«State attenti a voi stessi,
che i vostri cuori non si appesantiscano in dissipazioni, ubriachezze e affanni
della vita e che quel giorno non vi piombi addosso all'improvviso» (Lc
21,25-28.34-36).
Oggi inizia
l’Avvento, tempo liturgico che ci prepara al Natale. Sul piano personale,
l'avvento è quello spazio di tempo particolarmente adatto perché un “Figlio”,
una “nascita”, si possano realizzare in noi. Ogni anno il 25 dicembre
festeggiamo la nascita di Gesù; l’occasione non deve ridursi a un dato rituale,
di bontà posticcia, cronologico, tradizionale. Deve essere un fatto reale,
sentito: Dio continua a nascere in noi, per noi; perché Dio, dove c'è spazio e
disponibilità, sicuramente continua a venire. Dobbiamo quindi considerare l'avvento
non tanto come un qualunque periodo dell'anno ma come una dimensione della nostra
vita che si rinnova continuamente, con la certezza che l'Oltre, l'Altissimo, il
Nuovo, una nascita speciale, sta per avvenire ancora una volta in noi. Quello
che non è certo, e che ci deve preoccupare, è se noi siamo pronti ad accogliere
questi grandi doni.L'avvento, da advenio, non si limita al presente, ma crea “avvenire”, si proietta nel futuro proprio perché si apre ora, nel presente; genera una novità verso cui andare, una novità che da sempre ci attrae e ci richiama. È un intervento di Dio che vuole far nascere qualcosa di nuovo in noi, sorprendendoci, meravigliandoci, portandoci lontano, molto lontano dalle nostre personali rive di sicurezza. È un tempo di attesa, di un’attesa dinamica e attiva.
Attenzione: ho detto attesa non aspettativa: non confondiamo i due termini; indicano situazioni diverse, da non confondere.
L'attesa infatti non ha oggetto: è apertura del cuore e della mente all’accoglienza totale. L'attesa accetta tutto ciò che le viene incontro (adventus). L'aspettativa invece no: è un “voglio questo”, “questo e questo solo”; ha ben chiaro cosa vuole e cosa non vuole; accetta solo ciò che rientra nei suoi piani; il resto lo rifiuta. Solo l'attesa quindi può portarci a progredire, a rinnovarci, ad evolvere; in una parola ad aprirci al “novum” che ci viene proposto. L'aspettativa invece è circoscritta entro i parametri del nostro giudizio: siamo noi che decidiamo, in base ai nostri criteri personali, cosa ci serve o cosa non ci serve, cosa è buono o non è buono per noi, cosa Dio ci deve mandare, come devono comportarsi gli altri nei nostri confronti; cosa e come noi dobbiamo o non dobbiamo essere. L'aspettativa non ha tempo: vuole tutto e subito, tutto e presto. Non si ha più il piacere dell’attesa: oggi non abbiamo più tempo: tutti i mezzi di comunicazione sono progettati per ridurre sempre più i tempi di attesa: per parlare non serve più l’incontro personale, c’è il telefono; per comunicare velocemente, c’è internet; per muoversi in fretta, abbiamo auto sempre più potenti.
L'aspettativa ci porta a ignorare il presente, per vivere continuamente proiettati nel futuro: “Quando succederà quella cosa, allora finalmente sarò felice, allora mi sentirò realizzato, allora sarò qualcuno…”. E così corriamo, corriamo e corriamo, per raggiungere con affanno un qualcosa che continuamente ci sfugge; un traguardo inarrivabile che accresce in noi ansia, tensione, sconforto, depressione.
L’attesa, al contrario, conosce molto bene il tempo. Attesa, è vivere il presente: “Sento che mi manca qualcosa, sono aperto e disponibile a quello che verrà. Ma intanto vivo oggi il mio momento felice; se verrà dell’altro, tanto meglio”.Ogni evento infatti richiede il suo tempo di preparazione; come la gravidanza per il parto. L'attesa genera pace, tranquillità interiore, non confusione: facciamo le nostre cose, viviamo la nostra vita e lasciamo la porta aperta. Se qualcosa deve arrivare, vedrete che arriverà sicuramente.
Questa, a gradi linee, deve essere la nostra attesa, fratelli; questo, il senso del nostro “avvento”.
Il vangelo di oggi, riproponendo il clima apocalittico della fine dei giorni, allude alla distruzione materiale di questo nostro tempio corporale. Un evento che merita tutta la nostra “attesa”.
