giovedì 13 novembre 2025

16 NOVEMBRE 2025 – XXXIII DOMENICA DEL T.O.


Lc 21,5-19 
In quel tempo, mentre alcuni parlavano del tempio, che era ornato di belle pietre e di doni votivi, Gesù disse: «Verranno giorni nei quali, di quello che vedete, non sarà lasciata pietra su pietra che non sarà distrutta». Gli domandarono: «Maestro, quando dunque accadranno queste cose e quale sarà il segno, quando esse staranno per accadere?». Rispose: «Badate di non lasciarvi ingannare. Molti infatti verranno nel mio nome dicendo: “Sono io”, e: “Il tempo è vicino”. Non andate dietro a loro! Quando sentirete di guerre e di rivoluzioni, non vi terrorizzate, perché prima devono avvenire queste cose, ma non è subito la fine». Poi diceva loro: «Si solleverà nazione contro nazione e regno contro regno, e vi saranno in diversi luoghi terremoti, carestie e pestilenze; vi saranno anche fatti terrificanti e segni grandiosi dal cielo. Ma prima di tutto questo metteranno le mani su di voi e vi perseguiteranno, consegnandovi alle sinagoghe e alle prigioni, trascinandovi davanti a re e governatori, a causa del mio nome. Avrete allora occasione di dare testimonianza. Mettetevi dunque in mente di non preparare prima la vostra difesa; io vi darò parola e sapienza, cosicché tutti i vostri avversari non potranno resistere né controbattere. Sarete traditi perfino dai genitori, dai fratelli, dai parenti e dagli amici, e uccideranno alcuni di voi; sarete odiati da tutti a causa del mio nome. Ma nemmeno un capello del vostro capo andrà perduto. Con la vostra perseveranza salverete la vostra vita».

 Il vangelo di oggi per noi moderni è sicuramente di non facile comprensione: riferimenti e allusioni sono oscuri, lontani dalla nostra mentalità. Tuttavia è possibile individuare tre passaggi, su cui concentrare la nostra attenzione, e ricavarne un utile insegnamento. 
Primo passaggio: “alcuni parlavano del tempio, che era ornato di belle pietre e di doni votivi…” (21,5).
Sono parole che non si adattano solo al Tempio; forse sono ancor più riferibili ai “frequentatori del Tempio”, cioè a tutti noi cristiani; basta guardarci attorno! Quanti si atteggiano per quelli che non sono; quante volte amiamo esibire in pubblico le nostre “pietre preziose” spirituali, le nostre pratiche religiose, le nostre “buone” opere, la nostra messa, i nostri rosari, le nostre elemosine, ostentando in esse una fede e una carità che forse in realtà non abbiamo; quante volte ci accontentiamo di una pietà che si accontenta di portare al collo costosi ornamenti, come rosari, crocifissi e medaglie varie, piuttosto che coltivare in umiltà e sincerità, nel segreto del nostro cuore, il nostro intimo rapporto con Dio!
Per molti, essere cristiani “praticanti”, purtroppo, si esaurisce qui: ma, dice Gesù, tutto quello che vedete, tutto quello che è esteriore, tutto quello che è esibizione e amor proprio, tutto verrà distrutto; tutto si rivelerà un nulla, senza alcun valore.
Secondo passaggio: “Badate di non lasciarvi ingannare. Molti verranno nel mio nome. Non andate dietro a loro!” (21,8).
Dobbiamo veramente stare molto attenti: oggi purtroppo siamo costretti a convivere con tantissimi pseudo profeti (studiosi, teologi e preti, guaritori, influencer, ciarlatani ecc.); con gente che pur di consolidare il proprio prestigio, pur di avere un “ritorno” mondano, applausi, gloria mediatica, sono pronti a vendersi l’anima, promuovendo la sapienza venefica di satana, piuttosto che il messaggio salvifico di Cristo. Gente dall’apparenza melliflua, affabile, disponibile, cordiale, che si presenta come testimone e dispensatrice dell’amore di Dio, ma che in realtà è diabolica, mirando esclusivamente all’auto affermazione.
Terzo passaggio: Sarete traditi perfino dai genitori, dai fratelli, dai parenti e dagli amici…; sarete odiati da tutti a causa del mio nome. Ma nemmeno un capello del vostro capo andrà perduto (21,16-18).
Può capitare anche a noi di essere traditi e abbandonati da tutti, ma in ogni caso noi non saremo mai soli. Dio continuerà sempre a starci vicino, pronto a venire in nostro aiuto, anche se lo rinneghiamo, anche se non lo vogliamo. Può succedere qualunque terremoto, qualunque disgrazia: ciò che deve tranquillizzarci è la certezza di avere ogni momento Gesù al nostro fianco. Con Lui vicino non potrà mai succederci alcunché di “male”.
Allora, se siamo convinti di questo, perché preoccuparci tanto? Perché vivere continuamente nell’ansia, nell’angoscia?
L’angoscia, lo sappiamo, è un male tremendo, è un male mortale: è la sensazione di poter cadere ogni istante in un baratro profondo, vittime del male, senza che nessuno possa aiutarci.
È un terrore costante che ci priva di qualunque certezza; è quel sentimento che ci mette di fronte alla nostra impotenza, ai nostri limiti, che ci fa temere un crollo improvviso e totale di tutto ciò che ci circonda.
È un sentimento oggi molto diffuso nella nostra società moderna: noi tutti, in qualche modo, viviamo nell’angoscia: siamo angosciati per il nostro domani, per la possibilità di perdere il lavoro, per non riuscire ad arrivare a fine mese. Siamo tutti ossessionati dalle malattie, dalle disgrazie, dalla possibilità di altre guerre, dalla possibilità di inondazioni, di calamità naturali. E come se non bastasse, in fondo in fondo, quello che più ci angoscia, più ci terrorizza è l’idea della morte: la drammatica e tragica fine della nostra vita, di quando cioè saremo costretti nostro malgrado ad abbandonare tutto, a perdere ogni cosa, a separarci da tutto ciò che siamo, da tutto ciò che abbiamo e amiamo.
Cosa dobbiamo fare, allora, per combattere questa sensazione velenosa? Quale via dobbiamo seguire per ridurre questa sensazione che ci paralizza, che ci rende invalidi?
Per prima cosa dobbiamo portare luce nel nostro buio, non dobbiamo aver paura, cioè, di scoprirci, di mettere tutto il nostro intimo alla luce del Sole divino. Perché più abbiamo cose da nascondere, più le teniamo segrete, più ci sentiamo in colpa per quanto avremmo dovuto fare e non abbiamo fatto, o abbiamo fatto e non avremmo dovuto fare.
Più abbiamo zone buie dentro di noi, più nascondiamo in noi ombre e mostri, più vivremo nell’angoscia; più faremo luce e verità dentro di noi, meno sarà la nostra ansia, meno saremo assaliti dall’inquietudine.
Dobbiamo avere costantemente fiducia in Dio: la fede vera in Dio, è l’esatto opposto dell’angoscia: Lui c’è, Lui ci accompagna, Lui vuole il nostro bene, Lui ci sostiene, Lui ci dà e ci darà sempre forza e coraggio. E questo ci deve bastare. Amen.


giovedì 6 novembre 2025

9 NOVEMBRE 2025 – DEDICAZIONE DELLA BASILICA LATERANENSE


Gv 2-13-22 
Si avvicinava intanto la Pasqua dei Giudei e Gesù salì a Gerusalemme. Trovò nel tempio gente che vendeva buoi, pecore e colombe e, là seduti, i cambiamonete. Allora fece una frusta di cordicelle e scacciò tutti fuori dal tempio, con le pecore e i buoi; gettò a terra il denaro dei cambiamonete e ne rovesciò i banchi, e ai venditori di colombe disse: «Portate via di qui queste cose e non fate della casa del Padre mio un mercato!». I suoi discepoli si ricordarono che sta scritto: Lo zelo per la tua casa mi divorerà. Allora i Giudei presero la parola e gli dissero: «Quale segno ci mostri per fare queste cose?». Rispose loro Gesù: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere». Gli dissero allora i Giudei: «Questo tempio è stato costruito in quarantasei anni e tu in tre giorni lo farai risorgere?». Ma egli parlava del tempio del suo corpo. Quando poi fu risuscitato dai morti, i suoi discepoli si ricordarono che aveva detto questo, e credettero alla Scrittura e alla parola detta da Gesù.

