mercoledì 22 ottobre 2025

26 OTTOBRE 2025 – XXX DOMENICA DEL T.O.


Lc 18,9-14 
In quel tempo, Gesù disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri: «Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano. Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: “O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo”. Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”. Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato».

La parabola di oggi ci propone due personaggi, un fariseo e un pubblicano; due uomini “diversi”, che si accingono a pregare in due modi altrettanto diversi.
Il fariseo si ritiene giusto. Già la parola “fariseo” non promette nulla di buono: fariseo significa, infatti, “separato”; farisei erano coloro che si dedicavano all'osservanza meticolosa della legge, e proprio per questa loro scrupolosità, si sentivano separati, diversi, superiori a tutti gli altri. Erano stimati dalla gente proprio per la loro puntigliosa religiosità; essi questo lo sapevano e se ne compiacevano. “Ma non erano quelli che perseguitavano Gesù? Non sono stati proprio loro che hanno tentato in tutti i modi di metterlo a tacere, arrivando poi ad ucciderlo?”. Una domanda pertinente, che ci dimostra come molto spesso siano proprio i giusti, i religiosi, gli osservanti, ad essere i peggiori nemici di Dio. Una constatazione che deve farci riflettere.
Poi c'è l’altro personaggio, il pubblicano. I pubblicani erano amici degli occupanti Romani; erano considerati dei traditori, dei collaborazionisti, e per questo erano cordialmente odiati dagli ebrei.
Entrambi questi due tizi, salgono dunque al Tempio per pregare: la preghiera ufficiale si teneva due volte al giorno, alle nove e alle quindici. Ed è proprio nella preghiera, che i due rivelano la loro profonda diversità: la preghiera del fariseo è lunga, piena di particolari, autoreferenziale, compiaciuta; al contrario di quella del pubblicano che è brevissima, umile e contrita.
Il fariseo sta dritto in piedi e “prega tra sé” in silenzio. La cosa era normale per un ebreo, ma Luca lo interpreta come un segno di superbia: in greco questa forma verbale significa letteralmente “egli prega sé stesso”. Nella sua preghiera egli ringrazia Dio per averlo fatto diverso dai miserabili, dalla comune gentaglia: la sua preghiera altro non è che un panegirico di sé stesso. Dapprima mette bene in luce ciò che lui non è: non è un uomo ingiusto, un disonesto, non è un ladro, un adultero, non è insomma un “pubblicano”; poi, non soddisfatto, passa a sottolineare i suoi meriti, ciò che lui fa: digiuna due volte alla settimana (quindi più di quanto prescrivesse la Legge, che limitava il digiuno a pochi giorni all'anno), paga regolarmente le decime, cioè la decima parte del raccolto e di quanto possedeva che veniva devoluta al tempio e ai poveri. Tutto in Lui è perfetto, ineccepibile: la sua vita, la sua preghiera, il modo di rapportarsi con Dio. Nessuno può rimproverargli nulla. Quello che dice è tutto vero. Il fariseo sembra veramente bravo.
Il “pubblicano”, invece, se ne sta a distanza, curvo fino a terra. Egli era la personificazione della più profonda miseria morale: imbrogliava Dio, imbrogliava i poveri, i miseri, i deboli; era coinvolto in traffici di denaro “sporco”. Faceva un mestiere maledetto e proibito agli ebrei. Per cui quando dice di essere un povero peccatore, dice fino in fondo la verità, non si nasconde dietro a scuse o bugie. E il suo atteggiamento di battersi il petto lo conferma.
Entrambi sono dunque sinceri, ma Gesù afferma senza esitare che uno se ne va giustificato, cioè cambiato, reso giusto, e l'altro no. Perché? Scendiamo nei particolari.
Il fariseo inizia molto bene la preghiera: inizia con una lode a Dio. La funzione dell'uomo è infatti quella di ringraziare Dio. San Paolo dice: “Rendete grazie a Dio in ogni cosa per mezzo di Gesù Cristo”. Se noi potessimo rendere grazie per ogni cosa, faremmo della nostra vita una “liturgia”, una preghiera continua, un'eucaristia. Poi però il fariseo, nel mettersi a confronto con gli altri, sbaglia tutto, cade completamente in basso.
Egli non risulta gradito a Dio perché giustifica la sua disonestà interiore nascondendosi dietro a quelle poche cose esteriori che fa. Il fariseo non è onesto con sé stesso, si mente, si racconta un sacco di balle non perché ciò che dice di fare non sia vero, ma perché vede solo una parte di sé, quella esteriore, quella meno importante. Gli ripugna ammettere l’evidenza, di riconoscere cioè che anche lui, come e forse più del pubblicano, è un poveraccio, un peccatore.
Purtroppo, c'è sempre qualcuno che, pensando di essere perfetto, “scaglia per primo la pietra”; sempre! C'è sempre qualcuno che, non vedendo le magagne che stagnano dentro il suo cuore, a causa del buio pesto che vi regna, si permette di giudicare gli altri, di credersi qualcuno, di non essere come loro. Molte persone hanno rimosso così bene qualunque imperfezione dalla loro coscienza, da sentirsi completamente “puliti”, immacolati: ecco perché pregano “a voce alta”, “in piedi”, convinti di essere ottimi cristiani; quando invece non sono che dei miseri farisei.
Nella sua preghiera il pubblicano, al contrario del fariseo, non si nasconde la verità: “Abbi pietà di me peccatore”. Questa è la realtà: e gli dispiace sinceramente. Per questo chiede misericordia, pace, riconciliazione per i suoi lati negativi, per le sue zone oscure, per le ferite, per il male procurato agli altri, per i suoi peccati e per i suoi errori. Egli riconosce che la sua situazione è compromessa, non mente a sé stesso, non si inganna. Sa di aver bisogno di Dio; ha bisogno che Dio corra da lui con le braccia spalancate, che lo accolga, che lo stringa al cuore, che gli restituisca dignità, che lo salvi dalla “fossa” della cattiveria. Lui sa di essere ammalato e sa di aver bisogno del medico che è Dio. Per questo torna a casa giustificato, cioè, amato, liberato e pacificato.
Di fronte agli altri, noi possiamo rifugiarci nell’apparire, nel mentire, nel far passare qualunque menzogna per verità; possiamo fingere sulla nostra preparazione, sulla nostra professionalità, sui nostri ruoli; possiamo mascherarci e crearci tutte le immagini che vogliamo. In fondo, chi lo sa? Chi ci vede dentro? Ma di fronte a Dio questi teatrini non servono, questi trucchi non valgono, cadono tutti e rimaniamo soli davanti alla nostra falsa “verità”, nudi e spogli.
È dalla “verità” che sgorga la preghiera vera: quella verità che, senza menzogne, senza false apparenze, ci pone di fronte a Dio. Gli altri vedono solo il nostro contenitore esteriore, ciò che noi vogliamo far vedere: vedono la nostra scorza, l'esterno, il di fuori. Ci vedono pregare, andare in chiesa, fare carità, fare volontariato; cosa potrebbero mai dire? Diranno: “Ma che brava persona! Che bravo cristiano! Che uomo esemplare”. Ma essi non possono vederci dentro, noi lo sappiamo, per questo nascondiamo loro la cruda realtà, ciò che è imperfetto, doloroso, negativo, i nostri limiti, le nostre zone d'ombra, i nostri lati oscuri. Riusciamo a nasconderli così bene anche a noi stessi, che addirittura ce ne dimentichiamo, pensiamo di non averli più: li mettiamo in cantina, in soffitta. Non li vediamo più e quindi ci convinciamo che non esistano più. Non li vediamo più e quindi pensiamo di essere migliori degli altri: più bravi, più giusti, più umani, più religiosi. Ma Dio ci vede come siamo, ci conosce dentro, alla perfezione. E Lui non possiamo ingannarlo.
Ecco perché la preghiera non deve essere formale, esteriore; deve invece essere intima, sincera, onesta, vera: pregare è aprire a Dio tutte le stanze della nostra vita, della nostra anima; è spalancare ogni finestra e lasciare che Lui spanda la sua luce sui nostri angoli oscuri, su ciò che volutamente ignoriamo, su ciò che grida, che urla dentro di noi, ma che noi mettiamo a tacere perché ci ripugna anche solo ascoltarlo; su tutto ciò che ci fa male, che è doloroso; su tutto ciò che non vorremmo confessare ma che Lui è sempre pronto a perdonare; su tutto ciò che ci nascondiamo per paura, ma che Lui non teme; su tutto ciò che abbiamo nascosto in cantina a marcire ma che Lui vuole liberare e far rifiorire. Perché Egli non teme nulla. Noi abbiamo paura, ma Lui no! Lui ha vinto il mondo. Lui non teme le nostre nefandezze e ci ama comunque, in tutto il nostro squallore. Lui può andare ovunque noi ci rifiutiamo di andare: “pregare” allora significa lasciarci condurre da Lui; pregare è permettergli di entrare proprio là, dove noi ci vergogniamo, dove noi ci facciamo schifo, dove noi ci nascondiamo.
Dobbiamo convincerci di una grande verità: non siamo per niente quelli che, nel nostro orgoglio, amiamo esibire agli altri: quella è un’immagine che non ci appartiene, una maschera posticcia, creata apposta per soddisfare le nostre manie di grandezza. Non abbiamo per nulla, dentro di noi, quella luce, quel calore, quei carismi, che tanto amabilmente ostentiamo all’esterno; siamo piuttosto tormentati, angosciati dall’oscurità destabilizzante che regna dentro di noi.
Dobbiamo armarci di tanta umiltà, dobbiamo distruggere le nostre illusioni, le nostre convinzioni di perfezione, di essere bravi, virtuosi, impeccabili: solo così potremo far spazio all’amore di Dio. Perché noi, a ben guardare la realtà, assomigliamo un po' tutti al fariseo. Amen.

