«Egli, gettato via il suo
mantello, balzò in piedi e venne da Gesù. Allora Gesù gli disse: Che cosa vuoi
che io faccia per te?. E il cieco gli rispose: Rabbunì, che io veda di
nuovo! E Gesù gli disse: Va', la tua fede ti ha salvato» (Mc 10, 46-52).
Abbiamo
visto nel vangelo di domenica scorsa come i discepoli si siano dimostrati ciechi
nei confronti di Gesù e della sua missione. Ebbene: oggi Marco torna sul tema
della cecità ponendo l’incontro con il cieco Bartimèo immediatamente prima
dell’ingresso di Gesù a Gerusalemme: come a dire che per comprendere il senso
della Sua vita e della Sua sofferenza, dobbiamo avere gli occhi penetranti della
fede, dobbiamo vedere perfettamente e soprattutto dobbiamo saper cosa vedere;
perché non basta avere gli occhi, anche se buoni, per dire “ci vedo!”.E sono i lontani, quelli con cui Gesù ha che fare occasionalmente, che riescono a “vederlo” nella maniera giusta: è il cieco del vangelo di oggi, che riacquistata la vista, si mette spontaneamente come discepolo al suo seguito, unico a seguirlo ad occhi aperti e consapevoli nel cammino della passione e della croce; è il centurione sul Golgota che, subito dopo la morte di Gesù ci vede improvvisamente chiaro quando esclama: «Veramente quest'uomo era Figlio di Dio» (15,41); il giorno dopo la morte, saranno delle pie donne “a vederci” e a capire tutto. Al contrario i più vicini, gli apostoli, i prescelti, i chiamati per nome, arriveranno “a vedere” dopo, molto dopo. La loro “storia” della passione è la storia di uomini che “non hanno visto niente”. Non sono riusciti, cioè, a penetrare il mistero, sono rimasti ciechi. Esattamente come succede nella nostra vita quando rimaniamo indifferenti, quando ci fermiamo alla superficie delle cose e degli eventi
Gesù dunque sta per lasciare Gerico quando improvvisamente, al suo passaggio, un uomo si mette a urlare: è Bartimèo, un cieco che chiede l’elemosina ai margini della strada. Dal suo nome gli esegeti risalgono alla sua personalità (Bar-timeo = figlio di Timeo; ora “tìmeo” = aver paura; quindi: figlio della paura); si tratta cioè di uno che è cieco nell’anima più che negli occhi; è uno che ha paura, che teme di affrontare la vita, che non crede più in sé, che si ritiene incapace di affrontare da solo la vita: e questa sua insicurezza, questa sua paura, lo costringe a fermarsi lungo la strada, a mendicare, a chiedere l’aiuto degli altri. È cieco, è vero. Ma un cieco che non vuol vedere.
Né più né meno di come siamo anche noi quando non vogliamo affrontare la realtà: chiudiamo gli occhi, rimuoviamo gli ostacoli; siamo convinti di vedere, ma brancoliamo nel buio. Ci comportiamo irrazionalmente: se non vediamo una cosa, pensiamo che non ci sia. Soltanto, fratelli, che questo metodo non funziona. Lo sappiamo che non funziona: eppure di fronte a certi dolori, a certe sofferenze della vita, alle quali non possiamo sottrarci, continuiamo a chiudere gli occhi. E non c’è niente che ce li faccia aprire: così ci lasciamo andare, diventiamo preda della depressione, ci diamo all'alcool, alla droga, agli eccessi: ci alieniamo, mendicando la carità altrui. Abbiamo paura di conoscerci, fuggiamo da noi stessi, dalla nostra anima. Ma il problema rimane, perché non potremo mai sfuggire a noi stessi. Diventare “ciechi”, per paura della sofferenza, della vita, è perfettamente inutile!
Il cieco è seduto lungo la strada: è ovvio perché quando non sappiamo chi siamo realmente, non sappiamo neppure dove andare, cosa fare. Allora chiediamo ansiosamente a destra e a sinistra: “Chi sono? Cosa devo fare? Come devo vivere?”; ci sentiamo persi, ci sentiamo impossibilitati a vedere; se guardassimo dentro di noi, non avremmo certo bisogno di elemosinare opinioni e consigli. Non volendolo fare, ci accontentiamo di vegetare: non abbiamo una direzione da seguire, siamo senza una meta precisa, non sappiamo come muoverci nella vita; ci accasciamo e vaghiamo stupidamente di qua e di là.
