”, cioè “la buona notizia”, il suo Vangelo. 
È questo infatti il programma che Gesù ha stabilito fin da allora per ogni suo discepolo: vivere sempre da innamorati dell’Amore e della Vita. Un risultato che tutti devono raggiungere.
La nostra preoccupazione di fondo deve quindi riguardare il nostro “agire”, la nostra condotta, la nostra “vita”, senza nutrire alcuna pretesa di “insegnare” agli altri quello che devono o non devono fare. Per poter essere fedeli annunciatori del Vangelo, certamente lo studio, la preparazione, i corsi di aggiornamento, sono tutte cose utili, necessarie, fondamentali, ma se non siamo coerenti con quanto annunciamo, in realtà sono soltanto zavorra, un fardello inutile e pesante. Se trascuriamo la nostra vita cristiana, la nostra vita spirituale, tutto il nostro sapere, il nostro insegnare, diventa superfluo, ingombrante, si riduce ad una esercitazione tecnica, sterile, incoerente, senz’anima e cuore.
Non carichiamoci allora di troppe iniziative, di troppi impegni, di troppe attività associazionistiche, perché troppo spesso esse portano a farci dimenticare l’unico obiettivo fondamentale: l’autentica lode a Dio e la nostra santificazione.
Oggi purtroppo la società del benessere ci spinge convulsamente a fare tali esperienze, a cimentarci contemporaneamente in mille cose, in qualunque attività: per la nostra formazione ci affidiamo a qualunque imbonitore, a qualunque ciarlatano, purché parli di “miracoloso”, di “spirituale”, di “metamorfosi antropologica”; siamo schiavi beoti attratti dalle mode più ridicole e sciocche del momento; ci buttiamo con ostentazione in ogni “genere” di volontariato, in ogni “caritas”, volendo dimostrare a tutti la nostra “autenticità cristiana”; viviamo un’esistenza superficiale, discontinua, e cambiando i nostri obiettivi, i nostri ideali, i nostri interessi, con grande disinvoltura, finiamo per trascurare l’unico obiettivo, quello vitale, che al contrario è l’unico meritevole di tutta la nostra attenzione: dare cioè un’autentica e generosa risposta all’invito perentorio di seguire Gesù.
A questo punto una domanda nasce spontanea: la Chiesa, che dovrebbe essere la solerte madre dei credenti, oggi è veramente la guida fedele, la vera “discepola” di Cristo? È ancora balsamo per i cuori oppressi e feriti degli uomini? Sa liberarli dai loro dubbi, dalle loro paure, dalle loro ansie? Sa guarirli dai loro demoni interiori? Sa rassicurarli, confermarli, nella fede? Perché questa è la sua missione, per questo Gesù l’ha voluta: se perde di vista quest’unico fine, cessa di essere la Chiesa di Cristo!
Gesù continua anche oggi a chiedere agli uomini: “Vuoi seguirmi?”. Che non allude ad una vacanza, ad una promozione! Non è un invito a mettersi tra i migliori, tra i più fortunati. Assolutamente no. Accettare di seguire Gesù, significa costruirsi una nuova identità, fondata sui suoi principi, viverli concretamente, e proporli con l’esempio agli altri.
Quella che viviamo e che chiamiamo “vita”, infatti, altro non è che un rapidissimo rincorrersi di gioie e dolori, di futili e ingannevoli propositi, di incessanti contrarietà, di profonde delusioni. Quella che Gesù ci prospetta, invece, è un’altra “vita”, successiva a questa; una vita vera, concreta, senza fine, proiettata fin d’ora nel futuro godimento dell’Amore eterno di Dio; una Vita beatifica apparentemente irraggiungibile, che invece diventerà alla portata di tutti, a condizione che, accettando il suo invito a seguirlo, calpestino con fedeltà e impegno le stesse orme che Lui ha lasciato, camminando davanti a noi. Amen.

