martedì 14 settembre 2010

19 Settembre 2010 - XXV Domenica del Tempo Ordinario

Andando avanti con gli anni mi accorgo sempre più di quanto Dio mi abbia rivoluzionato la vita. Si, fratelli miei, perché frequentandolo – per carità, con tutte le dovute proporzioni rispetto ai santi! – uno riesce a capire un pochino chi è lui "dentro", quale immenso progetto di amore Egli abbia su tutti noi. E allora tutte le cose, o quasi, cambiano, acquistano una coloritura diversa. Incontrare Dio, il Dio di Gesù, significa cambiare ordine alle cose, dare delle priorità alla propria vita, infondere nuova energia alle proprie scelte. È in questo senso che i veri seguaci di Cristo devono essere protagonisti nella storia. Essi devono (o dovrebbero) essere determinanti protagonisti nella storia reale di questo nostro mondo inquieto e alla deriva; un mondo che abbandona superficialmente la profondità del messaggio evangelico per lasciarsi sedurre dai gossip di turno, che scorda le verità essenziali trasmesse dai padri per cedere ad una logica piccina e opportunista, superficiale ed inquietante.
Quando tutti, seriamente avvinti dal Maestro e affascinati dal suo Vangelo, dovremmo invece portare una domanda conficcata nel cuore: come cambiare il destino del mondo? Come arginare la sua deriva che spazza la dignità degli uomini, come evitare questa spietata e indolore dittatura dell’anticristo?
In altri tempi ci sono state altre risposte, da parte dei discepoli del Risorto: comunità solidali, la carità come dimensione necessaria alla vita interiore, opere di carità, ospedali. Erano altri tempi, tempi ambigui forse, ma evidenti, leggibili, rintracciabili: un padrone cristiano era tenuto a comportarsi prima da cristiano e poi da padrone.
Ma oggi tutto è complesso, contorto: la new economy, la globalizzazione, il mercato che impera e divora, un sistema basato sul guadagno, costi quel che costi, e di lì organizza la politica, le guerre, pianifica il futuro. Cosa dobbiamo fare, noi cristiani, cittadini del mondo?
Il Vangelo di oggi una traccia ce la lascia, debole, ma è pur sempre una traccia.
Prima considerazione da fare: la ricchezza, il potere, non sono questioni di portafoglio ma di cuore, non di quantità, ma di atteggiamento. Nessuno di noi è uno dei "grandi" del mondo, e questo potrebbe in qualche modo falsamente rassicurarci. Però, anche se possediamo poco, su quel poco possiamo avere un atteggiamento di attaccamento tale che ci distoglie dall'obiettivo della nostra vita che è la pienezza del Regno. Amos, nella prima lettura, guarda alla situazione del suo tempo con amarezza: un potere corrotto e un'ipocrisia diffusa, anche se in presenza di una osservanza scrupolosa nelle pratiche religiose, determinano comunque l'oppressione del povero.
Quanto tristemente attuale è questa pagina: ma davanti alla perfida logica in atto nella nostra società in cui vince il più forte, la coscienza cristiana di ciascuno deve reagire; non certo ricorrendo a pie elemosine, ma affrontando onestamente la realtà per contribuire, entro i nostri limiti, alla realizzazione di un sistema di vita in cui prevalga l'uomo e la persona sul capitale: in altre parole una economia più "personalista", condivisa. Facendo cosa? Beh, prima di tutto informandoci di come va il mondo e non chiudendoci nel nostro guscio: perché la conoscenza è il primo passo verso la condivisione! Del resto occasioni di condivisione, per essere di aiuto e conforto a quanti soffrono nel mondo se ne presentano continuamente.
Paolo ammonisce a non pensare che la fede si occupi solo del "sacro". Fino a che la fede non diventa contagiosa, illuminante, strumento per costruire un mondo nuovo, non abbiamo realizzato il Regno.
L'amministratore delegato della parabola di oggi è lodato da Gesù per la sua sagacia (non per la sua disonestà!) e Gesù sospira tristemente: "Se mettessimo la stessa energia nel cercare le cose di Dio!"; se mettessimo anche in questo la stessa intelligenza, lo stesso tempo, lo stesso entusiasmo che mettiamo nei nostri interessi! La scaltrezza dell'amministratore è l'atteggiamento che manca alle nostre stanche comunità cristiane: pensiero debole che si adagia su quattro devozioni e un po' di moralismo, senza l'audacia della conversione, del dialogo, della riflessione.
Io, discepolo, posso vivere nella pace, ma anche nella giustizia: libero dall'ansia del denaro, libero da mammona, per essere vero discepolo.
Ecco, la sostanza è questa: se sono discepolo di Cristo so quanto valgo, so quanto valgono gli altri e vado all'essenziale nei miei rapporti, dall'onestà nello svolgere il mio lavoro, alla solidarietà, ad uno stile di vita retta e consona al Vangelo. Chi è il padrone dell'umanità? Dio o mammona? Oggi forse è quella mammona dai mille seducenti nuovi volti: mercato, profitto, auto-realizzazione. Eppure Gesù non è moralista: il denaro non è sporco, è solo rischioso per cui il discepolo, il figlio della luce, ne deve usare senza diventarne schiavo.
Concludo unendomi a Paolo, nostro fratello nella fede. Rileggiamo l'invito fatto a Timoteo, preghiamo con fede, alziamo al cielo mani libere da odiose contese, dall'ira, dall'odio, e invochiamo il dono della pace per la nostra terra; impegniamoci a trascorrere una vita calma e tranquilla, con grande pietà e dignità, con un occhio di riguardo ai nostri fratelli più deboli e bisognosi. Amen.



