giovedì 8 agosto 2024

11 Agosto 2024 – XIX DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


Gv 6,41-51 
Allora i Giudei si misero a mormorare contro di lui perché aveva detto: «Io sono il pane disceso dal cielo». E dicevano: «Costui non è forse Gesù, il figlio di Giuseppe? Di lui non conosciamo il padre e la madre? Come dunque può dire: “Sono disceso dal cielo”?». Gesù rispose loro: «Non mormorate tra voi. Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato; e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Sta scritto nei profeti: E tutti saranno istruiti da Dio. Chiunque ha ascoltato il Padre e ha imparato da lui, viene a me. Non perché qualcuno abbia visto il Padre; solo colui che viene da Dio ha visto il Padre. In verità, in verità io vi dico: chi crede ha la vita eterna. Io sono il pane della vita. I vostri padri hanno mangiato la manna nel deserto e sono morti; questo è il pane che discende dal cielo, perché chi ne mangia non muoia. Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo».

La protesta dei Giudei, la loro “mormorazione” nei confronti di Gesù, altro non è che un tentativo di manipolare, alterare, rendere diversa, quella che è la realtà, cercando di compromettere alla base la sua credibilità: “Ma costui non è il figlio del carpentiere? Conosciamo bene suo padre e sua madre, come può dire tali stupidaggini?”. Praticamente cercano di convincere loro stessi e gli altri che quanto egli dice non può essere vero. Per questo si agitano, mormorano e protestano. 
Già la protesta: siamo tutti maestri in questo.
Basta che un nonnulla si scosti dai nostri parametri che immediatamente scatta la nostra reazione. Ma contro le realtà della vita, qualunque protesta è inutile: la realtà non si cambia, va solo accettata e vissuta.
Quando stiamo per lasciarci andare alle proteste, alle lamentele, alle critiche, dovremmo prima di tutto chiederci il perché lo facciamo, il vero motivo del nostro dissentire, perché nella vita ci sono delle realtà inconfutabili, indipendenti dalla nostra comprensione e accettazione: per esempio che noi non siamo unici nel mondo, che innumerevoli altre persone vi convivono, e non sono tutte uguali: ci sono quelle più sensibili, più intelligenti, più attraenti, più affascinanti di noi; ci sono persone decisamente “più” di noi in tutto; e questo non ci piace proprio, perché, anche se pubblicamente lo accettiamo, in cuor nostro siamo sempre convinti di essere noi i migliori o quantomeno pari a loro. Nel nostro egocentrismo siamo convinti di essere il centro dell’universo, il perno su cui ruota il mondo intero. La realtà invece è un’altra: il mondo, la vita, l’universo, vanno avanti benissimo anche senza di noi. Noi siamo soltanto come un’insignificante goccia d’acqua nel mare, una minuscola foglia in una foresta tropicale, una microscopica cellula nell’universo. Non ci piace ammetterlo, ma è così. Siamo nessuno, nulla, esseri ininfluenti, insignificanti, di fronte al continuo scorrere del tempo: vorremmo invece essere “qualcuno”, vorremmo che i posteri ci ricordassero con ammirazione, vorremmo essere nel cuore di tutta la gente, menzionati nei libri di storia. Ma tutto quanto facciamo, o abbiamo fatto, nel corso della nostra vita, sia in famiglia, che nel lavoro o nel sociale, tutto, dopo un po’, viene dimenticato. Chi vivrà dopo di noi, i nostri stessi figli, faranno scelte diverse dalle nostre, adotteranno strategie contrarie, e il mondo continuerà ad andare avanti come prima, o anche meglio di prima. È normale, è giusto che sia così.
