Il momento culminante della vita di ogni uomo ha sempre il sapore del mistero. Mistero... perché negli ultimi istanti si condensano, in pochi gesti e in scarne parole, gli insegnamenti più forti che gocciolano come un distillato di tutta la vita... E' il vero testamento di saggezza e di amore, e solo il tempo permetterà di conoscerne l'arcano significato e il profondo messaggio.
Per noi cristiani l'ultima cena rimane l'eredità densa di significato e il testamento che, nonostante i secoli e le infinite considerazioni, ancora cela profondità di sentimento e di comunicazione, tanto che, ben a proposito, ciò che si realizza su quella tavola lo si chiama “grande mistero”. È una cena festosa, che non perde la sua caratteristica di dolce convivialità e di dono gratuito, nonostante l'insorgere di progetti ostili.
Valenti pittori e artisti hanno sigillato per sempre sui volti degli apostoli e di Gesù le sensazioni di quello straordinario incontro nel quale si intrecciano dolcezza e drammaticità, affetto e delusione, amabilità e ostilità.
Quella scena ha sempre rappresentato nei nostri ambienti l'amore oltre ogni limite, ci ha sempre parlato di donazione incondizionata.
Ora, dopo molti secoli, un abile dissacratore fantasioso, con il suo Codice da Vinci, ne infanga la sacralità e il rispetto facendola diventare un insieme di simboli profanatori e sacrileghi.
Se un codice esiste in quel “banchetto”, esso è immortalato dalla serenità di Gesù che all'umanità turbolenta e deludente, rappresentata dagli apostoli, continua a dare amore e fiducia, non in maniera teorica e astratta, ma offrendo addirittura il suo stesso corpo come cibo.
È una visione profetica degli avvenimenti che si realizzeranno in quelle poche ore che andranno dall'incontro con l'uomo con la brocca, che indicherà il cenacolo, fino all'orto degli ulivi e al Golgota...
È lì, attorno ad una tavola, che si anticipa profeticamente il dono totale di una vita offerta senz'indugio per saziare l'ingordigia d'amore dell'uomo, ma anche la sua sete di violenza.
"Prima che tu, uomo, creda di distruggermi, io, Dio, mi offro a te".
È l'incredibile sorpresa di un Dio che non risponde mai con la stessa moneta, non ripaga la violenza con altrettanta violenza, non distrugge chi gli va contro, non chiama nemico neppure chi sta per tradirlo, come non risparmia il Suo amore verso chi dimostrerà paura, codardia e rinnegamento.
È una sfida di fedeltà giocata sul tavolo dell'amicizia in una sala da pranzo, e che troverà concretezza, poi, sul legno della croce.
Non può perdere questa sfida un Dio che ha la caratteristica di fare sempre il primo passo, un passo coraggioso e rischioso che annulla le distanze e Lo porta più vicino all'uomo, ma che non sempre ottiene il risultato di avvicinare il suo cuore...
Eppure, il Suo amore non cambia e il Suo dono è offerto anche nella consapevolezza di sedere alla stessa mensa col suo traditore. Anzi, se potesse, gli risparmierebbe anche il complotto, il bacio convenzionale, l'umiliante scenata dell'arresto a sorpresa con spade e bastoni...
"Prendete... questo è il mio corpo..."... È Lui che si offre a tutti indistintamente, si mette nelle loro mani perché chiunque ne possa fare ciò che vuole. Si dona incondizionatamente a chi l'accetta, e anche a chi Lo tradisce...
A chi l'accetta, perché il discepolo possa associarsi al corpo del Maestro, offrirsi con Lui e donarsi come Lui....
A chi non l'accetta... perché il Suo gesto, senza rancore, sia un'ulteriore prova d'amore... Sconcerto totale per chi pensa di indispettire Dio e si ritrova amato, beneficato e innalzato alla dignità divina...
Un gesto d'amore straordinario e sconvolgente che, come al solito, va oltre ogni aspettativa umana. E' l'invito a mangiare il Suo corpo perché così l'uomo si appropri dei benefici di salvezza connessi col sacrificio offerto a Dio.
Mangiando la Sua carne e bevendo il Suo sangue, l'umanità si appropria della vita stessa di Dio, la mescola alla Sua stessa vita e così la eleva all'esperienza della natura divina.
Con questa flebo d'amore divino, avrà ancora l'uomo il coraggio di vivere egoisticamente?
E anche se questo dovesse accadere, Dio non si stancherà mai di continuare a nutrirlo di sani sentimenti... convinto che il Suo amore vincerà!
giovedì 11 giugno 2009
giovedì 4 giugno 2009
7 giugno 2009 - Ss. Trinità
Il termine “Trinità” fu coniato da Tertulliano (160-220 d.C.) per facilitare la comunicazione del concetto che altrimenti richiedeva due parole: “tre-unità”, cioè “Trinità”. Sebbene tale parola non compaia mai nella Bibbia, troviamo però il contenuto e la portata di questa indivisibile “trilogia” delinearsi progressivamente fino a raggiungere una essenziale chiarezza: un unico Dio in tre persone uguali e distinte, il Padre e il Figlio e lo Spirito Santo.
Il cammino della Rivelazione è distribuito nel tempo e segue la legge pedagogica dell’insegnamento progressivo. Dapprima Dio chiama il popolo ebraico a percepire l’esistenza di un unico Dio, trascendente, con esigenze morali che prendevano il nome di santità. Con questo popolo stringe un’alleanza che ha, tra l’altro, il compito di salvaguardare l’unicità di Dio in mezzo a popoli politeisti (Prima Lettura). Con il Nuovo Testamento i tempi sono maturi per la rivelazione piena. Sarà Gesù che, convalidando l’idea del monoteismo, fa capire che tale unicità viene dalla comunione di Padre e Figlio e Spirito Santo. Così la Trinità diventa il patrimonio teologico e spirituale dell’uomo che riceve il Battesimo ed entra nella Comunità cristiana (Vangelo).
Affermare il dato biblico della Trinità non significa penetrarne il Mistero, che rimane superiore alla nostra intelligenza. Perché allora Dio ci rivela qualcosa che noi non possiamo capire? Perché non si tratta di capire, ma di vivere nella Trinità (Seconda Lettura).
Raggiunta la vetta, se la giornata è limpida, si guarda tutto il cammino percorso, per misurarne l'ampiezza, per contemplare nel suo insieme l'immenso panorama che prima si è ammirato nei particolari. È un simbolo di ciò che la solennità della Santissima Trinità ci chiama a fare, a conclusione della celebrazione del Mistero e della Redenzione. Dio è il protagonista della Storia della Salvezza; ma non un Dio astratto, solitario: è il Dio “Comunità di Amore”, Padre e Figlio e Spirito Santo.
Da sempre Dio ci ha scelti, ci ama, ci parla; è vicino a noi, è con noi; egli prosegue il suo piano di salvezza, è fedele e chiede agli uomini fedeltà. Sono i temi, della prima presa di coscienza che Israele fa della storia della sua salvezza: «Dal giorno in cui Dio creò l'uomo sulla terra...» (Prima Lettura). Israele, salvato dalla schiavitù, educato dalla parola di Dio, si è sentito oggetto della sua elezione, ha ricevuto da Dio una legge di saggia convivenza umana e di intimità con lui; ripensando a tutto questo, Israele intuisce che dalle origini la sua storia è nelle mani di Dio, che Dio vi interviene per salvare il suo popolo e condurlo a una patria di benessere e di felicità. Questa è anche la nostra storia: dobbiamo prenderne coscienza. Dio si è impegnato per noi, ci ha dato la sua parola, ci mette in mano dei fatti, ci dà garanzia nel suo amore e nella sua elezione, perciò chiede fiducia e fedeltà, perché egli stesso mostra fiducia nell'uomo e gli è fedele. Se vi pensassimo, ci renderemmo conto di tutto questo, sentiremmo che Dio con la sua forza di salvezza si mette alla radice degli avvenimenti, per orientarli al bene, nonostante gli uomini troppo spesso li volgano al male, anzi proprio per questo.