  

mercoledì 3 luglio 2024

07 Luglio 2024 – XIV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


Mc 6,1-6 
In quel tempo, Gesù venne nella sua patria e i suoi discepoli lo seguirono. Giunto il sabato, si mise a insegnare nella sinagoga. E molti, ascoltando, rimanevano stupiti e dicevano: «Da dove gli vengono queste cose? E che sapienza è quella che gli è stata data? E i prodigi come quelli compiuti dalle sue mani? Non è costui il falegname, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Ioses, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle, non stanno qui da noi?». Ed era per loro motivo di scandalo. Ma Gesù disse loro: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua». E lì non poteva compiere nessun prodigio, ma solo impose le mani a pochi malati e li guarì. E si meravigliava della loro incredulità. Gesù percorreva i villaggi d’intorno, insegnando.

Gesù, durante il suo lungo peregrinare, si ferma anche nella sua cittadina natale. E qui il vangelo ci offre un piccolo spaccato di vita paesana: non che Egli faccia per i suoi concittadini qualcosa di straordinario, anzi si comporta esattamente come il suo solito: guarisce gli ammalati e, di sabato, predica nella sinagoga. Anche i suoi lo ascoltano e, come tutti, rimangono stupiti, meravigliati: avvertono cioè in lui un potere straordinario che riesce a risvegliare in loro profonde emozioni, a toccare le corde più sensibili della loro anima.
Nonostante ciò essi rimangono scettici: giudicano le sue parole, i suoi insegnamenti troppo elevati, troppo impegnativi, rivoluzionari, inadeguati per la loro vita. Essi hanno le loro idee, hanno le loro tradizioni, i loro schemi mentali: dargli ascolto equivaleva accettare soluzioni mai sentite prima, e quindi “pericolose”; significa mettere in gioco il loro credo, le loro usanze, e di rimanere destabilizzati.
Gesù, anche qui come altrove, si comporta e insegna senza preoccuparsi se ciò che fa e dice, possa urtare qualcuno. E in realtà urta molta gente: dice infatti ai farisei che la loro religione è falsa; ai nobili sadducei, che dietro la loro religione si celano solo interessi di potere; definisce apertamente stupide e prive di vita le loro pratiche religiose: e lo grida apertamente, in faccia ai capi che le praticano, imponendole agli altri!
È naturale quindi che questi ascoltatori chiamati in causa, toccati sul vivo, si trovino a dover scegliere tra due possibilità: o ascoltare umilmente Gesù, dandogli retta, e rivedere completamente il loro stile di vita, o attaccarlo frontalmente facendolo passare per matto, mettendo in giro voci maligne su di lui e, se non bastasse, addirittura sopprimendolo. Cosa che poi puntualmente cercheranno di fare.
Nel loro caso specifico, poi, c’è anche un’aggravante: perché quando Egli predicava per le strade della Palestina, la gente non lo conosceva, non sapeva chi fosse; ma qui sono tutti suoi paesani, gente che lo conosce bene! Conoscono la sua famiglia, le sue origini, si ricordano di quando era ragazzino! “Ha studiato qui con noi, mica è laureato, non ha titoli di studio, come può dire queste cose? Chi crede di essere per venire qui a stravolgere la nostra vita, le nostre tradizioni? Noi abbiamo sempre fatto così, non ci serve altro, perché ora dovremmo seguire le allucinazioni del figlio di un carpentiere? Cosa può mai uscire di buono da quella famiglia?”.
Hanno quindi già deciso per principio di non credergli. Non possono accettare l’idea che Dio si stia servendo di uno come loro per cambiare il mondo! 
Ecco: il loro dramma è stato quello di ergersi a giudici, di arroccarsi sull’idea della sua incapacità, per il fatto che essi lo conoscevano! Purtroppo, cambiare la propria opinione è un’operazione molto difficile, antipatica, perché obbliga le persone a riconoscere di aver sbagliato, a ricredersi, ad accettare i propri limiti.
È assurdo, ma è anche oggi un comportamento molto comune: “giudicare” è un’operazione che noi pratichiamo in continuazione: possiamo dire che è lo sport più praticato a livello internazionale! Noi infatti giudichiamo quasi sempre le persone non per quello che sono, ma per come le vediamo noi, per come erano anni prima, per la famiglia da cui provengono, dando credito spesso a chiacchiere e maldicenze.
