mercoledì 8 ottobre 2025

12 OTTOBRE 2025 – XXVIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


Lc 17,11-19 
Lungo il cammino verso Gerusalemme, Gesù attraversava la Samarìa e la Galilea. Entrando in un villaggio, gli vennero incontro dieci lebbrosi, che si fermarono a distanza e dissero ad alta voce: «Gesù, maestro, abbi pietà di noi!». Appena li vide, Gesù disse loro: «Andate a presentarvi ai sacerdoti». E mentre essi andavano, furono purificati. Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce, e si prostrò davanti a Gesù, ai suoi piedi, per ringraziarlo. Era un Samaritano. Ma Gesù osservò: «Non ne sono stati purificati dieci? E gli altri nove dove sono? Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?». E gli disse: «Àlzati e va’; la tua fede ti ha salvato!».

Il vangelo parla di dieci “guarigioni” e di un solo “miracolo”: dieci lebbrosi vanno da Gesù e vengono guariti, ma uno solo si rende conto di ciò che realmente gli è successo, solo in lui avviene il miracolo della conversione. Perché “guarire spiritualmente” è molto più che ottenere la guarigione corporale; “guarire” non è un qualcosa di statico, di automatico: implica sempre una personale trasformazione, una conversione interiore. 
Gesù dunque entra in un villaggio e gli vanno incontro dieci lebbrosi. La lebbra, allora, era considerata la peggiore delle malattie, non tanto per gli effetti devastanti sulla persona, quanto per le conseguenze sociali che comportava: il lebbroso per la società era infatti un morto vivente, un isolato, un escluso, non poteva avere più contatti con nessuno. Avere la lebbra era una sentenza di morte lenta. Nel caso di una improbabile guarigione, era il sacerdote che aveva il compito di esaminare il lebbroso e soltanto dopo averlo sottoposto a tutta una serie di riti, poteva dichiararlo “puro”, cioè guarito, e reinserirlo nella società.
Qui Gesù – contrariamente al suo normale comportamento nei casi di guarigione - non fa nulla: non tocca i lebbrosi, non li guarisce immediatamente, non si informa su di loro, sulla loro vita. Li manda semplicemente dai sacerdoti, ancora malati, ancora lebbrosi. Come mai? Non poteva guarirli subito? Gesù al contrario voleva mettere alla prova quanto la loro fede fosse sincera: la loro guarigione era condizionata al loro semplice presentarsi ai sacerdoti.
Non è semplice per loro avvicinarsi a quella gente e a quelle autorità che li rifiutavano proprio per la loro malattia: ma essi, pur vergognandosi della loro condizione, sfidano il giudizio e il rifiuto dell’intero villaggio e si recano comunque dai sacerdoti. Ecco: il segreto della loro guarigione sta proprio qui: nell’aver obbedito a Gesù credendo alle sue parole, e nell’affrontare proprio la situazione per essi più problematica e temibile.
Cosa significa: che se noi non crediamo veramente in qualcosa di più grande, di più utile e benefico per noi, e non facciamo nulla al riguardo, è impossibile che questo qualcosa si concretizzi spontaneamente. Se noi non crediamo che Dio ci ama, che Lui può cambiare la nostra vita, la nostra condizione di peccatori, se dubitiamo di Lui, se siamo scettici, Dio non potrà mai trasformarci. Se non crediamo di poter veramente guarire, e non facciamo nulla per provarci, non guariremo mai!
Molte persone continuano a vivere nelle loro malattie, nelle loro paure, nelle loro situazioni negative, perché non credono che “la guarigione” possa capitare proprio a loro.
Purtroppo, quando siamo colpevoli, quando ci rendiamo conto di aver fallito, il nostro impulso è quello di scappare, di nasconderci, di evitare qualunque incontro. Gesù invece ci dice: “Fuori”. “Hai paura di esporti? Ebbene: è proprio lì che devi andare! Vai, apriti, fatti vedere dai sacerdoti, chiedi e non vergognarti”.
Ai lebbrosi che invocavano la sua misericordia, Gesù infatti non dice: “Andate nel tempio e fermatevi lì a pregare”, ma: “Andate dai sacerdoti”. Ciò che Lui richiede è un’azione, non un’attesa rassegnata, una staticità passiva, un girarsi dall’altra parte; la preghiera, la richiesta di guarigione, deve trasformarsi in “movimento”, in energia. Non basta chiedere; è necessario “pregare”, convinti e sinceri: perché pregare con fede, richiede l’agire, comporta il darsi da fare. In caso contrario la preghiera rimane un lamento inutile, una vuota e arida filastrocca. Pregare è uscire, combattere, affrontare ciò che temiamo; è muoversi, è cambiare, è obbedire esattamente a ciò che Lui ha detto.
Non cadiamo nel qualunquismo religioso, non facciamo del nostro credo, del nostro vangelo, della Parola di Dio, solo un’egoistica sintesi personale di ciò che ci fa comodo. I miracoli avvengono, ma solo se noi crediamo in Dio con fede autentica, intima, cristallina; altrimenti Lui non può intervenire. Non basta sperarlo, non basta desiderarlo, non basta volerlo ardentemente: il miracolo, la guarigione, avviene solo se noi Gli crediamo veramente, dimostrando la nostra fedeltà con le opere, con una vita fedele ai suoi insegnamenti.
Tutti e dieci i lebbrosi guariscono, ma uno solo torna indietro a ringraziare. Perché? Non erano stati guariti tutti e dieci? Il vangelo spiega che “uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro”. Ebbene: è proprio quel “vedendosi” che è decisivo. Uno di loro “vede”, si accorge di ciò che gli è successo: se ne rende conto, riconosce il dono, la benedizione, la grandezza di ciò che gli è successo. E gli altri? Degli altri non si dice che abbiano “visto”. Hanno eseguito materialmente l’invito di Gesù andando dai sacerdoti: hanno obbedito al suo ordine e si sentono a posto. Ma questa è la religione del “contabile”: tu mi comandi una cosa, io la faccio e siamo pari. Non si sono accorti del dono; non sono stati toccati nel profondo. Sono guariti dalla malattia ma non sono cambiati dentro. Sono guariti ma non hanno considerato l’amore di Dio. Non c'è stato sussulto, meraviglia, lode, ringraziamento in loro; avevano sete, hanno ricevuto un bicchiere d'acqua e si sono accontentati, tutto è finito lì. Non sono stati neppure sfiorati dal desiderio di andare oltre, di raggiungere la sorgente, di abbeverarsi alla fonte, di fare propria quella Forza che li aveva guariti.
Il “ritorno” del lebbroso samaritano è il segno che lui solo ha “visto”; ha capito cioè di aver ottenuto un qualcosa di molto prezioso che non gli era dovuto. E per questo “ritorna” a ringraziare Gesù.
Gli altri nove lebbrosi hanno avuto anch’essi un dono grandissimo, ma non se ne sono accorti, non se ne sono resi conto; è stato come se non l'avessero avuto! E non sono tornati a ringraziare, a rendergli gloria: un’azione questa che è strettamente legata all’accorgersi, all’essere consapevoli, al rendersi conto di ciò che succede, di ciò che capita, di ciò che avviene in loro e attorno a loro.
L’uomo in questo è particolarmente distratto. Le persone continuano a pensare che tutto sia loro dovuto. Hanno pretese smisurate, esagerate, eccessive, nei confronti di Dio, degli altri, e di sé stessi: i privilegi non bastano mai. È refrattario alla riconoscenza. Così la nostra Messa, la nostra “Eucarestia”, (dal greco “eukarìzo”, ringrazio, sono grato, riconoscente) dovrebbe essere il modo migliore per “rendere grazie” a Dio, per ringraziarlo della sua costante presenza nella nostra vita. Purtroppo le nostre Eucaristie domenicali sono troppo spesso senz'anima; rischiano di essere un precetto, un'osservanza; sono tristi, senza gioia, senza vitalità, senza passione. Sono un'ordinaria occupazione, un inno all'indifferenza: non “vediamo”, non ci rendiamo conto del passaggio di Dio, non sappiamo vedere cosa Egli fa per noi, non c'è sussulto nel nostro esserci, non c’è “partecipazione”.
L'egocentrismo delle persone si manifesta infatti nella mancanza di gioia e di festa nella loro vita: non si accontentano mai, pensano di non ricevere mai abbastanza; sono sempre fissati su quel qualcosa che ancora non hanno. Dio, la società, gli altri, sono sempre colpevoli di non dar loro di più. Il miracolo è invece rendersi conto, percepire che niente ci è dovuto, che niente è un diritto. “Ringraziare, grazia, gratitudine”, provengono tutti dallo stesso avverbio: “gratis”.
Tutto ciò che abbiamo e siamo, è gratis. Non ce lo meritiamo, non ci è dovuto: tutto è solo un dono. Apprezziamolo e ringraziamo Dio: ringraziamolo allora per i nostri figli, non ci sono “dovuti”, sono un dono; ringraziamolo per l'amore che riceviamo, non ci è dovuto, ma è un dono; ringraziamolo per la nostra vita, non ci è dovuta: è un dono. Godiamo di tutti questi doni, godiamo di essere sue creature, frutto del suo amore: godiamo di tutti i doni del creato: del sole che ci riscalda, dei tramonti che ci incantano, degli uccelli che ogni mattina cantano, del respiro che tonifica l’anima, del cuore che batte in noi senza sosta; godiamo perché siamo vivi, perché possiamo parlare, perché possiamo esprimerci, perché possiamo sorridere e piangere. Ringraziamo Dio per gli amici, per le occasioni di migliorare che ci concede, per le possibilità di vita che ci ritroviamo. Tutto questo è “gratis”, è dono. Ringraziamo Dio, perché nulla ci è dovuto. Ringraziamolo perché tutto ciò che avviene, tutto ciò che abbiamo, tutto ciò che ci riguarda, è un dono miracoloso del Suo amore di Padre. Amen.