Non c'è bisogno di falsi dèi. Il vero Dio non tace; egli ci parla perché ci ama e vuole salvarci da ogni schiavitù; forse siamo noi che non sappiamo ascoltare. Apriamo il Vangelo, la Bibbia, guardiamo la natura, leggiamo nella nostra storia! Quel popolo che Dio ha scelto e ama, siamo noi ai quali chiede di essere di salvezza per gli altri. Tutto questo ci schiude una reale speranza; ma soltanto nella misura della nostra fede, noi sentiremo viva questa speranza e sapremo comunicarla agli altri.
Per gli antichi pagani, ossessionati dal destino (il “fato”) pensato inesorabile, e scandalizzati dagli dèi e dalle dee peggiori degli uomini, che sollievo venire a conoscere che vi è un solo Dio, santo, onnipotente, ma “Padre”! Noi troviamo lo stupore gioioso di questa scoperta nella letteratura dei primi cristiani. È il messaggio che Paolo ha richiamato ai Romani (Seconda Lettura), coinvolgendo in un unico e ormai meraviglioso destino di famiglia, il Padre, Cristo, lo Spirito Santo e gli uomini figli di Dio. Ormai l'uomo non è più schiavo, perché Dio l'ha liberato dal peccato, e non deve più rendersi schiavo di nessuno e di nulla. Per questo, Dio ha dato all'uomo per guida il suo stesso Spirito di amore, perché si comporti con amore verso gli altri uomini e verso Dio. Allora sentirà la gioia di chiamare Dio col nome di “Padre”, “Papà”. In ciò è nuovamente aperta agli uomini una sicura speranza. Dio ha avuto l'iniziativa della salvezza degli uomini, che non vi pensavano; la conduce avanti, anche se non vi pensano e la ostacolano; egli sa volgere a bene, a strumento di salvezza anche la sofferenza umana, come ha fatto per la sofferenza e la croce del suo Figlio che si è fatto nostro Fratello per salvarci e renderci suoi coeredi.
«Fate miei discepoli tutti i popoli»: questo comando di Gesù non è stato dato solo agli apostoli, è dato per sempre alla Chiesa, cioè a tutti noi che siamo i “credenti in Cristo”. Oggi, siamo chiamati a considerarlo nella luce calda della Trinità, di Dio-Amore, Padre, Figlio, Spirito, più e meglio di come non facciamo usualmente. Tutto ciò che Gesù ha compiuto, i poteri che ha mostrato e che dona alla Chiesa, sono dati a Cristo e alla Chiesa dal Padre, e tutti li corona il dono di comunione che è lo Spirito di amore. Gli uomini, che hanno preso coscienza che la loro è una storia di salvezza e sentono profondamente di avere Dio per Padre e Fratello, sono spronati a comunicare al mondo questo messaggio, a fare “discepoli” di Cristo tutti i popoli perché anch'essi entrino in questo dinamismo di salvezza per cui Dio conduce fra noi vita umana nella fraternità, nella solidarietà, nella collaborazione.
Veniamo dalla Pasqua, dalla cinquantina pasquale la cui pienezza è segnata dal dono dello Spirito Santo alla comunità di Gesù, nella Pentecoste. In questo anno il tempo di Pasqua, dalla Santa Settimana, è stato tutto segnato dalla sofferenza e dalla distruzione per le Comunità e le Chiese dell’Abruzzo e per l’Italia tutta. Eventi di tale portata non lasciano nessuno come prima e le nostre Domeniche ne portano le stigmate. Esse si traducono in preghiera e in solidarietà per dare a quei fratelli la speranza che saranno accompagnati da tutti noi fino a che ne avranno bisogno.
La Domenica successiva alla Pentecoste è per la Chiesa Cattolica romana la solennità della Santissima Trinità. I discepoli di Gesù, noi, siamo rigorosamente monoteisti. I primi secoli cristiani hanno lottato e precisato tutto ciò, ma Dio che si è rivelato in Gesù Cristo si è fatto conoscere a noi come una “Comunione di Persone”, tanto che Dio Uno, comunione del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, è divenuto norma per la Chiesa chiamata a essere “comunione”. L’ecclesiologia di comunione, di cui molto parliamo, è proprio questo: ricevere dalle prime generazioni cristiane questo dato che tutti i battezzati sono chiamati a essere uno come Uno è il Padre e il Figlio e lo Spirito Santo. Solo nell’amore perfetto e vero c’è unità. Allora questa giorno ci interpella e giudica sull’amore, distintivo della Comunità di Gesù. Ricordiamo che il segno della croce, con cui apriamo il nostro raduno eucaristico e lo concludiamo, è professione di fede in questo Mistero insondabile. Questo mistero ci accompagna sempre. Ogni Liturgia inizia nel nome della Trinità. Ogni azione ha compimento nel Padre e nel Figlio e nello Spirito Santo.
Il cammino della Rivelazione è distribuito nel tempo e segue la legge pedagogica dell’insegnamento progressivo. Dapprima Dio chiama il popolo ebraico a percepire l’esistenza di un unico Dio, trascendente, con esigenze morali che prendevano il nome di santità. Con questo popolo stringe un’alleanza che ha, tra l’altro, il compito di salvaguardare l’unicità di Dio in mezzo a popoli politeisti (Prima Lettura). Con il Nuovo Testamento i tempi sono maturi per la rivelazione piena. Sarà Gesù che, convalidando l’idea del monoteismo, fa capire che tale unicità viene dalla comunione di Padre e Figlio e Spirito Santo. Così la Trinità diventa il patrimonio teologico e spirituale dell’uomo che riceve il Battesimo ed entra nella Comunità cristiana (Vangelo).
Affermare il dato biblico della Trinità non significa penetrarne il Mistero, che rimane superiore alla nostra intelligenza. Perché allora Dio ci rivela qualcosa che noi non possiamo capire? Perché non si tratta di capire, ma di vivere nella Trinità (Seconda Lettura).
Raggiunta la vetta, se la giornata è limpida, si guarda tutto il cammino percorso, per misurarne l'ampiezza, per contemplare nel suo insieme l'immenso panorama che prima si è ammirato nei particolari. È un simbolo di ciò che la solennità della Santissima Trinità ci chiama a fare, a conclusione della celebrazione del Mistero e della Redenzione. Dio è il protagonista della Storia della Salvezza; ma non un Dio astratto, solitario: è il Dio “Comunità di Amore”, Padre e Figlio e Spirito Santo.
Da sempre Dio ci ha scelti, ci ama, ci parla; è vicino a noi, è con noi; egli prosegue il suo piano di salvezza, è fedele e chiede agli uomini fedeltà. Sono i temi, della prima presa di coscienza che Israele fa della storia della sua salvezza: «Dal giorno in cui Dio creò l'uomo sulla terra...» (Prima Lettura). Israele, salvato dalla schiavitù, educato dalla parola di Dio, si è sentito oggetto della sua elezione, ha ricevuto da Dio una legge di saggia convivenza umana e di intimità con lui; ripensando a tutto questo, Israele intuisce che dalle origini la sua storia è nelle mani di Dio, che Dio vi interviene per salvare il suo popolo e condurlo a una patria di benessere e di felicità. Questa è anche la nostra storia: dobbiamo prenderne coscienza. Dio si è impegnato per noi, ci ha dato la sua parola, ci mette in mano dei fatti, ci dà garanzia nel suo amore e nella sua elezione, perciò chiede fiducia e fedeltà, perché egli stesso mostra fiducia nell'uomo e gli è fedele. Se vi pensassimo, ci renderemmo conto di tutto questo, sentiremmo che Dio con la sua forza di salvezza si mette alla radice degli avvenimenti, per orientarli al bene, nonostante gli uomini troppo spesso li volgano al male, anzi proprio per questo.