Il vangelo di oggi ci porta a Gerusalemme, in prossimità del Tempio. Siamo in prossimità della Pasqua e Gesù, come gli ebrei provenienti dai centri più lontani, giunto a Gerusalemme, sale al Tempio per compiere i riti obbligatori per tale festività.
E qui, sotto i portici, dove normalmente stazionano i venditori della merce e degli animali da offrire a Dio, ci sono anche i cambiavalute, ossia quei personaggi che, approfittando dell’affluenza di grandi folle provenienti da ogni dove, stazionavano per incassare le loro tangenti, cambiando le monete di Roma, ormai diffuse ovunque, raffiguranti l’effige di Cesare o di altre divinità pagane, con le monete ebraiche, le uniche ammesse nel Tempio per le offerte in denaro.
Questo episodio, raccontato da tutti e quattro gli evangelisti, è decisamente insolito e strano nella vita di Gesù. Infatti, quando ci immaginiamo Gesù, noi ci raffiguriamo la sua tenerezza, il suo amore, la sua dolcezza. Ma qui, invece, c’è un Gesù forte, violento, passionale: assalito da una rabbia cieca, dallo zelo per Dio, per tutto ciò che è sacro, inizia a menar colpi a destra e a sinistra. Solo che tutto ciò, contro cui Gesù si scaglia, era legale, era ammesso per motivi rituali, religiosi. Gli animali e le offerte in denaro costituivano la materia per i sacrifici a Dio, per propiziarsi la sua benevolenza. Per cui Gesù, agendo così, si scaglia contro la religione del Tempio, contro cioè la legalità di quel tempo.
Gesù non ha mai accettato una religione disumana, la religione della formalità, del sopruso e dell’ingiustizia. Diceva: “Qui Dio non c’è. Qui si parla di Dio, su Dio, per Dio, ma non con Dio. Qui Dio non c’è”. E chiaramente le sue parole sono un invito valido anche per noi, di non accettare superficialmente cioè qualunque nuova proposta, solo perché “religiosa” o etichettata col nome di “Dio”.
Gesù non fu un religioso come tutti gli altri. Egli si comportò sempre in aperto conflitto con la sua religione, perché così com’era concepita dai sacerdoti del tempo, era senza fede e senza Dio. Gesù raccomandava sempre a tutti: “Convertitevi” (Mc 1,15). I primi facevano un’offerta di denaro o di animali; i suoi fedeli offrivano e cambiavano la propria vita. I primi vivevano in base alle prescrizioni della Legge, della Torah e dell’osservanza; i secondi in base alle leggi e alle prescrizioni del cuore. I primi si sentivano in pace, completamente in regola, quando avevano osservato la legge, magari compiendo anche crimini orribili (Gv 8,2-11). Se la legge lo permetteva, era lecito. La loro morale veniva dall’esterno, da quello che è stabilito socialmente. I secondi erano in pace solo quando avevano rispettato le leggi del cuore, dell’anima, dell’umanità e dell’amore. La loro morale veniva dall’interno, dalla loro coscienza.
Questo ci fa molto riflettere: anche oggi esiste una religione (istituzioni, riti, preghiere, norme, leggi) senza Dio. Si può essere “religiosi”, ma essere dominati dalla sete di potere, di controllo, di possesso, di paura. Si può essere religiosi, ma non aver fede. Fare tutto in nome di Dio, senza avere Dio, senza conoscerlo, senza amarlo. Appartenere ad una religione non significa avere la Fede.
Gesù dunque fu un uomo in aperto conflitto con la sua religione. Ci sono persone che entrano in conflitto con la religione ufficiale. Alcuni perché trovano il suo contenuto vuoto e insignificante: filosofi, artisti, studiosi. Altri entrano in conflitto perché la ritengono superflua, “non ci serve”: scienziati, dottori e fisici. Altri entrano in conflitto perché la religione ostacola la loro vita e impedisce i loro interessi, perché ricorda loro la morale, il primato dell’anima, della vita, del bene comune e dell’amore. Sono politici, impresari, economisti, i potenti coloro che hanno molti soldi. Altri ancora entrano in conflitto perché non vogliono riflettere, porsi domande, mettersi in discussione e non vogliono che nessuno ricordi loro di avere un’anima. Ma ci sono anche alcune persone che entrano in conflitto con la religione esistente perché la amano davvero, perché la prendono più seriamente dei suoi rappresentanti; perché hanno sete di giustizia, di verità e di libertà. Gesù è stato così!
Come possiamo leggere questo gesto di Gesù? Il gesto di Gesù ha un senso molto profondo. Tant’è vero che questa sua frase: “Distruggete questo tempio in tre giorni e lo farò risorgere” verrà utilizzata durante il suo processo per farlo condannare. Mentre i Giudei pensano al tempio costruito in 46 anni (che sarà comunque distrutto!), Gesù parla del tempio del suo corpo, parla di sé stesso. Questa per gli Ebrei era una bestemmia, perché il tempio era il centro della vita religiosa, sociale e politica.
Ogni giorno al tempio veniva ammazzato alle 9 del mattino e alle 3 del pomeriggio un agnello. È il culto dato a Dio attraverso le cose: Dio lo si ama offrendogli qualcosa, una preghiera, una buona azione, un’offerta o un sacrificio. Ma Gesù tronca questo tipo di rapporto fondato sul sangue e sulla macellazione degli animali: perché il vero agnello sarebbe morto proprio alle 3 del pomeriggio. Gesù, l’Agnello di Dio, morirà alle 3 del pomeriggio: Lui è il nuovo culto, il nuovo tempio. Gesù è il “luogo” di Dio.
Non si va più al tempio per in-graziarsi Dio, ma si va da Gesù per rin-graziare Dio. Dio, cioè, non lo si ama più offrendogli delle cose, dei beni, delle offerte, delle cose, ma se stessi, la propria vita e la propria persona. Il vero culto non è più il tempio, ma l’uomo.
È un gesto che significa la rottura di un vecchio sistema di fare culto a Dio e di fare religiosità. Di qui la relativizzazione di tutti i luoghi di culto. “Va in chiesa, dà le tue offerte, fa’ i tuoi sacrifici, i tuoi digiuni: ma ricordati che il vero culto passa solo attraverso il cambiamento del tuo cuore e della tua vita”. Allora questo gesto assume un profondo significato per tutti noi.
Possiamo infatti ricavare molte considerazioni istruttive, anche solo elencando le cose e i personaggi del racconto.
Ecco allora che il tempio di Dio sono io: sei tu, è chiunque, è l’uomo: un tempio che ha bisogno di purificazioni, di continue “manutenzioni”: è necessario che tutti i suoi “mercanti” siamo scacciati fuori.
I venditori e i cambiavalute? Sono io: quando vendo il mio tempo, la mia dignità, la mia persona per l’approvazione, il successo, la potenza. Quando ho così tanto da fare che rinuncio all’amore e all’essere amati (non ho tempo!); quando rinuncio ai figli, al giocarci assieme; allo stupore della vita, al silenzio, al cielo e alle stelle; quando rinuncio alla mia persona, al mio pensiero, alla mia originalità, a seguire la mia unica strada, a ciò che sono per conformarmi o per non essere tagliato fuori; quando rinuncio ad osare, a cambiare, a credere che ci sia un sogno di Dio su di me.
I “venditori”, in particolare, sono io quando credo che “tutto si può comprare”, che i soldi fanno tutto: povero me! In un romanzo Satana dice a Dio: “Se vuoi che l’uomo corra da te, proponigli del denaro e vedrai quanto ti ama!”. Sono io che vendo ciò che sono, vendo la mia unicità, la mia originalità e mi lascio possedere dagli standard comuni, dalle mode, e dai banditori di false illusioni. I “cambiavalute” sono sempre io quando cerco di piacere agli altri, di essere disponibile, attento, servizievole, pur di essere considerato positivamente, oggetto di ottime referenze: in questo modo la valutazione del mio valore morale non dipende da me, non sono io a stabilirlo consultando direttamente la mia coscienza su chi sono, su cosa faccio e su come mi comporto; ma la faccio dipendere da fuori, da come gli altri mi vedono all’esterno, dalla stima e dal giudizio che gli altri nutrono sulla mia persona per quel che io faccio loro vedere: pensate a cosa è disposta a sottoporsi la gente pur di essere valutata, stimata, considerata!
Nel tempio, poi, ci sono gli animali. Anche nella nostra vita ci sono istinti animali, brutali. “Non lo sopporto”; “lo ucciderei”; “non lo voglio neanche vedere”: è l’odio, il desiderio brutale di essere i primi, di essere “di più”: una competizione che uccide. Come credete che nascano le guerre? È esattamente in grande ciò che avviene nel piccolo. “Lo ucciderei!”, e dall’azione si passa ai fatti.
Le colombe e gli uccelli del nostro tempio sono tutti i pensieri che abbiamo dentro. Sono “uccelli” sempre liberi di scorrazzare nel cielo della nostra mente. I pensieri volano di qua e di là e noi dipendiamo continuamente dal loro andare. Non siamo più liberi, siamo dominati da essi. Ci sono pensieri, idee, che non ci lasciano mai in pace, che ci torturano, fantasmi che diventano realtà. Ci sono cose che non ci siamo mai perdonati. Pensieri tipo: “Quello lì ce l’ha con noi” (e non è vero!); “L’ha fatto apposta!”; che siamo i soliti sbagliati, i soliti sfortunati; che nessuno ci voglia bene; tutti pensieri che si impadroniscono del tempio della nostra vita e noi ne siamo dominati. Ci sono persone che non sanno altro che fare e produrre i soliti discorsi. Bene, quei discorsi, quei pensieri sono diventati i padroni della loro vita. Così uno non fa altro che parlare male del vicino; uno che pensa e parla continuamente solo di soldi; un altro di lavoro; un altro di sesso e di donne; un altro ancora che è sempre arrabbiato.
Ebbene, c’è un'unica alternativa: o siamo tempio di mercato o siamo tempio di Dio. E allora, non sarebbe ora di fare, anche noi, una bella purificazione? O aspetteremo così tanto finché nulla sarà più possibile e tutto andrà distrutto? (Lc 21,5-6)? Amen.