  

mercoledì 1 ottobre 2025

05 OTTOBRE 2025 – XXVII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


Lc 17,5-10 
In quel tempo, gli apostoli dissero al Signore: «Accresci in noi la fede!». Il Signore rispose: «Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: “Sràdicati e vai a piantarti nel mare”, ed esso vi obbedirebbe. Chi di voi, se ha un servo ad arare o a pascolare il gregge, gli dirà, quando rientra dal campo: “Vieni subito e mettiti a tavola”? Non gli dirà piuttosto: “Prepara da mangiare, stríngiti le vesti ai fianchi e sérvimi, finché avrò mangiato e bevuto, e dopo mangerai e berrai tu”? Avrà forse gratitudine verso quel servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti? Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: “Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”». 

Gli apostoli chiedono a Gesù di aumentare la loro fede. Il fatto che gli chiedano una cosa del genere, sta ad indicare che nel loro animo sentono il bisogno di crescere, di maturare, di capire; dopo i discorsi fatti da Gesù in precedenza, essi si rendono conto di non aver afferrato il vero senso delle sue parole, di essere ancora terra terra, di avere ancora tantissima strada da fare. Indiscutibilmente una prova di umiltà, la loro. Se anche noi arrivassimo a provare sinceramente una simile necessità, beh, significherebbe che stiamo già a un buon punto del nostro cammino. Sarebbe quanto meno una concreta presa di coscienza dei nostri limiti.
Gesù a tale richiesta, tuttavia, non risponde né sì né no; e non dice neppure cosa dovrebbero, o non dovrebbero fare, per raggiungere una maggior comprensione del suo annuncio; si limita semplicemente a indicare alcune possibilità estreme, realizzabili con una fede veramente autentica: un modo per metterli in condizione di fare da soli delle considerazioni, di fare un'autoverifica sulla portata e l’autenticità della loro fede: «Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: “Sradicati e vai a piantarti nel mare”, ed esso vi obbedirebbe».
Un granello di senape è veramente poca cosa, è minuscolo, insignificante, quasi invisibile: salvo poi, una volta seminato, crescere rapidamente a dismisura, per diventare, nell'arco di un solo anno, una pianta alta anche tre o quattro metri. Il gelso, invece, è un albero secolare, che può vivere anche seicento anni; ha radici molto profonde, che si abbarbicano tenacemente nella terra. È un albero molto difficile da sradicare, è simbolo di solidità, di staticità, di inamovibilità. Ora, che un gelso si sradichi dal suo posto e si radichi addirittura nel mare, beh non solo è difficile, ma sicuramente impossibile!
Eppure – dice Gesù – basta una fede minima, purché autentica, sincera, trasparente, per rendere possibile anche l’impossibile.
In altre parole, nessun ostacolo, di qualunque natura, può arrestare il cammino di chi ha un po’ di fede.
Nel vangelo troviamo molti riferimenti sulle possibilità della fede: “Tutto è possibile per chi crede”; “la tua fede ti ha salvato”; “chi ha fede sposta le montagne”; “credete e tutto ciò che chiederete vi sarà dato”, ecc.
Ma come facciamo a misurare la qualità della nostra fede, se abbiamo veramente fiducia in Dio e nella Vita? Semplice: basta guardare a come reagiamo di fronte agli ostacoli che incontriamo.
Abbiamo un problema da affrontare e da risolvere nella nostra vita? Se abbiamo anche un briciolo di fede vera (il granello di senapa!) riusciamo a fare miracoli, anche enormi.
Dobbiamo spostare un “gelso” qualsiasi, quell’albero possente, inattaccabile, che ci sbarra la strada? Il primo impatto ovvio è di esclamare: “Impossibile! Non ce la farò mai! È troppo grande”. Ma quel gelso, in fin dei conti, altro non è che la nostra paura di cambiare, è la paura dell’ignoto, del non sapere cosa ci accadrà poi; è il timore di non essere all’altezza, di non avere le forze per reggere; la paura di guardarci dentro; la paura di affrontare quelli che temiamo, quelli che consideriamo superiori; la paura che ci fa mendicare amore per non rimanere soli; la paura di diventare impopolari, di essere derisi per aver fallito il nostro inserimento nella società; la paura di una malattia improvvisa e mortale...
Ma niente è impossibile, niente insuperabile, niente insopportabile: basta solo un po' di fede. Dobbiamo solo iniziare, darci da fare, metterci in movimento: e poi scopriremo che il nostro iniziale barlume di fede diventerà ben presto enorme (il piccolo seme che diventa un albero rigoglioso) e compirà l'impossibile.
Avere fede non è quindi una questione di “quantità”, come pensavano gli apostoli (“aumentala, dammene di più”), ma di “qualità”: per fare miracoli, anche i più sensazionali, non serve una quantità enorme di fede, una fede immensa; ne basta pochissima, quanto un granello di senape, praticamente “un nulla”; l’essenziale è che sia vera, sincera, autentica, profonda.
Perché avere fede significa avere la certezza di poter realizzare qualcosa, anche se non sappiamo come; significa: “qualunque cosa Dio vorrà da me, io la farò sempre e comunque, anche se la mia testa la considera strana, inutile, inconcepibile, controproducente”.
Non confondiamo poi l’aver fede con la preghiera: pregare non significa aver fede: quanti purtroppo pregano senza fede, anche tra i preti! quante Eucaristie si vedono presiedute da ministri distratti e con la testa altrove, nonostante davanti a loro sia presente Dio in carne e sangue!
E non parliamo di noi “fedeli”: un disastro! Siamo convinti che l’aumento e la purezza della fede dipendano dal visitare i più celebri Santuari mondiali, dal partecipare ai pellegrinaggi di folle oceaniche a Medjugorje, a Fatima, a Pietrelcina o a Lourdes, piuttosto che dalla costante e fedele partecipazione alle umili liturgie settimanali delle proprie Parrocchie.
La fede infatti è una disposizione dell’anima, è prestare attenzione a Dio, è avere piena fiducia in Lui, è convinzione, è certezza incrollabile in Lui, è la percezione netta, convinta, di essere amati da Lui, di non meritare questo Suo amore ma di non poterne fare a meno, di sentirsi protetti da Lui, di poter affrontare e superare con Lui qualunque difficoltà la vita ci riservi.
Questo significa avere fede! In altre parole, la fede in Dio non è quello che sappiamo di Dio, quello che abbiamo studiato di Dio nei trattati di teologia e di mistica; ma è quello che viviamo, come lo viviamo, quanto viviamo di ciò che percepiamo dentro di noi: fede è sentimento, forza, energia, amore, un’emozione incondizionata che regola la nostra esistenza.
Certo, la fede non elimina i problemi e le difficoltà della vita: ci dà però sicuramente la pace e la serenità per poterli affrontare. L'uomo di fede vive con una fiducia profonda: “Io sono protetto da Dio; Lui è con me. Se Lui è con me, di cosa ho paura? Perché mi devo preoccupare? Perché devo temere?”. In questo modo affronta ogni cosa con tale energia da riuscire a piegare veramente gli eventi e le situazioni anche più gravi a suo favore.
Il Vangelo, poi, introduce alcune situazioni che non intendono tanto descrivere il comportamento di Dio verso l’uomo, quanto, piuttosto, il nostro comportamento di uomini verso Dio: un comportamento nei suoi confronti che deve essere di totale disponibilità, senza calcoli, senza pretese, senza contratti.
Non si entra nello spirito del vangelo con lo spirito del salariato: “tante ore di lavoro, e tanto di paga, nulla di più e nulla di meno”. Con Dio, dopo una giornata piena di lavoro, non possiamo dire “ho finito” e soprattutto non possiamo accampare diritti. Non dobbiamo mai vantarci di quanto abbiamo fatto, mai fare confronti con gli altri; ma semplicemente dire: “ho fatto solo il mio dovere, sono soltanto un tuo umile servo”.
L’esempio portato da Gesù è chiaro: non è infatti pensabile che un padrone dica ai suoi servi, al loro ritorno dai campi: “Beh, adesso sedetevi che vi preparo e vi servo la cena”. Piuttosto dirà: “Ora che siete qui, preparatemi la cena e servitemela!”. Non è infatti compito del padrone servire i servi; sono loro che devono servire il padrone. E il padrone, una volta servito, non deve certo sentirsi obbligato nei loro confronti, perché hanno fatto soltanto ciò che rientrava nei loro compiti. Così “anche voi quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: “Siamo servi inutili”.  
Ma cosa mai vorrà veramente dire Gesù con le parole “Servi inutili”? Nel testo greco questo aggettivo è “acreios”, tradotto in italiano con “inutili”, pur essendo evidente che i servi della parabola, avendo compiuto quanto era stato loro comandato, non sono stati affatto “inutili”; 
“acreios” è un termine particolare con cui si qualifica più che una persona, un suo atteggiamento: nel nostro caso, è latteggiamento di particolare modestia tipico delle persone umili, che lavorano senza ostentazione, senza presunzioni, che si sentono “inadeguati”, “incompetenti”; per cui, dopo aver eseguito l’ordine nel rispetto di tutte le regole impartite, e aver ottenuto un risultato eccellente, si sentono comunque in cuor loro degli incapaci”, decisamente “inferiori” rispetto a colui che impartisce loro gli ordini con tanta precisione: effettivamente lui è su un piano superiore, e  merita pertanto stima, obbedienza, ammirazione; si rendono conto insomma di essere dei servitori autonomamente incapaci, dei semplici  operatori”, e che il loro dovere è di eseguire sempre gli ordini dall’alto con cura, dedizione e perfezione. Questo è quanto: per cui “servire Dio” è per sua stessa natura gratuito, deve cioè rientrare nella logica del dono: è quanto ribadisce Gesù stesso, inviando i suoi discepoli per il mondo: “Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date!” (Mt 10,8).
Possiamo quindi dire che la parabola di oggi colpisce in particolare una certa mentalità dell’epoca, per i quali l’osservanza della Legge, la fedeltà ai precetti religiosi, costituivano un diritto, un titolo di credito divino; la loro fedeltà diventava merce di scambio: un “do ut des”: “Sono stato bravo, rispettoso, obbediente, non mi sono mai comportato male: per questo tu mi devi un premio; mi devi vicinanza, aiuto, amore: tutte cose che mi spettano di diritto!”.
Una mentalità che purtroppo è presente molto spesso anche tra noi, soprattutto quando rivolgiamo a Dio le nostre preghiere: l’aver fatto delle donazioni, delle offerte, l’essere stati caritatevoli, puntuali nei nostri doveri di cristiani, l’aver frequentato la Chiesa, ci dà in qualche modo la pretesa di avere in cambio da Lui grazie e benefici, di evitarci malattie, di risparmiarci tragedie, disgrazie, e via dicendo; quando preghiamo, invece, dobbiamo stare molto attenti a non mercanteggiare con Dio; evitiamo di imporgli la nostra volontà, rinfacciandogli, quasi, i nostri rari, inesistenti “meriti”.
La vera preghiera a Dio, al contrario, deve servirci solo per aprirgli il nostro cuore, per convertire la nostra anima, per accettare più docilmente la Sua volontà, per esprimergli tutto il nostro amore, la nostra riconoscenza, assumendo sempre nei Suoi confronti, lo stesso umile comportamento del giovane Samuele: “Parla Signore, che il tuo servo ti ascolta” (1Sam 3,10).
Soprattutto non dobbiamo mai dimenticare che siamo sempre e comunque dei servi “inutili”. Evitiamo dunque di armarci di quel sacro “zelo” da “affiliati”, del “lei non sa chi sono io”, così diffuso e così fuori luogo; non imbarchiamoci in “sante crociate” personali, non pretendiamo incarichi per i quali spesso siamo decisamente inadeguati. Impariamo a stare umilmente al nostro posto, accettando di buon grado le scelte dei nostri pastori, ancorché non condivise. Quello che Gesù vuole da noi è che viviamo da persone di grande fede, che andiamo avanti per la sua strada con un cuore umile e caritatevole, stracolmo di pace, completamente aperto all’accoglienza dei nostri fratelli, pregando per il trionfo della sua Parola e della sua Chiesa: con gioia, riconoscenza, serenità. Nient’altro. Accantoniamo quindi definitivamente le nostre arie di superiorità, inopportune e commiserevoli. Lasciamo fare a Dio il suo mestiere: perché, lo ripeto, noi non abbiamo proprio nulla da insegnargli. Amen.