  

mercoledì 15 ottobre 2025

19 OTTOBRE 2025 – XXIX DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


Lc 18,1-8 
In quel tempo, Gesù diceva ai suoi discepoli una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai: «In una città viveva un giudice, che non temeva Dio né aveva riguardo per alcuno. In quella città c’era anche una vedova, che andava da lui e gli diceva: “Fammi giustizia contro il mio avversario”. Per un po’ di tempo egli non volle; ma poi disse tra sé: “Anche se non temo Dio e non ho riguardo per alcuno, dato che questa vedova mi dà tanto fastidio, le farò giustizia perché non venga continuamente a importunarmi”». E il Signore soggiunse: «Ascoltate ciò che dice il giudice disonesto. E Dio non farà forse giustizia ai suoi eletti, che gridano giorno e notte verso di lui? Li farà forse aspettare a lungo? Io vi dico che farà loro giustizia prontamente. Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?».

La parabola del vangelo di oggi ci presenta due personaggi: un giudice e una vedova. Per la Bibbia, il compito dei giudici era quello di difendere i più deboli: in particolare le vedove, i bambini e i poveri. Ma non è sempre così: in realtà, la stessa Bibbia condanna più volte le ingiustizie commesse nei loro confronti, con la complicità e l’appoggio degli stessi giudici (1Re 21,8-14; Am 5,10-33; Mic 3,1-2). Come si vede, gli odierni problemi di malcostume, da che mondo è mondo, sono sempre esistiti! 
Questo giudice dunque è un disonesto e non teme nessuno: se ne infischia altamente di quello che la gente può pensare o dire in giro. Non ha una coscienza morale che gli crei sensi di colpa o che lo faccia ricredere sui suoi comportamenti. Fare il male, per lui, non è un problema.
C’è poi una vedova, una donna che appartiene alla categoria più debole della società, che chiede al giudice giustizia, rimanendo ingiustamente inascoltata. Ma questa volta è una “tosta”, una che noi oggi definiremmo, più argutamente, una “rompiscatole”: infatti ogni santo giorno, puntualmente, senza mai demordere, continua ad andare imperterrita dal giudice per sollecitare il suo intervento: il verbo greco all’imperfetto, ci sottolinea proprio la ripetitività costante di questa sua azione. 
Il fatto che si rivolga ad un solo giudice, e non ad una corte giudiziaria, ci fa capire che il suo problema è di carattere amministrativo: vuol dire cioè che la poveretta da troppo tempo stava aspettando di incassare del denaro che le era dovuto; e non disponendo di soldi per potersi “comprare” un magistrato, non riusciva ad ottenere giustizia.
Un fatto che inevitabilmente fa pensare al classico caso di pessima gestione della giustizia, in cui un giudice opportunista, disonesto, che pretende somme illecite per compiere il suo dovere, si trova a dover risolvere il caso di una povera donna che, essendo in miseria, non avrebbe mai potuto assicurargli l’incasso di una tangente extra: per cui rimanda continuamente il caso, lo accantona, lo posticipa, infine lo archivia, in attesa di tempi migliori. A questo punto la donna non può fare nulla, il suo è un caso chiuso in partenza, impossibile. A prima vista non le rimane altro da fare che arrendersi. Ma lei non demorde! e alla fine la sua costanza le offrirà il riconoscimento dei suoi diritti. 
Al contrario, ci sono troppi cristiani, che di fronte a situazioni, anche apparentemente critiche, si scoraggiano, cambiano strada: “Impossibile, non ce la farò mai!”. Quando invece proprio noi, chiamati a compiere il nostro percorso evangelico, non possiamo mai essere rinunciatari a priori, anche se a volte il cammino è veramente tortuoso e difficile; nostro dovere è di provarci sempre e comunque; non dobbiamo correre il pericolo di scambiare per “impossibile, inattuabile”,  un’impresa che magari è solo “disagevole”. C’è purtroppo chi si rassegna, si adagia; chi preferisce fare la vittima. Ma smettiamo di fingere a noi stessi! Proviamoci invece, insistiamo con tutte le nostre forze, usiamo tutte le strategie possibili, combattiamo senza sosta: il verbo greco “hypopiazèin” (letteralmente “colpire sotto l’occhio, fare un occhio nero) in senso figurato significa proprio “seccare, importunare, colpire qualcuno ripetutamente”; la vedova era cioè diventata per il giudice un incubo costante, un autentico fastidioso "colpo in faccia", una continua e puntuale scocciatura. Insomma un’autentica piaga insopportabile! 
Non è che noi dobbiamo comportarci proprio così (di rompiscatole ce ne sono già troppi in giro!); ma se ci teniamo ad una cosa, se per noi è importante, fondamentale, vitale, dobbiamo percorrere tutte le strade a nostra disposizione.
Il messaggio della parabola è chiaro: di fronte alle difficoltà, agli insuccessi, alle "porte chiuse" dobbiamo avere fede: se dobbiamo insistere, non facciamolo per il piacere di fare le teste matte, i testardi, i cocciuti; ma perché siamo fermamente convinti che Dio si aspetta questo da noi, perché crediamo fermamente in quello che facciamo, perché siamo spinti da una fede solida, incrollabile che ci appoggia, confermandoci che Dio è schierato con noi e che la situazione, con Lui, si risolverà sicuramente a nostro favore: e questo non significa pretendere che Dio faccia sempre ciò che vogliamo noi: sarebbe un delirio di onnipotenza! Dobbiamo semplicemente affidarci a Lui e percorrere senza tentennamenti quella strada, ancorché 
nuova e sconosciuta, che Lui, e la nostra fede in Lui, suggeriscono al nostro cuore, alla nostra anima.
Il vangelo di oggi, ci stimola in particolare a combattere con fede costante, contro quella funesta indifferenza generale, che insidia anche la Sua Chiesa: il suo suggerimento è ripetitivo: “Tira fuori la tua voce; lotta per la tua fede; se nel farlo, infastidisci, molesti qualcuno, pazienza: non è possibile essere sempre remissivi, rinunciatari soprattutto in ciò che riguarda Dio e la nostra fede.
È infatti nostra responsabilità che il desiderio espresso da Gesù: “Ma quando tornerò, troverò ancora fede su questa terra?”, abbia sicuramente una risposta positiva.
Certo, durante il suo ministero terreno, Gesù di interrogativi ne ha posti tanti; ma quello di oggi trasmette angoscia, inquietudine, in quanto prospetta una possibilità tremenda per il domani, per quel futuro che tutti considerano molto lontano, remoto, ma che invece è già diventato l’oggi.
Attenzione: Egli non si chiede: “Ci saranno ancora associazioni e movimenti cattolici? la gente andrà ancora a Messa, frequenterà ancora la Chiesa? Provvederà ancora al sostentamento dei fratelli più poveri?” No, Gesù è angosciato perché vede che la sua Chiesa, quella che Lui ha fondato con tanto amore, oggi ha perduto la fede: vede che la preghiera in genere è senza fede, vede che i Sacramenti e le Liturgie sono vissuti senza fede, vede che l’annuncio del Vangelo non fortifica più la vita di fede.
Di fronte al disinteresse religioso della società contemporanea, di fronte ad un mondo sempre più ingiusto, sempre più crudele, sempre più materialista, sempre più nemico di Dio, noi, suoi fedeli testimoni, ci siamo demoralizzati, la nostra fede vacilla, è venuta meno, siamo caduti anche noi nel disinteresse comune, nella generale apatia spirituale. Credere con assoluta coerenza oggi è diventata una rarità, è sempre più difficile: il cristiano è debole, frastornato, insicuro, non coglie più indicazioni certe neppure dai pastori, da quegli “Episcopoi”, ai quali Gesù ha affidato la guida e la custodia del suo gregge. Oggi il dubbio, il pessimismo, la diffidenza, tormentano il cuore dei fedeli; una realtà brutale domina il mondo: ci sono “tragedie” come le guerre, le lotte per il potere, l’arricchimento personale truffaldino, l’egoismo imperante, il dilagare di ideologie amorali, che sono diventate “normalità”: Cristo stesso viene pubblicamente e impunemente irriso in spettacoli demenziali, in opere di pseudo “artisti” e scrittori, peraltro osannati da una critica acefala. Tutto è messo in discussione, tutto è messo alla berlina, tutto è negato, tutto è oltraggiato.
Dio ha consegnato agli uomini un mondo che poteva essere un capolavoro di misericordia, di fraternità, di amore; essi però, con la loro presunzione, lo hanno ridotto a un covo di ladri, di malfattori, un accumulo di indifferenza, di ingiustizia, di malvagità.
Ebbene, quello che ci ripete il vangelo di oggi è che non possiamo più ignorare una situazione tanto drammatica, non possiamo più avallare, in nome di un falso “buonismo”, una situazione che sta vanificando definitivamente l’autentico messaggio d’amore di Cristo.
La volontà ferma e decisa dei buoni, la loro azione personale, umile ma perseverante, la loro incessante preghiera, intrisa di fede vera, autentica, costante e fiduciosa, può fare il miracolo: “Io vi dico che [Dio] farà per loro giustizia” ci conferma Gesù.
Allora fidiamoci delle sue Parole, crediamo in Lui! Anche se facciamo fatica a capire, stiamoci! Ripartiamo, lavoriamo con entusiasmo in questo mondo greve e insensibile, sicuri che Dio, giusto giudice ma dal cuore pieno d’amore per i suoi figli, inizierà a contagiare anche noi, a guarirci: e soprattutto provvederà a rinfrancare il nostro povero cuore un po’ sfiduciato!
Amen.