venerdì 31 ottobre 2025

2 NOVEMBRE 2025 – COMMEMORAZIONE DI TUTTI I FEDELI DEFUNTI


Gv 6-37-40 
In quel tempo, Gesù disse alla folla: «Tutto ciò che il Padre mi dà, verrà a me: colui che viene a me, io non lo caccerò fuori, perché sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato. E questa è la volontà di colui che mi ha mandato: che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma che lo risusciti nell’ultimo giorno. Questa infatti è la volontà del Padre mio: che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna; e io lo risusciterò nell’ultimo giorno».

La XXXI Domenica del Tempo Ordinario coincide quest’anno con l’annuale Commemorazione dei fedeli defunti, che cade sempre il 2 novembre.
Oggi, domenica, è il giorno del Signore, è la Pasqua settimanale. In questo giorno ricordiamo la risurrezione di Cristo, preludio e caparra della nostra definitiva risurrezione, di quando cioè la risurrezione della carne sarà non più una verità creduta, ma una realtà vissuta da coloro che fanno già parte dell’eternità con la loro anima.
La fede nella risurrezione dei corpi, da sempre, nel cristianesimo ha sollecitato ed indirizzato un autentico culto dei morti, che poi lungo i secoli si è manifestato e organizzato in tanti modi.
I nostri cimiteri, una volta chiamati “camposanti”, ovvero i campi delle anime sante ed elette da Dio, sono i luoghi ove conserviamo i resti mortali dei nostri cari in attesa della definitiva risurrezione; ma sono anche il punto di riferimento, il richiamo costante alla realtà di quella che è la nostra vita. Una realtà che nella morte ha il suo “penultimo” appuntamento, perché è il passaggio obbligatorio, da cui nessuno è esente, verso l’eternità.
Per coloro che sono considerati già santi in vita e muoiono in concetto di santità, la morte è, infatti, un “transito”, un semplice passaggio; quindi non estinzione, né distruzione, ma vita e speranza in un futuro migliore.
La liturgia ci ricorda che Gesù è morto ed è risorto; così anche quelli che sono morti in Gesù, Dio li radunerà insieme con lui. E come tutti muoiono in Adamo, così tutti in Cristo riavranno la vita (1Ts 4,14; 1Cor 15,22).
Il ricordo annuale dei nostri cari defunti ci porta a pensare meglio in prospettiva di eternità e di risurrezione: non solo di quella che verrà alla fine dei tempi, ma anche a quella risurrezione spirituale continua, alla quale siamo chiamati ogni giorno dalla parola di Dio che ci invita a vivere secondo gli insegnamenti di Cristo e della Chiesa.
San Paolo, nel brano della sua lettera ai Romani, ci ricorda che nel mistero del Cristo morto e risorto noi siamo stati salvati. La nostra speranza di una salvezza che dura per sempre è fondata su Cristo morto, ma soprattutto risorto, su colui che ha vinto la morte e che ci pone nella condizione di vincere anche noi una morte più grande della stessa morte corporale, quella dell’anima. Dalla fede nella morte e risurrezione di Cristo bisogna partire per il nostro viaggio verso i cimiteri e i camposanti in questi giorni speciali di culto verso i morti; bisogna partire con la speranza nel cuore in modo che quando sarà il tempo di partire per l’ultimo viaggio ci sia dentro di noi questa speranza e certezza.
In parole povere, il pensiero della morte ci colloca davanti a Dio e ci fa guardare nel profondo dell’anima, ci fa pensare, ci fa uscire da noi stessi, per aspirare a lui; e con lui scopriamo che di fronte alla realtà del nostro trapasso non possiamo fuggire, non possiamo deprimerci né disperarci, ma nemmeno possiamo rassegnarci ad un vuoto destino: al contrario dobbiamo riscoprire il dono della fede.
È su questa virtù infatti che si appoggia la speranza, e in essa trova fondamento; la fede dal canto suo ci chiama all’apertura di noi stessi e alla fine delle nostre preclusioni perché ci induce a credere e ad esternare una fiducia incondizionata nel Mistero della vita che attribuisce sempre un senso alla morte.
Credere significa affidarsi a Dio. Questo è l’atteggiamento più risoluto e consono che garantisce consolazione e fortezza di fronte alla tristezza che comporta il trapasso; esso deriva dal dono della Rivelazione nel quale Dio interviene a nostro favore per illuminarci che in Lui la sola dimensione possibile è la vita e che Egli stesso è artefice e garante di vita eterna. Credere in Dio e affidarci costantemente alla sua Parola senza opporre resistenza ci indice a scoprire che la morte non esiste ma che tutti siamo destinati alla gloria e alla vita eterna, soprattutto nella centralità dell’evento Gesù Cristo che ha vinto la morte avendone ragione nell’uscire dai meandri del sepolcro.
In Cristo risuscitato abbiamo la certezza che anche noi siamo destinati alla risurrezione perché la morte non ha più rilevanza né ragion d’essere nel nostro vivere quotidiano; affidarsi alla sua Parola e rinnovare la nostra adesione a Lui tutti i giorni ci porta a riscoprire la verità di Dio che sulla croce ha consegnato se stesso per il riscatto dell’umanità pagando con sangue umano i peccati e le miserie dell’uomo, che è morto alla pari di tutti noi per affrontare egli medesimo la realtà del trapasso che noi tutti tendiamo a schivare ma che dopo tre giorni è risuscitato nel suo corpo glorioso per donare a tutti la vita. Come afferma Paolo, Cristo risuscitato non muore più, la morte non ha più potere su di lui e coloro che a lui si affidano sono destinati alla stessa eredità di vita senza fine, di vita eterna.
Oggi dunque ci mettiamo davanti al mistero della morte. Mistero inevitabile, un po' fastidioso per chi – giovane e pieno di forza – guarda con sufficienza a questa realtà: la pensa e la percepisce distante, logora, per cui si arriva presto alla logica del "meglio non pensarci".
Oggi infatti in questo nostro alienato e schizofrenico tempo, si parla poco e male della morte: ma chi ha conosciuto la morte da vicino, chi ha avuto la perdita dolorosa di una persona amata, chi ha sofferto la morte improvvisa e straziante di un figlio, prende invece molto sul serio l’esperienza diretta della morte, perché, in realtà, essa dona un nuovo senso alla sua vita.
Noi dobbiamo avere un atteggiamento adulto, un atteggiamento di fede e di speranza verso la morte, mai depresso né scaramantico.
Tutti dobbiamo morire: è la legge della natura, ogni cosa ha un inizio e una fine; quindi è da sciocchi prendersela con Dio; eppure l’uomo è l’unico essere vivente che la percepisce come un'ingiustizia. Ma ingiusto rispetto a cosa? Anzi il Vangelo ha una buona notizia sulla morte, su questo misterioso incontro, questo appuntamento inevitabile per ognuno di noi: la morte, nostra sorella morte, in realtà è la “porta” attraverso cui potremo raggiungere la meravigliosa dimensione da cui proveniamo: ricordate le prime pagine della Genesi? Dio creò l’uomo “a sua immagine e somiglianza” (Gn 1,28), questa è e rimarrà per sempre la nostra realtà: e la morte ci condurrà a toccare con mano questo nostro privilegio di immortalità, in tutto somiglianti a Dio: perché egli ci ha resi tali col soffio divino del nostro concepimento. Tutta la nostra vita deve consistere pertanto nello scoprire le regole profonde di questo nostro tesoro nascosto; noi in pratica siamo come un feto che nasce, cresce, si sviluppa, per poi essere nuovamente “partorito” attraverso la morte, nella sua dimensione di pienezza eterna in Dio.
Dobbiamo essere convinti che siamo immensamente di più rispetto a ciò che esternamente sembriamo, molto di più di quanto noi stessi pensiamo di essere. Siamo di origine “divina”, e non lo sappiamo, non ce ne curiamo: eppure la nostra vita, per quanto sia realizzata, per quanto ci soddisfi, non potrà mai colmare il nostro bisogno assoluto di infinità, di pienezza che portiamo innato nel nostro cuore.
Non dimentichiamo mai che la nostra eternità è già iniziata, qui su questa terra: comportiamoci di conseguenza, non aspettiamo la morte, non sottovalutiamola, ma pensiamo ad essa con serenità, ristrutturiamo la nostra vita, scendiamo in profondità: cogliamo l'essenziale, diamo alla nostra esistenza il vero e il meglio di noi stessi, per poterla un giorno “trasferire” da questa terrena fase preparatoria, alla sua totale compiutezza gloriosa e definitiva.
Allora capiremo il senso delle parole proposteci dalla Liturgia. «Ai tuoi fedeli, Signore, la vita non è tolta, ma trasformata; e mentre si distrugge la dimora di questo esilio terreno, viene preparata un’abitazione eterna nel cielo" (Dal Canone dei defunti).
Il nostro domani è di rimanere sempre con il Signore: ci vedremo simili a Lui, perché lo vedremo realmente “così come Egli è”.
In questa commemorazione dei defunti, chiediamo alla bontà infinita del nostro Dio e Padre, perché, qualora il loro definitivo ingresso nella gloria del suo Amore non sia ancora avvenuto, accogliendo le preghiere della Chiesa e le nostre suppliche, Egli agevoli quanto prima il loro ricongiungimento con i santi nel suo Regno.
Noi sappiamo che Dio accoglie volentieri le nostre preghiere e i nostri suffragi a vantaggio dei defunti. Per cui qualsiasi orazione gli rivolgiamo con fede, otterrà sicuramente indulgenza per il loro stato di purificazione; qualsiasi Eucarestia applicata a un defunto, poi, è sacrificio di espiazione nel quale lo stesso Cristo interviene a favore delle anime dei nostri defunti; ogni opera di bene contribuisce ad espiare i loro residuati di colpa. Ogni atto di fede e di carità a loro vantaggio allevia notevolmente i patimenti e avvia assai più speditamente i nostri cari verso il paradiso, rendendo nel frattempo più salda la nostra comunione con loro.
È infatti nella purificazione che c’è il trionfo dell’Amore.
Questo ci deve far capire quanto sia importante, per noi che siamo ancora in cammino, “essere vigilanti nell'attesa”: dobbiamo infatti camminare sempre in avanti, forti nella nostra fede, pronti nell’adesione al Signore, nel far fruttare i tanti doni che Dio ci ha donato, nell'esprimere il nostro amore concreto alle persone che si trovano nel bisogno, sapendo che Cristo Gesù ritiene fatto a sé, quanto noi facciamo ai nostri fratelli bisognosi. Amen.