Il testo parla esplicitamente di vegliare, di non dormire (21,36). Una raccomandazione che abbiamo sentito diverse volte da Gesù: “Tenete gli occhi aperti, non dormite; non addormentatevi; non anestetizzatevi”. Nessun evento, anche quelli più imprevedibili, accadono senza prima anticipare dei segnali premonitori. Sta a noi saperli cogliere. Dobbiamo dotarci per tempo di una buona scorta di olio per le nostre lampade. Non comportiamoci da sprovveduti.
Quante persone dicono di star male nell’anima, di soffrire, di essere insoddisfatte della loro vita spirituale: è un segnale che dovrebbe scuoterle, farle correre ai ripari; ma cosa fanno per uscire da questa loro situazione? Alcune dicono che non hanno tempo; che cambiare, prendere nuove strade, sono soluzioni troppo impegnative, difficili. E continuano a dormire! Altre invece dicono di voler cambiare, e lo fanno anche, ma a modo loro. Sono i “convertiti super”, gli affamati della novità del “divino, quelli che non si perdono più nessuna cerimonia, nessuna devozione a santi e madonne, nessuna conferenza, nessun incontro, nessun tipo di cammino spirituale: salvo poi a ritrovarsi sempre nelle loro identiche posizioni di partenza, a non fare un benché minimo passo in avanti. Perché? Perché dimenticano che non è la quantità, ma la “qualità”, la convinzione, l’autentica volontà di fare la volontà del Signore, con spirito aperto e tanta umiltà; dobbiamo stare attenti, perché una distorta spiritualità è come la droga: anche se assunta in dosi massicce, non porta mai all’appagamento totale.
Dobbiamo invece “vegliare” sul serio, fratelli; perché se non ci mettiamo veramente in gioco, se non scaviamo dentro di noi, se non mettiamo “mano all’aratro” come si deve, non succederà mai niente: spesso una breve preghiera detta a Dio col cuore, nel silenzio, con riconoscenza, vale sicuramente più di cento rosari biascicati con la bocca, ma col cuore e la mente lontani, occupati in altre faccende: allora a che servono tutte le nostre preghiere distratte e superficiali, tutti i nostri raduni, tutte le nostre liturgie, le nostre conferenze, la nostra caccia al miglior predicatore, all’indirizzo spirituale più alla moda, più “in”, più frequentato da una certa “elite”? Si riducono a pie illusioni; peggio, a forme deplorevoli di sterile esibizione, a soluzioni che non servono assolutamente a nulla, miseri palliativi, inutili fughe dalle nostre oggettive responsabilità.
Non comportiamoci, fratelli, come i farisei che dicevano: “Noi abbiamo Dio per Padre”, e giustificandosi in questo modo, continuavano con tracotanza a fare i comodi loro.
Questo modo di pensare e di comportarci, individualista ed esclusivista, è un paravento, una droga, un'ubriacatura. Perché seguire Dio, non consiste sentirsi “rapiti” da una improbabile estasi divina,o sentirsi “calati” nei più impensati carismi; seguire Dio vuol dire più semplicemente essere noi stessi, esattamente come Lui ci vuole. Fare sempre la “sua volontà”, in tutti i momenti della nostra giornata. Praticare la carità, rimanere svegli, all’erta, vigili.
Capita invece che noi spesso dormiamo e non vogliamo in alcun modo scuoterci perché, lo sappiamo, “svegliarci” vuol dire vedere qualcosa che non vogliamo vedere. Magari per non scoprire i veri motivi del dolore che proviamo dentro; magari per non scoprire di aver sbagliato tutto nella vita; magari per non scoprire di essere ignorati e sopportati; magari per non scoprire di essere nella solitudine più totale; magari per non scoprire le nostre serie carenze, le nostre difficoltà, i nostri blocchi nell’anima.
Diceva il saggio: “Il sonno delle coscienze, genera mostri”: quando l'uomo dorme tutto è possibile, tutto può succedere, qualunque soluzione può prendere piede senza che lui se ne accorga.