 

mercoledì 8 ottobre 2025

12 OTTOBRE 2025 – XXVIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


Lc 17,11-19 
Lungo il cammino verso Gerusalemme, Gesù attraversava la Samarìa e la Galilea. Entrando in un villaggio, gli vennero incontro dieci lebbrosi, che si fermarono a distanza e dissero ad alta voce: «Gesù, maestro, abbi pietà di noi!». Appena li vide, Gesù disse loro: «Andate a presentarvi ai sacerdoti». E mentre essi andavano, furono purificati. Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce, e si prostrò davanti a Gesù, ai suoi piedi, per ringraziarlo. Era un Samaritano. Ma Gesù osservò: «Non ne sono stati purificati dieci? E gli altri nove dove sono? Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?». E gli disse: «Àlzati e va’; la tua fede ti ha salvato!».

Il vangelo parla di dieci “guarigioni” e di un solo “miracolo”: dieci lebbrosi vanno da Gesù e vengono guariti, ma uno solo si rende conto di ciò che realmente gli è successo, solo in lui avviene il miracolo della conversione. Perché “guarire spiritualmente” è molto più che ottenere la guarigione corporale; “guarire” non è un qualcosa di statico, di automatico: implica sempre una personale trasformazione, una conversione interiore. 
Gesù dunque entra in un villaggio e gli vanno incontro dieci lebbrosi. La lebbra, allora, era considerata la peggiore delle malattie, non tanto per gli effetti devastanti sulla persona, quanto per le conseguenze sociali che comportava: il lebbroso per la società era infatti un morto vivente, un isolato, un escluso, non poteva avere più contatti con nessuno. Avere la lebbra era una sentenza di morte lenta. Nel caso di una improbabile guarigione, era il sacerdote che aveva il compito di esaminare il lebbroso e soltanto dopo averlo sottoposto a tutta una serie di riti, poteva dichiararlo “puro”, cioè guarito, e reinserirlo nella società.
Qui Gesù – contrariamente al suo normale comportamento nei casi di guarigione - non fa nulla: non tocca i lebbrosi, non li guarisce immediatamente, non si informa su di loro, sulla loro vita. Li manda semplicemente dai sacerdoti, ancora malati, ancora lebbrosi. Come mai? Non poteva guarirli subito? Gesù al contrario voleva mettere alla prova quanto la loro fede fosse sincera: la loro guarigione era condizionata al loro semplice presentarsi ai sacerdoti.
Non è semplice per loro avvicinarsi a quella gente e a quelle autorità che li rifiutavano proprio per la loro malattia: ma essi, pur vergognandosi della loro condizione, sfidano il giudizio e il rifiuto dell’intero villaggio e si recano comunque dai sacerdoti. Ecco: il segreto della loro guarigione sta proprio qui: nell’aver obbedito a Gesù credendo alle sue parole, e nell’affrontare proprio la situazione per essi più problematica e temibile.
Cosa significa: che se noi non crediamo veramente in qualcosa di più grande, di più utile e benefico per noi, e non facciamo nulla al riguardo, è impossibile che questo qualcosa si concretizzi spontaneamente. Se noi non crediamo che Dio ci ama, che Lui può cambiare la nostra vita, la nostra condizione di peccatori, se dubitiamo di Lui, se siamo scettici, Dio non potrà mai trasformarci. Se non crediamo di poter veramente guarire, e non facciamo nulla per provarci, non guariremo mai!
Molte persone continuano a vivere nelle loro malattie, nelle loro paure, nelle loro situazioni negative, perché non credono che “la guarigione” possa capitare proprio a loro.
Purtroppo, quando siamo colpevoli, quando ci rendiamo conto di aver fallito, il nostro impulso è quello di scappare, di nasconderci, di evitare qualunque incontro. Gesù invece ci dice: “Fuori”. “Hai paura di esporti? Ebbene: è proprio lì che devi andare! Vai, apriti, fatti vedere dai sacerdoti, chiedi e non vergognarti”.
Ai lebbrosi che invocavano la sua misericordia, Gesù infatti non dice: “Andate nel tempio e fermatevi lì a pregare”, ma: “Andate dai sacerdoti”. Ciò che Lui richiede è un’azione, non un’attesa rassegnata, una staticità passiva, un girarsi dall’altra parte; la preghiera, la richiesta di guarigione, deve trasformarsi in “movimento”, in energia. Non basta chiedere; è necessario “pregare”, convinti e sinceri: perché pregare con fede, richiede l’agire, comporta il darsi da fare. In caso contrario la preghiera rimane un lamento inutile, una vuota e arida filastrocca. Pregare è uscire, combattere, affrontare ciò che temiamo; è muoversi, è cambiare, è obbedire esattamente a ciò che Lui ha detto.
Non cadiamo nel qualunquismo religioso, non facciamo del nostro credo, del nostro vangelo, della Parola di Dio, solo un’egoistica sintesi personale di ciò che ci fa comodo. I miracoli avvengono, ma solo se noi crediamo in Dio con fede autentica, intima, cristallina; altrimenti Lui non può intervenire. Non basta sperarlo, non basta desiderarlo, non basta volerlo ardentemente: il miracolo, la guarigione, avviene solo se noi Gli crediamo veramente, dimostrando la nostra fedeltà con le opere, con una vita fedele ai suoi insegnamenti.
Tutti e dieci i lebbrosi guariscono, ma uno solo torna indietro a ringraziare. Perché? Non erano stati guariti tutti e dieci? Il vangelo spiega che “uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro”. Ebbene: è proprio quel “vedendosi” che è decisivo. Uno di loro “vede”, si accorge di ciò che gli è successo: se ne rende conto, riconosce il dono, la benedizione, la grandezza di ciò che gli è successo. E gli altri? Degli altri non si dice che abbiano “visto”. Hanno eseguito materialmente l’invito di Gesù andando dai sacerdoti: hanno obbedito al suo ordine e si sentono a posto. Ma questa è la religione del “contabile”: tu mi comandi una cosa, io la faccio e siamo pari. Non si sono accorti del dono; non sono stati toccati nel profondo. Sono guariti dalla malattia ma non sono cambiati dentro. Sono guariti ma non hanno considerato l’amore di Dio. Non c'è stato sussulto, meraviglia, lode, ringraziamento in loro; avevano sete, hanno ricevuto un bicchiere d'acqua e si sono accontentati, tutto è finito lì. Non sono stati neppure sfiorati dal desiderio di andare oltre, di raggiungere la sorgente, di abbeverarsi alla fonte, di fare propria quella Forza che li aveva guariti.
Il “ritorno” del lebbroso samaritano è il segno che lui solo ha “visto”; ha capito cioè di aver ottenuto un qualcosa di molto prezioso che non gli era dovuto. E per questo “ritorna” a ringraziare Gesù.
Gli altri nove lebbrosi hanno avuto anch’essi un dono grandissimo, ma non se ne sono accorti, non se ne sono resi conto; è stato come se non l'avessero avuto! E non sono tornati a ringraziare, a rendergli gloria: un’azione questa che è strettamente legata all’accorgersi, all’essere consapevoli, al rendersi conto di ciò che succede, di ciò che capita, di ciò che avviene in loro e attorno a loro.
L’uomo in questo è particolarmente distratto. Le persone continuano a pensare che tutto sia loro dovuto. Hanno pretese smisurate, esagerate, eccessive, nei confronti di Dio, degli altri, e di sé stessi: i privilegi non bastano mai. È refrattario alla riconoscenza. Così la nostra Messa, la nostra “Eucarestia”, (dal greco “eukarìzo”, ringrazio, sono grato, riconoscente) dovrebbe essere il modo migliore per “rendere grazie” a Dio, per ringraziarlo della sua costante presenza nella nostra vita. Purtroppo le nostre Eucaristie domenicali sono troppo spesso senz'anima; rischiano di essere un precetto, un'osservanza; sono tristi, senza gioia, senza vitalità, senza passione. Sono un'ordinaria occupazione, un inno all'indifferenza: non “vediamo”, non ci rendiamo conto del passaggio di Dio, non sappiamo vedere cosa Egli fa per noi, non c'è sussulto nel nostro esserci, non c’è “partecipazione”.
L'egocentrismo delle persone si manifesta infatti nella mancanza di gioia e di festa nella loro vita: non si accontentano mai, pensano di non ricevere mai abbastanza; sono sempre fissati su quel qualcosa che ancora non hanno. Dio, la società, gli altri, sono sempre colpevoli di non dar loro di più. Il miracolo è invece rendersi conto, percepire che niente ci è dovuto, che niente è un diritto. “Ringraziare, grazia, gratitudine”, provengono tutti dallo stesso avverbio: “gratis”.
Tutto ciò che abbiamo e siamo, è gratis. Non ce lo meritiamo, non ci è dovuto: tutto è solo un dono. Apprezziamolo e ringraziamo Dio: ringraziamolo allora per i nostri figli, non ci sono “dovuti”, sono un dono; ringraziamolo per l'amore che riceviamo, non ci è dovuto, ma è un dono; ringraziamolo per la nostra vita, non ci è dovuta: è un dono. Godiamo di tutti questi doni, godiamo di essere sue creature, frutto del suo amore: godiamo di tutti i doni del creato: del sole che ci riscalda, dei tramonti che ci incantano, degli uccelli che ogni mattina cantano, del respiro che tonifica l’anima, del cuore che batte in noi senza sosta; godiamo perché siamo vivi, perché possiamo parlare, perché possiamo esprimerci, perché possiamo sorridere e piangere. Ringraziamo Dio per gli amici, per le occasioni di migliorare che ci concede, per le possibilità di vita che ci ritroviamo. Tutto questo è “gratis”, è dono. Ringraziamo Dio, perché nulla ci è dovuto. Ringraziamolo perché tutto ciò che avviene, tutto ciò che abbiamo, tutto ciò che ci riguarda, è un dono miracoloso del Suo amore di Padre. Amen.