martedì 7 settembre 2010

12 Settembre 2010 - XXIV Domenica del Tempo Ordinario

Al discepolo che è in ascolto dell'immensa sete di infinito che gli pulsa nel cuore, e della nostalgia pungente e profonda del Tutto, Gesù propone un cammino verso una scoperta inattesa: il vero volto di Dio.
Tutti abbiamo un'idea di Dio, per credergli o per rifiutarlo. Tutti abbiamo una spontanea, inconscia, sorgiva idea di Dio, una specie di religiosità connaturale: un'idea di Dio in cui credere. O non credere.
Mediamente, però, questa idea di Dio che abbiamo è approssimativa, e neppure troppo simpatica.
Dio esiste, certo, per carità, è anche potente, ma incomprensibile nelle sue discutibili scelte. Ma coraggio, fratelli, siamo onesti: non abbiamo mai pensato di fronte all'idiozia degli uomini, che noi avremmo sicuramente fatto meglio di Lui nel governare il mondo? Che Dio dovrebbe almeno fermare le guerre? Che dovrebbe proteggere sul serio i deboli? Che quella madre di famiglia, sola e con figli piccolissimi, divorata dal cancro, è una clamorosa stupidaggine divina? Che, insomma, se Dio c'è perlomeno talvolta è pigro o incomprensibile? Chi non l’ha pensato almeno una volta, per un momento?
Fratelli miei, quanta strada l'uomo ha dovuto fare per convertire il proprio cuore!
La storia di Israele è la scoperta del vero volto di Dio, della misericordia, il cuore stesso di Dio.
Nella splendida pagina dell'Esodo che abbiamo letto, Dio si accorge di essere stato troppo fiducioso nei confronti di questo popolo di schiavi, e decide di rinunciare e di ricominciare. Mosè lo sfida e rifiuta di seguirlo: tra Dio e il popolo, Mosè sceglie il popolo. E Dio si stupisce, e cambia idea: “si pentì”.
Il Vecchio Testamento intuisce ed elabora questa idea inaudita: un Dio che si confronta con gli uomini ed arriva perfino a cambiare idea nei loro confronti. Ma l'uomo – dalla “dura cervice” – nonostante le continue dimostrazioni dell’amore di Yahweh, continua caparbiamente a non capire.
E allora Dio decide di venire a spiegarsi. Definitivamente. Mettendosi sullo stesso suo piano.
Luca, dei quattro evangelisti, è quello che maggiormente ha dovuto modificare la propria visione di Dio con quella di Gesù. Lui, greco di Antiochia, è abituato ad una religiosità legata a dèi capricciosi e simili in tutto a noi uomini. Quale tuffo nel cuore deve avere provato, quando ha sentito quel tale di Tarso parlare di Dio in maniera assolutamente innovativa! Dio, diceva Paolo, è un Padre pieno di ogni tenerezza, lontano anni luce dalle nostre fobie e dai nostri timori.
Luca ha creduto al Dio di Paolo, ha ricevuto il Battesimo e si è messo alla sequela del Maestro Gesù, l'ebreo. Poi, dopo molti viaggi, dopo molta gioia, dopo una vita passata a informarsi, ci restituisce, in tre parabole che sono come tre perle preziose, la sintesi del volto di Dio.
“Dio è misericordia” dice Luca; “Dio è misericordia” anticipa il suo maestro Paolo nella seconda lettura.