Non c'è bisogno di falsi dèi. Il vero Dio non tace; egli ci parla perché ci ama e vuole salvarci da ogni schiavitù; forse siamo noi che non sappiamo ascoltare. Apriamo il Vangelo, la Bibbia, guardiamo la natura, leggiamo nella nostra storia! Quel popolo che Dio ha scelto e ama, siamo noi ai quali chiede di essere di salvezza per gli altri. Tutto questo ci schiude una reale speranza; ma soltanto nella misura della nostra fede, noi sentiremo viva questa speranza e sapremo comunicarla agli altri.
Per gli antichi pagani, ossessionati dal destino (il “fato”) pensato inesorabile, e scandalizzati dagli dèi e dalle dee peggiori degli uomini, che sollievo venire a conoscere che vi è un solo Dio, santo, onnipotente, ma “Padre”! Noi troviamo lo stupore gioioso di questa scoperta nella letteratura dei primi cristiani. È il messaggio che Paolo ha richiamato ai Romani (Seconda Lettura), coinvolgendo in un unico e ormai meraviglioso destino di famiglia, il Padre, Cristo, lo Spirito Santo e gli uomini figli di Dio. Ormai l'uomo non è più schiavo, perché Dio l'ha liberato dal peccato, e non deve più rendersi schiavo di nessuno e di nulla. Per questo, Dio ha dato all'uomo per guida il suo stesso Spirito di amore, perché si comporti con amore verso gli altri uomini e verso Dio. Allora sentirà la gioia di chiamare Dio col nome di “Padre”, “Papà”. In ciò è nuovamente aperta agli uomini una sicura speranza. Dio ha avuto l'iniziativa della salvezza degli uomini, che non vi pensavano; la conduce avanti, anche se non vi pensano e la ostacolano; egli sa volgere a bene, a strumento di salvezza anche la sofferenza umana, come ha fatto per la sofferenza e la croce del suo Figlio che si è fatto nostro Fratello per salvarci e renderci suoi coeredi.
«Fate miei discepoli tutti i popoli»: questo comando di Gesù non è stato dato solo agli apostoli, è dato per sempre alla Chiesa, cioè a tutti noi che siamo i “credenti in Cristo”. Oggi, siamo chiamati a considerarlo nella luce calda della Trinità, di Dio-Amore, Padre, Figlio, Spirito, più e meglio di come non facciamo usualmente. Tutto ciò che Gesù ha compiuto, i poteri che ha mostrato e che dona alla Chiesa, sono dati a Cristo e alla Chiesa dal Padre, e tutti li corona il dono di comunione che è lo Spirito di amore. Gli uomini, che hanno preso coscienza che la loro è una storia di salvezza e sentono profondamente di avere Dio per Padre e Fratello, sono spronati a comunicare al mondo questo messaggio, a fare “discepoli” di Cristo tutti i popoli perché anch'essi entrino in questo dinamismo di salvezza per cui Dio conduce fra noi vita umana nella fraternità, nella solidarietà, nella collaborazione.
Veniamo dalla Pasqua, dalla cinquantina pasquale la cui pienezza è segnata dal dono dello Spirito Santo alla comunità di Gesù, nella Pentecoste. In questo anno il tempo di Pasqua, dalla Santa Settimana, è stato tutto segnato dalla sofferenza e dalla distruzione per le Comunità e le Chiese dell’Abruzzo e per l’Italia tutta. Eventi di tale portata non lasciano nessuno come prima e le nostre Domeniche ne portano le stigmate. Esse si traducono in preghiera e in solidarietà per dare a quei fratelli la speranza che saranno accompagnati da tutti noi fino a che ne avranno bisogno.
La Domenica successiva alla Pentecoste è per la Chiesa Cattolica romana la solennità della Santissima Trinità. I discepoli di Gesù, noi, siamo rigorosamente monoteisti. I primi secoli cristiani hanno lottato e precisato tutto ciò, ma Dio che si è rivelato in Gesù Cristo si è fatto conoscere a noi come una “Comunione di Persone”, tanto che Dio Uno, comunione del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, è divenuto norma per la Chiesa chiamata a essere “comunione”. L’ecclesiologia di comunione, di cui molto parliamo, è proprio questo: ricevere dalle prime generazioni cristiane questo dato che tutti i battezzati sono chiamati a essere uno come Uno è il Padre e il Figlio e lo Spirito Santo. Solo nell’amore perfetto e vero c’è unità. Allora questa giorno ci interpella e giudica sull’amore, distintivo della Comunità di Gesù. Ricordiamo che il segno della croce, con cui apriamo il nostro raduno eucaristico e lo concludiamo, è professione di fede in questo Mistero insondabile. Questo mistero ci accompagna sempre. Ogni Liturgia inizia nel nome della Trinità. Ogni azione ha compimento nel Padre e nel Figlio e nello Spirito Santo.
giovedì 28 maggio 2009
31 maggio 2009 - Domenica di Pentecoste
La Chiesa per la sua missione e ogni cristiano per la propria esistenza ricevono vigore grazie al dono dello Spirito: il Paraclito, l’avvocato, colui che guida i credenti alla scoperta della verità. È il maestro interiore che insegna, fa ricordare, testimonia, convince il mondo quanto al peccato, alla giustizia e al giudizio, guida alla verità tutta intera e annuncia le cose future, glorifica il Cristo.
I discepoli saranno in grado di affrontare la missione che è stata loro affidata dal Risorto? Sono persone fragili: lo hanno dimostrato in occasione della passione e morte di Gesù. Solo lo Spirito può trasformarli in missionari coraggiosi, pronti a soffrire ed a correre ogni rischio pur di portare dovunque il Vangelo.
Questa è la novità della Pentecoste cristiana: l’Alleanza nuova e definitiva è fondata non più su una legge scritta su tavole di pietra, ma sull’azione dello Spirito di Dio.
Si comprende allora come senza lo Spirito Santo, Dio è lontano, il Cristo resta nel passato, il vangelo una lettera morta, la Chiesa una semplice organizzazione, l’autorità un potere, la missione una propaganda, il culto un arcaismo, e l’agire morale un agire da schiavi.
Ma nello Spirito Santo il cosmo è nobilitato per la generazione del Regno, il Cristo risorto si fa presente, il vangelo si fa potenza e vita, la Chiesa realizza la comunione trinitaria, l’autorità si trasforma in servizio, la liturgia è memoriale e anticipazione, l’agire umano viene deificato.
La Pentecoste, dunque, non è finita; essa continua nelle situazioni in cui vive la Chiesa; tutta la vita dei cristiani si svolge sotto il segno dello Spirito. A Pentecoste tutti i discepoli di Cristo sono chiamati a diventare testimoni. Questa missione ha alla sua origine un dono, il dono dello Spirito, che rende testimonianza al Cristo e trasforma chi lo segue in un testimone, attrezzandolo per saper affrontare ogni prova lungo il suo cammino. Un cammino che è ricerca, ricerca della verità, non è cosa facile, perché sono necessari da parte del credente silenzio e impegno.
Lo Spirito ci porta alla verità e alla libertà; ci libera dalla schiavitù di sentirci condannati sotto il peso dei nostri peccati, delle nostre fragilità, delle nostre debolezze, pesi questi che possono appesantire drammaticamente il cammino della nostra vita, e prende la nostra difesa manifestandoci l’Amore che Dio nutre nei nostri confronti.