Quella di giudicare, è una facoltà che nasce e si sviluppa con la stessa vita umana: il bambino, per esempio, divide da subito la realtà in buona e cattiva: “buono” è ciò che non gli fa male, ciò che lui può controllare; “cattivo” è ciò che lo fa piangere, che non può gestire. In realtà, però, nell’uomo non esiste nulla che di per sé sia buono o cattivo: sono i suoi comportamenti, le sue azioni, le sue percezioni che lo rendono buono o cattivo: noi però, quando diciamo a qualcuno “sei cattivo” non giudichiamo il comportamento, ma direttamente l’individuo, la persona: diciamo cioè che è lui che non va bene, che è un delinquente, un mascalzone!”. Il nostro giudizio pertanto, identifica la moralità di un’azione con l’individuo che la compie, quando invece, come ci dice il verbo greco “krino”, giudicare, che vuol dire “dividere”, la nostra valutazione, per essere completa e pertinente, dovrebbe sempre distinguere la casualità, le intenzioni, la volontà, la conoscenza, ecc.
Va inoltre tenuto presente che il nostro “giudicare” risponde quasi sempre ad un tentativo di emergere, di essere noi a controllare, a possedere la giusta visione della realtà, perché senza di ciò, tutto ci fa paura. Quando una persona giudica molto, in continuazione, vuol dire che è un insicuro, inconsciamente è terrorizzato dal dover affrontare la vita: per questo tenta di fissare delle etichette, dei ragionamenti che, classificandogli la realtà in categorie, gli semplificano la vita, gliela rendono più accessibile.
Ogni giudizio, proprio per la sua componente di ambiguità, di incertezza, è un’impresa ardua, difficile: è, come dicevano gli antichi, pretendere di far passare tutta l’acqua del mare attraverso lo scarico di un lavandino. Pertanto, emettere un giudizio essenzialmente e totalmente corretto e definitivo, secondo loro è impossibile.
Tuttavia il Vangelo ci suggerisce un’altra considerazione, fondamentale per la nostra vita cristiana: possiamo infatti notare che, incontrando Gesù, molte persone si chiudono in sé stesse, non accettano il suo messaggio, sono indifferenti, infastidite, rimangono ancorate nei loro pregiudizi, nei loro schemi; altre invece, la grande maggioranza, sono aperte, solari, si lasciano conquistare dalle sue parole e ne escono completamente cambiate, trasformate, rinnovate. Come mai? Semplice: perché nel nostro rapportarci con Dio, entra in gioco un elemento decisivo, fondamentale, che sarà determinante per le nostre scelte: è credere in Lui, l’abbandonarsi a Lui, il lasciarsi contagiare da Lui; avere cioè la capacità soprannaturale di “vedere”, riconoscere, percepire, constatare che Lui effettivamente vive, parla, agisce, nella nostra vita umana. Dio non può fare nulla se noi non riconosciamo che Lui è presente, se non crediamo in Lui, se non ci apriamo a Lui con fede sincera. Perché la fede non è capire, non è conoscenza: la fede è incontrare Lui, è sperimentarlo, unirci a Lui vivo, abbandonarci a Lui. Del resto, Dio non costringe nessuno, non obbliga nessuno a seguirlo: se noi non vogliamo lasciarci coinvolgere, se non vogliamo cambiare, se ci rifiutiamo di fare il bene, Dio non può sostituirsi a noi e farlo al posto nostro. Certo, è molto difficile per noi accettare e condividere questo principio: perché in teoria, tutti diciamo di volere Dio, tutti diciamo di essere buoni cristiani, tutti diciamo di ascoltare la sua parola. Ma un conto è dire, un altro è fare: una cosa è promettere di collaborare con l’azione divina, un’altra è mantenere responsabilmente la nostra promessa. Ciò che ci è particolarmente difficile da capire, è che Dio ci salva, certamente, ma solo se lo vogliamo anche noi, solo se dimostriamo di meritarlo con la nostra vita concreta: Dio infatti ci riempie del suo amore, solo se noi gli apriamo il nostro cuore; Dio ci rende buoni, solo se noi glielo permettiamo; Dio ci salva, ci accompagna al centro della Vita futura, solo se noi camminiamo con Lui. Dio ci ha voluti assolutamente liberi; per cui senza un nostro cenno di sincera adesione, senza un nostro concreto apporto personale, Egli non può far nulla per noi, nonostante la potenza infinita della sua misericordia, del suo amore.