È la misericordia che esprime l'onnipotenza di Dio: un amore infinito, tenero ed adulto, carezzevole ed esigente, che è il volto di Dio.
Ma allora perché continuiamo a pensare a Dio come a un vigile, un giudice, un severo preside? Perché ci ostiniamo a tenerlo ben lontano dalle nostre vite relegandolo nelle chiese e in quei pochi ritagli di tempo che dedichiamo alla religione?
La nostra triste fede pensa alla vita in Cristo come ad un pegno da pagare all'onnipotenza di Dio, non come ad un incontro di pienezza e di festa! Occorre convertirci alla tenerezza di Dio, occorre osare e pensare ciò che Lui è venuto a testimoniarci.
Le parabole ascoltate gettano una spallata definitiva alla nostra mediocre visione di Dio per spalancare la nostra fede alla dimensione del cuore di Dio. Convertirsi significa passare dalla nostra prospettiva a quella inaudita di Dio e questo significa fare come Lui.
Noi diciamo: "Ti amo perché sei amabile; te lo meriti, perché sei buono".
Dio dice: "Ti amo con ostinazione e senza scoraggiarmi perché so che il mio amore ti renderà buono".
C'è una bella differenza! In fondo in fondo noi costruiamo la nostra vita di fede orientata intorno ai nostri meriti. Ma nessuno si merita l'amore di Dio. Il suo amore è assolutamente gratuito, libero, pieno.
Dio non ci ama perché siamo buoni, ma amandoci senza misura ci rende buoni, aprendoci alla speranza.
La cura meticolosa con cui il pastore insegue la pecora lontana è il segno di questo amore di Dio per chi sperimenta di essersi "perso".
L'esperienza del peccato, che è questo "perdersi", diventa occasione per un incontro più duraturo e autentico con questo Dio che ci perseguita con il suo amore.
Ben lontano dall'avere una visione poetica o approssimativa del peccato, Luca sa che l'esperienza di sofferenza interiore che è il peccato, questo smarrimento, questa lontananza da Dio e da noi stessi, può diventare un incontro che salva, che ci aiuta a ripartire con maggiore autenticità e coraggio.
La nostra fede non si fonda sulle nostre capacità, sulle nostre devozioni, sui nostri sforzi, ma sull'ostinazione di Dio che ci cerca.
Prendere coscienza di questo significa aprirsi alla festa, partecipare, come la donna che ritrova la moneta perduta, alla festa che Dio fa per chi si lascia incontrare.
I giusti, quelli che si sentono a posto, con la lista dei loro meriti al completo, non potranno mai, purtroppo, sperimentare la gioia di essere caricati sulle spalle del Pastore. Come il figlio maggiore della parabola del Figliol Prodigo, "non entrano" in questa prospettiva, in questa mentalità.
Chiusi nelle loro poche certezze, non possono allargare il cuore nella gioia del Padre.
Quando, fratelli e sorelle, capiremo veramente il Vangelo della misericordia e, con semplicità, lo faremo finalmente diventare l’unico metro di giudizio del nostro agire, allora la Chiesa tornerà ad essere il faro luminoso e sicuro che guida l’incerto cammino degli uomini.
Che il Dio della misericordia ci aiuti in questo! Amen.