Non è possibile celebrare la Pentecoste riducendola ad un avvenimento di duemila anni fa’, da ricordare. Pentecoste è realtà di oggi, esperienza dei cristiani di oggi perché lo Spirito continua a guidare coloro che si aprono a lui. Li conduce a comprendere le Scritture, ad interpretare la storia di oggi, a percorrere strade inusuali e talora difficili, che hanno esiti insperati di speranza e di felicità.
Con la solennità di Pentecoste, il tempo di Pasqua si compie, ossia giunge alla sua pienezza e la Chiesa celebra la sua “nascita missionaria”. Lo Spirito di Gesù, che il Padre ha risuscitato dai morti, colma della sua presenza i discepoli. L’evento è una vera e propria Buona Notizia. Non solo per gli apostoli di ieri, ma anche per i testimoni di oggi. La venuta dello Spirito, annunciata dai profeti, si compie; le promesse di Gesù si realizzano. C’è una “creazione nuova” ed un nuovo popolo che si mette in cammino. Ecco quanto dovrebbe manifestare l’intera Celebrazione.
I discepoli saranno in grado di affrontare la missione che è stata loro affidata dal Risorto? Sono persone fragili: lo hanno dimostrato in occasione della passione e morte di Gesù. Solo lo Spirito può trasformarli in missionari coraggiosi, pronti a soffrire ed a correre ogni rischio pur di portare dovunque il Vangelo.
Questa è la novità della Pentecoste cristiana: l’Alleanza nuova e definitiva è fondata non più su una legge scritta su tavole di pietra, ma sull’azione dello Spirito di Dio.
Si comprende allora come senza lo Spirito Santo, Dio è lontano, il Cristo resta nel passato, il vangelo una lettera morta, la Chiesa una semplice organizzazione, l’autorità un potere, la missione una propaganda, il culto un arcaismo, e l’agire morale un agire da schiavi.
Ma nello Spirito Santo il cosmo è nobilitato per la generazione del Regno, il Cristo risorto si fa presente, il vangelo si fa potenza e vita, la Chiesa realizza la comunione trinitaria, l’autorità si trasforma in servizio, la liturgia è memoriale e anticipazione, l’agire umano viene deificato.
La Pentecoste, dunque, non è finita; essa continua nelle situazioni in cui vive la Chiesa; tutta la vita dei cristiani si svolge sotto il segno dello Spirito. A Pentecoste tutti i discepoli di Cristo sono chiamati a diventare testimoni. Questa missione ha alla sua origine un dono, il dono dello Spirito, che rende testimonianza al Cristo e trasforma chi lo segue in un testimone, attrezzandolo per saper affrontare ogni prova lungo il suo cammino. Un cammino che è ricerca, ricerca della verità, non è cosa facile, perché sono necessari da parte del credente silenzio e impegno.
Lo Spirito ci porta alla verità e alla libertà; ci libera dalla schiavitù di sentirci condannati sotto il peso dei nostri peccati, delle nostre fragilità, delle nostre debolezze, pesi questi che possono appesantire drammaticamente il cammino della nostra vita, e prende la nostra difesa manifestandoci l’Amore che Dio nutre nei nostri confronti.
Non è possibile celebrare la Pentecoste riducendola ad un avvenimento di duemila anni fa’, da ricordare. Pentecoste è realtà di oggi, esperienza dei cristiani di oggi perché lo Spirito continua a guidare coloro che si aprono a lui. Li conduce a comprendere le Scritture, ad interpretare la storia di oggi, a percorrere strade inusuali e talora difficili, che hanno esiti insperati di speranza e di felicità.
Con la solennità di Pentecoste, il tempo di Pasqua si compie, ossia giunge alla sua pienezza e la Chiesa celebra la sua “nascita missionaria”. Lo Spirito di Gesù, che il Padre ha risuscitato dai morti, colma della sua presenza i discepoli. L’evento è una vera e propria Buona Notizia. Non solo per gli apostoli di ieri, ma anche per i testimoni di oggi. La venuta dello Spirito, annunciata dai profeti, si compie; le promesse di Gesù si realizzano. C’è una “creazione nuova” ed un nuovo popolo che si mette in cammino. Ecco quanto dovrebbe manifestare l’intera Celebrazione.
giovedì 21 maggio 2009
24 maggio 2009 - Ascensione del Signore
Ascensione vuol dire salita, ascesa verso gli spazi più alti e questo già è sufficiente a chiarire il senso della liturgia che oggi stiamo celebrando: la risalita al Cielo di Gesù, la sua scomparsa dal piano terreno, sensoriale, immediato per entrare nella sfera del divino - trascendente.
Una volta risorto dai morti, Gesù ha vissuto altri 40 giorni fra i suoi discepoli, è apparso agli apostoli e a tante altre persone, ha esortato alla perseveranza nella fede e soprattutto al ministero di annuncio della sua Parola ("Andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo ad ogni creatura") e adesso sta salendo verso la dimensione del divino.
Ma che cosa comporta per gli apostoli l'avvenimento della salita al Cielo del loro Signore? Innanzitutto gli undici avvertono un certo senso di smarrimento e di angoscia per cui, attoniti e sconsolati, continuano a guardare la volta celeste fino a quando due (probabili) messaggeri di Dio non intervengono per rassicurarli con la promessa del ritorno di Gesù: si trovano in preda alla solitudine come orfani senza padre né madre mentre lo sconcerto e la preoccupazione si impossessano di loro al punto da ritrovarsi inceri e indecisi quanto al futuro. Chi non rimane deluso e sgomento quando nota l'assenza improvvisa di una persona che per lui era stata sempre importante? In simili circostanze chiunque avvertirebbe il peso del disorientamento e della solitudine, e gli apostoli ora non fanno eccezione sicché l'assenza di Gesù costituisce per loro una dura prova di non facile superamento. Ma la sparizione del Signore è tuttavia per loro anche uno sprone perché progrediscano più speditamente nella virtù e soprattutto nella maturità e nella responsabilità personali. Adesso che il loro Signore non sarà più riscontrabile con l'immediatezza dei sensi esterni, dovranno percepire la sua presenza, comunque certa e attiva, attraverso le prerogative della fede e dell'umiltà abbandonandosi alla speranza scaturita dalla Parola da Lui precedentemente annunziata; ora che non sentiranno più la sua voce materiale che li orientava e li indirizzava sul ministero e sulle scelte di organizzazione interna, dovranno provvedere essi stessi ad organizzare sotto tutti gli aspetti l'andamento della vita comunitaria e le varie iniziative per l'annuncio del messaggio di salvezza; ora che il Signore non è materialmente accanto a loro come quando compiva prodigi, dovranno essere essi stessi a dare segni della Sua presenza in mezzo al popolo attraverso la predicazione, la fermezza dell'apostolato e la carità.
Adesso insomma è il tempo della creatività e della spigliatezza missionaria che scaturisce dal previo, indispensabile, senso di formazione e di responsabilità personale nonché dal buon senso e dall'onestà nell'agire e dallo zelo operativo per il quale la causa del Vangelo assume priorità su tutto, anche sulla prospettiva di dover subire percosse e ritorsioni da parte dei nemici.
Come affermano gli esegeti, questo è il Tempo della Chiesa, in cui si è chiamati ad annunciare il Vangelo con coraggio e verve apostolica fino a quando il Signore Asceso non ritornerà alla fine della storia, esternando tutto il vigore che emerge dalla fede in Lui, esso non è limitativo ai primi apostoli ma interessa anche tutti e ciascuno di noi, che in forza dell'azione dello Spirito Santo, sulla scia e sull'esempio dei primi apostoli, siamo invitati a recare l'annunzio del Signore in ogni angolo della terra e d incarnare il Vangelo in tutte le circostanze del vissuto, specialmente in questo secolo confuso che più volte è stato tacciato di areligiosità e di indifferentismo etico e religioso per il quale si impone una nuova evangelizzazione. L' Ascensione del Signore comporta quindi per noi non la passività vuota dell'attesa ma l'entusiasmo attivo della missione e non può non vederci coinvolti in prima persona.