 

mercoledì 22 ottobre 2025

26 OTTOBRE 2025 – XXX DOMENICA DEL T.O.


Lc 18,9-14 
In quel tempo, Gesù disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri: «Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano. Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: “O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo”. Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”. Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato».

La parabola di oggi ci propone due personaggi, un fariseo e un pubblicano; due uomini “diversi”, che si accingono a pregare in due modi altrettanto diversi.
Il fariseo si ritiene giusto. Già la parola “fariseo” non promette nulla di buono: fariseo significa, infatti, “separato”; farisei erano coloro che si dedicavano all'osservanza meticolosa della legge, e proprio per questa loro scrupolosità, si sentivano separati, diversi, superiori a tutti gli altri. Erano stimati dalla gente proprio per la loro puntigliosa religiosità; essi questo lo sapevano e se ne compiacevano. “Ma non erano quelli che perseguitavano Gesù? Non sono stati proprio loro che hanno tentato in tutti i modi di metterlo a tacere, arrivando poi ad ucciderlo?”. Una domanda pertinente, che ci dimostra come molto spesso siano proprio i giusti, i religiosi, gli osservanti, ad essere i peggiori nemici di Dio. Una constatazione che deve farci riflettere.
Poi c'è l’altro personaggio, il pubblicano. I pubblicani erano amici degli occupanti Romani; erano considerati dei traditori, dei collaborazionisti, e per questo erano cordialmente odiati dagli ebrei.
Entrambi questi due tizi, salgono dunque al Tempio per pregare: la preghiera ufficiale si teneva due volte al giorno, alle nove e alle quindici. Ed è proprio nella preghiera, che i due rivelano la loro profonda diversità: la preghiera del fariseo è lunga, piena di particolari, autoreferenziale, compiaciuta; al contrario di quella del pubblicano che è brevissima, umile e contrita.
Il fariseo sta dritto in piedi e “prega tra sé” in silenzio. La cosa era normale per un ebreo, ma Luca lo interpreta come un segno di superbia: in greco questa forma verbale significa letteralmente “egli prega sé stesso”. Nella sua preghiera egli ringrazia Dio per averlo fatto diverso dai miserabili, dalla comune gentaglia: la sua preghiera altro non è che un panegirico di sé stesso. Dapprima mette bene in luce ciò che lui non è: non è un uomo ingiusto, un disonesto, non è un ladro, un adultero, non è insomma un “pubblicano”; poi, non soddisfatto, passa a sottolineare i suoi meriti, ciò che lui fa: digiuna due volte alla settimana (quindi più di quanto prescrivesse la Legge, che limitava il digiuno a pochi giorni all'anno), paga regolarmente le decime, cioè la decima parte del raccolto e di quanto possedeva che veniva devoluta al tempio e ai poveri. Tutto in Lui è perfetto, ineccepibile: la sua vita, la sua preghiera, il modo di rapportarsi con Dio. Nessuno può rimproverargli nulla. Quello che dice è tutto vero. Il fariseo sembra veramente bravo.
Il “pubblicano”, invece, se ne sta a distanza, curvo fino a terra. Egli era la personificazione della più profonda miseria morale: imbrogliava Dio, imbrogliava i poveri, i miseri, i deboli; era coinvolto in traffici di denaro “sporco”. Faceva un mestiere maledetto e proibito agli ebrei. Per cui quando dice di essere un povero peccatore, dice fino in fondo la verità, non si nasconde dietro a scuse o bugie. E il suo atteggiamento di battersi il petto lo conferma.
Entrambi sono dunque sinceri, ma Gesù afferma senza esitare che uno se ne va giustificato, cioè cambiato, reso giusto, e l'altro no. Perché? Scendiamo nei particolari.
Il fariseo inizia molto bene la preghiera: inizia con una lode a Dio. La funzione dell'uomo è infatti quella di ringraziare Dio. San Paolo dice: “Rendete grazie a Dio in ogni cosa per mezzo di Gesù Cristo”. Se noi potessimo rendere grazie per ogni cosa, faremmo della nostra vita una “liturgia”, una preghiera continua, un'eucaristia. Poi però il fariseo, nel mettersi a confronto con gli altri, sbaglia tutto, cade completamente in basso.
Egli non risulta gradito a Dio perché giustifica la sua disonestà interiore nascondendosi dietro a quelle poche cose esteriori che fa. Il fariseo non è onesto con sé stesso, si mente, si racconta un sacco di balle non perché ciò che dice di fare non sia vero, ma perché vede solo una parte di sé, quella esteriore, quella meno importante. Gli ripugna ammettere l’evidenza, di riconoscere cioè che anche lui, come e forse più del pubblicano, è un poveraccio, un peccatore.
Purtroppo, c'è sempre qualcuno che, pensando di essere perfetto, “scaglia per primo la pietra”; sempre! C'è sempre qualcuno che, non vedendo le magagne che stagnano dentro il suo cuore, a causa del buio pesto che vi regna, si permette di giudicare gli altri, di credersi qualcuno, di non essere come loro. Molte persone hanno rimosso così bene qualunque imperfezione dalla loro coscienza, da sentirsi completamente “puliti”, immacolati: ecco perché pregano “a voce alta”, “in piedi”, convinti di essere ottimi cristiani; quando invece non sono che dei miseri farisei.
Nella sua preghiera il pubblicano, al contrario del fariseo, non si nasconde la verità: “Abbi pietà di me peccatore”. Questa è la realtà: e gli dispiace sinceramente. Per questo chiede misericordia, pace, riconciliazione per i suoi lati negativi, per le sue zone oscure, per le ferite, per il male procurato agli altri, per i suoi peccati e per i suoi errori. Egli riconosce che la sua situazione è compromessa, non mente a sé stesso, non si inganna. Sa di aver bisogno di Dio; ha bisogno che Dio corra da lui con le braccia spalancate, che lo accolga, che lo stringa al cuore, che gli restituisca dignità, che lo salvi dalla “fossa” della cattiveria. Lui sa di essere ammalato e sa di aver bisogno del medico che è Dio. Per questo torna a casa giustificato, cioè, amato, liberato e pacificato.
Di fronte agli altri, noi possiamo rifugiarci nell’apparire, nel mentire, nel far passare qualunque menzogna per verità; possiamo fingere sulla nostra preparazione, sulla nostra professionalità, sui nostri ruoli; possiamo mascherarci e crearci tutte le immagini che vogliamo. In fondo, chi lo sa? Chi ci vede dentro? Ma di fronte a Dio questi teatrini non servono, questi trucchi non valgono, cadono tutti e rimaniamo soli davanti alla nostra falsa “verità”, nudi e spogli.
È dalla “verità” che sgorga la preghiera vera: quella verità che, senza menzogne, senza false apparenze, ci pone di fronte a Dio. Gli altri vedono solo il nostro contenitore esteriore, ciò che noi vogliamo far vedere: vedono la nostra scorza, l'esterno, il di fuori. Ci vedono pregare, andare in chiesa, fare carità, fare volontariato; cosa potrebbero mai dire? Diranno: “Ma che brava persona! Che bravo cristiano! Che uomo esemplare”. Ma essi non possono vederci dentro, noi lo sappiamo, per questo nascondiamo loro la cruda realtà, ciò che è imperfetto, doloroso, negativo, i nostri limiti, le nostre zone d'ombra, i nostri lati oscuri. Riusciamo a nasconderli così bene anche a noi stessi, che addirittura ce ne dimentichiamo, pensiamo di non averli più: li mettiamo in cantina, in soffitta. Non li vediamo più e quindi ci convinciamo che non esistano più. Non li vediamo più e quindi pensiamo di essere migliori degli altri: più bravi, più giusti, più umani, più religiosi. Ma Dio ci vede come siamo, ci conosce dentro, alla perfezione. E Lui non possiamo ingannarlo.
Ecco perché la preghiera non deve essere formale, esteriore; deve invece essere intima, sincera, onesta, vera: pregare è aprire a Dio tutte le stanze della nostra vita, della nostra anima; è spalancare ogni finestra e lasciare che Lui spanda la sua luce sui nostri angoli oscuri, su ciò che volutamente ignoriamo, su ciò che grida, che urla dentro di noi, ma che noi mettiamo a tacere perché ci ripugna anche solo ascoltarlo; su tutto ciò che ci fa male, che è doloroso; su tutto ciò che non vorremmo confessare ma che Lui è sempre pronto a perdonare; su tutto ciò che ci nascondiamo per paura, ma che Lui non teme; su tutto ciò che abbiamo nascosto in cantina a marcire ma che Lui vuole liberare e far rifiorire. Perché Egli non teme nulla. Noi abbiamo paura, ma Lui no! Lui ha vinto il mondo. Lui non teme le nostre nefandezze e ci ama comunque, in tutto il nostro squallore. Lui può andare ovunque noi ci rifiutiamo di andare: “pregare” allora significa lasciarci condurre da Lui; pregare è permettergli di entrare proprio là, dove noi ci vergogniamo, dove noi ci facciamo schifo, dove noi ci nascondiamo.
Dobbiamo convincerci di una grande verità: non siamo per niente quelli che, nel nostro orgoglio, amiamo esibire agli altri: quella è un’immagine che non ci appartiene, una maschera posticcia, creata apposta per soddisfare le nostre manie di grandezza. Non abbiamo per nulla, dentro di noi, quella luce, quel calore, quei carismi, che tanto amabilmente ostentiamo all’esterno; siamo piuttosto tormentati, angosciati dall’oscurità destabilizzante che regna dentro di noi.
Dobbiamo armarci di tanta umiltà, dobbiamo distruggere le nostre illusioni, le nostre convinzioni di perfezione, di essere bravi, virtuosi, impeccabili: solo così potremo far spazio all’amore di Dio. Perché noi, a ben guardare la realtà, assomigliamo un po' tutti al fariseo. Amen.