lunedì 16 agosto 2010

5 Settembre 2010 - XXIII Domenica del Tempo Ordinario

L'autore del libro della Sapienza scrive una riflessione che non stonerebbe (anzi!) come editoriale in uno dei nostri autorevoli quotidiani nazionali. L'autore scopre che "I ragionamenti dei mortali sono poca cosa e incerte le nostre riflessioni (...) chi può rintracciare le cose del cielo?", scopre che, nonostante tutto, non abbiano in noi la risposta di senso.
Il nostro mondo, che ha fatto progressi incredibili nella scienza e nella conoscenza, stenta a crescere nella sapienza, non riesce a dare risposte alle domande di senso degli uomini.
Il nostro è un mondo tecnologico, organizzato, che anela a varcare gli spazi siderali, che conosce gran parte dei segreti dell'energia, che riesce a migliorare continuamente il benessere degli abitanti del pianeta (almeno quelli dell'emisfero Nord...), ma che non riesce a dare risposta al ragazzo che si rifugia nella droga, non riesce a contenere l'odio che si scatena nella guerra, non scavalca l'indifferenza e la solitudine che rinchiudono in gabbie di cemento le famiglie.
L'autore della Sapienza si dà una risposta: l'unica cosa essenziale è cercare la sapienza, entrare dentro, andare oltre l'apparenza, riscoprire le profondità dell'essere, là dove dimora Dio. La sapienza che non è cultura o intelligenza, ma assaporare la realtà, scoprire, come ci dirà Gesù, che siamo creati per amare e, amando, cambiare il mondo.
Abbiamo bisogno del dono della Sapienza per sollevare il nostro sguardo in alto.
Dove? Dove si trova la felicità?
Gesù ha una risposta bruciante inebriante: io solo – dice – posso colmare ogni desiderio. E Gesù incalza e ci sfida: egli pretende di essere più di ogni affetto, più della gioia più grande (l'amore, la paternità, la maternità) che un uomo possa sperimentare.
Che presuntuoso questo Gesù! Davvero può donare una gioia più grande della più grande gioia che riusciamo a sperimentare? Può.
Fratelli e sorelle come noi, non esaltati, non "strani", non diversi, hanno scoperto questa cosa; ci testimoniano che sì, il Signore è la pienezza della vita.
Facciamoci bene i conti in tasca, allora, cercatori di Dio, calcoliamo attentamente su cosa stiamo investendo, cosa ci stimola e ci inquieta, ci distrae e ci smuove. La proposta del Signore è sconcertante e affascinante e se, dopo duemila anni, milioni di persone oggi la ascolteranno, significa che forse è vero: solo Dio può colmare la nostra inquietudine, lui solo riempire il desiderio di infinito che abita in ciascuno di noi.
Così facendo la nostra vita, da ora, cambia di prospettiva.
Mettere la ricerca del tutto, la ricerca di Dio al centro della nostra vita, ci fa divenire persone nuove.
Ne sa qualcosa Filemone, simpatico cristiano delle origini, cui Paolo indirizza un biglietto di accompagnamento rimandandogli uno schiavo che si era rifugiato presso l'apostolo.
Paolo invita Filemone ad uscire dalla logica di questo mondo, padrone-schiavo, per entrare nella logica del Regno, fratello-fratello. Paolo non lo sa, ma in questo piccolo biglietto pianta il seme che diventerà l'albero dell'abolizione della schiavitù.
Il Cristo che mantiene ciò che promette, ci conceda, veramente, di avere il coraggio di lasciare le nostre piccole certezze per affrontare con decisione l'avventura della sua sequela.
A noi, ora, di cercare veramente il Nazareno. Amen.