Dio su questo, non accetta la nostra falsità, l’indifferenza, la tiepidezza: “Poiché sei tiepido, non sei cioè né freddo né caldo, sto per vomitarti dalla mia bocca» (Ap 3, 14-20).
Quante persone che conducono una vita “tiepida”, indifferenti a Dio, superficiali, sono pronte a giurare che credono in Dio e che lo amano. Ma non può essere vero: semplicemente credono, si illudono di amarlo. Credere vuol dire aderire a Dio con tutte le proprie forze, con tutta la propria mente, con tutte le proprie scelte di vita; vuol dire soprattutto essere pronti a combattere, a mettersi in gioco, a rinunciare alla propria onorabilità, a tutto, con perseveranza, fino alla fine, fino al martirio, per difendere la propria fede in Lui. Altrimenti sono solo parole.
Ma torniamo al Vangelo: di fronte alle critiche, all’incredulità dei suoi compaesani, Gesù prova dunque solo tristezza: “Come fate a mettere in discussione ciò che faccio? Come fate a non percepire l’amore, l’apertura, la misericordia contenute in ogni mia parola, in ogni mio gesto, in ogni mio sguardo? Come fate a non rendervi conto che vi amo? Come fate a non riconoscere la vostra ottusità, i vostri attaccamenti, le vostre chiusure?”. E con tanta amarezza deve constatare: “Nessuno è profeta nella sua patria”. Parole che trovano conferma nelle tristi avventure dei profeti dell’intera storia d’Israele; parole che esprimono un’amara rassegnazione al rifiuto della sua persona da parte dei suoi concittadini. E conclude sconsolato: “Neanche se Dio scendesse di persona, voi credereste!”.
Qui sentiamo tutta la delusione di Gesù. Una drammatica, identica sensazione, che quanti credono e vivono in Dio, condividono continuamente nell’avvicinarsi a fratelli che non sanno vedere, che non vogliono vedere, che rifiutano a priori la realtà, la verità.
Il verbo greco “ethàumazen” (da thaumazo) è molto più forte di un semplice “meravigliarsi”: descrive un Gesù che, di fronte alla cecità, all’ottusità di chi ha davanti, rimane costernato, incredulo, senza parole. È traumatizzato dalla loro cocciutaggine, dal loro irrigidimento mentale. Il fisico Einstein – e se ne intendeva di queste cose – amava dire: “È più facile spezzare l’atomo che il pregiudizio dell’uomo!”.
Purtroppo, ancora oggi troppa gente è convinta che la fonte della loro felicità sia il mondo con i suoi lustrini, l’avere tanti soldi, una bella casa, un buon lavoro, una suocera simpatica, un amico e collega disponibile. L’uomo d’oggi, con la sua ostinata presunzione di negare Dio, di combatterlo in tutti i modi, vive in balia di mille illusioni, di continue delusioni e sconfitte: ma non capisce, non vuole capire. C’è veramente da rimanere allibiti, senza parole; è proprio vero: non c’è peggior cieco di chi non vuol vedere, né peggior sordo di chi non vuol sentire. Amen. 