  

mercoledì 1 ottobre 2025

05 OTTOBRE 2025 – XXVII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


Lc 17,5-10 
In quel tempo, gli apostoli dissero al Signore: «Accresci in noi la fede!». Il Signore rispose: «Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: “Sràdicati e vai a piantarti nel mare”, ed esso vi obbedirebbe. Chi di voi, se ha un servo ad arare o a pascolare il gregge, gli dirà, quando rientra dal campo: “Vieni subito e mettiti a tavola”? Non gli dirà piuttosto: “Prepara da mangiare, stríngiti le vesti ai fianchi e sérvimi, finché avrò mangiato e bevuto, e dopo mangerai e berrai tu”? Avrà forse gratitudine verso quel servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti? Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: “Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”». 

Gli apostoli chiedono a Gesù di aumentare la loro fede. Il fatto che gli chiedano una cosa del genere, sta ad indicare che nel loro animo sentono il bisogno di crescere, di maturare, di capire; dopo i discorsi fatti da Gesù in precedenza, essi si rendono conto di non aver afferrato il vero senso delle sue parole, di essere ancora terra terra, di avere ancora tantissima strada da fare. Indiscutibilmente una prova di umiltà, la loro. Se anche noi arrivassimo a provare sinceramente una simile necessità, beh, significherebbe che stiamo già a un buon punto del nostro cammino. Sarebbe quanto meno una concreta presa di coscienza dei nostri limiti.
Gesù a tale richiesta, tuttavia, non risponde né sì né no; e non dice neppure cosa dovrebbero, o non dovrebbero fare, per raggiungere una maggior comprensione del suo annuncio; si limita semplicemente a indicare alcune possibilità estreme, realizzabili con una fede veramente autentica: un modo per metterli in condizione di fare da soli delle considerazioni, di fare un'autoverifica sulla portata e l’autenticità della loro fede: «Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: “Sradicati e vai a piantarti nel mare”, ed esso vi obbedirebbe».
Un granello di senape è veramente poca cosa, è minuscolo, insignificante, quasi invisibile: salvo poi, una volta seminato, crescere rapidamente a dismisura, per diventare, nell'arco di un solo anno, una pianta alta anche tre o quattro metri. Il gelso, invece, è un albero secolare, che può vivere anche seicento anni; ha radici molto profonde, che si abbarbicano tenacemente nella terra. È un albero molto difficile da sradicare, è simbolo di solidità, di staticità, di inamovibilità. Ora, che un gelso si sradichi dal suo posto e si radichi addirittura nel mare, beh non solo è difficile, ma sicuramente impossibile!
Eppure – dice Gesù – basta una fede minima, purché autentica, sincera, trasparente, per rendere possibile anche l’impossibile.
In altre parole, nessun ostacolo, di qualunque natura, può arrestare il cammino di chi ha un po’ di fede.
Nel vangelo troviamo molti riferimenti sulle possibilità della fede: “Tutto è possibile per chi crede”; “la tua fede ti ha salvato”; “chi ha fede sposta le montagne”; “credete e tutto ciò che chiederete vi sarà dato”, ecc.
Ma come facciamo a misurare la qualità della nostra fede, se abbiamo veramente fiducia in Dio e nella Vita? Semplice: basta guardare a come reagiamo di fronte agli ostacoli che incontriamo.
Abbiamo un problema da affrontare e da risolvere nella nostra vita? Se abbiamo anche un briciolo di fede vera (il granello di senapa!) riusciamo a fare miracoli, anche enormi.
Dobbiamo spostare un “gelso” qualsiasi, quell’albero possente, inattaccabile, che ci sbarra la strada? Il primo impatto ovvio è di esclamare: “Impossibile! Non ce la farò mai! È troppo grande”. Ma quel gelso, in fin dei conti, altro non è che la nostra paura di cambiare, è la paura dell’ignoto, del non sapere cosa ci accadrà poi; è il timore di non essere all’altezza, di non avere le forze per reggere; la paura di guardarci dentro; la paura di affrontare quelli che temiamo, quelli che consideriamo superiori; la paura che ci fa mendicare amore per non rimanere soli; la paura di diventare impopolari, di essere derisi per aver fallito il nostro inserimento nella società; la paura di una malattia improvvisa e mortale...
Ma niente è impossibile, niente insuperabile, niente insopportabile: basta solo un po' di fede. Dobbiamo solo iniziare, darci da fare, metterci in movimento: e poi scopriremo che il nostro iniziale barlume di fede diventerà ben presto enorme (il piccolo seme che diventa un albero rigoglioso) e compirà l'impossibile.
Avere fede non è quindi una questione di “quantità”, come pensavano gli apostoli (“aumentala, dammene di più”), ma di “qualità”: per fare miracoli, anche i più sensazionali, non serve una quantità enorme di fede, una fede immensa; ne basta pochissima, quanto un granello di senape, praticamente “un nulla”; l’essenziale è che sia vera, sincera, autentica, profonda.
Perché avere fede significa avere la certezza di poter realizzare qualcosa, anche se non sappiamo come; significa: “qualunque cosa Dio vorrà da me, io la farò sempre e comunque, anche se la mia testa la considera strana, inutile, inconcepibile, controproducente”.
Non confondiamo poi l’aver fede con la preghiera: pregare non significa aver fede: quanti purtroppo pregano senza fede, anche tra i preti! quante Eucaristie si vedono presiedute da ministri distratti e con la testa altrove, nonostante davanti a loro sia presente Dio in carne e sangue!
E non parliamo di noi “fedeli”: un disastro! Siamo convinti che l’aumento e la purezza della fede dipendano dal visitare i più celebri Santuari mondiali, dal partecipare ai pellegrinaggi di folle oceaniche a Medjugorje, a Fatima, a Pietrelcina o a Lourdes, piuttosto che dalla costante e fedele partecipazione alle umili liturgie settimanali delle proprie Parrocchie.
La fede infatti è una disposizione dell’anima, è prestare attenzione a Dio, è avere piena fiducia in Lui, è convinzione, è certezza incrollabile in Lui, è la percezione netta, convinta, di essere amati da Lui, di non meritare questo Suo amore ma di non poterne fare a meno, di sentirsi protetti da Lui, di poter affrontare e superare con Lui qualunque difficoltà la vita ci riservi.
Questo significa avere fede! In altre parole, la fede in Dio non è quello che sappiamo di Dio, quello che abbiamo studiato di Dio nei trattati di teologia e di mistica; ma è quello che viviamo, come lo viviamo, quanto viviamo di ciò che percepiamo dentro di noi: fede è sentimento, forza, energia, amore, un’emozione incondizionata che regola la nostra esistenza.
Certo, la fede non elimina i problemi e le difficoltà della vita: ci dà però sicuramente la pace e la serenità per poterli affrontare. L'uomo di fede vive con una fiducia profonda: “Io sono protetto da Dio; Lui è con me. Se Lui è con me, di cosa ho paura? Perché mi devo preoccupare? Perché devo temere?”. In questo modo affronta ogni cosa con tale energia da riuscire a piegare veramente gli eventi e le situazioni anche più gravi a suo favore.