29 Agosto 2010 - XXII Domenica del Tempo Ordinario

La porta stretta di cui parlava Gesù domenica scorsa viene oggi descritta con una serie di esempi ironici ed esigenti, nati dall'osservazione dei vizi di sempre.
Non è facile mettere in sintonia la propria fede col proprio comportamento e se è vero, come dico spesso, che la fede non si riduce all'osservanza di un codice di comportamento, è pur vero che se incontro davvero il Cristo la mia vita si orienta, cambia, evolve.
Tutti si accorgono se il proprio collega si è innamorato, i suoi gesti cambiano!
Siamo chiamati, ancora una volta, a vivere da salvati, senza mettere il comportamento come metro di giudizio, ma attingendo continuamente alla verità del vangelo per purificare il nostro cuore e i nostri atteggiamenti.
Gesù annota il vizio diffuso tra alcuni suoi contemporanei, personaggi influenti della politica e della classe sacerdotale, di mettersi in mostra, di amare una visibilità eccessiva, di anelare al protagonismo a tutti i costi.
Certo, la visibilità, per le persone che rivestono un determinato ruolo, è inevitabile; ciò che Gesù ridicolizza è l'atteggiamento spocchioso di chi pensa di essere importante, di chi usa come metro di giudizio l'apparire senza l'essere.
La mente, ahimè, corre alla crisi di astinenza di visibilità che travolge la nostra società massificata. Veline e grandi fratelli sono il termometro dell'inquietante fenomeno dell'assenza di visibilità delle persone, del bisogno parossistico di esserci, di mostrarsi, di contare qualcosa in questo mondo di superuomini e superdonne.
È totalmente generalizzato il terrore di non essere riconosciuti, di non esistere, in questo strampalato mondo esibizionistico in cui conta solo ciò che si vede, ciò che appare. Allora, davanti alle telecamere, finiamo con l'essere tutti identici, tutti simili a ciò che pensiamo possa piacere, e il delirio dei "reality show" fa diventare gigantesca e dannosa psicanalisi collettiva, sottoposta al giudizio del pubblico, la dimensione della fragilità che abita ciascuno di noi.
Sei quel che appari, vali se ti si nota, sopravvivi se finisci in qualche metro di pellicola come comparsa di uno dei talk show di successo.
Il dramma è che qualcuno ci crede, che pensa che sia quella la strada, che l'origine della propria insoddisfazione consiste nell'invisibilità. Peggio: il mondo senza Dio si scopre esigente, moralista, spietato nei giudizi, intransigente (con gli altri).
Ma, grazie a Dio, Gesù ci dona un messaggio opposto: non hai bisogno di mostrarti, di apparire, tu vali per quello che sei realmente. L'autostima che nasce nel tuo cuore non è misurata dalle tue abilità, no, ma dal fatto che sei pensato, voluto e amato dal tuo Dio.
Tu vali tantissimo. È questo è il messaggio della Scrittura: tu sei prezioso agli occhi di Dio.
Non importa il tuo limite, né la misura della tua paura. Non importa cosa gli altri pensano di te: tu vali, sei prezioso agli occhi di Dio. Perciò non hai necessità di ostentare, di cercare ossessivamente una visibilità che il mondo ti nega o riserva a pochissimi eletti. Tu vali, anche se non vincerai mai nessuna medaglia d'oro e la tua piccola vita si perderà nei ricordi di una generazione.
Tu vali, non svendere la tua dignità, coltiva il dentro; e se coltivi il fuori, coltivalo in modo che sia sempre e solo trasparenza del dentro.
I tuoi limiti? Un recinto che delimita lo spazio in cui realizzarti.
I tuoi peccati? Esperienza della finitudine e della libertà ancora da purificare, da accogliere da adulto e da mettere nelle mani di Dio.
Non hai bisogno di metterti ai primi posti: solo Dio conosce il tuo cuore, lo conosce più di quanto tu lo conosca, non lasciarti travolgere dai falsi profeti del nostro tempo.
Umiltà, dunque. Coltiviamo la virtù della modestia e dell'umiltà, virtù preziosa agli occhi degli uomini, che ci spiana la strada per incontrare Dio.
Umiltà: difficile equilibrio fra la conoscenza del proprio limite e la grandezza delle cose che Dio opera in noi. La persona che sostiene di non valere niente, di essere ignobile e disprezzabile, commette un grave peccato di fronte a Dio, non è umile, ma depresso! La persona che nasconde le proprie fragilità dietro l'ipocrisia di un'immagine di sé eccessiva e distorta, costruisce la sua autostima su fragilissime basi.
Il discepolo che ha conosciuto la misura dell'amore di Dio, invece, accoglie con gioia le proprie capacità, le mette a servizio del Regno, loda il Signore per i tanti doni che gratificano la sua vita e che ha imparato a riconoscere. Conosce anche la misura della propria fragilità, e non se ne preoccupa, ma la affida al Signore con immensa tenerezza, sapendo che nella propria fragilità si manifesta pienamente la gloria di Dio.
Così facendo, credetemi fratelli, la nostra vita si trasfigura. Anche le inevitabili difficoltà della vita finiscono col diventare occasione di crescita, se affrontate con senso della misura e del relativo. Solo Dio conta, solo la presenza del Maestro resta il centro della nostra vita.
E se siamo convinti di ciò, ci interessa ancora prendere i primi posti? Non credo! Amen.