Oltretutto, come più volte si accennava nelle righe precedenti, l'Ascensione di Gesù non equivale alla sua assenza giacché egli, pur non immediatamente percepibile ai sensi, garantisce la sua costante vicinanza attraverso molteplici forme a addirittura ci rende certi della sua presenza reale e sostanziale nel Sacramento dell'Eucarestia che in modo del tutto speciale riafferma nella prassi quanto egli stesso aveva detto in precedenza:"Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo" Si tratta certo di una presenza non tattile, che si richiede il ricorso fiducioso alla fede, e tuttavia pur sempre di una presenza reale, certa ed edificante che incoraggia il nostro stesso agire missionario e qualifica il vivere quotidiano da cristiani e per ciò stesso nell'Ascensione noi vediamo un monito all'esercizio delle virtù che ci responsabilizzano di fronte al Gesù non visibile eppure presente.
Una volta risorto dai morti, Gesù ha vissuto altri 40 giorni fra i suoi discepoli, è apparso agli apostoli e a tante altre persone, ha esortato alla perseveranza nella fede e soprattutto al ministero di annuncio della sua Parola ("Andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo ad ogni creatura") e adesso sta salendo verso la dimensione del divino.
Ma che cosa comporta per gli apostoli l'avvenimento della salita al Cielo del loro Signore? Innanzitutto gli undici avvertono un certo senso di smarrimento e di angoscia per cui, attoniti e sconsolati, continuano a guardare la volta celeste fino a quando due (probabili) messaggeri di Dio non intervengono per rassicurarli con la promessa del ritorno di Gesù: si trovano in preda alla solitudine come orfani senza padre né madre mentre lo sconcerto e la preoccupazione si impossessano di loro al punto da ritrovarsi inceri e indecisi quanto al futuro. Chi non rimane deluso e sgomento quando nota l'assenza improvvisa di una persona che per lui era stata sempre importante? In simili circostanze chiunque avvertirebbe il peso del disorientamento e della solitudine, e gli apostoli ora non fanno eccezione sicché l'assenza di Gesù costituisce per loro una dura prova di non facile superamento. Ma la sparizione del Signore è tuttavia per loro anche uno sprone perché progrediscano più speditamente nella virtù e soprattutto nella maturità e nella responsabilità personali. Adesso che il loro Signore non sarà più riscontrabile con l'immediatezza dei sensi esterni, dovranno percepire la sua presenza, comunque certa e attiva, attraverso le prerogative della fede e dell'umiltà abbandonandosi alla speranza scaturita dalla Parola da Lui precedentemente annunziata; ora che non sentiranno più la sua voce materiale che li orientava e li indirizzava sul ministero e sulle scelte di organizzazione interna, dovranno provvedere essi stessi ad organizzare sotto tutti gli aspetti l'andamento della vita comunitaria e le varie iniziative per l'annuncio del messaggio di salvezza; ora che il Signore non è materialmente accanto a loro come quando compiva prodigi, dovranno essere essi stessi a dare segni della Sua presenza in mezzo al popolo attraverso la predicazione, la fermezza dell'apostolato e la carità.
Adesso insomma è il tempo della creatività e della spigliatezza missionaria che scaturisce dal previo, indispensabile, senso di formazione e di responsabilità personale nonché dal buon senso e dall'onestà nell'agire e dallo zelo operativo per il quale la causa del Vangelo assume priorità su tutto, anche sulla prospettiva di dover subire percosse e ritorsioni da parte dei nemici.
Come affermano gli esegeti, questo è il Tempo della Chiesa, in cui si è chiamati ad annunciare il Vangelo con coraggio e verve apostolica fino a quando il Signore Asceso non ritornerà alla fine della storia, esternando tutto il vigore che emerge dalla fede in Lui, esso non è limitativo ai primi apostoli ma interessa anche tutti e ciascuno di noi, che in forza dell'azione dello Spirito Santo, sulla scia e sull'esempio dei primi apostoli, siamo invitati a recare l'annunzio del Signore in ogni angolo della terra e d incarnare il Vangelo in tutte le circostanze del vissuto, specialmente in questo secolo confuso che più volte è stato tacciato di areligiosità e di indifferentismo etico e religioso per il quale si impone una nuova evangelizzazione. L' Ascensione del Signore comporta quindi per noi non la passività vuota dell'attesa ma l'entusiasmo attivo della missione e non può non vederci coinvolti in prima persona.
Oltretutto, come più volte si accennava nelle righe precedenti, l'Ascensione di Gesù non equivale alla sua assenza giacché egli, pur non immediatamente percepibile ai sensi, garantisce la sua costante vicinanza attraverso molteplici forme a addirittura ci rende certi della sua presenza reale e sostanziale nel Sacramento dell'Eucarestia che in modo del tutto speciale riafferma nella prassi quanto egli stesso aveva detto in precedenza:"Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo" Si tratta certo di una presenza non tattile, che si richiede il ricorso fiducioso alla fede, e tuttavia pur sempre di una presenza reale, certa ed edificante che incoraggia il nostro stesso agire missionario e qualifica il vivere quotidiano da cristiani e per ciò stesso nell'Ascensione noi vediamo un monito all'esercizio delle virtù che ci responsabilizzano di fronte al Gesù non visibile eppure presente.
giovedì 14 maggio 2009
17 maggio 2009 - VI Domenica di Pasqua
"Amiamoci gli uni gli altri". E l'imperativo che l'apostolo Giovanni non si stanca di rivolgere alla sua comunità. Egli sa bene quanto l'amore sia centrale nella vita dei discepoli. Lo ha appreso direttamente da Gesù. Ma più che da una lezione teorica o da un'esortazione morale, Giovanni ne ha fatto l'esperienza concreta. Ne ha potuto gustare la dolcezza e la tenerezza, ne ha visto la radicalità e l'ampiezza che giungeva sino all'amore per i nemici anzi sino al dono della stessa vita. Di questo amore Giovanni è stato un testimone privilegiato, un custode attento e un predicatore sollecito. Nella sua prima lettera vuole svelarne la natura e indicarne la fonte: "Amiamoci gli uni gli altri, perché l'amore è da Dio; chiunque ama è generato da Dio e conosce Dio" (I Gv 4,7). L'apostolo parla qui di un amore diverso da quello che normalmente noi intendiamo con questo termine. L'amore per noi è quel complesso di sentimenti che nasce spontaneo dal cuore, fatto di attrazione fisica, simpatia, desiderio, passione, compiacimento e soddisfazione di sé. Nel linguaggio del Nuovo Testamento per indicare tale amore si usa il termine greco "eros". L'apostolo usa, invece, la parola "agape" per indicare l'amore che nasce da Dio e che deve presiedere i rapporti tra i discepoli.