 

 

giovedì 25 settembre 2025

28 SETTEMBRE 2025 – XXVI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


Lc 16,19-31 
In quel tempo, Gesù disse ai farisei: «C’era un uomo ricco, che indossava vestiti di porpora e di lino finissimo, e ogni giorno si dava a lauti banchetti. Un povero, di nome Lazzaro, stava alla sua porta, coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola del ricco; ma erano i cani che venivano a leccare le sue piaghe. Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli accanto ad Abramo. Morì anche il ricco e fu sepolto. Stando negli inferi fra i tormenti, alzò gli occhi e vide di lontano Abramo, e Lazzaro accanto a lui. Allora gridando disse: “Padre Abramo, abbi pietà di me e manda Lazzaro a intingere nell’acqua la punta del dito e a bagnarmi la lingua, perché soffro terribilmente in questa fiamma”. Ma Abramo rispose: “Figlio, ricòrdati che, nella vita, tu hai ricevuto i tuoi beni, e Lazzaro i suoi mali; ma ora in questo modo lui è consolato, tu invece sei in mezzo ai tormenti. Per di più, tra noi e voi è stato fissato un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da voi, non possono, né di lì possono giungere fino a noi”. E quello replicò: “Allora, padre, ti prego di mandare Lazzaro a casa di mio padre, perché ho cinque fratelli. Li ammonisca severamente, perché non vengano anch’essi in questo luogo di tormento”. Ma Abramo rispose: “Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino loro”. E lui replicò: “No, padre Abramo, ma se dai morti qualcuno andrà da loro, si convertiranno”. Abramo rispose: “Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti”».

