Gv 6,51-58
«Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo». Allora i Giudei si misero a discutere aspramente fra loro: «Come può costui darci la sua carne da mangiare?». Gesù disse loro: «In verità, in verità io vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui. Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia me vivrà per me. Questo è il pane disceso dal cielo; non è come quello che mangiarono i padri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno».
Giovanni ha scritto un
vangelo diverso dagli altri; più che sugli avvenimenti che riguardavano la
persona di Gesù, la sua attenzione era concentrata sulle sue parole, sugli
insegnamenti. Egli ha lungamente “ragionato” su questi elementi, ha voluto
capirli, interpretarli, dare loro un senso, spiegarli, applicarli alla nostra
vita: per questo il suo è un vangelo talvolta difficile da capire, un vangelo
eminentemente spirituale; egli parla da “mistico”, fa teologia piuttosto che
cronistoria.
A lui, per esempio, non
interessa neppure il fondamentale racconto dell’ultima cena: tant’è che non
riporta alcun particolare dei preparativi, del luogo dove avviene, della sua
ambientazione storica; egli è concentrato esclusivamente sul celebre discorso
del Pane di vita, sul significato di questo cibo particolare, sul senso e sulle
implicazioni che esso doveva avere sulla vita spirituale dei discepoli presenti
e su quella di ogni suo discepolo futuro. Dal suo vangelo risulta che Gesù ha
sì celebrato con i suoi discepoli un rito pasquale di saluto, di offerta e di
memoria, prima di accomiatarsi da questo mondo (ultima cena); ma ciò che emerge
dal suo racconto, è soprattutto la preoccupazione di far capire l’importanza
che Egli ha attribuito a questo cibo e quindi la necessità per tutti i
discepoli futuri di accettare il suo invito a reiterare lo stesso suo rito,
facendone “memoria”, cibandosi e cibando gli altri, di quel pane di vita che è
Gesù stesso.
Questo modo introspettivo di
porsi di fronte agli eventi, diventa fondamentale anche per noi. Nella nostra
vita ci succedono ogni giorno tante cose, più o meno importanti. Ebbene, se noi
ci fermiamo solo all’esterno di ciò che ci succede, alla crosta storica, se
rimaniamo solo in superficie, non entreremo mai dentro la vita, alla nostra
vita, quando invece è fondamentale per noi cogliere il senso profondo di ciò
che ci accade, capire dove la vita vuole farci andare.
Allora niente rimane più
senza senso, perché in questo modo acconsentiamo alla Vita (Dio) di insegnarci
ciò che ci deve insegnare, e a noi di capire, di imparare ad essere suoi
discepoli.
Vivendo così nulla ci sarà
estraneo, incomprensibile, scandalizzante, inaccettabile: tutto diventerà parte
della nostra vita, potremo accogliere ogni esperienza, ogni incontro, ogni
persona. Perfino i fatti più tragici, come le malattie e la morte, pur rimanendo
tragici, avranno comunque un senso, qualcosa da dirci e da farci capire,
diventeranno maestri per la nostra vita.
È chiaro che i Giudei non
capiscono le parole di Gesù; soprattutto non sanno percepire il vero
significato del termine “carne: “Ma come può costui darci da mangiare la sua
carne?”. I suoi stessi discepoli gli diranno: “Questo linguaggio è duro,
chi può intenderlo?”.
Ora, mangiare la “sarx”
di Gesù, la sua carne, per Giovanni significa “cambiare vita”:
introdurre dentro di noi la sua “carne” significa adottare il suo stesso stile
di vita, diventare altri Cristi, abbandonare i vecchi modelli di comportamento,
i nostri schemi antichi e perversi; vuol dire relazionarci con gli altri in
maniera completamente nuova, più sana, più accogliente, più caritatevole. “Nutrirsi
di Gesù” significa insomma far entrare Dio nelle pieghe e nelle fibre della
nostra esistenza.
“Mangiare la carne”, “bere
il sangue”: quando Gesù pronuncia queste parole sa perfettamente di
irritare, scandalizzare, provocare rifiuto, contrasto, disapprovazione. Perché
allora Giovanni le riporta così fedelmente? Perché vede lontano: vuole in
pratica mettere in guardia la Chiesa di ogni tempo da quel genere di
spiritualismo “disincarnato”, anche oggi tornato tanto di moda. Egli riporta
volutamente queste espressioni così forti per proporci plasticamente quello che
deve essere il nostro impatto con Cristo, con la sua Parola, con il suo “Lieto
annuncio”: dobbiamo cioè “mangiarlo”, adottando le stesse fasi del naturale
processo digestivo: nel senso di masticarlo, triturarlo, frantumarlo, per poi
digerirlo, metabolizzarlo. Dobbiamo cioè, questa è la cosa essenziale, assimilare,
assorbire, fare nostri lo stile, il cuore e la mente di Gesù. Dobbiamo cioè “trasformarlo”
nella nostra vita.
In pratica Giovanni ci
avverte: “Fai attenzione tu che vai a prendere l’Eucarestia domenicale; per il
fatto che ricevi il corpo di Cristo, non vuol dire che mangi veramente la carne
di Gesù”. In altre parole ci dice che se il corpo di Cristo non ci trasforma,
non ci altera, nel senso che ci rende altri, diversi da quelli che siamo; se
non scuote i nostri modi di vivere e di pensare, se non ci mette in discussione
con noi stessi, possiamo mangiare tutte le Eucarestie che vogliamo, ma non
mangeremo mai la “carne di Cristo”.