Per comprendere l'amore di Dio (l'agape) non bisogna perciò partire da noi stessi, dalle nostre speculazioni teoriche, dai nostri sentimenti o dalla nostra psicologia ma, appunto, da Dio. Le Sante Scritture sono il documento privilegiato per comprendere tale amore; esse infatti non sono altro che la narrazione della vicenda storica dell'amore di Dio per gli uomini. Pagina dopo pagina, nelle Sante Scritture scorgiamo un Dio che sembra non darsi pace finché non trova riposo nel cuore dell'uomo. Potremmo parafrasare per il Signore la nota frase che sant'Agostino applicava all'uomo: "Inquietum est cor meum...". Un sacerdote poeta, Davide Maria Turoldo, ha parlato del "cuore inquieto di Dio": egli è sceso sulla terra per cercare e salvare ciò che era perduto, per dare la vita a ciò che non aveva più vita. E un Dio che si fa mendicante, mendicante di amore. In verità, mentre Egli stende la mano per chiedere amore lo dà agli uomini. Egli è lo spirito che scende nella materia, è la luce che penetra nelle tenebre, per dare vita, per spiritualizzare, per elevare e salvare. Questo è l'amore cristiano: Dio che scende, gratuitamente, nel più basso per raggiungere l'amato. Sì, Dio è inquieto finché non trova l'uomo. E lo è a tal punto "da mandare il suo figlio unigenito perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna" (Gv 3,16). L'amore di Dio, potremmo dire, "è in discesa", si abbassa fino a giungere nel più profondo della vita degli uomini, e con una dedizione totale, "sino a dare la vita per i propri amici" come Gesù stesso dice. Medita ancora Giovanni nella sua prima lettera: "In questo sta l'amore (cristiano): non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati" (I Gv 4, 10). E' Dio che ama per primo, e ama perfino gli esseri immeritevoli del suo amore. E', in effetti, un amore totalmente gratuito; anzi immotivato. Dio, infatti, non ama i giusti, ma i peccatori, i quali non sono degni di essere amati. Paolo dice che Dio ha scelto le cose che non contano perché contassero; ha scelto le cose che sono abominevoli di fronte agli uomini, per farne oggetto della sua grazia (I Cor 1, 28).
Se l'intera Scrittura è la storia dell'amore di Dio sulla terra, i Vangeli ne mostrano il culmine. Perciò, se vogliamo balbettare qualcosa dell'amore di Dio, se vogliamo dargli un volto e un nome, possiamo dire che l'amore è Gesù. L'amore è tutto ciò che Gesù ha detto, vissuto, fatto, amato, patito... L'amore è cercare i malati, è avere amici noti peccatori e peccatrici, samaritani e samaritane, gente lontana, nemica e rifiutata. L'amore è dare la propria vita per tutti, è restare soli per non tradire il Vangelo, è avere come primo compagno in paradiso un condannato a morte, il ladro pentito... Questo è l'amore di Dio. Davvero altra cosa dall'eros, impastato di egoismi, di grettezze, degli sbalzi della nostra psicologia, dei nostri umori... Di tutto ciò ne abbiamo abbastanza; dell'agape ne abbiamo estremo bisogno. Il vuoto d'amore tra gli uomini sembra farsi più ampio e profondo, proprio mentre i legami di affetto e di amicizia si rivelano più fragili. L'egocentrismo dei singoli e dei gruppi si ispessisce e grava pesante su tutti. Tutti viviamo più soli e al tempo stesso sempre più preoccupati di difendere il nostro personale benessere. I legami di affetto tra gli uomini basati sull'attrazione "naturale" sono labili, basta poco per rovesciarli e distruggerli. E diventato raro legarsi per la vita e difficile sentire la definitività nei rapporti. L'eros, che ha nella soddisfazione personale più che nella felicità altrui la sua ragione d'essere, non è così forte da resistere alle tempeste e ai problemi della vita. Tante, tantissime sono le vittime che cadono su questo fragile e sdrucciolevole terreno. Solo l'agape è come la roccia salda che ci risparmia dalla distruzione, perché prima dell'io c'è l'altro. Gesù ce ne ha dato l'esempio anzitutto con la sua stessa vita. Può dunque dire ai discepoli: "Come il Padre ha amato me, così anch'io ho amato voi. Rimanete nel mio amore" (Gv 15, 9). Il rapporto esistente tra il Padre e il Figlio è posto come modello e fonte dell'amore cristiano. Certo, non può nascere da noi un tale amore, possiamo però riceverlo da Dio, se accolto, ha una forza dirompente: fa crollare i muri cominciando da quelli che costruiamo per difendere noi stessi, e apre il cuore e la vita verso una fraternità ampia, universale, che non conosce nemici. Genera insomma una nuova comunità di uomini e donne, ove l'amore di Dio si incrocia, quasi sino all'identificazione, con l'amore vicendevole.
L'uno infatti è causa dell'altro. Un noto teologo russo amava dire: "Non permettere che la tua anima dimentichi questo motto degli antichi maestri dello spirito: dopo Dio considera ogni uomo come Dio!". Questo tipo di amore è il segno distintivo di chi è generato da Dio. Ma non è proprietà acquisita una volta per tutte, né appartiene di diritto a questo o a quel gruppo. L'amore di Dio non conosce limiti e confini di nessun genere, supera il tempo e lo spazio; infrange ogni barriera di razza, di cultura, di nazione, persino di fede, come si legge negli Atti degli Apostoli quando lo Spirito riempì anche la casa del pagano Cornelio. L'agape è eterna; tutto passa, persino la fede e la speranza, l'amore resta per sempre, neppure la morte lo infrange, anzi è più forte di essa. A ragione Gesù può concludere: "Questo vi ho detto perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena" (Gv 15,11).
Per comprendere l'amore di Dio (l'agape) non bisogna perciò partire da noi stessi, dalle nostre speculazioni teoriche, dai nostri sentimenti o dalla nostra psicologia ma, appunto, da Dio. Le Sante Scritture sono il documento privilegiato per comprendere tale amore; esse infatti non sono altro che la narrazione della vicenda storica dell'amore di Dio per gli uomini. Pagina dopo pagina, nelle Sante Scritture scorgiamo un Dio che sembra non darsi pace finché non trova riposo nel cuore dell'uomo. Potremmo parafrasare per il Signore la nota frase che sant'Agostino applicava all'uomo: "Inquietum est cor meum...". Un sacerdote poeta, Davide Maria Turoldo, ha parlato del "cuore inquieto di Dio": egli è sceso sulla terra per cercare e salvare ciò che era perduto, per dare la vita a ciò che non aveva più vita. E un Dio che si fa mendicante, mendicante di amore. In verità, mentre Egli stende la mano per chiedere amore lo dà agli uomini. Egli è lo spirito che scende nella materia, è la luce che penetra nelle tenebre, per dare vita, per spiritualizzare, per elevare e salvare. Questo è l'amore cristiano: Dio che scende, gratuitamente, nel più basso per raggiungere l'amato. Sì, Dio è inquieto finché non trova l'uomo. E lo è a tal punto "da mandare il suo figlio unigenito perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna" (Gv 3,16). L'amore di Dio, potremmo dire, "è in discesa", si abbassa fino a giungere nel più profondo della vita degli uomini, e con una dedizione totale, "sino a dare la vita per i propri amici" come Gesù stesso dice. Medita ancora Giovanni nella sua prima lettera: "In questo sta l'amore (cristiano): non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati" (I Gv 4, 10). E' Dio che ama per primo, e ama perfino gli esseri immeritevoli del suo amore. E', in effetti, un amore totalmente gratuito; anzi immotivato. Dio, infatti, non ama i giusti, ma i peccatori, i quali non sono degni di essere amati. Paolo dice che Dio ha scelto le cose che non contano perché contassero; ha scelto le cose che sono abominevoli di fronte agli uomini, per farne oggetto della sua grazia (I Cor 1, 28).