Il cieco mendica: quello che non vediamo in noi, lo chiediamo agli altri. Abbiamo bisogno di continue conferme, ci serve che qualcuno si sostituisca a noi. In questo modo gettiamo via quello che siamo e accettiamo supinamente qualunque soluzione gli altri ci propongano. Ci accontentiamo delle briciole, ci svendiamo, scendiamo a compromessi terribili. Siamo convinti di trovare fuori di noi, quello che invece abbiamo già dentro e non vogliamo vedere.
Quando passa Gesù il cieco comincia a gridare: «Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me».
Il cieco sa di aver sbagliato; si rende conto che se è finito in quella condizione è perché non ha voluto vedere certe cose e chiede perdono: “Abbi pietà di me”. E lo fa gridando; non si rassegna, non demorde. Gridare aiuto, indica la volontà di uscire da una certa situazione negativa, vuol dire che uno è disposto a tutto pur di venirne fuori. Significa avere fede. E sarà proprio la fede che salverà Bartimèo.
Al suo urlare la folla lo zittisce. Talvolta proprio chi è più vicino a noi ci distoglie dai nostri propositi, dal nostro desiderio di guarigione. Per questo dobbiamo “urlare”, dobbiamo far sentire a tutti la nostra voglia di vivere; per fare questo, dobbiamo però credere nuovamente in noi, nella nostra fede; dobbiamo cioè “riconoscere” il passaggio di Gesù nel nostro cuore. Perché è lui che ci sentirà e ci salverà. Dobbiamo avere la forza e il coraggio di sfidare il giudizio della gente “perbene”, dobbiamo creare scompiglio nella “folla” che ci rallenta; insomma dobbiamo fare di tutto per bloccare il passaggio di Gesù. Se non siamo convinti di poterlo fare, se non ci crediamo noi stessi con tutte le forze, non succederà mai nulla. Noi infatti riusciamo ad ottenere solo ciò che siamo convinti di volere, ciò in cui crediamo fermamente: se non crediamo di guarire, non guariremo; se non crediamo di poter cambiare, non cambieremo; se non crediamo al nostro sogno, non arriveremo mai a realizzarlo; se non crediamo nella forza del nostro cuore, non arriveremo mai ad amare. Se non crediamo nel Dio che abita in noi, non saremo mai felici. Insomma, se non crediamo in noi, non realizzeremo mai niente.
Bartimèo vuole riottenere la vista con tutte le sue forze, a tutti i costi; lo vuole così tanto che non gli interessa di fare brutta figura, di essere ripreso dai presenti, di essere deriso o di sfigurare. Non chiediamoci mai, fratelli, se vogliamo una cosa; chiediamoci piuttosto quanto la vogliamo; quanto siamo disposti a giocarci, quanto siamo disposti a rischiare; fino a che punto siamo disposti a lasciarci coinvolgere. Invece purtroppo noi vorremmo tutto, ma senza privarci di nulla, senza faticare; vorremmo guarire dai nostri difetti, ma continuando a vivere con le nostre abitudini. Vorremmo conoscere Dio, ma senza troppi coinvolgimenti, senza sconvolgere la nostra quieta esistenza. Vorremmo conoscere noi stessi, ma senza correre il rischio di capire che così non va, senza soffrire, senza provare delusioni. Vorremmo amare, ma senza esporci, senza sbagliare, senza perdere, senza cadere.
Allora Gesù si ferma e lo chiama. È l'unico caso del vangelo in cui Gesù viene fermato da qualcuno: Egli non si lascia condizionare dalla folla, non ascolta i giudizi della gente: in questo caso forse non lo aveva neppure visto o sentito, il cieco; o non aveva intenzione di fermarsi; ma di fronte al suo gridare, di fronte a un desiderio così grande, non può che cambiare i suoi piani. E si ferma. La fede dell'uomo cambia il destino, sconvolge la vita.
Appena si sente chiamato da Gesù, il cieco Bartimèo si comporta come se avesse già riacquistato la vista, come se ci vedesse da sempre: getta via il mantello, balza in piedi e corre da Gesù.