Il vangelo di oggi ci presenta in primo piano due personaggi, uno ricco e l’altro povero. Il ricco ha tutto: vestiti di porpora e bisso, una casa signorile, cibo a volontà per sfamarsi abbondantemente tutti i giorni; ha “fratelli”, cioè amici, ha relazioni, amore; alla sua morte ha una sepoltura, cosa che solo i ricchi, i potenti, potevano permettersi a quel tempo. Non è cattivo, non è malvagio, non fa niente di male: ha tutto, non gli manca nulla, non gli serve proprio niente. Solo una cosa gli manca: un nome che lo identifichi; il testo lo individua semplicemente come “un uomo ricco”.
Poi c’è l’altro personaggio che, a differenza del primo, non ha assolutamente nulla: non ha casa, non ha cibo, non ha amici, non ha sepoltura; è solo con i suoi cani, indifeso, affamato, malato, ricoperto di piaghe, bisognoso di cibo e di cure. L’unica cosa che possiede è un nome: Lazzaro.
Per la Bibbia, il nome è fondamentale, perché in qualche modo riassume la vita della persona che lo porta, è la sua immagine speculare; persona e nome coincidono. All’epoca avere un nome significava conoscere in proiezione la propria vita, voleva dire conoscere la propria identità, il proprio futuro, il programma preciso da realizzare, insomma, voleva dire “essere vivi”.
Nel nostro caso il nome “Lazzaro” significa “Dio aiuta, Dio provvede, Dio salva”. Il poveretto, trovandosi infatti in una situazione disperata, di assoluta necessità, può contare solo sull’aiuto di qualcuno, spera che qualcuno si prenda cura di lui, che gli dia una mano, che lo salvi dalla sua condizione: in pratica si affida a Dio, ha bisogno assoluto di Lui.
Il ricco, invece, non avendo un nome come quasi tutti i ricchi del vangelo di Luca, non ha un progetto di vita, un programma, non è interessato a nulla; è incosciente, irresponsabile, vive le cose superficialmente, nulla lo interessa, nulla attira la sua attenzione; non si accorge neppure di Lazzaro: eppure gli era lì, tra i piedi, tutti i giorni; mendicava alla sua porta, chiedeva, si lamentava, gridava il suo disagio, il suo malessere: come ha potuto non vederlo? Questo è il problema; questo è stato il motivo della sua condanna finale: non accorgersi, non voler vedere, non voler rendersi conto di nulla.
Ebbene: questo è esattamente quanto il vangelo di oggi vuol dirci: anche noi subiremo lo stesso trattamento del ricco, se vivremo ignorando il “Lazzaro” che è dentro di noi: non prestando cioè alcuna attenzione alla nostra anima, alle sue necessità, ai disagi profondi in cui la costringiamo a vivere!
“Lazzaro” infatti siamo noi, è la nostra anima, il nostro “io” più profondo. Quante volte ci siamo trovati anche noi a mendicare amore! Quante volte nella nostra vita abbiamo avuto bisogno di aiuto, di tenerezza, di comprensione, e nessuno ci ha soccorso! Non sentirsi amati, aiutati, considerati, è sicuramente tremendo per tutti: fa sempre male stendere la mano per chiedere, per aprirsi, per pregare qualcuno che ci presti attenzione, che ci ascolti, che lenisca il nostro dolore, ricolmando il vuoto abissale del nostro cuore: c’è sempre il timore di ricevere un no, di venire apertamente ignorati, rifiutati! Viviamo schiavi della paura: di parlare, di uscire, di fare le nostre scelte, di gestire la nostra vita, perché temiamo il giudizio impietoso degli altri; e così ci perdiamo nella ricerca irrazionale dell’effimero, dell’apparire, almeno esteriormente, importanti, del sembrare un qualcuno che non siamo.
Ma “Lazzaro” sono anche coloro che ci stanno vicino: sono le persone tristi, quelle che ci gridano di star male, di aver bisogno di noi, della nostra attenzione: se infatti chi ci è vicino non parla mai, è sempre chiuso in sé stesso, se interrogato ammutolisce, forse vuol dire che ci sta urlando silenziosamente la sua paura. Allora, evitiamo di fare gli indifferenti, di non vedere e non sentir nulla: vediamole invece queste persone, accogliamole, ascoltiamole, cerchiamo di capire il loro dramma interiore!
Come possiamo ignorare proprio chi ci sta più vicino? Chi ha più bisogno della nostra presenza, delle nostre parole, delle nostre dimostrazioni di stima, del nostro amore? Come facciamo a non vedere in tutti questi “Lazzaro” che ci vivono a fianco, i dolori, i pesi, le delusioni che opprimono il loro cuore? Eppure noi continuiamo a non vederli, a non sentirli, siamo distratti, immersi solo nelle nostre cose, nei nostri affari privati, nei nostri inutili passatempo, senza accorgerci che, come l’uomo ricco, viviamo già nell’inferno: nell’inferno della mancanza di amore, della solitudine, dell’abbandono, delle porte del cuore e della mente ermeticamente sbarrate: viviamo in quell’inferno drammatico che è la chiusura totale a Dio, non permettendogli di entrare con la sua luce dentro di noi, nella nostra solitudine, nella nostra sofferenza, per portare ascolto, liberazione, pace, perdono, misericordia.
Ecco perché l’inferno o il paradiso è nelle nostre mani: perché tocca solo a noi decidere se ospitare Lazzaro o lasciarlo fuori. Tutti abbiamo a nostra disposizione “Mosè e i Profeti”; ma molto spesso preferiamo vivere a modo nostro, conducendo una vita insensata, ignorando volutamente i richiami di Dio, i suoi inviti alla conversione.
In questa vita abbiamo tutte le possibilità per imparare, per coltivare la nostra sensibilità, per fare esperienze, per far crescere spiritualmente la nostra anima: ma i risultati sono pochi.
Cos’altro ci serve per salvarci? Abbiamo forse bisogno di altri profeti, di altri insegnamenti, di nuovi eventi eccezionali?
Nossignori: è sufficiente quanto già abbiamo a nostra disposizione: la fede che ci indica il “come”, e la carità con cui “metterlo in pratica”! Non servono altri “miracoli”: del resto il miracolo più bello lo viviamo ogni giorno: quando, risvegliandoci al mattino, riapriamo gli occhi alla vita, potendo assaporare ogni istante di questo splendido dono divino che è la vita, l’amore, il cielo, il creato! Abbiamo già tutto per poterci elevare, per far risplendere e testimoniare nel mondo la dignità umana riflessa in Dio.
Eppure tutto ciò non ci entusiasma, non ci stupisce, non ci commuove. Perché, purtroppo, siamo esseri volubili, impastati di luce e di ombra: possiamo cioè essere contemporaneamente i “poveri” come Lazzaro e i “ricchi” come l’epulone gaudente; possiamo essere i bisognosi, i nullatenenti, i sofferenti prediletti da Dio, ma anche, e forse più, quelli che non guardano in faccia a nessuno, quelli che si chiudono nel loro egoismo rifiutando gli altri, quelli che sprecano la vita senza far nulla, quelli che non vogliono impegni né con Dio né col prossimo.
Siamo insomma creature “divine”, ma anche terribilmente “umane”, perché preferiamo seguire la soluzione del ricco, quella più semplice di chiudere gli occhi e far finta di nulla. Anche se poi questo nostro brancolare nel buio ci spaventa, ci angoscia, ci crea sgomento, ci destabilizza.
Non appena però una piccolissima scintilla di Luce riesce a squarciare le tenebre del nostro cuore, immediatamente tutti i nostri inferni si attenuano, tutto diventa sopportabile, vivibile. Perché, nonostante la nostra inadeguatezza, noi siamo figli della Luce, siamo figli del Dio Amore, creati per vivere nella Luce di quel Padre che ci ama e che pazientemente aspetta la nostra “trasfigurazione” per introdurci un giorno, come Lazzaro, nello splendore dell’Amore eterno. Amen. 

  

giovedì 18 settembre 2025

21 SETTEMBRE 2025 – XXV DOMENICA DEL T.O.


Lc 16,1-13  
In quel tempo, Gesù diceva ai discepoli: «Un uomo ricco aveva un amministratore, e questi fu accusato dinanzi a lui di sperperare i suoi averi. Lo chiamò e gli disse: “Che cosa sento dire di te? Rendi conto della tua amministrazione, perché non potrai più amministrare”. L’amministratore disse tra sé: “Che cosa farò, ora che il mio padrone mi toglie l’amministrazione? Zappare, non ne ho la forza; mendicare, mi vergogno. So io che cosa farò perché, quando sarò stato allontanato dall’amministrazione, ci sia qualcuno che mi accolga in casa sua”. Chiamò uno per uno i debitori del suo padrone e disse al primo: “Tu quanto devi al mio padrone?”. Quello rispose: “Cento barili d’olio”. Gli disse: “Prendi la tua ricevuta, siediti subito e scrivi cinquanta”. Poi disse a un altro: “Tu quanto devi?”. Rispose: “Cento misure di grano”. Gli disse: “Prendi la tua ricevuta e scrivi ottanta”. Il padrone lodò quell’amministratore disonesto, perché aveva agito con scaltrezza. I figli di questo mondo, infatti, verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce. Ebbene, io vi dico: fatevi degli amici con la ricchezza disonesta, perché, quando questa verrà a mancare, essi vi accolgano nelle dimore eterne.
Chi è fedele in cose di poco conto, è fedele anche in cose importanti; e chi è disonesto in cose di poco conto, è disonesto anche in cose importanti. Se dunque non siete stati fedeli nella ricchezza disonesta, chi vi affiderà quella vera? E se non siete stati fedeli nella ricchezza altrui, chi vi darà la vostra? Nessun servitore può servire due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire Dio e la ricchezza».