Non a caso il vangelo conclude con le parole: “Vegliate e pregate”. In questo caso già il vegliare, non prendere sonno, non dormire, è una forma di preghiera. In greco, questo “pregate”, sta per “avere bisogno, necessitare, desiderare”. Ecco perché abbiamo bisogno (preghiera) di non prendere sonno, di non alienarci (vegliare), per evitare di calarci in un mondo che non c'è. Non dobbiamo permettere che il nostro cuore prenda sonno, dimenticando la gioia per la vita, l'entusiasmo per le cose nuove, la passione per ciò che si ama, lo stupore di fronte alla bellezza; non dobbiamo permettere cioè che la nostra anima si assopisca e non senta più il richiamo di Dio, quel richiamo della vita che ci chiama a definirci e a diventare “Figli dell'uomo”. Vegliare significa non permettere che la nostra mente venga plagiata da filosofie o da idee ingestibili, senza alcun fondamento cristiano, ancorché molto apprezzate dal mondo di oggi. Pregare vuol dire stare attenti che ciò che chiamiamo “Dio” sia Dio, ciò che chiamiamo “amore” sia amore, ciò che chiamiamo “famiglia” sia veramente famiglia e non un volgare e sguaiato surrogato. Perché, fratelli, se noi dormiamo, c’è chi ha tutto l’interesse di sovvertire i valori essenziali e intoccabili della nostra vita. Allora pregare vuol dire vegliare, perché dobbiamo essere noi i protagonisti che contrastano con la loro vita la squallida deriva morale di questo mondo; dobbiamo essere noi, innamorati di Dio, a lasciare un segno, una traccia, un'impronta, perché dobbiamo dimostrare agli altri e a noi stessi, con la nostra vita, con il nostro esempio, che non siamo assenti, ma che siamo lì, vigili, in prima linea.
Il “Figlio dell'uomo” (la nostra realizzazione, l'essere noi stessi,il perseguire quell’ideale di vita che Dio ha impresso nella nostra anima col Battesimo) non potrà mai emergere, non potrà mai uscire, concretizzarsi, prendere vita, se noi dormiamo, se noi continuiamo ad essere indolenti, svogliati, disinteressati.
Fratelli miei, dobbiamo avere la forza di «sfuggire a tutto ciò che sta per accadere», perché un giorno tutti dobbiamo comparire davanti al “Figlio dell'uomo”. Tutti un giorno ci spegneremo: ma guai a coloro che non si sono mai accesi. Tutti ci addormenteremo nel sonno della pace, ma guai a chi non si è mai svegliato dal suo torpore. Per tutti la vita ha una fine: ma guai a chi non l’ha mai neppure iniziata. Che non succeda a noi, fratelli!
Tu verrai, Signore, noi lo sappiamo: ed è sulla tua Parola che noi costruiamo oggi la nostra casa sulla roccia. Perciò, non permettiamo mai che la nostra coscienza si addormenti: restiamo svegli. Non permettiamo che la facciata, ciò che sembra e che appare, nasconda agli altri il cuore e l'anima che non si vedono: restiamo svegli. Non permettiamo di avere così tante cose da fare e vie da seguire, da non percepire più cosa realmente vogliamo, proviamo, sentiamo: restiamo svegli. Non permettiamo mai che ciò che fanno gli altri diventi ciò che facciamo anche noi, solo perché lo fanno loro: restiamo svegli. Non permettiamo che l'odio, la rabbia, il cinismo inondino il nostro cuore, così da non provare più meraviglia e stupore per ciò che vive e palpita: restiamo vivi. Non permettiamo che il “duro quotidiano” cancelli i nostri sogni, le nostre aspirazioni, il nostro desiderio di infinito: restiamo vivi. Non permettiamo a nessuno di manipolarci, di gestirci, di toglierci la nostra vita interiore, così da perderci o da annullarci: restiamo vivi. Non permettiamo al dolore e alla sofferenza di eliminare dalla nostra memoria la gioia, la fiducia e la fede nel Padre: restiamo vivi. Non permettiamo alla società “laica” contemporanea di soffocare l’avvento di un mondo nuovo, migliore, con più fede, un mondo meno alienato e ottuso: stiamo attenti. Non permettiamo alle chiacchiere stupide e senza senso dei media di convincere il nostro cuore, né alle loro facili soluzioni, di sedurci e ingannarci: stiamo attenti. Non permettiamo che qualcosa o qualcuno zittisca ciò che abbiamo dentro di noi, la forza, i sentimenti, la tenacia, la voce dello Spirito: restiamo vivi. Non permettiamo alla disperazione di vincerci, né all'angoscia di smarrirci, né alla paura di azzerarci: restiamo sempre fiduciosi. Nulla deve distoglierci da Lui. Nulla deve mai staccarci dalla nostra sorgente di Vita: perché il nostro vivere è tale, solo se viviamo nella Vita. Amen.