22 Agosto 2010 - XXI Domenica del Tempo Ordinario

Il fuoco arde nei nostri cuori marchiati dallo sguardo di Cristo, dalla nostalgia a tratti insopportabile della totalità di Dio, dalla consapevolezza che la vita è una caccia al tesoro.
È fuoco il Cristo, fuoco che ci illumina e ci purifica, che ci inquieta e ci rasserena, che plasma mentalità nuova creando lacerazioni in noi e intorno a noi.
In ogni tempo, da allora, da Lui in avanti, i discepoli sono vissuti in questo mondo con i piedi ben piantati in terra e il cuore rivolto al dentro e al vero. Ma non è semplice: la vita è lotta spirituale, dicevamo, siamo chiamati a combattere in noi l'uomo vecchio, intorno a noi chi ci impedisce di diventare più uomini, credendo.
E questo tempo, tempo faticoso, tempo ambiguo, lancia ai discepoli una sfida che è quella di sempre: parlare di Cristo. La Chiesa, noi Chiesa, siamo chiamati a ridire l'essenziale, a parlare del Maestro.
In un tempo in cui il mondo parla continuamente della Chiesa, la Chiesa deve parlare di Cristo.
Non ripiegarsi su se stessa, non nascondersi dietro le barricate, ma fare memoria di essere chiamata, come profetizza Isaia, ad allargare le tende, a fare davvero del nostro messaggio un messaggio cattolico, cioè universale.
La Parola di oggi ci invita a guardarci dentro, a guardarci allo specchio per snidare i rischi del settarismo e della saccenteria che da sempre – purtroppo – abitano il cuore dei convertiti a Dio.
E gli altri? "Sono molti quelli che si salvano?" Il devoto fedele che pone la domanda, evidentemente mettendosi tra il gruppo dei salvati, non sa in quale vespaio si è cacciato. È la tentazione di sempre: sapere se siamo in regola o no, se i punti accumulati per la promozione sono a posto, se – insomma – possiamo stare al sicuro, se il posto in Paradiso è prenotato.
È la tentazione che colpisce noi discepoli, noi cattolici di lungo corso, quando smarriamo la dimensione dell'attesa, l'ansia del discepolato, quando crediamo che le mura della città siano talmente robuste da non necessitare, in fondo, della veglia della sentinella. Colpisce come un cancro noi discepoli, quando, dopo una strepitosa e travolgente esperienza di Dio, sentiamo d'improvviso di essere entrati in un gruppo a parte, e guardiamo con sufficienza "gli altri", quelli che non capiscono, che non conoscono, quelli che hanno fatto altri percorsi di Chiesa, quelli che la domenica, a Messa, si annoiano e non colgono la dimensione dell'interiorità, quelli che, fuori, non capiscono e ci attaccano, ci insultano, ci offendono, ci giudicano.
A noi, oggi, Dio rivolge la sua stimolante Parola.
Mantenere la vita di fede necessita di uno sforzo, dice il Signore, occorre passare per una porta stretta.
La vita è fatta di alti e bassi, di momenti esaltanti e di fatiche immani, ma non esiste altro modo per vivere.
La lettera agli ebrei ci dice che possiamo vivere i momenti bui e faticosi come un'opportunità di conversione, per guardare all'essenziale. La prova è opportunità: possiamo ripiegarci su noi stessi e spegnerci o entrare più in profondità e scoprire il volto di Dio.
Il Vangelo è esigente, ovvio. Non severo o difficile, ma autentico e impegnativo, come lo è salire su una montagna o affrontare una prova sportiva. Il nostro mondo tende a semplificare la vita, a virtualizzarla, ad appianare le difficoltà. Bene, ma non sempre funziona.
Per farsi trovare da Dio e restare nella sua luce bisogna faticare, lottare, non ci sono scorciatoie.
E non pensiamo, subito, alla vita morale, per favore, non pensiamo agli impegni che ci siamo assunti nella preghiera, ai consigli per diventare santi e a cose del genere, no.
E neppure, ve ne prego!, la "porta stretta" si riferisce alla sofferenza; smettiamola di coltivare quella triste attitudine dei cattolici a vedere tutto in negativo, a sottolineare, della vita, soltanto l'aspetto doloroso.
Gesù non parla di "sforzo" rinfocolando il sacro fuoco della nostra pia devozione, parla di "sforzo" intendendo la consapevolezza del nostro cammino interiore.
Ci vuole tutta la vita per diventare cristiani, tutta la vita per diventare uomini, tutta la vita per liberarci dai troppi condizionamenti che ci impediscono di cogliere l'assoluto di Dio in noi.
Attenti, allora, al rischio dell'abitudine, al modo più triste di essere cristiani, che è quello di credere di credere, di confondere la propria sensibilità, il proprio stile di preghiera, la propria esperienza in un gruppo convinto di rappresentare l'unico modo di essere cristiani.
Ciò che il Signore chiede a noi discepoli è l'autenticità della ricerca, il sapere che non esistono posti privilegiati, che la vigilanza è l'unica dimensione che ci fa seguire le orme del Signore.
Niente primi della classe, nella comunità, niente tessere a premi, niente diritti acquisiti, ma ricerca umile e autentica. Sempre.
Avremo delle sorprese, ammonisce il Signore. Persone che giudichiamo lontane da Dio, persone che in cuor nostro devotamente giudichiamo come peccatori e lontani da Dio, li vedremo a mensa col Signore. Perché l'uomo guarda l'apparenza, Dio guarda il cuore. Sarà divertente incontrare nel Regno persone che mai avremmo immaginato! Dio solo conosce nel cuore la fede delle persone, lasciamo a lui il giudizio; noi, per quanto possiamo, pensiamo a convertire noi stessi: e questo basta e avanza.
Animo allora, fratelli, Dio ci vuole bene e ci prende sul serio; ci scuote, se necessario, ci invita, ora e sempre a diventare veramente discepoli secondo il suo cuore. Proviamoci seriamente! Amen