  

mercoledì 15 ottobre 2025

19 OTTOBRE 2025 – XXIX DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


Lc 18,1-8 
In quel tempo, Gesù diceva ai suoi discepoli una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai: «In una città viveva un giudice, che non temeva Dio né aveva riguardo per alcuno. In quella città c’era anche una vedova, che andava da lui e gli diceva: “Fammi giustizia contro il mio avversario”. Per un po’ di tempo egli non volle; ma poi disse tra sé: “Anche se non temo Dio e non ho riguardo per alcuno, dato che questa vedova mi dà tanto fastidio, le farò giustizia perché non venga continuamente a importunarmi”». E il Signore soggiunse: «Ascoltate ciò che dice il giudice disonesto. E Dio non farà forse giustizia ai suoi eletti, che gridano giorno e notte verso di lui? Li farà forse aspettare a lungo? Io vi dico che farà loro giustizia prontamente. Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?».

La parabola del vangelo di oggi ci presenta due personaggi: un giudice e una vedova. Per la Bibbia, il compito dei giudici era quello di difendere i più deboli: in particolare le vedove, i bambini e i poveri. Ma non è sempre così: in realtà, la stessa Bibbia condanna più volte le ingiustizie commesse nei loro confronti, con la complicità e l’appoggio degli stessi giudici (1Re 21,8-14; Am 5,10-33; Mic 3,1-2). Come si vede, gli odierni problemi di malcostume, da che mondo è mondo, sono sempre esistiti! 
Questo giudice dunque è un disonesto e non teme nessuno: se ne infischia altamente di quello che la gente può pensare o dire in giro. Non ha una coscienza morale che gli crei sensi di colpa o che lo faccia ricredere sui suoi comportamenti. Fare il male, per lui, non è un problema.
C’è poi una vedova, una donna che appartiene alla categoria più debole della società, che chiede al giudice giustizia, rimanendo ingiustamente inascoltata. Ma questa volta è una “tosta”, una che noi oggi definiremmo, più argutamente, una “rompiscatole”: infatti ogni santo giorno, puntualmente, senza mai demordere, continua ad andare imperterrita dal giudice per sollecitare il suo intervento: il verbo greco all’imperfetto, ci sottolinea proprio la ripetitività costante di questa sua azione. 
Il fatto che si rivolga ad un solo giudice, e non ad una corte giudiziaria, ci fa capire che il suo problema è di carattere amministrativo: vuol dire cioè che la poveretta da troppo tempo stava aspettando di incassare del denaro che le era dovuto; e non disponendo di soldi per potersi “comprare” un magistrato, non riusciva ad ottenere giustizia.
Un fatto che inevitabilmente fa pensare al classico caso di pessima gestione della giustizia, in cui un giudice opportunista, disonesto, che pretende somme illecite per compiere il suo dovere, si trova a dover risolvere il caso di una povera donna che, essendo in miseria, non avrebbe mai potuto assicurargli l’incasso di una tangente extra: per cui rimanda continuamente il caso, lo accantona, lo posticipa, infine lo archivia, in attesa di tempi migliori. A questo punto la donna non può fare nulla, il suo è un caso chiuso in partenza, impossibile. A prima vista non le rimane altro da fare che arrendersi. Ma lei non demorde! e alla fine la sua costanza le offrirà il riconoscimento dei suoi diritti. 
Al contrario, ci sono troppi cristiani, che di fronte a situazioni, anche apparentemente critiche, si scoraggiano, cambiano strada: “Impossibile, non ce la farò mai!”. Quando invece proprio noi, chiamati a compiere il nostro percorso evangelico, non possiamo mai essere rinunciatari a priori, anche se a volte il cammino è veramente tortuoso e difficile; nostro dovere è di provarci sempre e comunque; non dobbiamo correre il pericolo di scambiare per “impossibile, inattuabile”,  un’impresa che magari è solo “disagevole”. C’è purtroppo chi si rassegna, si adagia; chi preferisce fare la vittima. Ma smettiamo di fingere a noi stessi! Proviamoci invece, insistiamo con tutte le nostre forze, usiamo tutte le strategie possibili, combattiamo senza sosta: il verbo greco “hypopiazèin” (letteralmente “colpire sotto l’occhio, fare un occhio nero) in senso figurato significa proprio “seccare, importunare, colpire qualcuno ripetutamente”; la vedova era cioè diventata per il giudice un incubo costante, un autentico fastidioso "colpo in faccia", una continua e puntuale scocciatura. Insomma un’autentica piaga insopportabile! 
Non è che noi dobbiamo comportarci proprio così (di rompiscatole ce ne sono già troppi in giro!); ma se ci teniamo ad una cosa, se per noi è importante, fondamentale, vitale, dobbiamo percorrere tutte le strade a nostra disposizione.
Il messaggio della parabola è chiaro: di fronte alle difficoltà, agli insuccessi, alle "porte chiuse" dobbiamo avere fede: se dobbiamo insistere, non facciamolo per il piacere di fare le teste matte, i testardi, i cocciuti; ma perché siamo fermamente convinti che Dio si aspetta questo da noi, perché crediamo fermamente in quello che facciamo, perché siamo spinti da una fede solida, incrollabile che ci appoggia, confermandoci che Dio è schierato con noi e che la situazione, con Lui, si risolverà sicuramente a nostro favore: e questo non significa pretendere che Dio faccia sempre ciò che vogliamo noi: sarebbe un delirio di onnipotenza! Dobbiamo semplicemente affidarci a Lui e percorrere senza tentennamenti quella strada, ancorché 
nuova e sconosciuta, che Lui, e la nostra fede in Lui, suggeriscono al nostro cuore, alla nostra anima.
Il vangelo di oggi, ci stimola in particolare a combattere con fede costante, contro quella funesta indifferenza generale, che insidia anche la Sua Chiesa: il suo suggerimento è ripetitivo: “Tira fuori la tua voce; lotta per la tua fede; se nel farlo, infastidisci, molesti qualcuno, pazienza: non è possibile essere sempre remissivi, rinunciatari soprattutto in ciò che riguarda Dio e la nostra fede.
È infatti nostra responsabilità che il desiderio espresso da Gesù: “Ma quando tornerò, troverò ancora fede su questa terra?”, abbia sicuramente una risposta positiva.
Certo, durante il suo ministero terreno, Gesù di interrogativi ne ha posti tanti; ma quello di oggi trasmette angoscia, inquietudine, in quanto prospetta una possibilità tremenda per il domani, per quel futuro che tutti considerano molto lontano, remoto, ma che invece è già diventato l’oggi.
Attenzione: Egli non si chiede: “Ci saranno ancora associazioni e movimenti cattolici? la gente andrà ancora a Messa, frequenterà ancora la Chiesa? Provvederà ancora al sostentamento dei fratelli più poveri?” No, Gesù è angosciato perché vede che la sua Chiesa, quella che Lui ha fondato con tanto amore, oggi ha perduto la fede: vede che la preghiera in genere è senza fede, vede che i Sacramenti e le Liturgie sono vissuti senza fede, vede che l’annuncio del Vangelo non fortifica più la vita di fede.
Di fronte al disinteresse religioso della società contemporanea, di fronte ad un mondo sempre più ingiusto, sempre più crudele, sempre più materialista, sempre più nemico di Dio, noi, suoi fedeli testimoni, ci siamo demoralizzati, la nostra fede vacilla, è venuta meno, siamo caduti anche noi nel disinteresse comune, nella generale apatia spirituale. Credere con assoluta coerenza oggi è diventata una rarità, è sempre più difficile: il cristiano è debole, frastornato, insicuro, non coglie più indicazioni certe neppure dai pastori, da quegli “Episcopoi”, ai quali Gesù ha affidato la guida e la custodia del suo gregge. Oggi il dubbio, il pessimismo, la diffidenza, tormentano il cuore dei fedeli; una realtà brutale domina il mondo: ci sono “tragedie” come le guerre, le lotte per il potere, l’arricchimento personale truffaldino, l’egoismo imperante, il dilagare di ideologie amorali, che sono diventate “normalità”: Cristo stesso viene pubblicamente e impunemente irriso in spettacoli demenziali, in opere di pseudo “artisti” e scrittori, peraltro osannati da una critica acefala. Tutto è messo in discussione, tutto è messo alla berlina, tutto è negato, tutto è oltraggiato.
Dio ha consegnato agli uomini un mondo che poteva essere un capolavoro di misericordia, di fraternità, di amore; essi però, con la loro presunzione, lo hanno ridotto a un covo di ladri, di malfattori, un accumulo di indifferenza, di ingiustizia, di malvagità.
Ebbene, quello che ci ripete il vangelo di oggi è che non possiamo più ignorare una situazione tanto drammatica, non possiamo più avallare, in nome di un falso “buonismo”, una situazione che sta vanificando definitivamente l’autentico messaggio d’amore di Cristo.
La volontà ferma e decisa dei buoni, la loro azione personale, umile ma perseverante, la loro incessante preghiera, intrisa di fede vera, autentica, costante e fiduciosa, può fare il miracolo: “Io vi dico che [Dio] farà per loro giustizia” ci conferma Gesù.
Allora fidiamoci delle sue Parole, crediamo in Lui! Anche se facciamo fatica a capire, stiamoci! Ripartiamo, lavoriamo con entusiasmo in questo mondo greve e insensibile, sicuri che Dio, giusto giudice ma dal cuore pieno d’amore per i suoi figli, inizierà a contagiare anche noi, a guarirci: e soprattutto provvederà a rinfrancare il nostro povero cuore un po’ sfiduciato!
Amen.