Il Vangelo, poi, introduce alcune situazioni che non intendono tanto descrivere il comportamento di Dio verso l’uomo, quanto, piuttosto, il nostro comportamento di uomini verso Dio: un comportamento nei suoi confronti che deve essere di totale disponibilità, senza calcoli, senza pretese, senza contratti.
Non si entra nello spirito del vangelo con lo spirito del salariato: “tante ore di lavoro, e tanto di paga, nulla di più e nulla di meno”. Con Dio, dopo una giornata piena di lavoro, non possiamo dire “ho finito” e soprattutto non possiamo accampare diritti. Non dobbiamo mai vantarci di quanto abbiamo fatto, mai fare confronti con gli altri; ma semplicemente dire: “ho fatto solo il mio dovere, sono soltanto un tuo umile servo”.
L’esempio portato da Gesù è chiaro: non è infatti pensabile che un padrone dica ai suoi servi, al loro ritorno dai campi: “Beh, adesso sedetevi che vi preparo e vi servo la cena”. Piuttosto dirà: “Ora che siete qui, preparatemi la cena e servitemela!”. Non è infatti compito del padrone servire i servi; sono loro che devono servire il padrone. E il padrone, una volta servito, non deve certo sentirsi obbligato nei loro confronti, perché hanno fatto soltanto ciò che rientrava nei loro compiti. Così “anche voi quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: “Siamo servi inutili”.  
Ma cosa mai vorrà veramente dire Gesù con le parole “Servi inutili”? Nel testo greco questo aggettivo è “acreios”, tradotto in italiano con “inutili”, pur essendo evidente che i servi della parabola, avendo compiuto quanto era stato loro comandato, non sono stati affatto “inutili”; 
“acreios” è un termine particolare con cui si qualifica più che una persona, un suo atteggiamento: nel nostro caso, è latteggiamento di particolare modestia tipico delle persone umili, che lavorano senza ostentazione, senza presunzioni, che si sentono “inadeguati”, “incompetenti”; per cui, dopo aver eseguito l’ordine nel rispetto di tutte le regole impartite, e aver ottenuto un risultato eccellente, si sentono comunque in cuor loro degli incapaci”, decisamente “inferiori” rispetto a colui che impartisce loro gli ordini con tanta precisione: effettivamente lui è su un piano superiore, e  merita pertanto stima, obbedienza, ammirazione; si rendono conto insomma di essere dei servitori autonomamente incapaci, dei semplici  operatori”, e che il loro dovere è di eseguire sempre gli ordini dall’alto con cura, dedizione e perfezione. Questo è quanto: per cui “servire Dio” è per sua stessa natura gratuito, deve cioè rientrare nella logica del dono: è quanto ribadisce Gesù stesso, inviando i suoi discepoli per il mondo: “Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date!” (Mt 10,8).
Possiamo quindi dire che la parabola di oggi colpisce in particolare una certa mentalità dell’epoca, per i quali l’osservanza della Legge, la fedeltà ai precetti religiosi, costituivano un diritto, un titolo di credito divino; la loro fedeltà diventava merce di scambio: un “do ut des”: “Sono stato bravo, rispettoso, obbediente, non mi sono mai comportato male: per questo tu mi devi un premio; mi devi vicinanza, aiuto, amore: tutte cose che mi spettano di diritto!”.
Una mentalità che purtroppo è presente molto spesso anche tra noi, soprattutto quando rivolgiamo a Dio le nostre preghiere: l’aver fatto delle donazioni, delle offerte, l’essere stati caritatevoli, puntuali nei nostri doveri di cristiani, l’aver frequentato la Chiesa, ci dà in qualche modo la pretesa di avere in cambio da Lui grazie e benefici, di evitarci malattie, di risparmiarci tragedie, disgrazie, e via dicendo; quando preghiamo, invece, dobbiamo stare molto attenti a non mercanteggiare con Dio; evitiamo di imporgli la nostra volontà, rinfacciandogli, quasi, i nostri rari, inesistenti “meriti”.
La vera preghiera a Dio, al contrario, deve servirci solo per aprirgli il nostro cuore, per convertire la nostra anima, per accettare più docilmente la Sua volontà, per esprimergli tutto il nostro amore, la nostra riconoscenza, assumendo sempre nei Suoi confronti, lo stesso umile comportamento del giovane Samuele: “Parla Signore, che il tuo servo ti ascolta” (1Sam 3,10).
Soprattutto non dobbiamo mai dimenticare che siamo sempre e comunque dei servi “inutili”. Evitiamo dunque di armarci di quel sacro “zelo” da “affiliati”, del “lei non sa chi sono io”, così diffuso e così fuori luogo; non imbarchiamoci in “sante crociate” personali, non pretendiamo incarichi per i quali spesso siamo decisamente inadeguati. Impariamo a stare umilmente al nostro posto, accettando di buon grado le scelte dei nostri pastori, ancorché non condivise. Quello che Gesù vuole da noi è che viviamo da persone di grande fede, che andiamo avanti per la sua strada con un cuore umile e caritatevole, stracolmo di pace, completamente aperto all’accoglienza dei nostri fratelli, pregando per il trionfo della sua Parola e della sua Chiesa: con gioia, riconoscenza, serenità. Nient’altro. Accantoniamo quindi definitivamente le nostre arie di superiorità, inopportune e commiserevoli. Lasciamo fare a Dio il suo mestiere: perché, lo ripeto, noi non abbiamo proprio nulla da insegnargli. Amen.

 

 

giovedì 25 settembre 2025

28 SETTEMBRE 2025 – XXVI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


Lc 16,19-31 
In quel tempo, Gesù disse ai farisei: «C’era un uomo ricco, che indossava vestiti di porpora e di lino finissimo, e ogni giorno si dava a lauti banchetti. Un povero, di nome Lazzaro, stava alla sua porta, coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola del ricco; ma erano i cani che venivano a leccare le sue piaghe. Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli accanto ad Abramo. Morì anche il ricco e fu sepolto. Stando negli inferi fra i tormenti, alzò gli occhi e vide di lontano Abramo, e Lazzaro accanto a lui. Allora gridando disse: “Padre Abramo, abbi pietà di me e manda Lazzaro a intingere nell’acqua la punta del dito e a bagnarmi la lingua, perché soffro terribilmente in questa fiamma”. Ma Abramo rispose: “Figlio, ricòrdati che, nella vita, tu hai ricevuto i tuoi beni, e Lazzaro i suoi mali; ma ora in questo modo lui è consolato, tu invece sei in mezzo ai tormenti. Per di più, tra noi e voi è stato fissato un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da voi, non possono, né di lì possono giungere fino a noi”. E quello replicò: “Allora, padre, ti prego di mandare Lazzaro a casa di mio padre, perché ho cinque fratelli. Li ammonisca severamente, perché non vengano anch’essi in questo luogo di tormento”. Ma Abramo rispose: “Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino loro”. E lui replicò: “No, padre Abramo, ma se dai morti qualcuno andrà da loro, si convertiranno”. Abramo rispose: “Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti”».