martedì 27 luglio 2010

15 agosto 2010 - Assunzione della Beata Vergine Maria

Quest'anno abbiamo la gioia di celebrare, di domenica, la festa dell'Assunzione di Maria, festa che ci richiama all'opera di Dio in Maria di Nazareth, discepola del Signore. Non vi nascondo, però, un sottile disagio a parlare di lei, perché il più grande torto che possiamo fare a Maria è di metterla in una nicchia e incoronarla con una corona d'oro! Comico, vero? Dio ci dona una discepola esemplare, una donna (in un mondo di maschilisti Dio pone una donna a modello!) che, per prima, ha scoperto il volto del Dio incarnato, e noi subito a metterla sul piedistallo, santa stratosferica da invocare nei momenti di sofferenza. Per favore, no! Maria ci è donata come sorella nella fede, come discepola del Signore, come madre dei discepoli.
Il cuore del suo cammino è narrato da Luca, in quella corsa frenetica, tumultuosa, che Maria compie all'indomani dell'annuncio dell'angelo. Non gli aveva forse detto, l'angelo, della gravidanza della sua vecchia cugina? Maria parte volentieri da Nazareth, ha bisogno di riflettere, di capire. Ha paura di essersi sbagliata, di avere avuto un colpo di sole.
Possibile? Il Messia verrà? Possibile? Lei è stata scelta come madre? Maria sale a sud, due giorni di viaggio, pensieri che affollano la mente. Forse è in compagnia di Giuseppe, non era opportuno che le donne viaggiassero da sole. In una piccola parrocchia, dedicata alla Visitazione, un simpatico pittore dell'ottocento ha rappresentato l'incontro fra le due donne. In secondo piano, dell'affresco della volta, Zaccaria e Giuseppe si fanno un cenno con la mano, un po' protagonisti marginali di questo affare misterioso di donne che è la maternità, mistero che estranea un po' noi uomini.
L'incontro tra la matura Elisabetta e l'adolescente Maria è un'apoteosi, un fuoco d'artificio. Solo loro sanno, solo loro capiscono, i servi e i famigliari guardano attoniti queste due donne che ridono e si abbracciano e piangono di gioia. Elisabetta solleva in un abbraccio la piccola Maria: 'Come sei cresciuta! Che bella che sei!'; poi la posa, la guarda scuotendo la testa: “Come hai fatto a credere, Maria?”. Sì, Maria, anche noi lo ripetiamo, scuotendo la testa: come hai potuto credere che davvero Dio diventasse sguardo e sudore e calore nel tuo ventre? Come hai fatto a credere che - sul serio - Dio avesse bisogno di te, e di noi, per salvare l'umanità? Come hai fatto a credere che il tuo acerbo ventre contenesse l'Assoluto? Beata te che hai creduto Maria. Beati noi, fragili discepoli, che sentiamo l'orgoglio riempirci di lacrime gli occhi e la nostalgia della santità mozzarci il fiato: tu sei figlia della nostra umanità, tu sei il riscatto delle nostre tiepidezze. E Maria canta e danza. Allora è tutto vero, ciò che ha visto era davvero il messaggero di Dio, allora tutte le stanche e impolverate profezie ascoltate allo Shabbat in sinagoga, si stavano realizzando. Dio non si è stancato del suo popolo, Dio non l'ha abbandonato, non ci ha abbandonato, Dio è presente. La danza finisce in un canto, lo stupore della logica di Dio che prende una quindicenne illetterata, figlia povera di una terra occupata, in un tempo senza internet e networks, per salvare l'umanità.
Ecco, fratelli miei, questa è la festa dell'Assunzione, la storia di una discepola che ha creduto davvero nella Parola del suo Dio, che insegna a noi, tiepidi credenti, l'ardire di Dio, la follia dell'Assoluto. Questa donna, noi crediamo, dopo la lunga esperienza di una fede abitata dal Mistero, è andata, prima tra tutti i credenti, al Dio che l'aveva chiamata. Non poteva conoscere la corruzione della morte colei che aveva dato alla luce l'autore della vita. Siamo in buona compagnia, fratelli! Lasciamoci andare, allora: grandi cose ha fatto Dio in Maria; grandi cose può fare anche in noi, solo se lo lasciamo fare... Amen!