mercoledì 26 giugno 2024

30 Giugno 2024 – XIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


In quel tempo, essendo Gesù passato di nuovo in barca all’altra riva, gli si radunò attorno molta folla ed egli stava lungo il mare. E venne uno dei capi della sinagoga, di nome Giairo, il quale, come lo vide, gli si gettò ai piedi e lo supplicò con insistenza: «La mia figlioletta sta morendo: vieni a imporle le mani, perché sia salvata e viva». Andò con lui. Molta folla lo seguiva e gli si stringeva intorno. Ora una donna, che aveva perdite di sangue da dodici anni e aveva molto sofferto per opera di molti medici, spendendo tutti i suoi averi senza alcun vantaggio, anzi piuttosto peggiorando, udito parlare di Gesù, venne tra la folla e da dietro toccò il suo mantello. Diceva infatti: «Se riuscirò anche solo a toccare le sue vesti, sarò salvata». E subito le si fermò il flusso di sangue e sentì nel suo corpo che era guarita dal male. E subito Gesù, essendosi reso conto della forza che era uscita da lui, si voltò alla folla dicendo: «Chi ha toccato le mie vesti?». I suoi discepoli gli dissero: «Tu vedi la folla che si stringe intorno a te e dici: “Chi mi ha toccato?”». Egli guardava attorno, per vedere colei che aveva fatto questo. E la donna, impaurita e tremante, sapendo ciò che le era accaduto, venne, gli si gettò davanti e gli disse tutta la verità. Ed egli le disse: «Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va’ in pace e sii guarita dal tuo male». Stava ancora parlando, quando [dalla casa del capo della sinagoga vennero a dire: «Tua figlia è morta. Perché disturbi ancora il Maestro?». Ma Gesù, udito quanto dicevano, disse al capo della sinagoga: «Non temere, soltanto abbi fede!». E non permise a nessuno di seguirlo, fuorché a Pietro, Giacomo e Giovanni, fratello di Giacomo. Giunsero alla casa del capo della sinagoga ed egli vide trambusto e gente che piangeva e urlava forte. Entrato, disse loro: «Perché vi agitate e piangete? La bambina non è morta, ma dorme». E lo deridevano. Ma egli, cacciati tutti fuori, prese con sé il padre e la madre della bambina e quelli che erano con lui ed entrò dove era la bambina. Prese la mano della bambina e le disse: «Talità kum», che significa: «Fanciulla, io ti dico: àlzati!». E subito la fanciulla si alzò e camminava; aveva infatti dodici anni. Essi furono presi da grande stupore. E raccomandò loro con insistenza che nessuno venisse a saperlo e disse di darle da mangiare. 

Il vangelo inizia sottolineando che Gesù si era nuovamente trasferito sull’altra riva del lago. Come abbiamo visto domenica scorsa, il “passaggio” da un luogo ad un altro, non esprime un semplice cambio di zona, ma un mutamento radicale di vita: un passaggio necessario, indispensabile, perché dobbiamo crescere, evolvere, dobbiamo abbandonare lo stato di immobilità, di stallo, per andare verso nuove esperienze di vita, verso situazioni completamente nuove, altrimenti ci ammaliamo, inaridiamo, cessiamo di vivere. 
I nostri problemi più gravi provengono, infatti, proprio dall’ostinato rifiuto di “passare dall’altra parte”: non vogliamo crescere, non vogliamo abbandonare le nostre abitudini paralizzate, inefficienti, non vogliamo abbandonare una riva, una fase della nostra vita, per dirigerci decisamente verso un’altra. Rimaniamo sempre lì, immobili: ma irrigidirsi così, per partito preso o magari per paura, è la nostra sentenza di morte. I momenti della vita passano una sola volta, non si ripetono, non si fermano: la vita è un continuo fluire in avanti: con noi o senza di noi, il tempo con le sue opportunità passa inesorabilmente: fermarsi, equivale a regredire, perdersi, morire.
È sempre stato difficile, e sempre lo sarà, passare dall’adolescenza, all’età adulta: crescere, emanciparsi completamente dall’infanzia, è un passaggio obbligatorio ma impegnativo; tant’è che a volte si preferisce rimanere immaturi, dipendenti, succubi delle decisioni altrui.
Raggiunta la maturità, poi, è ancora più problematico accettare di diventare “anziani”: “vecchio” è un termine in genere “odiato”, sicuramente detestato, il più volutamente “ignorato”: perdere le nostre posizioni di dominio, constatare il nostro declino, l’essere superati da altri più vigorosi e preparati di noi, vedere accantonati, messi da parte quei nostri ruoli professionali conquistati con tanta passione, è un passaggio destabilizzante per chiunque, soprattutto se non si capisce che l’anzianità è l’età della saggezza vera, della comprovata esperienza, l’età in cui i vecchi vengono spesso cercati e interpellati come maestri di vita. Ma se non “passiamo”, se non accettiamo di trovarci in quella “parte” della vita, ci sentiremo sicuramente dei falliti, degli emarginati, delle persone inutili, deluse, sole, amareggiate.