Il vangelo di oggi ci presenta in primo piano due personaggi, uno ricco e l’altro povero. Il ricco ha tutto: vestiti di porpora e bisso, una casa signorile, cibo a volontà per sfamarsi abbondantemente tutti i giorni; ha “fratelli”, cioè amici, ha relazioni, amore; alla sua morte ha una sepoltura, cosa che solo i ricchi, i potenti, potevano permettersi a quel tempo. Non è cattivo, non è malvagio, non fa niente di male: ha tutto, non gli manca nulla, non gli serve proprio niente. Solo una cosa gli manca: un nome che lo identifichi; il testo lo individua semplicemente come “un uomo ricco”.
Poi c’è l’altro personaggio che, a differenza del primo, non ha assolutamente nulla: non ha casa, non ha cibo, non ha amici, non ha sepoltura; è solo con i suoi cani, indifeso, affamato, malato, ricoperto di piaghe, bisognoso di cibo e di cure. L’unica cosa che possiede è un nome: Lazzaro.
Per la Bibbia, il nome è fondamentale, perché in qualche modo riassume la vita della persona che lo porta, è la sua immagine speculare; persona e nome coincidono. All’epoca avere un nome significava conoscere in proiezione la propria vita, voleva dire conoscere la propria identità, il proprio futuro, il programma preciso da realizzare, insomma, voleva dire “essere vivi”.
Nel nostro caso il nome “Lazzaro” significa “Dio aiuta, Dio provvede, Dio salva”. Il poveretto, trovandosi infatti in una situazione disperata, di assoluta necessità, può contare solo sull’aiuto di qualcuno, spera che qualcuno si prenda cura di lui, che gli dia una mano, che lo salvi dalla sua condizione: in pratica si affida a Dio, ha bisogno assoluto di Lui.
Il ricco, invece, non avendo un nome come quasi tutti i ricchi del vangelo di Luca, non ha un progetto di vita, un programma, non è interessato a nulla; è incosciente, irresponsabile, vive le cose superficialmente, nulla lo interessa, nulla attira la sua attenzione; non si accorge neppure di Lazzaro: eppure gli era lì, tra i piedi, tutti i giorni; mendicava alla sua porta, chiedeva, si lamentava, gridava il suo disagio, il suo malessere: come ha potuto non vederlo? Questo è il problema; questo è stato il motivo della sua condanna finale: non accorgersi, non voler vedere, non voler rendersi conto di nulla.
Ebbene: questo è esattamente quanto il vangelo di oggi vuol dirci: anche noi subiremo lo stesso trattamento del ricco, se vivremo ignorando il “Lazzaro” che è dentro di noi: non prestando cioè alcuna attenzione alla nostra anima, alle sue necessità, ai disagi profondi in cui la costringiamo a vivere!
“Lazzaro” infatti siamo noi, è la nostra anima, il nostro “io” più profondo. Quante volte ci siamo trovati anche noi a mendicare amore! Quante volte nella nostra vita abbiamo avuto bisogno di aiuto, di tenerezza, di comprensione, e nessuno ci ha soccorso! Non sentirsi amati, aiutati, considerati, è sicuramente tremendo per tutti: fa sempre male stendere la mano per chiedere, per aprirsi, per pregare qualcuno che ci presti attenzione, che ci ascolti, che lenisca il nostro dolore, ricolmando il vuoto abissale del nostro cuore: c’è sempre il timore di ricevere un no, di venire apertamente ignorati, rifiutati! Viviamo schiavi della paura: di parlare, di uscire, di fare le nostre scelte, di gestire la nostra vita, perché temiamo il giudizio impietoso degli altri; e così ci perdiamo nella ricerca irrazionale dell’effimero, dell’apparire, almeno esteriormente, importanti, del sembrare un qualcuno che non siamo.
Ma “Lazzaro” sono anche coloro che ci stanno vicino: sono le persone tristi, quelle che ci gridano di star male, di aver bisogno di noi, della nostra attenzione: se infatti chi ci è vicino non parla mai, è sempre chiuso in sé stesso, se interrogato ammutolisce, forse vuol dire che ci sta urlando silenziosamente la sua paura. Allora, evitiamo di fare gli indifferenti, di non vedere e non sentir nulla: vediamole invece queste persone, accogliamole, ascoltiamole, cerchiamo di capire il loro dramma interiore!
Come possiamo ignorare proprio chi ci sta più vicino? Chi ha più bisogno della nostra presenza, delle nostre parole, delle nostre dimostrazioni di stima, del nostro amore? Come facciamo a non vedere in tutti questi “Lazzaro” che ci vivono a fianco, i dolori, i pesi, le delusioni che opprimono il loro cuore? Eppure noi continuiamo a non vederli, a non sentirli, siamo distratti, immersi solo nelle nostre cose, nei nostri affari privati, nei nostri inutili passatempo, senza accorgerci che, come l’uomo ricco, viviamo già nell’inferno: nell’inferno della mancanza di amore, della solitudine, dell’abbandono, delle porte del cuore e della mente ermeticamente sbarrate: viviamo in quell’inferno drammatico che è la chiusura totale a Dio, non permettendogli di entrare con la sua luce dentro di noi, nella nostra solitudine, nella nostra sofferenza, per portare ascolto, liberazione, pace, perdono, misericordia.
Ecco perché l’inferno o il paradiso è nelle nostre mani: perché tocca solo a noi decidere se ospitare Lazzaro o lasciarlo fuori. Tutti abbiamo a nostra disposizione “Mosè e i Profeti”; ma molto spesso preferiamo vivere a modo nostro, conducendo una vita insensata, ignorando volutamente i richiami di Dio, i suoi inviti alla conversione.
In questa vita abbiamo tutte le possibilità per imparare, per coltivare la nostra sensibilità, per fare esperienze, per far crescere spiritualmente la nostra anima: ma i risultati sono pochi.
Cos’altro ci serve per salvarci? Abbiamo forse bisogno di altri profeti, di altri insegnamenti, di nuovi eventi eccezionali?
Nossignori: è sufficiente quanto già abbiamo a nostra disposizione: la fede che ci indica il “come”, e la carità con cui “metterlo in pratica”! Non servono altri “miracoli”: del resto il miracolo più bello lo viviamo ogni giorno: quando, risvegliandoci al mattino, riapriamo gli occhi alla vita, potendo assaporare ogni istante di questo splendido dono divino che è la vita, l’amore, il cielo, il creato! Abbiamo già tutto per poterci elevare, per far risplendere e testimoniare nel mondo la dignità umana riflessa in Dio.
Eppure tutto ciò non ci entusiasma, non ci stupisce, non ci commuove. Perché, purtroppo, siamo esseri volubili, impastati di luce e di ombra: possiamo cioè essere contemporaneamente i “poveri” come Lazzaro e i “ricchi” come l’epulone gaudente; possiamo essere i bisognosi, i nullatenenti, i sofferenti prediletti da Dio, ma anche, e forse più, quelli che non guardano in faccia a nessuno, quelli che si chiudono nel loro egoismo rifiutando gli altri, quelli che sprecano la vita senza far nulla, quelli che non vogliono impegni né con Dio né col prossimo.
Siamo insomma creature “divine”, ma anche terribilmente “umane”, perché preferiamo seguire la soluzione del ricco, quella più semplice di chiudere gli occhi e far finta di nulla. Anche se poi questo nostro brancolare nel buio ci spaventa, ci angoscia, ci crea sgomento, ci destabilizza.
Non appena però una piccolissima scintilla di Luce riesce a squarciare le tenebre del nostro cuore, immediatamente tutti i nostri inferni si attenuano, tutto diventa sopportabile, vivibile. Perché, nonostante la nostra inadeguatezza, noi siamo figli della Luce, siamo figli del Dio Amore, creati per vivere nella Luce di quel Padre che ci ama e che pazientemente aspetta la nostra “trasfigurazione” per introdurci un giorno, come Lazzaro, nello splendore dell’Amore eterno. Amen. 