Riconosciamolo: la parabola del Vangelo di oggi ci imbarazza, ci mette a disagio: come fa Gesù a lodare uno che ruba? Un disonesto? Possibile che Gesù abbia detto proprio una cosa del genere? Ebbene: le parole sono proprio sue. Soltanto che Gesù non intende lodare l'amministratore per ciò che ha fatto, come potrebbe sembrare ad un approccio superficiale col testo. Dove infatti la traduzione dal testo greco dice: «Il “padrone” lodò l'amministratore disonesto», dimostra di non aver colto il vero significato del testo: è impensabile infatti che un “padrone”, per quanto bravo e santo che sia, accortosi di essere stato derubato dal suo dipendente gli dica: “Complimenti, hai fatto proprio un gran bel lavoro! Hai tutta la mia stima!”. Per capire il vero senso delle parole di Gesù, era invece sufficiente tradurre il termine greco “κÀριος” del versetto 8, con “Signore”, invece che con “padrone”: “κÀριος” infatti. è l’appellativo con cui Luca abitualmente indica la persona di Gesù (lo usa ben 103 volte nel Vangelo e 107 negli Atti); in questo modo la frase diventa immediatamente logica e comprensibile: “Il κÀριος (il “Signore”, cioè Gesù”) lodò il comportamento dell’amministratore” «perché aveva agito con scaltrezza»; quindi non è il padrone, ma è Gesù che loda e propone da imitare, non ciò che l’amministratore fa in concreto, ma il modo con cui lo fa; loda la sua immediata reazione, la sua prontezza nel prendere una decisione, la sua determinazione nel voler rimediare ad una situazione imprevista. Non si è stracciato le vesti, non si è disperato, non si è messo a urlare a vuoto, non ha chiuso gli occhi aspettando la soluzione chissà da chi. In parole povere, insomma, Gesù vuol dire: “come miei discepoli, non dovete assolutamente essere delle persone imbambolate, inconcludenti, persone a cui tutto è indifferente, vada come vada. Dovete essere reattivi, responsabili, pronti a rimettervi in piedi se cadete, ad essere propositivi, esattamente come quell’amministratore, che ha saputo prendere in mano la situazione”. 
Il comportamento che dobbiamo pertanto seguire è molto semplice: ci accorgiamo che in certe situazioni non possiamo più “operare”? Che la strada imboccata non è più praticabile? Inutile perder tempo: dobbiamo trovarne prontamente un’altra, dobbiamo agire in modo diverso, con una logica diversa; dobbiamo insomma fare scelte mirate, più creative, più concrete, più efficaci. Questo, in particolare, quando ci rendiamo conto di aver sbagliato; così per esempio: abbiamo capito di aver calpestato i principi del Vangelo, della nostra fede, tradendo noi stessi e la fiducia riposta in noi dagli altri? Inutile continuare all’infinito a lacerarci l’anima, non serve assolutamente a nulla: ormai è successo. Certo: siamo stati degli sprovveduti, dei superficiali, degli “infedeli”, stupidamente troppo sicuri di noi stessi; ma a questo punto vogliamo forse farla finita? A che servirebbe morire (dentro o fuori che sia)? Cosa risolveremmo? Ciò che è stato è stato. E se il passato non si può cambiare, guardiamo al domani: perché se siamo stati noi a sbagliare, a comportarci male, siamo sempre noi, solo noi, che dobbiamo cambiare, che dobbiamo chiedere perdono a Dio e al prossimo, e riparare per quanto possibile al danno che abbiamo procurato; siamo solo noi, insomma, che dobbiamo correggerci, che dobbiamo perdonarci e risorgere con nuovo slancio.
È l’unico modo per salvare il salvabile e riacquistare la nostra dignità. In qualunque “caduta” siamo incorsi, dobbiamo perdonarci: dove “perdonarci”, significa riconoscere il mal fatto, significa provarne un sincero dispiacere: non tanto in noi stessi, privatamente, nella nostra coscienza, ma di fronte a “qualcuno” che sacramentalmente può perdonarci in nome di Dio. Dopo di che rialziamoci e, spiritualmente rinati, riprendiamo il nostro percorso a testa alta.  
Altra indicazione del vangelo di oggi è che dobbiamo accorgerci degli altri, dei nostri fratelli, di quelli che vivono al nostro fianco, e aiutarli. Come ha fatto il contabile infedele; finora egli aveva “usato” le persone, le aveva trattate senza cuore e senza umanità; per lui era tutta gente da spremere il più possibile. Ora improvvisamente si accorge che non erano degli oggetti, delle semplici opportunità, ma delle persone, degli uomini bisognosi di comprensione, di carità, di misericordia, di aiuto. E come mai se ne accorge? Perché capisce di trovarsi ora nella loro identica condizione: anche lui ora è un “debitore” del padrone, esattamente come loro; anche lui ora vede le cose dalla loro stessa prospettiva. Ed è in questo momento - quando cioè, caduto in basso, è costretto ad affrontare le loro stesse situazioni compromesse - che esplode in lui l’importanza della misericordia: l’uomo perfetto e potente, quello al di sopra di tutti, quello che non sbaglia mai, non la conosce, non sa cosa significhi: per cui non potrà mai usarla; non potrà mai dispensare comprensione, amore, al debole che cade, perché lui si ritiene inattaccabile, invincibile, non ammette debolezze, non accetta cadute. Lui, l’impeccabile, non può che appellarsi alla legge, alle regole, alle norme, e trattare i deboli soltanto appellandosi ad esse, con superiorità. Solo chi ha sperimentato sulla propria pelle cosa significhi sbagliare, sentirsi peccatore, uno schifo, sentirsi indegno, colpevole, può apprezzare la misericordia, il bisogno tormentoso di perdono, di amore, di conforto. Chi è convinto di non sbagliare mai, non conosce il Dio dell’amore e della misericordia; lui non ne ha bisogno, non deve chiedergli nulla; l’amore di Dio per lui è un diritto.
È vero: in genere tutti ci riconosciamo peccatori, di essere deboli e di sbagliare: ma gran parte di noi, nel loro intimo, sono convinti di non esserlo poi così tanto. Il vero guaio, in questi casi, non sta tanto nel fare o non fare degli errori, ma nel non voler riconoscere la possibilità di farli; così, pur professandoci peccatori, continuiamo a considerarci persone brave, oneste, rette. Salvo poi essere dei critici spietati, intransigenti, con quanti vediamo cadere.
Ebbene, è su questo che dobbiamo lavorare: l'uomo del vangelo, come abbiamo detto, trasforma radicalmente il suo modo di pensare e di agire, e ci mette in questo tutta la sua passione, la sua grinta, la sua scaltrezza. Trasforma cioè una serie di errori compiuti nel passato, in un impegno, serio e attuale, di raddrizzare una situazione compromessa.
Il “perfetto”, l’integro, l’osservante, non può conoscere questo tipo di “conversione”; il “perfetto” non si espone, non ne ha bisogno, perché lui “non ha” colpe nascoste, “non ha” lati distorti da raddrizzare.
Gesù stesso non è tanto preoccupato per il nostro sbagliare. Egli è molto più preoccupato del nostro non ammettere l’errore, del nostro far finta di nulla, del nostro comportarci come se tutto fosse in ordine, a posto; quando invece a posto non lo siamo affatto.
È molto importante, a questo proposito, essere consapevoli che il nostro continuare a vivere nella colpa, nell’indifferenza, con una condotta amorale, con degli scheletri putrefatti nell’armadio della nostra coscienza, sono non solo delle zavorre che ostacolano il nostro progresso spirituale, ma anche delle miserie, delle tare, dei “geni patogeni” che trasmettiamo in qualche modo alla nostra memoria biologica: nel senso che i nostri figli subiranno inconsapevolmente le conseguenze di questa nostra ostinata incoscienza: se infatti nella nostra vita siamo permissivi in tutto, se siamo incuranti dei valori, se non dimostriamo ai figli di essere obiettivi, onesti, di saperci assumere le nostre responsabilità, di ammettere i nostri errori, di riparare ai torti fatti, di avere il coraggio di chiedere perdono, sarà naturale per loro imitare e reiterare nella loro vita questi nostri esempi negativi: otterremo cioè, con molta probabilità, dei figli irresponsabili, indifferenti a Dio , alla famiglia, ad ogni valore morale irrinunciabile.
Allora, se ci accorgiamo di vivere una vita vuota, se sentiamo su di noi il peso delle nostre colpe, non continuiamo a fingere, non rimaniamo un minuto di più in tale situazione. Facciamolo per noi e per chi amiamo. Così, se ci sentiamo in colpa perché non siamo quelli che vorremmo, non rimandiamo sine die il nostro cambiamento, diamoci da fare, non è mai troppo tardi! Non deludiamo noi stessi e i nostri figli con il nostro far nulla: pentiamoci seriamente, invece, buttiamo tutte le nostre deficienze alle spalle, e perdoniamoci: si, perdoniamoci, perché solo così ci libereremo dall’influsso nefasto delle nostre colpe. Ma cosa significa in definitiva questo “liberarci”, questo “perdonarci”? Significa confessare a Dio le nostre miserie, significa riconoscere umilmente di aver sbagliato e ammettere il nostro errore, significa chiedere perdono a Lui e a chi abbiamo in qualche modo danneggiato; significa riparare per quanto possibile al danno commesso. Solo in questo modo riusciremo a vivere da perdonati, da liberi, da graziati; solo in questo modo, potremo nuovamente “trasfigurarci” nella gioia, nella luce e nell’amore del Padre. Amen.


martedì 9 settembre 2025

14 SETTEMBRE 2025 – ESALTAZIONE DELLA SANTA CROCE


Gv, 3,13-17  
In quel tempo, Gesù disse a Nicodèmo: «Nessuno è mai salito al cielo, se non colui che è disceso dal cielo, il Figlio dell’uomo. E come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna. Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui».