Il vangelo di oggi, allude dunque proprio a questi “passaggi” esistenziali: a quei cambiamenti cioè che tutti devono affrontare per crescere, per vivere, per amare. Sì, perché talvolta, per vivere, per amare, è assolutamente necessario spogliarci da quel “ruolo” esclusivo, intransigente, onnisciente, che abbiamo amato e indossato per anni; dobbiamo “cambiare”, dobbiamo lasciarci alle spalle quegli anni “ruggenti” in cui ci sentivamo forti, infallibili, vincenti; dobbiamo ridimensionarci, dobbiamo indossare umilmente la veste genuina dell’amore vero, della saggezza autentica, sincera, indulgente, benevola, proprio per trasferirla su chi amiamo di più, sui nostri figli, sui nostri nipoti, su quelli che porteranno nel domani le nostre esperienze: se non accettiamo questo nuovo compito, rischiamo inevitabilmente di soffocarli, di mortificarli, di bloccare i loro sogni di vita, di immobilizzarli, di ucciderli.
È quanto vuol farci capire il vangelo di oggi con la guarigione della figlia di Giairo.
Ma scendiamo nei particolari del testo: osserviamo bene, prima di tutto, l’ordine delle parole: “E venne uno dei capi della sinagoga, di nome Giairo”; Marco non dice: “Giairo, uno dei capi della sinagoga, andò da Gesù”; egli volutamente non ha anteposto nel suo periodo il nome del soggetto, come dovrebbe normalmente avvenire; e lo ha fatto proprio per evidenziare come in questo caso, il ruolo, la carica, la professione, venga prima, sia più importante della persona, dell’individuo che agisce; in altre parole è l’attività, il mestiere, che guida e determina il comportamento dell’individuo, non la persona. E questo crea decisamente dei problemi. 
Il grande pericolo che corriamo, quando nella vita rivestiamo un “ruolo importante”, è infatti quello di identificarci completamente in quel nostro ruolo. Allora non siamo più Tizio o Caio, ma siamo sempre e solo “il” capo, il professore, il politico: lo siamo sempre e con tutti. Non faremo più caso alle debolezze della nostra umanità, ai nostri limiti, ai nostri desideri personali, ma continueremo ad essere il capo che comanda, il professore che insegna, il politico che legifera: diventeremo cioè prigionieri del ruolo, di questo vestito esteriore che ci siamo cuciti addosso. E sarà quindi lui, il ruolo, che dopo aver progressivamente fagocitato il nostro essere persona, deciderà il nostro agire, il nostro pensare, il nostro pianificare la vita.
Ebbene: Giairo, uno dei protagonisti del Vangelo di oggi, si comporta esattamente come la vittima del suo “dio-ruolo”: in pratica egli è più “preso” dalla sua funzione di capo della sinagoga, che dai problemi di sua figlia. Non la vede, non la riconosce, non si accorge neppure che lei crescendo, giorno dopo giorno, si ripiega su sé stessa, sfiorisce, si lascia morire: troppo proiettato sulle problematiche di una carriera che lo allontana da lei, non scorge il suo bisogno disperato di avere un padre attento, che la valorizzi, che le riconosca la sua giusta importanza, e soprattutto che l’ami come la cosa più preziosa.
Gesù, per guarire la figlia, deve quindi “guarire” prima di tutto il padre, deve riportarlo nella sua dimensione di genitore, deve ricollocarlo nella sua realtà di persona: egli infatti si è perduto nel tempo, è rimasto nel passato remoto, e insiste a proiettare nel presente una visione riduttiva della figlia, una visione anacronistica, statica, impropria; continua cioè a vederla, a considerarla, a chiamarla ancora, la sua “figlioletta”. Ma questa “bimba”, come la vede lui, ha già dodici anni; una ragazza di quell’età, nella Palestina di duemila anni fa, è una donna adulta, nel fiore della sua maturità; è per lei assurdo, gravemente riduttivo, sentirsi considerata dal padre una creatura infantile, una bimba insignificante come donna. Da qui la loro lacerante conflittualità: lei, donna “adulta”, vuole essere considerata da suo padre come tale; ma lui non intende accettarla nella sua realtà. È un uomo che si rifiuta di vederla cresciuta, terrorizzato dall’idea di doverla perdere da un momento all’altro: è un padre immaturo, psichicamente “infermo” che, immedesimatosi nel suo ruolo esterno, si ostina a voler ignorare l’ormai inevitabile ruolo della figlia, e non si accorge che questa sua miopia ha scatenato in lei un progressivo stato di angosciante insicurezza, di annullamento della volontà di vivere, di ogni entusiasmante slancio vitale. Soprattutto non capisce che l’unica medicina che può salvare sua figlia è di farle finalmente sentire tutto il suo amore di padre: “Tu sei mia figlia, mi piaci così come sei; apriti alla vita, fiorisci, io ti amo e continuerò sempre ad amarti, perché tu sei mia figlia!”.