8 agosto 2010 - XIX Domenica del Tempo Ordinario

Nel cuore dell'estate, Gesù ci rassicura: anche se siamo un piccolo gregge di pecore sperdute ed impaurite, al Padre è piaciuto darci il suo Regno. Fidandoci di Gesù pastore, evitando di seguire i tanti finti pastori che ci affittano il pascolo e si disinteressano di noi, seguiamo il vero pastore delle pecore, quello buono che, solo, ci può condurre alla pienezza della vita.
Seguire lui è la più bella avventura della nostra vita, l'unica cosa per cui valga davvero la pena di investire. Lasciamo stare le ansie del possesso (economico, affettivo, relazionale), ragioniamo bene prima di investire energie e sogni in cose che non possono colmare il cuore.
Lo possiamo constatare ogni giorno nella nostra tiepida vita di cercatori di Dio: uomini e donne inseguire sogni, arrampicarsi su pareti verticali, prendersi ceffoni sonanti pur di conquistare un obiettivo di lavoro, di denaro, di relazione. Salvo poi, passato l'entusiasmo e l'euforia, restare con l'amaro in bocca: con il cuore che reclama ancora emozioni, passione, scoperte.
Come quando si va in montagna, spesso un colle nasconde un'altra salita, un'altra vetta.
No, siamo onesti, non è affatto semplice colmare l'inquietudine che abita nei nostri cuori.
State pronti, ammonisce Gesù. Pronti a viaggiare, pronti a mettere in discussione ogni risultato, ogni certezza, tanto più se derivano dal bisogno di fede e di religiosità: perché se abbiamo capito che il nostro cuore è fatto per l'infinito, e vogliamo cercare l’infinito, allora dobbiamo essere pronti a cercare continuamente, all'infinito.
È il salutare atteggiamento del discepolo, la consapevolezza del "già e non ancora".
Già conosco Dio, eppure non lo possiedo ancora. Già ho vissuto una splendida esperienza affettiva, eppure so che nessun amore colma il mio cuore definitivamente. Già ho scoperto, alla luce del Vangelo, quanta grazia e luce interiore ricolmano il mio cuore, ma ancora vivo momenti di sconforto e di buio. Già ho capito chi sono, ma ancora non so chi sarò.
Una tensione sana, bella, che ci conduce all'essenziale, che ci stacca dalla pesantezza della quotidianità, che ci restituisce al realismo. State pronti, ci chiede il Maestro. E noi vegliamo nella notte. Quanta fede ci chiedi, Signore!
Come Israele, anche noi siamo chiamati ad uscire dalla schiavitù, da ogni schiavitù, per imparare, nel deserto, a fidarci di Dio. Schiavi dell'idea che abbiamo di noi stessi, schiavi e preoccupati dell'immagine che dobbiamo restituire agli altri, schiavi dei finti bisogni che la pubblicità ci suscita, possiamo riscoprire, alla luce della parola, che o l'uomo è cercatore o non lo è, o l'uomo è mendicante o non lo è. O l'uomo è in cammino interiore o non lo è. Che la vita, che ogni vita, è progressiva liberazione interiore. Quanta fede ci chiedi, Signore!
Anche noi siamo chiamati ad essere come Abramo. Egli ascolta la voce interiore. Non è un giovane preso da deliri mistici: è un uomo realizzato, non travolto da impetuose passioni. Egli è l'uomo provato dalla vita, disilluso e che – pure – sente un appello irrefrenabile all'interiorità. Egli va, ascolta il suo cuore; va verso se stesso. Un folle Abramo che lascerà ogni certezza e ruolo sociale per seguire un istinto interiore, per ritrovare se stesso! E questo suo gesto sarà immensamente fecondo: egli è il padre di tutti i cercatori di Dio.
Andiamo anche noi verso noi stessi, fratelli e sorelle, scopriamoci viandanti, sul serio. Anche se pensiamo di avere vissuto a sufficienza, o troppo sofferto, o fatto le nostre scelte giuste. Siamo tutti straordinariamente liberi, resi capaci di iniziare nuovi percorsi anche quando tutto sembra deciso, giusto o sbagliato, comunque irremovibile. Andiamo verso noi stessi!
La nostra vita, allora, si trasformerà in una inquieta attesa: l'attesa del ritorno, l'attesa dell'incontro del padrone che torna dalle nozze. Attesa, sorella. Attesa, fratello. Attesa: la mia vita, la tua vita, la nostra vita, sarà solo attesa: di un senso, del superamento del nostro dolore, della chiave per capire la nostra vita, di una persona da amare, di un figlio da stringere e baciare, di un mondo migliore, della luce infinita che illumini le nostre paure; sarà attesa di Dio. Attesa consapevole.
L'uomo è l'unico essere vivente capace di attendere, di vegliare, di insistere, di credere.
Nella notte, spesso, nel lungo e corposo silenzio della notte, sentiamo crescere la nostra fede, il nostro cuore abbandonarsi, e capiamo cosa ci è essenziale. Nella notte, come le sentinelle che aspettano l'aurora, diventiamo più credenti, più discepoli. Quando le ginocchia vacillano, quando la fatica è tanta, quando ci sembra di non farcela ad attendere, quando la disperazione fa pressione alla porta del cuore, possiamo guardare ai testimoni, guardare ai padri della fede, ai tanti, tantissimi che, come noi, hanno creduto nella notte e, infine, visto la luce.
La fede è questo misterioso “già e non ancora”, questo silenzio assordante, questa notte luminosa.
Vegliamo, dunque, fratelli miei! Amen.