 

mercoledì 8 ottobre 2025

12 OTTOBRE 2025 – XXVIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


Lc 17,11-19 
Lungo il cammino verso Gerusalemme, Gesù attraversava la Samarìa e la Galilea. Entrando in un villaggio, gli vennero incontro dieci lebbrosi, che si fermarono a distanza e dissero ad alta voce: «Gesù, maestro, abbi pietà di noi!». Appena li vide, Gesù disse loro: «Andate a presentarvi ai sacerdoti». E mentre essi andavano, furono purificati. Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce, e si prostrò davanti a Gesù, ai suoi piedi, per ringraziarlo. Era un Samaritano. Ma Gesù osservò: «Non ne sono stati purificati dieci? E gli altri nove dove sono? Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?». E gli disse: «Àlzati e va’; la tua fede ti ha salvato!».

Il vangelo parla di dieci “guarigioni” e di un solo “miracolo”: dieci lebbrosi vanno da Gesù e vengono guariti, ma uno solo si rende conto di ciò che realmente gli è successo, solo in lui avviene il miracolo della conversione. Perché “guarire spiritualmente” è molto più che ottenere la guarigione corporale; “guarire” non è un qualcosa di statico, di automatico: implica sempre una personale trasformazione, una conversione interiore. 
Gesù dunque entra in un villaggio e gli vanno incontro dieci lebbrosi. La lebbra, allora, era considerata la peggiore delle malattie, non tanto per gli effetti devastanti sulla persona, quanto per le conseguenze sociali che comportava: il lebbroso per la società era infatti un morto vivente, un isolato, un escluso, non poteva avere più contatti con nessuno. Avere la lebbra era una sentenza di morte lenta. Nel caso di una improbabile guarigione, era il sacerdote che aveva il compito di esaminare il lebbroso e soltanto dopo averlo sottoposto a tutta una serie di riti, poteva dichiararlo “puro”, cioè guarito, e reinserirlo nella società.
Qui Gesù – contrariamente al suo normale comportamento nei casi di guarigione - non fa nulla: non tocca i lebbrosi, non li guarisce immediatamente, non si informa su di loro, sulla loro vita. Li manda semplicemente dai sacerdoti, ancora malati, ancora lebbrosi. Come mai? Non poteva guarirli subito? Gesù al contrario voleva mettere alla prova quanto la loro fede fosse sincera: la loro guarigione era condizionata al loro semplice presentarsi ai sacerdoti.
Non è semplice per loro avvicinarsi a quella gente e a quelle autorità che li rifiutavano proprio per la loro malattia: ma essi, pur vergognandosi della loro condizione, sfidano il giudizio e il rifiuto dell’intero villaggio e si recano comunque dai sacerdoti. Ecco: il segreto della loro guarigione sta proprio qui: nell’aver obbedito a Gesù credendo alle sue parole, e nell’affrontare proprio la situazione per essi più problematica e temibile.
Cosa significa: che se noi non crediamo veramente in qualcosa di più grande, di più utile e benefico per noi, e non facciamo nulla al riguardo, è impossibile che questo qualcosa si concretizzi spontaneamente. Se noi non crediamo che Dio ci ama, che Lui può cambiare la nostra vita, la nostra condizione di peccatori, se dubitiamo di Lui, se siamo scettici, Dio non potrà mai trasformarci. Se non crediamo di poter veramente guarire, e non facciamo nulla per provarci, non guariremo mai!
Molte persone continuano a vivere nelle loro malattie, nelle loro paure, nelle loro situazioni negative, perché non credono che “la guarigione” possa capitare proprio a loro.
Purtroppo, quando siamo colpevoli, quando ci rendiamo conto di aver fallito, il nostro impulso è quello di scappare, di nasconderci, di evitare qualunque incontro. Gesù invece ci dice: “Fuori”. “Hai paura di esporti? Ebbene: è proprio lì che devi andare! Vai, apriti, fatti vedere dai sacerdoti, chiedi e non vergognarti”.
Ai lebbrosi che invocavano la sua misericordia, Gesù infatti non dice: “Andate nel tempio e fermatevi lì a pregare”, ma: “Andate dai sacerdoti”. Ciò che Lui richiede è un’azione, non un’attesa rassegnata, una staticità passiva, un girarsi dall’altra parte; la preghiera, la richiesta di guarigione, deve trasformarsi in “movimento”, in energia. Non basta chiedere; è necessario “pregare”, convinti e sinceri: perché pregare con fede, richiede l’agire, comporta il darsi da fare. In caso contrario la preghiera rimane un lamento inutile, una vuota e arida filastrocca. Pregare è uscire, combattere, affrontare ciò che temiamo; è muoversi, è cambiare, è obbedire esattamente a ciò che Lui ha detto.
Non cadiamo nel qualunquismo religioso, non facciamo del nostro credo, del nostro vangelo, della Parola di Dio, solo un’egoistica sintesi personale di ciò che ci fa comodo. I miracoli avvengono, ma solo se noi crediamo in Dio con fede autentica, intima, cristallina; altrimenti Lui non può intervenire. Non basta sperarlo, non basta desiderarlo, non basta volerlo ardentemente: il miracolo, la guarigione, avviene solo se noi Gli crediamo veramente, dimostrando la nostra fedeltà con le opere, con una vita fedele ai suoi insegnamenti.
Tutti e dieci i lebbrosi guariscono, ma uno solo torna indietro a ringraziare. Perché? Non erano stati guariti tutti e dieci? Il vangelo spiega che “uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro”. Ebbene: è proprio quel “vedendosi” che è decisivo. Uno di loro “vede”, si accorge di ciò che gli è successo: se ne rende conto, riconosce il dono, la benedizione, la grandezza di ciò che gli è successo. E gli altri? Degli altri non si dice che abbiano “visto”. Hanno eseguito materialmente l’invito di Gesù andando dai sacerdoti: hanno obbedito al suo ordine e si sentono a posto. Ma questa è la religione del “contabile”: tu mi comandi una cosa, io la faccio e siamo pari. Non si sono accorti del dono; non sono stati toccati nel profondo. Sono guariti dalla malattia ma non sono cambiati dentro. Sono guariti ma non hanno considerato l’amore di Dio. Non c'è stato sussulto, meraviglia, lode, ringraziamento in loro; avevano sete, hanno ricevuto un bicchiere d'acqua e si sono accontentati, tutto è finito lì. Non sono stati neppure sfiorati dal desiderio di andare oltre, di raggiungere la sorgente, di abbeverarsi alla fonte, di fare propria quella Forza che li aveva guariti.
Il “ritorno” del lebbroso samaritano è il segno che lui solo ha “visto”; ha capito cioè di aver ottenuto un qualcosa di molto prezioso che non gli era dovuto. E per questo “ritorna” a ringraziare Gesù.
Gli altri nove lebbrosi hanno avuto anch’essi un dono grandissimo, ma non se ne sono accorti, non se ne sono resi conto; è stato come se non l'avessero avuto! E non sono tornati a ringraziare, a rendergli gloria: un’azione questa che è strettamente legata all’accorgersi, all’essere consapevoli, al rendersi conto di ciò che succede, di ciò che capita, di ciò che avviene in loro e attorno a loro.
L’uomo in questo è particolarmente distratto. Le persone continuano a pensare che tutto sia loro dovuto. Hanno pretese smisurate, esagerate, eccessive, nei confronti di Dio, degli altri, e di sé stessi: i privilegi non bastano mai. È refrattario alla riconoscenza. Così la nostra Messa, la nostra “Eucarestia”, (dal greco “eukarìzo”, ringrazio, sono grato, riconoscente) dovrebbe essere il modo migliore per “rendere grazie” a Dio, per ringraziarlo della sua costante presenza nella nostra vita. Purtroppo le nostre Eucaristie domenicali sono troppo spesso senz'anima; rischiano di essere un precetto, un'osservanza; sono tristi, senza gioia, senza vitalità, senza passione. Sono un'ordinaria occupazione, un inno all'indifferenza: non “vediamo”, non ci rendiamo conto del passaggio di Dio, non sappiamo vedere cosa Egli fa per noi, non c'è sussulto nel nostro esserci, non c’è “partecipazione”.
L'egocentrismo delle persone si manifesta infatti nella mancanza di gioia e di festa nella loro vita: non si accontentano mai, pensano di non ricevere mai abbastanza; sono sempre fissati su quel qualcosa che ancora non hanno. Dio, la società, gli altri, sono sempre colpevoli di non dar loro di più. Il miracolo è invece rendersi conto, percepire che niente ci è dovuto, che niente è un diritto. “Ringraziare, grazia, gratitudine”, provengono tutti dallo stesso avverbio: “gratis”.
Tutto ciò che abbiamo e siamo, è gratis. Non ce lo meritiamo, non ci è dovuto: tutto è solo un dono. Apprezziamolo e ringraziamo Dio: ringraziamolo allora per i nostri figli, non ci sono “dovuti”, sono un dono; ringraziamolo per l'amore che riceviamo, non ci è dovuto, ma è un dono; ringraziamolo per la nostra vita, non ci è dovuta: è un dono. Godiamo di tutti questi doni, godiamo di essere sue creature, frutto del suo amore: godiamo di tutti i doni del creato: del sole che ci riscalda, dei tramonti che ci incantano, degli uccelli che ogni mattina cantano, del respiro che tonifica l’anima, del cuore che batte in noi senza sosta; godiamo perché siamo vivi, perché possiamo parlare, perché possiamo esprimerci, perché possiamo sorridere e piangere. Ringraziamo Dio per gli amici, per le occasioni di migliorare che ci concede, per le possibilità di vita che ci ritroviamo. Tutto questo è “gratis”, è dono. Ringraziamo Dio, perché nulla ci è dovuto. Ringraziamolo perché tutto ciò che avviene, tutto ciò che abbiamo, tutto ciò che ci riguarda, è un dono miracoloso del Suo amore di Padre. Amen.

  

mercoledì 1 ottobre 2025

05 OTTOBRE 2025 – XXVII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


Lc 17,5-10 
In quel tempo, gli apostoli dissero al Signore: «Accresci in noi la fede!». Il Signore rispose: «Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: “Sràdicati e vai a piantarti nel mare”, ed esso vi obbedirebbe. Chi di voi, se ha un servo ad arare o a pascolare il gregge, gli dirà, quando rientra dal campo: “Vieni subito e mettiti a tavola”? Non gli dirà piuttosto: “Prepara da mangiare, stríngiti le vesti ai fianchi e sérvimi, finché avrò mangiato e bevuto, e dopo mangerai e berrai tu”? Avrà forse gratitudine verso quel servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti? Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: “Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”». 