Troppo riduttivamente nella
Chiesa è stata identificata la carne di Cristo con l’ostia domenicale. Il che è
vero, verissimo, ma troppo spesso siamo ben lontani dal pensarlo; questa “carne
di Cristo” (l’ostia) è diventata per noi un semplice simbolismo, non la
“mangiamo”, non provoca in noi l’incontro decisivo e trasformante in Lui. Per
noi “credenti” tutto si è trasformato in puro formalismo!
Eppure, grazie alla preghiera
della comunità, al dono dello Spirito e all'imposizione delle mani di un prete
(talvolta purtroppo lui stesso inconsapevole del potere che ha), Gesù nella
Messa si rende cibo, si rende carne viva per noi.
Per questo dobbiamo essere
lì; per questo dobbiamo radunarci, perché, affamati, abbiamo urgente bisogno di
saziare il cuore, di illuminare il cammino, e soprattutto di credere, senza
ambiguità, senza ritrosia; dobbiamo credere con tutto il cuore e con tutta
l'anima che noi mangiamo il corpo di Cristo, quel corpo “risorto”, quel corpo
uscito dal sepolcro la mattina di Pasqua, vittorioso sulla corruzione e la
morte. Noi mangiamo questo corpo, perché è di Dio, e Dio è infinito, dovunque,
al di fuori del tempo e dello spazio, inesauribile, presente nella sua
interezza in ogni frammento di pane e in ogni goccia di vino “consacrati”.
Nella Messa domenicale noi ci
nutriamo pertanto di Gesù risorto; è un pezzo di risurrezione che entra e
cresce dentro di noi: una cosa straordinaria! La Messa non dà soltanto qualcosa
di buono, di santo, di grande: la Messa ci trasforma, ci “fa essere”. Ci fa
diventare direttamente Cristo risorto.
Certo, partecipare a certe
Messe nelle nostre chiese non è che aiuti poi tanto la crescita della nostra
fede: sono Messe “stanche”, non entusiasmano, non edificano, non coinvolgono,
sono troppo superficiali, “esteriori”; le viviamo con un senso di abitudine e
di noia, sbirciando di nascosto l’orologio. Inutile scandalizzarci, strapparci
le vesti, non è un’eresia! Nelle nostre celebrazioni quello che soprattutto
manca è purtroppo l’entusiasmo di una fede vissuta: spesso in chi
presiede, ma sempre nella stragrande maggioranza dei “cristiani”
presenti.
Eppure noi per primi dovremmo
fare di quella Cena il cuore della settimana, lo stimolo per la nostra vita;
per primi dovremmo far diventare le nostre Eucarestie un capolavoro di
autenticità, di bellezza, di lode, un incontro irrinunciabile con Cristo.
“Carne e sangue”, in questo
modo, non saranno più termini esagerati: non lo saranno perché passeremo
attraverso l'esperienza unica che Gesù propone; non lo saranno perché
avvertiremo il vincolo profondissimo di amore che egli nutre nei nostri
confronti: e in Lui nulla è eccessivo.
Purtroppo noi non crediamo,
la nostra fede è posticcia, disancorata dalla vita; siamo ancora troppo lontani
dalla vera fede: sissignori, proprio noi: noi malati di possesso, di accumulo,
di sicurezze, di garanzie; noi, che viviamo sul crinale dell’idolatria, che
rischiamo di dimenticare il significato della parola “gratuità” e cavalchiamo
la logica del tornaconto; noi, che permettiamo alla pubblicità di plasmare i
nostri bisogni, per poi correre di domenica ai nuovi “templi” commerciali per
il gusto di saziarli; noi, che non sappiamo più nemmeno chiamare per nome i
sentimenti che ci abitano, che siamo analfabeti del cuore e balbuzienti dello
Spirito. Proprio noi che ci professiamo cristiani, non abbiamo più fede! “Sono
cristiano ma non praticante!”. Risposta idiota, che lascia trasparire
un’ignoranza totale del problema!
Oggi Gesù ci invita a
nutrirci di Lui, a nutrirci di Amore, della Sua carne e del Suo sangue, dono
totale di sé stesso nelle mani del Padre, dono perpetuo della Sua Pasqua.
Nutrirci di Lui per capire finalmente e credere che “la carne che dona vita
eterna” è quella offerta per amore, e non quella conservata “sotto vuoto”; che
la gratuità è il ritmo cardiaco della felicità; che solo Dio sazia
l’insaziabile desiderio di amore che ci abita. Viviamo da uomini vivi, viviamo
da risorti con Cristo e in Cristo.
Purtroppo quante persone
incontriamo che sono dei morti viventi; vivono anagraficamente, ma in pratica
sono morti: non si commuovono più, il loro cuore è diventato duro come una
pietra, non sanno più piangere, non provano più tenerezza, più amore, più dolore
per nulla, sono sterili, senza sentimenti, sono maschere prive di qualunque
emozione. “Che fine ha fatto la loro vita?”.
Giorgio Faletti, comico,
scrittore e cantautore scomparso nel 2014, in una sua canzone diceva: “Che
la morte mi colga vivo”. Già, che la morte ci colga vivi! Che non significa
semplicemente essere “in vita”, ma essere “vivi”, che è tutto un’altra cosa.
Amen.