Giovanni, con poche ma incisive parole, ci spiega il grande mistero di Dio: Dio è venuto nel mondo per amarci, per accoglierci, per starci vicino, per farci vedere come potremmo vivere, con quale estensione del nostro cuore, con quale dilatazione della nostra anima, con quale vibrazione e intensità per la nostra vita. 
Il testo di oggi è tratto dal lungo discorso che Gesù intrattiene con Nicodemo. Nicodemo è un fariseo, fa parte dell’aristocrazia sacerdotale, è un maestro, un profondo conoscitore della Bibbia e della religione. Ma gli manca qualcosa, avverte una profonda inquietudine, percepisce che c’è qualcosa di più grande, di “oltre”. È un uomo che non si accontenta, uno che vuol capire, che vuol vivere più in profondità. E Gesù gli fa una proposta immensa, a prima vista irrealizzabile: “Devi rinascere”.
Sostanzialmente gli dice: “Quello che tu oggi chiami vita, io la chiamo morte. Abbandona questo tuo modo di vivere, di pensare: ed io ti mostrerò cosa vuol dire vivere per davvero”. Una proposta che avrebbe emozionato chiunque, che avrebbe entusiasmato, stuzzicato chiunque avesse un cuore assetato di verità, di amore, di vita vera come il suo: Gesù è uno che fa proposte nuove, proposte che rompono tutti gli schemi, le convenzioni e le abitudini; apre orizzonti nuovi e impensati, è davvero una persona affascinante, attraente, perché presenta un modo di vivere estremo, meraviglioso, intenso, da “mozzare il fiato”. Gesù è per anime grandi: non si concilia con chi ama il quieto vivere, il tran-tran quotidiano, il piccolo cabotaggio: prova ne sia a testimonianza la vita degli apostoli, dei santi, delle grandi figure della cristianità.
Chi vuol vivere sulla difensiva, senza rischiare troppo, è meglio che lasci perdere. Perché Gesù è Amore, e come l’amore, coinvolge, sconvolge, appassiona: vuole tutto, pretende tutto, conquista tutto. Gesù è il fuoco: se non bruciamo per Lui, non lo conosceremo mai. Gesù è come la vita: o la viviamo con Lui o rimarremo sempre ai margini.
Quindi, a Nicodemo, in pratica spiega: “Se vuoi capire veramente chi sono io, lascia stare la tua Legge, le tue regole, le tue norme, la tua morale. Devi rinascere. Devi far morire il tuo mondo di illusioni, di falsità, di apparenza, di vuoto, di buone maniere: apri gli occhi e mira in alto!”.
E cita come esempio il caso degli israeliti infedeli e mormoratori, che durante la fuga dell’esodo, si erano ribellati a Dio e per questo vennero puniti con la piaga dei serpenti: per evitare la morte, dovevano guardare in alto, alla sommità di un’asta, sulla quale Mosè aveva fissato un serpente bronzeo: il serpente segno di pericolo, di morte, di disperazione, di rovina, si trasformava in quel momento in donatore di vita.
Ed è esattamente quanto succederà più tardi con Gesù: una volta inchiodato ed elevato in alto sulla croce, simbolo del patibolo e dell’apparente fallimento, Egli la trasformerà da motivo di morte in sorgente di vita, di amore, di vittoria, di grazia: pertanto l’esortazione che Gesù rivolge a Nicodemo, acquista, in pratica, un valore fondamentale anche per tutti noi: “Non abbiate paura di quanto nella vita vi affligge, vi inquieta, vi angoscia: fidatevi di me: guardatemi con fiducia sulla croce, perché è grazie ad essa che io vi ho riscattato tutti: per proteggervi, guidarvi, consolarvi e soprattutto amarvi!”.
Guardiamo allora in faccia alle nostre paure ancestrali, soprattutto al terrore della morte. La grande verità è che tutti moriremo. Dovremo lasciare le persone che amiamo di più, i nostri figli, i nostri cari, la nostra casa, tutto! Vivere così ci aliena, è tremendo, doloroso, angosciante.
Ma ora sappiamo che la morte non potrà decretare la nostra fine assoluta: dall’altro lato del tunnel tetro e buio, una luce improvvisa ci illumina. Dal profondo dell’angoscia esplode una nuova vita luminosa, brillante: è la vittoria della risurrezione, della fiducia appagata, dell’amore misericordioso meritato. E non saremo mai più gli stessi di prima.
Questo, per Giovanni, è il risultato del nostro “credere”: credere è quando noi nel bel mezzo della disperazione troviamo la Forza, incontriamo Dio, e ci affidiamo a Lui, fidandoci ciecamente di Lui. E allora? Smettiamo una buona volta di voler “razionalizzare” ogni cosa, di cercare sempre nel mondo nuove soluzioni, nuovi stili vita: perché il mondo non potrà mai darci alcuna vera risposta! Apriamoci piuttosto al nostro più profondo bisogno d’amore, alla ricchezza di quelle emozioni celesti che sorreggono il nostro cuore, alla tenerezza di quell’abbraccio divino che non reprime, non abbatte, non soffoca: un abbraccio paterno che offre solo tenerezza, comprensione e misericordia; e allora capiremo cosa significa sentirci degni di vivere con Dio, perché ci sentiremo veramente figli suoi; e capiremo che noi, ai suoi occhi, siamo “grandi” da sempre, perché ci ha voluti di proposito a sua immagine e somiglianza.
Questa è la realtà: per cui la nostra unica preoccupazione deve essere solo quella di riappropriarci di tale somiglianza (se con la nostra stupidità l’abbiamo rovinata!), e di mantenerla sempre con i tratti autentici dell’Originale: smettiamo decisi di inseguire falsi e distruttivi ideali di vita: le ricchezze, la carriera, il successo, la gloria. Alziamo lo sguardo lassù sulla croce, e mettiamoci fiduciosi tra quelle braccia spalancate, torturate dalle nostre infedeltà. E vedrete che immancabilmente percepiremo nell’anima quel meraviglioso, inebriante e stupendo fremito che si chiama “vita con Dio”. Chi crede “vive”, chi vive “crede”. Amen.

 

venerdì 29 agosto 2025

07 SETTEMBRE 2025 – XXIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


Lc 14,25-33 
In quel tempo, una folla numerosa andava con Gesù. Egli si voltò e disse loro: «Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo. Colui che non porta la propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo. Chi di voi, volendo costruire una torre, non siede prima a calcolare la spesa e a vedere se ha i mezzi per portarla a termine? Per evitare che, se getta le fondamenta e non è in grado di finire il lavoro, tutti coloro che vedono comincino a deriderlo, dicendo: “Costui ha iniziato a costruire, ma non è stato capace di finire il lavoro”. Oppure quale re, partendo in guerra contro un altro re, non siede prima a esaminare se può affrontare con diecimila uomini chi gli viene incontro con ventimila? Se no, mentre l’altro è ancora lontano, gli manda dei messaggeri per chiedere pace. Così chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo». 
 