Nella vita tutto inizia e tutto finisce, tutto si evolve troppo in fretta. Noi vorremmo che certi momenti particolari non finissero mai: invece no, tutto finisce, tutto passa. Tutto quello che da stolti pensavamo fosse eterno, si rivela poi caduco e provvisorio. La nostra stessa vita, il nostro “essere”, dipende dall’evolversi dell’età e delle cose. “Panta rei” dicevano gli antichi: tutto scorre, tutto è sfuggente, tutto è proiettato nel divenire, nel domani: il presente è l’attimo che appartiene già al passato, il tempo è uno scorrere implacabile di istanti inafferrabili.
Non ci piace ma questa è la realtà! Tutti abbiamo bisogno degli altri. Vorremmo farne volentieri a meno, vorremmo essere completamente autonomi, gestori della prosperità, del benessere; vorremmo organizzare la nostra vita liberamente, senza alcuna interferenza, senza essere costretti a sorbirci il giudizio della gente, ad ascoltare ciò che pensano di noi. Vorremmo, vorremmo, vorremmo…
Ecco, sono queste le realtà contro cui non possiamo nulla, contro le quali la nostra “mormorazione”, la nostra ribellione è inutile. Le vorremmo completamente diverse, come le immaginiamo, come ci piacciono. Ma le vicende della vita sono sempre diverse, più grandi di noi, indipendenti da noi. Dobbiamo imparare invece ad accettare le circostanze della vita come vengono, con serenità e rassegnazione, perché forse Dio, proprio attraverso di esse, vuole insegnarci ciò che dovremmo sapere, farci scoprire quella realtà che ci è più difficile accettare. Realtà come il tempo, Dio, la Vita, sono più grandi di noi: noi dobbiamo non solo accettarli, dobbiamo accoglierli, fidarci di loro, rifugiarci in loro; dobbiamo lasciarci guidare solo dalle fede nell’amore e nell’intelligenza soprannaturale di Dio, perché in Lui tutto ha un senso, anche se noi non lo capiamo.
Ma torniamo al vangelo: mentre dunque Gesù parla di un pane che scende dal cielo, i giudei non capiscono e mormorano: sono su un piano diverso, assolutamente inconciliabile con le realtà di Dio.
Un detto cinese dice: “Quando uno indica la luna con un dito, lo sciocco guarda il dito”.
È quanto succede ai Giudei: Gesù sta parlando di cose alte, elevate, profonde; sta rivelando suo Padre, il Dio vero, quello che sazia la “fame” del mondo, e loro non riescono ad andare oltre il dito. Per loro Gesù non può essere altro che il figlio di Giuseppe, il falegname; per loro il pane è solo quello di farina; per loro il cielo è solo quello che manda il sole e la pioggia; per loro Dio è solo uno da pregare perché aiuti a vincere i nemici e tenga lontane le disgrazie. Non capiscono che Dio è Amore, e che l’Amore è felicità.
Purtroppo, per gli uomini d’oggi, la felicità è “avere” qualcosa. Felicità per essi è avere denaro, ricchezze, una posizione socialmente superiore, un’abitazione sontuosa, essere stimati, invidiati, temuti. Stolti!
Non capiscono che felicità è poter “sentire”, gustare la Vita che è in loro, che cresce, che diviene, che si espande, che li “contiene”. Felicità è poter vivere serenamente quel che si è, essere consapevoli dei propri limiti, gustare le piccole conquiste quotidiane. Felicità è percepire al proprio fianco la presenza amorevole, continua, premurosa, benefica, di Dio.
Cosa fanno invece i “sapienti” nostrani? Ignorano Dio: hanno ridotto il divino ad una preghierina scaramantica da dire ogni tanto, un rito distratto da compiere, ma soprattutto ad una “rottura”, da evitare ad ogni costo, un impiccio di cui non sanno che farsene.