Se l'intera Scrittura è la storia dell'amore di Dio sulla terra, i Vangeli ne mostrano il culmine. Perciò, se vogliamo balbettare qualcosa dell'amore di Dio, se vogliamo dargli un volto e un nome, possiamo dire che l'amore è Gesù. L'amore è tutto ciò che Gesù ha detto, vissuto, fatto, amato, patito... L'amore è cercare i malati, è avere amici noti peccatori e peccatrici, samaritani e samaritane, gente lontana, nemica e rifiutata. L'amore è dare la propria vita per tutti, è restare soli per non tradire il Vangelo, è avere come primo compagno in paradiso un condannato a morte, il ladro pentito... Questo è l'amore di Dio. Davvero altra cosa dall'eros, impastato di egoismi, di grettezze, degli sbalzi della nostra psicologia, dei nostri umori... Di tutto ciò ne abbiamo abbastanza; dell'agape ne abbiamo estremo bisogno. Il vuoto d'amore tra gli uomini sembra farsi più ampio e profondo, proprio mentre i legami di affetto e di amicizia si rivelano più fragili. L'egocentrismo dei singoli e dei gruppi si ispessisce e grava pesante su tutti. Tutti viviamo più soli e al tempo stesso sempre più preoccupati di difendere il nostro personale benessere. I legami di affetto tra gli uomini basati sull'attrazione "naturale" sono labili, basta poco per rovesciarli e distruggerli. E diventato raro legarsi per la vita e difficile sentire la definitività nei rapporti. L'eros, che ha nella soddisfazione personale più che nella felicità altrui la sua ragione d'essere, non è così forte da resistere alle tempeste e ai problemi della vita. Tante, tantissime sono le vittime che cadono su questo fragile e sdrucciolevole terreno. Solo l'agape è come la roccia salda che ci risparmia dalla distruzione, perché prima dell'io c'è l'altro. Gesù ce ne ha dato l'esempio anzitutto con la sua stessa vita. Può dunque dire ai discepoli: "Come il Padre ha amato me, così anch'io ho amato voi. Rimanete nel mio amore" (Gv 15, 9). Il rapporto esistente tra il Padre e il Figlio è posto come modello e fonte dell'amore cristiano. Certo, non può nascere da noi un tale amore, possiamo però riceverlo da Dio, se accolto, ha una forza dirompente: fa crollare i muri cominciando da quelli che costruiamo per difendere noi stessi, e apre il cuore e la vita verso una fraternità ampia, universale, che non conosce nemici. Genera insomma una nuova comunità di uomini e donne, ove l'amore di Dio si incrocia, quasi sino all'identificazione, con l'amore vicendevole.
L'uno infatti è causa dell'altro. Un noto teologo russo amava dire: "Non permettere che la tua anima dimentichi questo motto degli antichi maestri dello spirito: dopo Dio considera ogni uomo come Dio!". Questo tipo di amore è il segno distintivo di chi è generato da Dio. Ma non è proprietà acquisita una volta per tutte, né appartiene di diritto a questo o a quel gruppo. L'amore di Dio non conosce limiti e confini di nessun genere, supera il tempo e lo spazio; infrange ogni barriera di razza, di cultura, di nazione, persino di fede, come si legge negli Atti degli Apostoli quando lo Spirito riempì anche la casa del pagano Cornelio. L'agape è eterna; tutto passa, persino la fede e la speranza, l'amore resta per sempre, neppure la morte lo infrange, anzi è più forte di essa. A ragione Gesù può concludere: "Questo vi ho detto perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena" (Gv 15,11).
giovedì 7 maggio 2009
10 Maggio 2009 - V Domenica di Pasqua
C'è un'immagine estremamente espressiva: la vite e i tralci. Il tralcio è fatto per portare frutto. Se non porta frutto viene tagliato e si secca. Il tralcio che porta frutto viene potato perché porti più frutto, frutto abbondante. La stessa cosa è per noi: solo uniti a Cristo siamo vivi, portiamo frutto. E questo nella misura in cui accettiamo la potatura: così si può portare veri frutti, non a parole, ma coi fatti (come ci ha detto la lettera di Giovanni). Senza di me non potete fare nulla: così ci dice Gesù con amore e con chiarezza. Possiamo avere la sensazione o la illusione di fare tante cose da soli, anche senza Cristo. Queste parole a noi potrebbero sembrare presuntuose. "Non potete fare nulla". Nulla? A noi può sembrare il contrario: chi non crede in Gesù fa soldi, carriera, successo... Ma dobbiamo fare attenzione: il vangelo non lo si può addomesticare o dimezzare. Gesù è molto chiaro e va preso sul serio, perché in Lui c'è la verità e non le illusioni. Ci può essere anche un pericolo: di rimanere in unione con Cristo in qualche momento, quando preghiamo o facciamo qualche riflessione. Non è possibile per un tralcio essere un po' unito e un po' staccato, tanto più non è possibile per noi riferirci a Cristo ogni tanto, qualche volta, quando ci viene e in me o quando ci piace. "Rimanete in me e Io in voi": dobbiamo rimanere ed essere sempre uniti a Cristo, sempre e in ogni azione della giornata. E' una cosa pesante, difficile, noiosa? E' pesante, difficile, noioso respirare continuamente, o essere sempre sotto l'influsso del sole per vivere? Non c'è nulla di più facile, di più immediato, di più naturale. E' più difficile fare diversamente, lasciarsi andare ai propri capricci, se ne portano tante conseguenze di sofferenze e di morte: il tralcio secco, che non porta frutto, viene tagliato e gettato nel fuoco. Senza di me non potete fare nulla. Con Cristo possiamo fare tanto, possiamo fare tutto. "Tutto posso in Colui che mi dà forza". "Nulla è impossibile a Dio". Abbiamo l'esempio di tanti Santi, i quali uniti a Cristo, hanno potuto fare cose grandi e hanno offerto alla Chiesa e all'umanità frutti prodigiosi di bene. La Parola ci aiuta a capire e a vivere il nostro rapporto con Dio: tralci uniti alla vite. Ci aiuta pure a capire e a vivere il nostro rapporto con gli altri, perché tutti facciamo parte dell'unica vigna del Signore, vigna curata dal Signore e dal suo Spirito che viene. S. Giovanni ci presenta la vita della comunità cristiana e ne sottolinea gli elementi più importanti. Ci invita ad amare non con parole, ma con i fatti e nella verità. Questo è il comandamento: che crediamo nel nome del Figlio Gesù Cristo e ci amiamo gli uni gli altri. Credere in Gesù e amarci gli uni gli altri: questo è vivere il suo comandamento per dimorare in Dio. "Rimanete uniti a Me" dice il Signore. E' importante partire dall'esperienza della preghiera e dell'amore davanti a Dio: momento forte di unità, di vicinanza con Lui, dove si trova luce, forza e si impara a rimanere uniti a Lui nella vita di ogni giorno. "Voi siete i tralci". I tralci sono persone concrete, di ogni giorno, persone che si incontrano al lavoro, nella strada. Nel mondo ci sono tralci che rivelano la presenza di una vite che è Cristo? Se la parola di Cristo è vera, ci devono essere persone nelle quali si possa vedere la vita di Cristo, il Risorto. Guardiamoci attorno: oggi quanti tralci vivi si vedono! Non fanno chiasso, come fa' chiasso il male: "Un albero che cade fa più rumore di un'intera foresta che cresce". Pensiamo ai cristiani che vivono e costruiscono le più varie forme di bene, nelle famiglie, nelle parrocchie, nelle opere di carità, nel volontariato, negli impegni sociali. Pensiamo agli uomini straordinari del ventesimo secolo: Padre Pio, Don Luigi Orione, Raoul Follereau, il dottor Schweitzer, Padre Kolbe, Madre Teresa, Giovanni Paolo II e tantissimi altri... Domenico Mondrone ha pubblicato sei volumi col titolo significativo: "I Santi ci sono ancora". Sono tutte brevi biografie di donne e uomini straordinari di questo nostro tempo. Ecco allora un pensiero consolante: non è possibile questa fioritura di tralci senza una vite: non sono possibili questi uomini e queste donne senza una presenza di Cristo! Ma Gesù continua: "Ogni tralcio che in me non porta frutto il Padre lo toglie; e ogni tralcio che porta frutto lo pota perché porti più frutto" (Gv 15,2). Questa potatura è il mistero che talvolta ci chiude gli occhi, perché non lo vogliamo accettare. E il motivo è questo: siamo tutti un po' materialisti; accomodati nel mondo e non pellegrini e forestieri in questo mondo. Ecco allora le prove, il dolore, le persecuzioni, la croce...: sono la strada erta e difficile che porta alla salvezza; sono la potatura, che se accettata, ci matura, ci fa portare frutti abbondanti, ci libera da tante mondanità. Nella prima lettura si è parlato di Paolo. Paolo non dubita di Cristo che l'ha chiamato sulla strada di Damasco. Sarà lui a dire un giorno: "lo sovrabbondo di gaudio in tutte le mie tribolazioni" (2 Cor 7,4). "Non ho niente eppure possiedo tutto" (2 Cor 6,10). "Completo in me la passione di Cristo" (Col 1,24). "Sono iniziato a tutto, in ogni maniera: alla sazietà e alla fame, all'abbondanza e all'indigenza. Tutto posso in Colui che mi dà la forza" (Fil 4,12-13). L'esperienza di Paolo e quella ti tante anime belle e generose ci fa vedere che non sono parole, ma fatti. E' la storia di tante esistenze luminose, veri fari di bontà e di solidarietà, che dal legame con Cristo hanno tratto la forza necessaria per affrontare momenti difficili, per dare buona testimonianza, che hanno affrontato con coraggio - essi, tante volte semplici e poveri – situazioni gravose e hanno fatto risplendere la potenza e la vittoria di Cristo.