Siamo anche questa domenica nel capitolo 14 del vangelo di Luca. Gesù sta proseguendo nel suo cammino verso Gerusalemme. C’è molta gente con lui: persone entusiaste dei suoi discorsi e delle sue opere straordinarie. Lo seguono materialmente, senza sapere esattamente cosa voglia dire, cosa comporti, “seguire” Gesù. 
Essere semplicemente “entusiasti” del personaggio Gesù, e “seguirlo concretamente con la propria vita”, sono due cose molto, ma molto, diverse: un conto infatti è ammirarlo, un altro è seguirlo, perché “seguire” Gesù è una cosa seria, significa giungere a conclusioni difficili, operare scelte spesso dolorose, significa mettersi completamente in gioco, andare là dove magari non vorremmo proprio andare.
Per sottolineare l’importanza delle parole che Gesù rivolge a quelli che lo seguono, Luca scrive che “si voltò”, usando qui la forma verbale “strafeis” (Lc 14,25). Ora, il verbo greco “strefo”, “girarsi”, ha una connotazione severa, un “voltarsi indietro” con piglio deciso, con risolutezza, con l’espressione di chi vuole mettere in chiaro le cose una volta per tutte. Non è un parlare del più e del meno tra amici, tra compagni di viaggio. Qui Gesù ha insegnamenti fondamentali da comunicare. Cerchiamo di immaginare la scena: c’è Gesù che cammina davanti a tutti, determinato, con lo sguardo fisso davanti a sé, concentrato su quanto lo aspetta a Gerusalemme, sulla sua morte in croce, la sua apoteosi d’amore, ormai imminente. Vi sono poi quelli che lo “seguono”: i quali però cominciano ad accusare la stanchezza e qualcuno inizia a mugugnare, a brontolare, lagnandosi della situazione. Un borbottio che progressivamente si espande, cresce, distogliendo Gesù dai suoi pensieri: a questo punto Egli si gira bruscamente, e fissando in volto quanti lo stanno seguendo, esclama: “Volete seguirmi? Volete veramente vivere come me, volete vivere da vivi e non da morti? Allora abbandonate tutto: ricchezze, amori, famiglia; solo così sarete liberi!”. Non c’è altra possibilità. Parole schiette, che vogliono dire: “Se vi ponete un obiettivo da raggiungere, dovete continuare a “camminare” con tutte le vostre forze, con tenacia, serietà, costanza, finché non lo avrete raggiunto; niente vi deve fermare: se credete in qualcosa, se qualcosa vi ha fatto vibrare il cuore, vi ha ridato vita, vi fa vivere, non fatevi distogliere da nulla, neppure dagli affetti più cari; non fatevi scoraggiare da nulla, neppure dal dolore, dalla sofferenza, dalle più profonde incomprensioni”.
Parole che ci raggiungono tutti in maniera diretta: quante volte capita infatti anche a noi di iniziare con entusiasmo un certo percorso, salvo poi abbandonare tutto alla prima difficoltà: “È troppo difficile! Non fa per me”. Sissignori, è vero: nella vita tutto è difficile, ma se ci mettiamo impegno, tutto diventerà più facile! Dobbiamo capire che se alla prima contrarietà ci fermiamo, se perdiamo la voglia di lottare, di faticare, di sfidare le avversità, di “tenere”, perdiamo tutto, anche quel poco che avevamo conquistato, e ci sarà impossibile raggiungere qualunque obiettivo. Diventiamo insomma come il sale senza sapore: insipidi, anonimi, insignificanti, inutili.
E qui Gesù, in tono grave e solenne, pronuncia quelle parole così difficili da capire: “Se uno mi segue e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo” (14,26).
Effettivamente, se questa frase non fosse scritta nel vangelo, e non fosse scritta proprio così (non addolcita come nella versione CEI: “Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre ecc.”), difficilmente potremmo attribuirla a Gesù. Ma dice veramente che dobbiamo odiare, padre, madre, fratelli, moglie e figli? Sì, sono le sue parole esatte. Ma possibile che abbia usato proprio il verbo “odiare”? Sì, il verbo usato, “miseo”, in greco, significa esattamente odiare, detestare, disprezzare. Ma cosa intende veramente Gesù con questa frase? Beh, prima di tutto, e in nessun caso, Egli ci invita all’odio: il suo invito, la sua raccomandazione, non è di “odiare”, di nutrire sentimenti di disprezzo, di malanimo, di vendetta, nei confronti delle persone che addirittura ci amano più di ogni altro; anzi: dobbiamo sempre ricambiare il loro amore, dobbiamo ringraziarle, essere loro riconoscenti per l’amore che ci donano, poiché nulla, vita compresa, ci è dovuto! Gesù qui si riferisce “non” ad un “sentimento”, ma ad un ipotetico “comportamento”, ossia ad un modo di agire, di vivere “come se”; un modo cioè che ci renda veramente “liberi” da ogni coinvolgimento o “distrazione”. Per farsi capire ha dunque usato parole dure, forti (come “odiare” ciò che abbiamo di più caro), ma l’ha fatto solo per chiarirci quanto sia determinante, quanto sia essenziale, per chi lo vuol seguire, per chi vuole essere suo discepolo, affrancarsi da ogni cosa, rendersi completamente “libero” per Lui. Perché quando siamo troppo legati emotivamente, troppo dipendenti, succubi di qualcuno o di qualcosa, finiamo inevitabilmente col perdere di vista Gesù, di anteporre, cioè, qualcuno o qualcosa alla Sua chiamata, alla nostra vocazione, alla nostra missione vitale, che è appunto quella di seguirlo.
Quindi Gesù prosegue e puntualizza: “Chi non porta la propria croce e non viene dietro di me, non può essere mio discepolo” (Lc 14,27).
Un’altra frase che può prestarsi ad inesatte interpretazioni: tante persone sono convinte infatti che “croce” equivalga a soffrire, patire, penare. Sentiamo la gente che ad ogni difficoltà ripete: “Questa è la mia croce! Ognuno ha la sua; il Signore a me ha dato da portare questa!”. Noi stessi con l’espressione “portare la propria croce” alludiamo alle varie sofferenze e contrarietà della vita, come malattie, inconvenienti, paure, incidenti, separazioni, dolori, ecc., convinti che sia Dio stesso a mandarcele, per purificarci, per convertirci, per verificare quanto sia autentica e forte la nostra fede.
Ma non è esattamente questo che ci dice il Vangelo. Nel Nuovo Testamento il termine greco “stàuros”, croce, appare 73 volte, e mai, ripeto mai, questa parola include il significato di “tribolazione, castigo”. La prima volta che “croce” viene interpretata come “sofferenza, pena, castigo”, avviene nel V secolo, in una preghiera cristiana. Ma siamo nel V secolo!
Sempre nel Nuovo Testamento, per dire “prendere, portare la propria croce”, gli evangelisti non usano mai verbi come “fèro” o “dèchomai”, che indicano un “portare” passivo, una costrizione, un subire, un dover accettare o prendere qualcosa che è imposto con la forza. I vangeli usano verbi come “lambàno”, “prendere” volontariamente, o “bastàzo”, “sollevare”, con cui Giovanni indica il movimento di Gesù che, condannato a morte, prende volontariamente, si carica spontaneamente sulle spalle, la croce patibolare. Un gesto libero, di grande responsabilità, fortemente voluto.
Per questo Gesù introduce qui il discorso in maniera ipotetica: “Se uno viene a me...”. Perché “prendere la croce” non è obbligatorio per tutti! È solo per chi lo vuole! È solo per chi ha scelto liberamente di seguire Gesù.
Non significa poi, come ho detto, dover subire passivamente, da rassegnati, obtorto collo, le sofferenze, le disgrazie, le malattie, i dolori che la vita ci riserva; ma vuol dire accettare gioiosamente, volontariamente, e quindi liberamente, qualunque contrarietà come conseguenza della nostra adesione a Cristo, ivi compresa la progressiva distruzione da parte del mondo della nostra personalità, delle nostre scelte, della nostra reputazione: “Sarete odiati da tutti a causa mia!”.
La croce altro non è quindi che l’accettazione delle discriminazioni che ci vengono imposte per la nostra determinazione di voler vivere il “Regno di Dio” già su questa terra: un vivere, in altre parole, “come ha fatto Gesù”, comportarsi cioè “alla Gesù”, stravolgendo i valori tradizionali del mondo e del pensiero comune: come per esempio “accumulo” con “condivisione, compartecipazione”, “prestigio personale, egoismo” con “uguaglianza, equità”,sopraffazionecon “servizio”. Solo se avremo un cuore veramente libero dalle pastoie del mondo, potremo infatti amare veramente Dio e il prossimo, metterci umilmente a servizio degli altri, disinteressandoci del giudizio della gente: perché perdere la loro stima non significa perdere la nostra dignità: spesso, anzi, proprio per non perdere la dignità, dobbiamo rinunciare ai riconoscimenti del mondo! Amen.

 

 

martedì 12 agosto 2025

31 AGOSTO 2025 – XXII DOMENICA DEL T.O.


Lc 14,1.7-14 
Avvenne che un sabato Gesù si recò a casa di uno dei capi dei farisei per pranzare ed essi stavano a osservarlo. Diceva agli invitati una parabola, notando come sceglievano i primi posti: «Quando sei invitato a nozze da qualcuno, non metterti al primo posto, perché non ci sia un altro invitato più degno di te, e colui che ha invitato te e lui venga a dirti: “Cedigli il posto!”. Allora dovrai con vergogna occupare l’ultimo posto. Invece, quando sei invitato, va’ a metterti all’ultimo posto, perché quando viene colui che ti ha invitato ti dica: “Amico, vieni più avanti!”. Allora ne avrai onore davanti a tutti i commensali. Perché chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato». Disse poi a colui che l’aveva invitato: «Quando offri un pranzo o una cena, non invitare i tuoi amici né i tuoi fratelli né i tuoi parenti né i ricchi vicini, perché a loro volta non ti invitino anch’essi e tu abbia il contraccambio. Al contrario, quando offri un banchetto, invita poveri, storpi, zoppi, ciechi; e sarai beato perché non hanno da ricambiarti. Riceverai infatti la tua ricompensa alla risurrezione dei giusti». 