Sono ciechi per loro scelta. Perché Dio è Vita, è la sensazione di essere immersi in Qualcosa di più grande, di più profondo; è vivere l’esperienza divina di appartenere ad un di Più incalcolabile, di essere risucchiati da una corrente impetuosa che ci mette in salvo, al sicuro; è sentirsi amati nonostante le nostre continue meschinità; è sentirsi felici e fortunati di esistere, perché, proprio per questo, Dio ci ha regalato l’esistenza: per sentirci sicuri, per non temere mai nulla, perché Egli ci sorregge e ci difende da ogni pericolo, con il suo grande abbraccio.
Tutto nella nostra vita è importante. Prendiamo per esempio i figli: i figli sono il dono che la vita ci fa per consentirci di esprimere l’amore che portiamo dentro; sono il “mezzo” per realizzare la nostra vita, sono il senso delle nostre giornate. Ma attenzione, sono un “mezzo”, non il “fine”: sono uno stupore da vivere, una meraviglia da contemplare, una scuola di vita da cui imparare la gratuità (diamo senza avere aspettative), il distacco (li amiamo pur sapendo che se ne andranno), l’alterità (sono “altri”, diversi, opposti da noi), l’umiltà (ci fanno vedere le nostre debolezze, le nostre fragilità, i nostri difetti), ecc.; sono insomma “noi stessi” proiettati nel futuro: ma non sono e non devono essere il “fine” della nostra vita.
E così per tutte le cose. Possiamo banalizzare qualunque cosa ci riguardi, possiamo rendere tutto insignificante o inutile, ma anche entusiasmante, profondo, divino. Dipende solo da noi!
Gesù poi dice: “Io sono il pane vivo”. Quindi c’è un pane vivo e c’è un pane morto: esiste cioè un pane “vivo”, che nutre l’anima; e un pane “morto”, che nutre solo il corpo.
Ma quale dei due nutre veramente? Qual è quello insostituibile?”.
Il pane per gli antichi era il cibo normale. Dire “pane” significava dire cibo, significava nutrirsi, sfamarsi. Ogni giorno noi assumiamo cibo, ne abbiamo bisogno. Ma è sufficiente questo pane della terra a saziarci? O cerchiamo ancora qualcos’altro, qualcosa che soddisfi la nostra anima e il nostro cuore? È vero, il cibo riempie il nostro stomaco: ma cos’è che riempie la nostra anima? Esiste un cibo che può saziarla? Facciamo mente locale: ci siamo mai chiesti perché i maghi, le chiromanti, gli indovini sono sempre pieni di clienti? Perché gli studi medici dei terapeuti sono sempre stracolmi di persone? Perché siamo spesso così depressi e alienati? Perché siamo così isterici, “schizzati”, tristi, demoralizzati? Cos’è che ci manca? Ci manca semplicemente quel pane che nutre la nostra anima.
La più grande fame dell’uomo è quella dell’amore, un pane che noi non ne assumiamo mai a sufficienza. Noi siamo bisognosi di amore. Abbiamo necessità di essere amati, che qualcuno ci dimostri di credere in noi, che qualcuno ci apprezzi, ci dia importanza, fiducia. Se non siamo amati, non siamo nessuno, non valiamo nulla: esserci o non esserci è la stessa cosa, vivere o morire non cambia nulla.
Le storie e le vicissitudini della gente sono le storie di uomini e donne che soffrono di una enorme carenza d’amore, senza alcuna prospettiva diversa, senza che ci sia qualcuno in grado di porvi rimedio. Quando ci capita di sentirci soli, chiamiamo un amico, qualcuno che ci faccia compagnia; quando ci sentiamo giù di morale, cerchiamo qualcuno che ci ascolti, che ci consoli. Ecco: quando sentiamo questa fame terribile di amore, quando niente e nessuno può saziarcela, l’unica soluzione è di rifugiarci in Dio, di sentire che possiamo fidarci di Lui, di avere la certezza che Egli non ci lascerà mai soli, che non saremo mai dimenticati, perché facciamo parte di un Tutto che non avrà mai fine, che ci rassicuri e ci ripeta: Ti contemplo dalla mia santa dimora in cielo. I miei occhi brillano d’amore per te. “Non temere, perché il tuo nome è inciso sul palmo delle mie mani” (Is 49,16). Amen.

  

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