mercoledì 22 aprile 2009
26 Aprile 2009 - III Domenica di Pasqua
Dopo l'apparizione alle donne, quel mattino del primo giorno dopo il sabato, dopo che Pietro, incredulo, si era recato al sepolcro e, trovatolo vuoto, " tornò a casa pieno di stupore", ecco che Gesù affianca, nel loro cammino verso Emmaus, due discepoli, dei quali il Vangelo non dà l'identità, sappiamo, però, quanto fossero sgomenti e delusi, se l'autore del testo, mette sulle loro labbra queste parole: "noi speravamo che fosse lui il liberatore di Israele; ma son passati tre giorni...alcune donne ci hanno sconvolti...sono venute a dirci di aver avuto una visione di angeli, i quali affermano che egli è vivo...alcuni dei nostri sono andati al sepolcro, ma lui non l'hanno visto..." Un racconto stupendo, questo di Emmaus, un'esperienza nella quale quasi tutti ci siamo trovati, o, di fatto, ancora, per certi versi, ci troviamo, dato che la Presenza del Risorto, non è necessariamente visibile o tangibile, come qualunque altra presenza umana, fisicamente situata nel nostro orizzonte storico. "...ma Lui non l' hanno visto.."; quella di Cristo risorto, infatti, è una presenza di Grazia, di fede, ed è intelligibile, soltanto da un cuore, illuminato e fedele. Conosciamo tutti il racconto di Emmaus, sappiamo come bruciasse il cuore dei due discepoli, mentre il misterioso compagno di viaggio, spiegava le Scritture, e sappiamo, anche, quel che accadde alla locanda, quando, accingendosi a consumare la cena, "i loro occhi si aprirono e lo riconobbero", mentre l' Ospite, spezzava il pane, dopo aver detto la benedizione. In quello stesso momento, il Signore si sottrasse alla loro vista: il dono del Risorto aveva raggiunto il cuore dei discepoli, la luce della fede si era accesa, e si era riaccesa la speranza e l'amore, quell'amore che li ricondusse, poi, in fretta a Gerusalemme dagli apostoli, ai quali riferire l'evento: avevano riconosciuto il Signore Risorto alla frazione del Pane, avevano percorso un tratto di strada con Lui, avevano accolto nella mente, ormai illuminata, il senso delle Scritture, che convergono verso Cristo, unico Signore della Storia e unico Salvatore. Ora, nel cenacolo, ove si trovano gli Undici, che ascoltano i due rientrati da Emmaus, Cristo appare nuovamente, e questa sua apparizione è come il sigillo, che autentica quel racconto che aveva lasciato i discepoli, quasi sicuramente, scettici, se, di fronte all'improvvisa presenza del Cristo, rimasero ".. stupiti e spaventati, e credevano di vedere un fantasma." Il Signore risorto non è un fantasma, ed Egli stesso lo sottolinea: "Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io! Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne e ossa come vedete che io ho "; e Luca aggiunge quel particolare, così concreto, corposo e, al tempo stesso, tenero, della richiesta di cibo da parte del Maestro, quel pesce, che Egli mangiò arrostito. Una scena stupenda, calda e familiare, un tocco di delicatezza infinita, per quelle povere menti stordite dagli eventi, e per le nostre povere menti, che ancora vacillano, davanti alla grandezza sconfinata della Vita che ha vinto la morte. La Pasqua di Cristo, la sua Resurrezione, è la celebrazione della Vita, la rivelazione piena del mistero di Dio incarnato in Gesù di Nazareth, e del mistero dell'uomo, a Lui indissolubilmente legato, e per Lui destinato anch'egli a vincere la morte; è la grazia della Redenzione. La nostra pienezza di vita in Cristo è dono della Pasqua; la Liturgia eucaristica di questa domenica la offre, ancora una volta, alla nostra contemplazione, per la nostra gioia, per una pace da gustare e vivere in profondità di fede, in modo tale che diventiamo capaci di comunicare e testimoniare questi stessi doni agli altri. Nel nostro oggi, nella storia presente, in quel piccolo segmento di storia, che ognuno scrive, deve esser reso presente Cristo, con i segni della Passione e lo splendore della Resurrezione, il Cristo che la Chiesa incessantemente annuncia. Non è un discorso di sole parole, ma la testimonianza di un'esistenza, che sa, quanto grande sia stato il prezzo della redenzione: la Croce di Cristo, che la Scrittura ci ricorda e che ritroviamo nel Pane spezzato e nel calice del Sangue sparso. I segni della Passione, lo strazio della croce, neppure la gioia della Pasqua può cancellarli, è con essi che Cristo si presenta e si fa riconoscere: i segni del dolore sono anche i segni della gloria del Cristo, i segni dell'amore infinito di Dio per ogni uomo. A questo riguardo, il Papa Giovanni Paolo II, nella Enciclica "Dives in Misericordia", scriveva: "La croce è il più profondo chinarsi della divinità sull'uomo e su ciò che l'uomo chiama il suo infelice destino. La croce è come un tocco dell'eterno amore, sulle ferite più dolorose dell'esistenza terrena dell'uomo, è il compimento, sino alla fine, del programma messianico che Cristo formulò una volta, nella sinagoga di Nazareth: «Il Signore mi ha mandato a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vita, a predicare un anno di grazia del Signore...» (Lc 4, 18 19). La dimensione divina della redenzione, non si attua soltanto nel far giustizia del peccato, ma nel restituire all'amore, quella forza creativa nell'uomo, grazie alla quale, egli ha nuovamente accesso alla pienezza di vita e di santità che proviene da Dio " La celebrazione della Pasqua, questo lungo Tempo liturgico, che ci conduce nelle profondità Mistero, per esserne illuminati e rivitalizzanti, deve farci avvertire, con maggiore intensità e gioia crescente, la vocazione alla santità, quella santità quotidiana, che è esperienza viva e profonda della comunione col Padre, nel Figlio, e nello Spirito, esperienza della Presenza viva, da adorare, da amare e da proclamare ogni giorno, per condurre altri alla medesima comunione.
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