  

giovedì 18 settembre 2025

21 SETTEMBRE 2025 – XXV DOMENICA DEL T.O.


Lc 16,1-13  
In quel tempo, Gesù diceva ai discepoli: «Un uomo ricco aveva un amministratore, e questi fu accusato dinanzi a lui di sperperare i suoi averi. Lo chiamò e gli disse: “Che cosa sento dire di te? Rendi conto della tua amministrazione, perché non potrai più amministrare”. L’amministratore disse tra sé: “Che cosa farò, ora che il mio padrone mi toglie l’amministrazione? Zappare, non ne ho la forza; mendicare, mi vergogno. So io che cosa farò perché, quando sarò stato allontanato dall’amministrazione, ci sia qualcuno che mi accolga in casa sua”. Chiamò uno per uno i debitori del suo padrone e disse al primo: “Tu quanto devi al mio padrone?”. Quello rispose: “Cento barili d’olio”. Gli disse: “Prendi la tua ricevuta, siediti subito e scrivi cinquanta”. Poi disse a un altro: “Tu quanto devi?”. Rispose: “Cento misure di grano”. Gli disse: “Prendi la tua ricevuta e scrivi ottanta”. Il padrone lodò quell’amministratore disonesto, perché aveva agito con scaltrezza. I figli di questo mondo, infatti, verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce. Ebbene, io vi dico: fatevi degli amici con la ricchezza disonesta, perché, quando questa verrà a mancare, essi vi accolgano nelle dimore eterne.
Chi è fedele in cose di poco conto, è fedele anche in cose importanti; e chi è disonesto in cose di poco conto, è disonesto anche in cose importanti. Se dunque non siete stati fedeli nella ricchezza disonesta, chi vi affiderà quella vera? E se non siete stati fedeli nella ricchezza altrui, chi vi darà la vostra? Nessun servitore può servire due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire Dio e la ricchezza».

Riconosciamolo: la parabola del Vangelo di oggi ci imbarazza, ci mette a disagio: come fa Gesù a lodare uno che ruba? Un disonesto? Possibile che Gesù abbia detto proprio una cosa del genere? Ebbene: le parole sono proprio sue. Soltanto che Gesù non intende lodare l'amministratore per ciò che ha fatto, come potrebbe sembrare ad un approccio superficiale col testo. Dove infatti la traduzione dal testo greco dice: «Il “padrone” lodò l'amministratore disonesto», dimostra di non aver colto il vero significato del testo: è impensabile infatti che un “padrone”, per quanto bravo e santo che sia, accortosi di essere stato derubato dal suo dipendente gli dica: “Complimenti, hai fatto proprio un gran bel lavoro! Hai tutta la mia stima!”. Per capire il vero senso delle parole di Gesù, era invece sufficiente tradurre il termine greco “κÀριος” del versetto 8, con “Signore”, invece che con “padrone”: “κÀριος” infatti. è l’appellativo con cui Luca abitualmente indica la persona di Gesù (lo usa ben 103 volte nel Vangelo e 107 negli Atti); in questo modo la frase diventa immediatamente logica e comprensibile: “Il κÀριος (il “Signore”, cioè Gesù”) lodò il comportamento dell’amministratore” «perché aveva agito con scaltrezza»; quindi non è il padrone, ma è Gesù che loda e propone da imitare, non ciò che l’amministratore fa in concreto, ma il modo con cui lo fa; loda la sua immediata reazione, la sua prontezza nel prendere una decisione, la sua determinazione nel voler rimediare ad una situazione imprevista. Non si è stracciato le vesti, non si è disperato, non si è messo a urlare a vuoto, non ha chiuso gli occhi aspettando la soluzione chissà da chi. In parole povere, insomma, Gesù vuol dire: “come miei discepoli, non dovete assolutamente essere delle persone imbambolate, inconcludenti, persone a cui tutto è indifferente, vada come vada. Dovete essere reattivi, responsabili, pronti a rimettervi in piedi se cadete, ad essere propositivi, esattamente come quell’amministratore, che ha saputo prendere in mano la situazione”. 
Il comportamento che dobbiamo pertanto seguire è molto semplice: ci accorgiamo che in certe situazioni non possiamo più “operare”? Che la strada imboccata non è più praticabile? Inutile perder tempo: dobbiamo trovarne prontamente un’altra, dobbiamo agire in modo diverso, con una logica diversa; dobbiamo insomma fare scelte mirate, più creative, più concrete, più efficaci. Questo, in particolare, quando ci rendiamo conto di aver sbagliato; così per esempio: abbiamo capito di aver calpestato i principi del Vangelo, della nostra fede, tradendo noi stessi e la fiducia riposta in noi dagli altri? Inutile continuare all’infinito a lacerarci l’anima, non serve assolutamente a nulla: ormai è successo. Certo: siamo stati degli sprovveduti, dei superficiali, degli “infedeli”, stupidamente troppo sicuri di noi stessi; ma a questo punto vogliamo forse farla finita? A che servirebbe morire (dentro o fuori che sia)? Cosa risolveremmo? Ciò che è stato è stato. E se il passato non si può cambiare, guardiamo al domani: perché se siamo stati noi a sbagliare, a comportarci male, siamo sempre noi, solo noi, che dobbiamo cambiare, che dobbiamo chiedere perdono a Dio e al prossimo, e riparare per quanto possibile al danno che abbiamo procurato; siamo solo noi, insomma, che dobbiamo correggerci, che dobbiamo perdonarci e risorgere con nuovo slancio.
È l’unico modo per salvare il salvabile e riacquistare la nostra dignità. In qualunque “caduta” siamo incorsi, dobbiamo perdonarci: dove “perdonarci”, significa riconoscere il mal fatto, significa provarne un sincero dispiacere: non tanto in noi stessi, privatamente, nella nostra coscienza, ma di fronte a “qualcuno” che sacramentalmente può perdonarci in nome di Dio. Dopo di che rialziamoci e, spiritualmente rinati, riprendiamo il nostro percorso a testa alta.  
Altra indicazione del vangelo di oggi è che dobbiamo accorgerci degli altri, dei nostri fratelli, di quelli che vivono al nostro fianco, e aiutarli. Come ha fatto il contabile infedele; finora egli aveva “usato” le persone, le aveva trattate senza cuore e senza umanità; per lui era tutta gente da spremere il più possibile. Ora improvvisamente si accorge che non erano degli oggetti, delle semplici opportunità, ma delle persone, degli uomini bisognosi di comprensione, di carità, di misericordia, di aiuto. E come mai se ne accorge? Perché capisce di trovarsi ora nella loro identica condizione: anche lui ora è un “debitore” del padrone, esattamente come loro; anche lui ora vede le cose dalla loro stessa prospettiva. Ed è in questo momento - quando cioè, caduto in basso, è costretto ad affrontare le loro stesse situazioni compromesse - che esplode in lui l’importanza della misericordia: l’uomo perfetto e potente, quello al di sopra di tutti, quello che non sbaglia mai, non la conosce, non sa cosa significhi: per cui non potrà mai usarla; non potrà mai dispensare comprensione, amore, al debole che cade, perché lui si ritiene inattaccabile, invincibile, non ammette debolezze, non accetta cadute. Lui, l’impeccabile, non può che appellarsi alla legge, alle regole, alle norme, e trattare i deboli soltanto appellandosi ad esse, con superiorità. Solo chi ha sperimentato sulla propria pelle cosa significhi sbagliare, sentirsi peccatore, uno schifo, sentirsi indegno, colpevole, può apprezzare la misericordia, il bisogno tormentoso di perdono, di amore, di conforto. Chi è convinto di non sbagliare mai, non conosce il Dio dell’amore e della misericordia; lui non ne ha bisogno, non deve chiedergli nulla; l’amore di Dio per lui è un diritto.
È vero: in genere tutti ci riconosciamo peccatori, di essere deboli e di sbagliare: ma gran parte di noi, nel loro intimo, sono convinti di non esserlo poi così tanto. Il vero guaio, in questi casi, non sta tanto nel fare o non fare degli errori, ma nel non voler riconoscere la possibilità di farli; così, pur professandoci peccatori, continuiamo a considerarci persone brave, oneste, rette. Salvo poi essere dei critici spietati, intransigenti, con quanti vediamo cadere.
Ebbene, è su questo che dobbiamo lavorare: l'uomo del vangelo, come abbiamo detto, trasforma radicalmente il suo modo di pensare e di agire, e ci mette in questo tutta la sua passione, la sua grinta, la sua scaltrezza. Trasforma cioè una serie di errori compiuti nel passato, in un impegno, serio e attuale, di raddrizzare una situazione compromessa.
Il “perfetto”, l’integro, l’osservante, non può conoscere questo tipo di “conversione”; il “perfetto” non si espone, non ne ha bisogno, perché lui “non ha” colpe nascoste, “non ha” lati distorti da raddrizzare.
Gesù stesso non è tanto preoccupato per il nostro sbagliare. Egli è molto più preoccupato del nostro non ammettere l’errore, del nostro far finta di nulla, del nostro comportarci come se tutto fosse in ordine, a posto; quando invece a posto non lo siamo affatto.
È molto importante, a questo proposito, essere consapevoli che il nostro continuare a vivere nella colpa, nell’indifferenza, con una condotta amorale, con degli scheletri putrefatti nell’armadio della nostra coscienza, sono non solo delle zavorre che ostacolano il nostro progresso spirituale, ma anche delle miserie, delle tare, dei “geni patogeni” che trasmettiamo in qualche modo alla nostra memoria biologica: nel senso che i nostri figli subiranno inconsapevolmente le conseguenze di questa nostra ostinata incoscienza: se infatti nella nostra vita siamo permissivi in tutto, se siamo incuranti dei valori, se non dimostriamo ai figli di essere obiettivi, onesti, di saperci assumere le nostre responsabilità, di ammettere i nostri errori, di riparare ai torti fatti, di avere il coraggio di chiedere perdono, sarà naturale per loro imitare e reiterare nella loro vita questi nostri esempi negativi: otterremo cioè, con molta probabilità, dei figli irresponsabili, indifferenti a Dio , alla famiglia, ad ogni valore morale irrinunciabile.
Allora, se ci accorgiamo di vivere una vita vuota, se sentiamo su di noi il peso delle nostre colpe, non continuiamo a fingere, non rimaniamo un minuto di più in tale situazione. Facciamolo per noi e per chi amiamo. Così, se ci sentiamo in colpa perché non siamo quelli che vorremmo, non rimandiamo sine die il nostro cambiamento, diamoci da fare, non è mai troppo tardi! Non deludiamo noi stessi e i nostri figli con il nostro far nulla: pentiamoci seriamente, invece, buttiamo tutte le nostre deficienze alle spalle, e perdoniamoci: si, perdoniamoci, perché solo così ci libereremo dall’influsso nefasto delle nostre colpe. Ma cosa significa in definitiva questo “liberarci”, questo “perdonarci”? Significa confessare a Dio le nostre miserie, significa riconoscere umilmente di aver sbagliato e ammettere il nostro errore, significa chiedere perdono a Lui e a chi abbiamo in qualche modo danneggiato; significa riparare per quanto possibile al danno commesso. Solo in questo modo riusciremo a vivere da perdonati, da liberi, da graziati; solo in questo modo, potremo nuovamente “trasfigurarci” nella gioia, nella luce e nell’amore del Padre. Amen.