Non è la prima volta che Gesù va a pranzo da scribi e farisei. Sa perfettamente di non essere ben visto per questo, di andare incontro a critiche e maldicenze, ma Egli è un uomo libero. Non si lascia condizionare dai pregiudizi e dal clima di aperta ostilità, perché sa che la sua missione è di dover insegnare sempre qualcosa di nuovo: in particolare a coloro che si considerano i più bravi, i più buoni, i più giusti, a coloro che credono di avere già un posto garantito nel Regno dei cieli. L’andare a “pranzo” da questa gente, significava per Gesù non solo andare materialmente a “nutrirsi”, a mangiare, ma anche e soprattutto a portare ai commensali il suo cibo, il suo nutrimento spirituale, i suoi insegnamenti, la sua Parola: un cibo ben più importante di quello materiale.
Qui siamo di sabato; è quindi verosimile che Luca si riferisca ad un fatto realmente accaduto. Di sabato, infatti, dopo essere stati nella sinagoga a pregare, verso mezzogiorno, i partecipanti si intrattenevano per un “pranzo”, al quale era invitato anche il rabbi o il predicatore di turno. Il testo ci fa notare che in quel caso, trattandosi della casa di un capo dei farisei, oltre alla gente comune, dovevano essere presenti anche delle persone importanti, degne di riguardo.
Da qui capiamo meglio il motivo per cui Gesù si serve di questo particolare per la sua catechesi: “Osservando come gli invitati sceglievano i primi posti, disse loro questa parabola”.
Egli osserva la scena, e nota la corsa degli invitati per accaparrarsi i primi posti. Più o meno quello che succede di solito anche ai nostri giorni.
Ora, Gesù non si indigna tanto per il fatto in sé; questo lo dà per scontato. Quello che lo indigna è la molla che fa scattare tale comportamento, il “perché” avviene: Egli cioè constata che le persone, pur di avere i primi posti, pur di sentirsi superiori alla massa, sono pronte a tutto, a qualunque sacrificio, a qualunque “spintone”. La cosa grave è il “fine” di tale comportamento, quello che Gesù stigmatizza; Egli pone un principio fondamentale: non è importante accaparrarsi quello che ti qualifica davanti agli uomini - sappiamo che tutto è apparenza - ma quello che ti qualifica davanti a Dio; perché quello che è più importante, che è essenziale, è come tu ti poni davanti a Lui. Sembra infatti dirci: “Non ti accorgi che per questa tua smania di autopromuoverti ad ogni costo, finisci col calpestare il valore, la dignità degli altri? Come mai per te contano soltanto quelli che occupano i primi posti? Perché consideri insignificanti, uno scarto, delle nullità, quelli che stanno agli ultimi posti?”. Per cui: “Quando sei invitato a nozze da qualcuno, non ti mettere a tavola al primo posto, perché può darsi che sia stato invitato da lui qualcuno più importante di te, e chi ha invitato te e lui, venga a dirti: Cedi il posto a questo. E tu debba con tua vergogna andare allora ad occupare l’ultimo posto” (Lc 14,8-10).
È chiaro che Gesù qui trova lo spunto nei comportamenti tipici della cultura farisaica, per la quale il riconoscimento sociale, il posto occupato nei pranzi, nelle sinagoghe o nei luoghi pubblici, aveva un altissimo valore: era tipico di quella società classista, di quella cultura decisamente individualistica, costituzionalmente molto diversa da quella della nostra società moderna, che si definisce “paritaria”, “liberale”.
Cosa propone allora Gesù? Una cosa molto semplice, fondamentale anche per noi: evitare di mettersi al posto d’onore, ma di sceglierne uno tra gli ultimi. Con questo Egli intende condannare le auto-gratificazioni onorifiche, non certo il giusto riconoscimento agli invitati di riguardo: tant’è vero che aggiunge subito: “Allora [tu] ne avrai onore davanti a tutti i commensali” (Lc 14,10).
È ovvio inoltre che Egli intende qui condannare anche quella “modestia”, falsa e affettata, con cui uno ostentatamente si mette all’ultimo posto: una modestia “pelosa”, tipica di quelle persone che pur rappresentando il penultimo gradino della società, coltivano una enorme autostima: “vorrei essere al primo posto, ma non potendolo occupare, assumo un tono umile, dimesso, come se la cosa non mi interessasse”. È l’atteggiamento subdolo di quelle persone che fingono di non essere interessate agli onori, ai riconoscimenti pubblici, di non avere ambizioni, e si accomodano vistosamente tra “gli ultimi”.
Solo che scegliere l’ultimo posto non vuol dire “umiliarsi”, come qualcuno in passato pensava: non vuol dire relegarsi socialmente tra gli “ultimi”, non è scritto da nessuna parte nel vangelo; al contrario significa darsi da fare, adoperarsi per questo genere di persone, cercare di migliorare le loro condizioni sociali, in modo che ci siano sempre meno “emarginati”.
La differenza è minima ma sostanziale: in pratica dobbiamo metterci all’ultimo posto non perché ci sentiamo inferiori, ultimi, ma perché non ci sentiamo “superiori” degli altri. In altre parole dobbiamo metterci all’ultimo posto solo perché convinti che tutti i presenti, tutte le persone, hanno la nostra stessa dignità: se non ci sono “i migliori”, non ci sono neppure i “peggiori”, non ci sono i furbi, non ci sono le “preferenze”, non c’è razzismo. È il presupposto per una società di amore, fraterna, che può verificarsi solo se tutti sono considerati e si considerano essi stessi uguali agli altri.
Il vangelo dice ancora: “Chiunque si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato” (Lc 14,11). Legare la nostra felicità al solo sentirci superiori agli altri, al saperci più ricchi, al vederci più ammirati, è solo inutile narcisismo. È solo apparire, una vuota immagine: inseguiamo un fantasioso surrogato di noi stessi, quando in realtà, siamo semplicemente delle nullità.
Il dramma, purtroppo, è che nulla di esteriore, nessun travestimento, nessun apparire, nessuna immagine, per quanto grandiosa, può renderci felici: non lo può per definizione! Perché la felicità nasce solo dal vissuto concreto, dalla sensazione meravigliosa di essere vivi, dal godere di questa vitalità, dal percepire i sentimenti, le emozioni che vivono dentro il nostro cuore.
Al contrario, più l’immagine che inseguiamo è grande e ambiziosa, più la vitalità e i nostri sentimenti interiori ci sembreranno sfocati, scontornati, eliminati, distrutti: e la nostra vita si ridurrà prima o poi ad un completo fallimento. Allora dobbiamo reagire: dobbiamo imparare a raggiungere già in questa vita il “Regno dei cieli” evangelico. È in questo che dobbiamo convogliare tutte le nostre energie.  

Ma in che cosa consiste esattamente questo “regno dei cieli”? Qual è il segreto di quella gioia autentica, di quella felicità senza fine, di quell’amore senza confini, per indicarci i quali Gesù si è incarnato, ha vissuto su questa terra ed è morto sulla croce?

Nulla di impossibile, nulla di incomprensibile, nulla che non sia alla nostra portata: Regno dei cieli, infatti, è percepire le sensazioni più intime, le vibrazioni più personali del nostro cuore, quelle che riflettono l’amore di Dio. Regno dei cieli è sentire e soffrire per l’ingiustizia e per la falsità della gente. Regno dei cieli è avere gli occhi pieni di luce perché dentro abbiamo la Luce. Regno dei cieli è dispensare presenza, affetto, amore ai più bisognosi. Regno dei cieli è non perdere mai la nostra dignità anche quando ci capita di sbagliare. Regno dei cieli è poter guardare il prossimo senza giudicare, poter toccare senza desiderare, poter ammirare senza voler possedere. Regno dei cieli è smettere di preoccuparci per cose inutili e senza valore. Regno dei cieli è sentirci parte integrante ed essenziale di questo mondo, esattamente come si sente un figlio, parte integrante di una famiglia vera, voluto, benedetto, aspettato, da un padre e da una madre. Perché tutto questo è “normalità”, un soffio soprannaturale di Dio, che nasce in noi con noi. Purtroppo è “crescendo “che la società ci fagocita, inducendoci ingannevolmente ad abbandonare questo nostro “Regno dei cieli”. Sapientoni del nulla, legislatori microcefali, si affannano nel sostenere che tutto ciò è soltanto una grande “balla”, un miraggio per deficienti, una “illusione” insulsa per preti, suore, gente esaltata. Ma noi, in cuor nostro, sappiamo con certezza che non è così, che mentono, che i poveri illusi sono proprio loro!
Infine Gesù conclude, rivolgendosi a colui che l’aveva invitato: “Quando offri un pranzo o una cena, non invitare i tuoi amici, né i tuoi fratelli, né i tuoi parenti, né i ricchi vicini, perché anch’essi non ti invitino a loro volta e tu abbia il contraccambio. Al contrario, quando dai un banchetto, invita poveri, storpi, zoppi, ciechi; e sarai beato perché non hanno da ricambiarti. Riceverai infatti la tua ricompensa alla risurrezione dei giusti” (Lc 14,12-14).
Anche qui Gesù parla in parabole: è chiaro che se festeggiamo un Battesimo, una Prima Comunione o un Matrimonio, non dovremo di certo invitare chiunque incontriamo per strada! Non è questo che Gesù vuol dire. Noi continuiamo pure ad invitare soltanto i nostri amici, i nostri parenti, i nostri fratelli. Il principio fondamentale che Gesù vuole qui trasmetterci è che non dobbiamo impostare i nostri rapporti secondo il famoso “do ut des”, io ti faccio dono di qualcosa per avere da te un contraccambio. Questo è un modo distorto, riduttivo, meschino, di concepire i rapporti interpersonali, poiché le persone vengono scelte esclusivamente sulla base di ciò che potrebbero offrirci in cambio, dell’utile che potremmo ricavarci dalla loro frequentazione. I gruppi mafiosi, le potenti “caste”, si fondano proprio su questo principio. Bisogna invece, come dice Gesù, creare una convivenza basata esclusivamente sui valori, sui sentimenti, e non sull’interesse: “Ti aiuto non perché so che anche tu puoi fare altrettanto con me, ma esclusivamente perché ne hai bisogno. Ti invito a cena non perché sei una persona importante, ma unicamente perché ti voglio bene”. Dobbiamo creare relazioni, rapporti, amicizie, basati sull’amore, sulla carità, sulla bontà di cuore, non sull’egoismo, sull’interesse, non sulla base dell’utile che possiamo ricavare.
Il vangelo lo sottolinea espressamente: “Sarai beato perché non hanno da ricambiarti” (Lc 14,14). La gioia, la felicità, nasce solo dall’amore, dalla gratuità. Noi tante volte ci lamentiamo di essere infelici: ebbene: se veramente lo siamo, vuol dire che nella nostra vita non siamo sufficientemente generosi, disinteressati, non ci comportiamo cioè con vero, autentico amore: e allora, conoscendone la causa, se vogliamo vivere spensierati e gioiosi, sappiamo già come comportarci. Amen.