Gli apostoli chiedono a Gesù di aumentare la loro fede. Il fatto che gli chiedano una cosa del genere, sta ad indicare che nel loro animo sentono il bisogno di crescere, di maturare, di capire; dopo i discorsi fatti da Gesù in precedenza, essi si rendono conto di non aver afferrato il vero senso delle sue parole, di essere ancora terra terra, di avere ancora tantissima strada da fare. Indiscutibilmente una prova di umiltà, la loro. Se anche noi arrivassimo a provare sinceramente una simile necessità, beh, significherebbe che stiamo già a un buon punto del nostro cammino. Sarebbe quanto meno una concreta presa di coscienza dei nostri limiti.
Gesù a tale richiesta, tuttavia, non risponde né sì né no; e non dice neppure cosa dovrebbero, o non dovrebbero fare, per raggiungere una maggior comprensione del suo annuncio; si limita semplicemente a indicare alcune possibilità estreme, realizzabili con una fede veramente autentica: un modo per metterli in condizione di fare da soli delle considerazioni, di fare un'autoverifica sulla portata e l’autenticità della loro fede: «Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: “Sradicati e vai a piantarti nel mare”, ed esso vi obbedirebbe».
Un granello di senape è veramente poca cosa, è minuscolo, insignificante, quasi invisibile: salvo poi, una volta seminato, crescere rapidamente a dismisura, per diventare, nell'arco di un solo anno, una pianta alta anche tre o quattro metri. Il gelso, invece, è un albero secolare, che può vivere anche seicento anni; ha radici molto profonde, che si abbarbicano tenacemente nella terra. È un albero molto difficile da sradicare, è simbolo di solidità, di staticità, di inamovibilità. Ora, che un gelso si sradichi dal suo posto e si radichi addirittura nel mare, beh non solo è difficile, ma sicuramente impossibile!
Eppure – dice Gesù – basta una fede minima, purché autentica, sincera, trasparente, per rendere possibile anche l’impossibile.
In altre parole, nessun ostacolo, di qualunque natura, può arrestare il cammino di chi ha un po’ di fede.
Nel vangelo troviamo molti riferimenti sulle possibilità della fede: “Tutto è possibile per chi crede”; “la tua fede ti ha salvato”; “chi ha fede sposta le montagne”; “credete e tutto ciò che chiederete vi sarà dato”, ecc.
Ma come facciamo a misurare la qualità della nostra fede, se abbiamo veramente fiducia in Dio e nella Vita? Semplice: basta guardare a come reagiamo di fronte agli ostacoli che incontriamo.
Abbiamo un problema da affrontare e da risolvere nella nostra vita? Se abbiamo anche un briciolo di fede vera (il granello di senapa!) riusciamo a fare miracoli, anche enormi.
Dobbiamo spostare un “gelso” qualsiasi, quell’albero possente, inattaccabile, che ci sbarra la strada? Il primo impatto ovvio è di esclamare: “Impossibile! Non ce la farò mai! È troppo grande”. Ma quel gelso, in fin dei conti, altro non è che la nostra paura di cambiare, è la paura dell’ignoto, del non sapere cosa ci accadrà poi; è il timore di non essere all’altezza, di non avere le forze per reggere; la paura di guardarci dentro; la paura di affrontare quelli che temiamo, quelli che consideriamo superiori; la paura che ci fa mendicare amore per non rimanere soli; la paura di diventare impopolari, di essere derisi per aver fallito il nostro inserimento nella società; la paura di una malattia improvvisa e mortale...
Ma niente è impossibile, niente insuperabile, niente insopportabile: basta solo un po' di fede. Dobbiamo solo iniziare, darci da fare, metterci in movimento: e poi scopriremo che il nostro iniziale barlume di fede diventerà ben presto enorme (il piccolo seme che diventa un albero rigoglioso) e compirà l'impossibile.
Avere fede non è quindi una questione di “quantità”, come pensavano gli apostoli (“aumentala, dammene di più”), ma di “qualità”: per fare miracoli, anche i più sensazionali, non serve una quantità enorme di fede, una fede immensa; ne basta pochissima, quanto un granello di senape, praticamente “un nulla”; l’essenziale è che sia vera, sincera, autentica, profonda.
Perché avere fede significa avere la certezza di poter realizzare qualcosa, anche se non sappiamo come; significa: “qualunque cosa Dio vorrà da me, io la farò sempre e comunque, anche se la mia testa la considera strana, inutile, inconcepibile, controproducente”.
Non confondiamo poi l’aver fede con la preghiera: pregare non significa aver fede: quanti purtroppo pregano senza fede, anche tra i preti! quante Eucaristie si vedono presiedute da ministri distratti e con la testa altrove, nonostante davanti a loro sia presente Dio in carne e sangue!
E non parliamo di noi “fedeli”: un disastro! Siamo convinti che l’aumento e la purezza della fede dipendano dal visitare i più celebri Santuari mondiali, dal partecipare ai pellegrinaggi di folle oceaniche a Medjugorje, a Fatima, a Pietrelcina o a Lourdes, piuttosto che dalla costante e fedele partecipazione alle umili liturgie settimanali delle proprie Parrocchie.
La fede infatti è una disposizione dell’anima, è prestare attenzione a Dio, è avere piena fiducia in Lui, è convinzione, è certezza incrollabile in Lui, è la percezione netta, convinta, di essere amati da Lui, di non meritare questo Suo amore ma di non poterne fare a meno, di sentirsi protetti da Lui, di poter affrontare e superare con Lui qualunque difficoltà la vita ci riservi.
Questo significa avere fede! In altre parole, la fede in Dio non è quello che sappiamo di Dio, quello che abbiamo studiato di Dio nei trattati di teologia e di mistica; ma è quello che viviamo, come lo viviamo, quanto viviamo di ciò che percepiamo dentro di noi: fede è sentimento, forza, energia, amore, un’emozione incondizionata che regola la nostra esistenza.