martedì 9 settembre 2025

14 SETTEMBRE 2025 – ESALTAZIONE DELLA SANTA CROCE


Gv, 3,13-17  
In quel tempo, Gesù disse a Nicodèmo: «Nessuno è mai salito al cielo, se non colui che è disceso dal cielo, il Figlio dell’uomo. E come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna. Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui».

Giovanni, con poche ma incisive parole, ci spiega il grande mistero di Dio: Dio è venuto nel mondo per amarci, per accoglierci, per starci vicino, per farci vedere come potremmo vivere, con quale estensione del nostro cuore, con quale dilatazione della nostra anima, con quale vibrazione e intensità per la nostra vita. 
Il testo di oggi è tratto dal lungo discorso che Gesù intrattiene con Nicodemo. Nicodemo è un fariseo, fa parte dell’aristocrazia sacerdotale, è un maestro, un profondo conoscitore della Bibbia e della religione. Ma gli manca qualcosa, avverte una profonda inquietudine, percepisce che c’è qualcosa di più grande, di “oltre”. È un uomo che non si accontenta, uno che vuol capire, che vuol vivere più in profondità. E Gesù gli fa una proposta immensa, a prima vista irrealizzabile: “Devi rinascere”.
Sostanzialmente gli dice: “Quello che tu oggi chiami vita, io la chiamo morte. Abbandona questo tuo modo di vivere, di pensare: ed io ti mostrerò cosa vuol dire vivere per davvero”. Una proposta che avrebbe emozionato chiunque, che avrebbe entusiasmato, stuzzicato chiunque avesse un cuore assetato di verità, di amore, di vita vera come il suo: Gesù è uno che fa proposte nuove, proposte che rompono tutti gli schemi, le convenzioni e le abitudini; apre orizzonti nuovi e impensati, è davvero una persona affascinante, attraente, perché presenta un modo di vivere estremo, meraviglioso, intenso, da “mozzare il fiato”. Gesù è per anime grandi: non si concilia con chi ama il quieto vivere, il tran-tran quotidiano, il piccolo cabotaggio: prova ne sia a testimonianza la vita degli apostoli, dei santi, delle grandi figure della cristianità.
Chi vuol vivere sulla difensiva, senza rischiare troppo, è meglio che lasci perdere. Perché Gesù è Amore, e come l’amore, coinvolge, sconvolge, appassiona: vuole tutto, pretende tutto, conquista tutto. Gesù è il fuoco: se non bruciamo per Lui, non lo conosceremo mai. Gesù è come la vita: o la viviamo con Lui o rimarremo sempre ai margini.
Quindi, a Nicodemo, in pratica spiega: “Se vuoi capire veramente chi sono io, lascia stare la tua Legge, le tue regole, le tue norme, la tua morale. Devi rinascere. Devi far morire il tuo mondo di illusioni, di falsità, di apparenza, di vuoto, di buone maniere: apri gli occhi e mira in alto!”.
E cita come esempio il caso degli israeliti infedeli e mormoratori, che durante la fuga dell’esodo, si erano ribellati a Dio e per questo vennero puniti con la piaga dei serpenti: per evitare la morte, dovevano guardare in alto, alla sommità di un’asta, sulla quale Mosè aveva fissato un serpente bronzeo: il serpente segno di pericolo, di morte, di disperazione, di rovina, si trasformava in quel momento in donatore di vita.
Ed è esattamente quanto succederà più tardi con Gesù: una volta inchiodato ed elevato in alto sulla croce, simbolo del patibolo e dell’apparente fallimento, Egli la trasformerà da motivo di morte in sorgente di vita, di amore, di vittoria, di grazia: pertanto l’esortazione che Gesù rivolge a Nicodemo, acquista, in pratica, un valore fondamentale anche per tutti noi: “Non abbiate paura di quanto nella vita vi affligge, vi inquieta, vi angoscia: fidatevi di me: guardatemi con fiducia sulla croce, perché è grazie ad essa che io vi ho riscattato tutti: per proteggervi, guidarvi, consolarvi e soprattutto amarvi!”.
Guardiamo allora in faccia alle nostre paure ancestrali, soprattutto al terrore della morte. La grande verità è che tutti moriremo. Dovremo lasciare le persone che amiamo di più, i nostri figli, i nostri cari, la nostra casa, tutto! Vivere così ci aliena, è tremendo, doloroso, angosciante.
Ma ora sappiamo che la morte non potrà decretare la nostra fine assoluta: dall’altro lato del tunnel tetro e buio, una luce improvvisa ci illumina. Dal profondo dell’angoscia esplode una nuova vita luminosa, brillante: è la vittoria della risurrezione, della fiducia appagata, dell’amore misericordioso meritato. E non saremo mai più gli stessi di prima.
Questo, per Giovanni, è il risultato del nostro “credere”: credere è quando noi nel bel mezzo della disperazione troviamo la Forza, incontriamo Dio, e ci affidiamo a Lui, fidandoci ciecamente di Lui. E allora? Smettiamo una buona volta di voler “razionalizzare” ogni cosa, di cercare sempre nel mondo nuove soluzioni, nuovi stili vita: perché il mondo non potrà mai darci alcuna vera risposta! Apriamoci piuttosto al nostro più profondo bisogno d’amore, alla ricchezza di quelle emozioni celesti che sorreggono il nostro cuore, alla tenerezza di quell’abbraccio divino che non reprime, non abbatte, non soffoca: un abbraccio paterno che offre solo tenerezza, comprensione e misericordia; e allora capiremo cosa significa sentirci degni di vivere con Dio, perché ci sentiremo veramente figli suoi; e capiremo che noi, ai suoi occhi, siamo “grandi” da sempre, perché ci ha voluti di proposito a sua immagine e somiglianza.
Questa è la realtà: per cui la nostra unica preoccupazione deve essere solo quella di riappropriarci di tale somiglianza (se con la nostra stupidità l’abbiamo rovinata!), e di mantenerla sempre con i tratti autentici dell’Originale: smettiamo decisi di inseguire falsi e distruttivi ideali di vita: le ricchezze, la carriera, il successo, la gloria. Alziamo lo sguardo lassù sulla croce, e mettiamoci fiduciosi tra quelle braccia spalancate, torturate dalle nostre infedeltà. E vedrete che immancabilmente percepiremo nell’anima quel meraviglioso, inebriante e stupendo fremito che si chiama “vita con Dio”. Chi crede “vive”, chi vive “crede”. Amen.