A questo punto, cosa avrebbe potuto fare Gesù per guarire questo padre responsabile della “grave malattia” della figlia, il quale, nel momento stesso in cui è prostrato ai suoi piedi, supplicando per la sua guarigione, riceve la notizia della sua morte? Gli dice semplicemente: “Non temere, abbi soltanto fede”. In altre parole: “Non aver paura, non disperarti per questo, devi solo aver fede, devi aver fiducia in lei; devi capire che la tua indifferenza, la mancanza del tuo amore, il rifiuto di riconoscere la sua crescita, i suoi progressi, sono gli elementi che hanno destabilizzato tua figlia. Se non ti liberi di queste ossessioni, tua figlia non potrà tornare a vivere. Tutto ciò che io dico e farò, deve segnare l’inizio di una nuova vita per te e per lei”.
Poi, entrato nella stanza in cui giaceva la figlia, Gesù si rivolge a lei e la chiama: “Talithà, ragazza, fanciulla”; per lui non è la bambina, la “figlioletta” del padre: per lui è ormai una donna. Sembra dirle: “Sei grande, matura, indipendente; ricordati che non appartieni a nessuno; non sei proprietà di tuo padre, appartieni solo a te stessa; non vivere quindi da serva, da schiava. Sei la regina, sei la padrona indiscussa della tua vita, vivi da regina!”.
E la esorta dicendo: “Ègheire, svegliati”; e la giovane immediatamente “anèste”, si alzò. Da notare che i termini usati qui da Marco, sono gli stessi usati per la risurrezione di Gesù. Un fatto fondamentale perché sta a significare che “risurrezione” non consiste solo nel passare dalla morte alla vita; ma è risurrezione anche ogni qualvolta noi “passiamo” da uno stile di vita amorfo, ad un altro più armonico, più vivace, più appassionato, più libero, più vero: significa “passare” realmente ad un nuovo periodo della vita, in un’altra “riva”: significa in pratica scuoterci, svegliare e trasmettere agli altri la Vita per eccellenza, quel Dio che “dorme” in noi.
Allora, “ègheire!”, “svegliamoci!”: alziamoci, apriamo gli occhi; non ci accorgiamo che viviamo solo per compiacere gli altri? Che cerchiamo l’approvazione di tutti? Che mendichiamo agàpe, amore, da chi può darci soltanto eros? Non ci rendiamo conto che in noi si è perso “l’uomo” e viviamo solo del nostro “ruolo”? Non vediamo che ce la stiamo raccontando, che ci inganniamo da soli? Che confondiamo l’amore con il possesso? Non ci accorgiamo che siamo sempre di corsa, perché se ci fermiamo anche solo un istante, capiamo di non aver realizzato nulla?
Sono dunque due i verbi che oggi devono farci meditare: “Ègheire”, è il nostro sonno che finisce, sono le nostre illusioni che cadono, è quando finalmente riusciamo a vedere la realtà: dura e terribile all’inizio, abituati come siamo a vedere ciò che non esiste, ma poi vitale, splendida. Anèste, è mettersi in piedi. Gesù, quando alza la ragazza, la prende per mano e le fa prendere coscienza delle sue possibilità: “Tu sei forte; tu puoi stare sulle tue gambe; vivi, perché lo puoi!”. Troviamo allora anche noi la forza di “passare”, di superare le difficoltà qualunque siano le condizioni del lago in burrasca; perché in ogni situazione, in ogni rapporto, in ogni amicizia, in ogni matrimonio, è necessario che i due componenti che si confrontano, guariscano entrambi, e sempre entrambi, passino nell’altra riva”. Amen.