Certo, la fede non elimina i problemi e le difficoltà della vita: ci dà però sicuramente la pace e la serenità per poterli affrontare. L'uomo di fede vive con una fiducia profonda: “Io sono protetto da Dio; Lui è con me. Se Lui è con me, di cosa ho paura? Perché mi devo preoccupare? Perché devo temere?”. In questo modo affronta ogni cosa con tale energia da riuscire a piegare veramente gli eventi e le situazioni anche più gravi a suo favore.
Il Vangelo, poi, introduce alcune situazioni che non intendono tanto descrivere il comportamento di Dio verso l’uomo, quanto, piuttosto, il nostro comportamento di uomini verso Dio: un comportamento nei suoi confronti che deve essere di totale disponibilità, senza calcoli, senza pretese, senza contratti.
Non si entra nello spirito del vangelo con lo spirito del salariato: “tante ore di lavoro, e tanto di paga, nulla di più e nulla di meno”. Con Dio, dopo una giornata piena di lavoro, non possiamo dire “ho finito” e soprattutto non possiamo accampare diritti. Non dobbiamo mai vantarci di quanto abbiamo fatto, mai fare confronti con gli altri; ma semplicemente dire: “ho fatto solo il mio dovere, sono soltanto un tuo umile servo”.
L’esempio portato da Gesù è chiaro: non è infatti pensabile che un padrone dica ai suoi servi, al loro ritorno dai campi: “Beh, adesso sedetevi che vi preparo e vi servo la cena”. Piuttosto dirà: “Ora che siete qui, preparatemi la cena e servitemela!”. Non è infatti compito del padrone servire i servi; sono loro che devono servire il padrone. E il padrone, una volta servito, non deve certo sentirsi obbligato nei loro confronti, perché hanno fatto soltanto ciò che rientrava nei loro compiti. Così “anche voi quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: “Siamo servi inutili”.  
Ma cosa mai vorrà veramente dire Gesù con le parole “Servi inutili”? Nel testo greco questo aggettivo è “acreios”, tradotto in italiano con “inutili”, pur essendo evidente che i servi della parabola, avendo compiuto quanto era stato loro comandato, non sono stati affatto “inutili”; 
“acreios” è un termine particolare con cui si qualifica più che una persona, un suo atteggiamento: nel nostro caso, è latteggiamento di particolare modestia tipico delle persone umili, che lavorano senza ostentazione, senza presunzioni, che si sentono “inadeguati”, “incompetenti”; per cui, dopo aver eseguito l’ordine nel rispetto di tutte le regole impartite, e aver ottenuto un risultato eccellente, si sentono comunque in cuor loro degli incapaci”, decisamente “inferiori” rispetto a colui che impartisce loro gli ordini con tanta precisione: effettivamente lui è su un piano superiore, e  merita pertanto stima, obbedienza, ammirazione; si rendono conto insomma di essere dei servitori autonomamente incapaci, dei semplici  operatori”, e che il loro dovere è di eseguire sempre gli ordini dall’alto con cura, dedizione e perfezione. Questo è quanto: per cui “servire Dio” è per sua stessa natura gratuito, deve cioè rientrare nella logica del dono: è quanto ribadisce Gesù stesso, inviando i suoi discepoli per il mondo: “Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date!” (Mt 10,8).
Possiamo quindi dire che la parabola di oggi colpisce in particolare una certa mentalità dell’epoca, per i quali l’osservanza della Legge, la fedeltà ai precetti religiosi, costituivano un diritto, un titolo di credito divino; la loro fedeltà diventava merce di scambio: un “do ut des”: “Sono stato bravo, rispettoso, obbediente, non mi sono mai comportato male: per questo tu mi devi un premio; mi devi vicinanza, aiuto, amore: tutte cose che mi spettano di diritto!”.
Una mentalità che purtroppo è presente molto spesso anche tra noi, soprattutto quando rivolgiamo a Dio le nostre preghiere: l’aver fatto delle donazioni, delle offerte, l’essere stati caritatevoli, puntuali nei nostri doveri di cristiani, l’aver frequentato la Chiesa, ci dà in qualche modo la pretesa di avere in cambio da Lui grazie e benefici, di evitarci malattie, di risparmiarci tragedie, disgrazie, e via dicendo; quando preghiamo, invece, dobbiamo stare molto attenti a non mercanteggiare con Dio; evitiamo di imporgli la nostra volontà, rinfacciandogli, quasi, i nostri rari, inesistenti “meriti”.
La vera preghiera a Dio, al contrario, deve servirci solo per aprirgli il nostro cuore, per convertire la nostra anima, per accettare più docilmente la Sua volontà, per esprimergli tutto il nostro amore, la nostra riconoscenza, assumendo sempre nei Suoi confronti, lo stesso umile comportamento del giovane Samuele: “Parla Signore, che il tuo servo ti ascolta” (1Sam 3,10).
Soprattutto non dobbiamo mai dimenticare che siamo sempre e comunque dei servi “inutili”. Evitiamo dunque di armarci di quel sacro “zelo” da “affiliati”, del “lei non sa chi sono io”, così diffuso e così fuori luogo; non imbarchiamoci in “sante crociate” personali, non pretendiamo incarichi per i quali spesso siamo decisamente inadeguati. Impariamo a stare umilmente al nostro posto, accettando di buon grado le scelte dei nostri pastori, ancorché non condivise. Quello che Gesù vuole da noi è che viviamo da persone di grande fede, che andiamo avanti per la sua strada con un cuore umile e caritatevole, stracolmo di pace, completamente aperto all’accoglienza dei nostri fratelli, pregando per il trionfo della sua Parola e della sua Chiesa: con gioia, riconoscenza, serenità. Nient’altro. Accantoniamo quindi definitivamente le nostre arie di superiorità, inopportune e commiserevoli. Lasciamo fare a Dio il suo mestiere: perché, lo ripeto, noi non abbiamo proprio nulla da insegnargli. Amen.