Diverso è invece il comportamento della folla: prima lo sgrida (10,48), poi, all’invito di Gesù, si fa in quattro per agevolarlo, per farlo avvicinare (10,49). All'improvviso tutti diventano gentili, bravi, caritatevoli e santi. Prima fanno di tutto per scoraggiare il pover'uomo; poi tutti ad incitarlo ad avere coraggio, a farsi avanti, a congratularsi con lui per essere stato notato da Gesù. Le famose “pacche” sulle spalle! Di fronte al prete o al vescovo tutti diventiamo buoni cristiani. Davanti al capo tutti i dipendenti sorridono. Quando invece c’è da esporsi, da dire come le cose dovrebbero andare, tutti si dileguano.
Quando Gesù si accorge di lui e “lo guarda”, Bartimèo trova improvvisamente la forza di fare ciò che non aveva mai fatto prima: scatta e corre. È umano: quando ci sentiamo importanti per qualcuno, anche la nostra vita cambia di prospettiva. È per questo che abbiamo bisogno di sentire che per qualcuno siamo veramente importanti, che valiamo. Sappiamo di essere importanti, ma se nessuno ce lo dice, se nessuno ce lo fa vedere, se nessuno ce la fa sentire, ci sentiamo comunque inutili, pensiamo che tanto, esserci o non esserci, è la stessa cosa. E allora, tanto vale non esserci. Almeno è più comodo.
Il cieco si alza in piedi (letteralmente “si lancia”): adesso trova la forza di contare sulle proprie gambe, ritrova la piena fiducia in sé. Butta vita il mantello da mendicante: ora non è più tale, non deve più occupare il suo tempo a elemosinare amore e rispetto.
Anche a lui, come domenica scorsa ai due discepoli (Mc 10,36), Gesù riformula la stessa identica domanda: «Cosa volete che io faccia per voi?» - «Cosa vuoi che io faccia per te?». I suoi discepoli, i più vicini, avevano chiesto cose materiali (gloria, potenza, successo, fama); Bartimèo chiede solo la Luce, chiede di vedere.
Grande lezione anche per noi! E allora smettiamo, fratelli, di chiedere a Dio solo cose materiali, cose terrene: non ce le può dare. Dio non può darci i soldi; Dio non può darci la ricchezza, Dio non può darci questa o quella cosa preziosa, questa o quella persona. Dio può concederci la fiducia, la consapevolezza, la luce, la verità, il senso della nostra strada, la fiducia nella Vita. Il resto dipende da noi. Ma molti, purtroppo, non sanno cosa farsene di tutto questo.
«Cosa vuoi che io ti faccia?». La domanda di Gesù, a noi superficiali, fa un po' sorridere: l’uomo è cieco; sa che Gesù opera miracoli, cosa vorrà mai? È ovvio, vuole guarire! Ma la domanda di Gesù non è affatto superflua. Perché non è importante sapere ciò che Gesù deve o non deve fare, egli lo sa perfettamente; Gesù invece vuol sapere ciò che l’uomo “vuole” esattamente: quanto cioè egli voglia guarire dalla sua cecità.
E l'uomo senza esitare risponde: «Fammi vedere». Il verbo greco “anablepo” indica l’azione di “vedere in su, alzare lo sguardo”. Quest'uomo nella sua vita ha sempre abbassato lo sguardo per paura. Ora vuole poter finalmente guardare in alto, senza timore. Quante volte anche per noi basta una semplice osservazione per farci guardare in basso, per toccarci sul vivo, per farci chiudere in noi stessi, per farci sentire senza valore, in colpa. Siamo succubi dell'opinione altrui. Dobbiamo invece “alzare lo sguardo”, avere un altro punto di riferimento, un riferimento ben più alto; dobbiamo cioè “guardare” solo a come Lui “ci vede”, non a come ci vede il mondo. Dobbiamo guardarci con gli occhi di Gesù, perché solo negli occhi di Dio possiamo vedere il nostro vero volto. Solo fissando il suo volto. Perché se giriamo le spalle al Sole, non vediamo altro che la nostra ombra!
Un’ultima annotazione: «E lo seguiva per la strada». In realtà anche i discepoli, gli apostoli, la gente, tutti, seguono Gesù: ma il vangelo per nessuno di loro si è mai soffermato a sottolineare che “lo seguivano”: lo fa solo per quest'uomo. Perché? Perché quelli che lo seguono abitualmente ci vedono tutti ma si comportano da ciechi. Quest’uomo invece, già completamente cieco, è l’unico che dimostra di vedere benissimo come seguire Gesù. Amen.
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