Gv 15,1-8
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto. Voi siete già puri, a causa della parola che vi ho annunciato. Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da sé stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e secca; poi lo raccolgono, lo gettano nel fuoco e lo bruciano. Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto. In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli».
Il brano del vangelo di oggi
è tratto da quel lungo discorso di commiato (Gv cc. 13-16), che Gesù ha
rivolto ai discepoli prima di essere arrestato dai suoi carnefici. Siamo
durante l’ultima cena: Egli apre completamente il suo cuore, rivelando, con profonda
emozione, tutto il suo amore per loro: parla di sé, della sua “ora” ormai
“arrivata”, di ciò che l’aspetta, del suo domani di passione; parla delle loro
preoccupazioni, di ciò che anch’essi dovranno affrontare nel futuro, dell’amore
e dell’odio che il mondo riserverà loro. E per spiegare in maniera più
comprensibile la sua missione di salvezza, il suo ruolo di guida, la sua
leadership permanente, ricorre all’immagine, allora comune, del vignaiolo, della
vigna incolta, della vite fertile e dei suoi tralci fruttuosi; un simbolismo molto
noto al popolo, in quanto lo stesso Israele, nella Scrittura, era equiparato ad
una vigna, di cui Jahweh stesso ne curava la manutenzione; molto celebre, per
esempio, è il passo di Isaia, in cui Dio, amareggiato, si lamenta della
infedeltà del suo popolo: “la vigna del Signore degli eserciti è la casa
d'Israele; gli abitanti di Giuda sono la sua piantagione preferita. Egli si
aspettava giustizia ed ecco spargimento di sangue, attendeva rettitudine ed
ecco grida di oppressi” (Is 5,1-24). Nel Cantico dei Cantici, la sposa (Dio)
invita lo sposo (il popolo) nella “vigna”, ritenuta il luogo dell’amore,
dell’incontro, della felicità, della gioia. Così il “vino”, ottenuto dal frutto
della vite, era simbolo di benessere interiore, di appagamento delle
aspirazioni più profonde, di ebbrezza, di stordimento spirituale, di intensa
percezione della bellezza del vivere; a Cana, infatti, quando durante il
banchetto nuziale viene a mancare il vino, la festa rischia improvvisamente di
guastarsi; ma dopo che Gesù vi ha posto rimedio, assicurando per tutti vino a
volontà, i festeggiamenti, i canti e le danze, riprendono a pieno ritmo, più di
prima.
Se i tralci non producono
uva, se in essi non è avvenuto alcun passaggio di linfa vitale, se non producono
più il loro frutto, elemento fondamentale per la felicità, per il benessere
dell’uomo, vuol dire che sono secchi, privi di vita, e quindi destinati ad
essere tagliati e buttati al fuoco.
È dunque in questi termini
che Gesù spiega ai suoi che se vogliono ottenere dei risultati nella loro
missione, devono sempre rimanere uniti a Lui, esattamente come avviene in
natura tra la vite e i suoi tralci: il tralcio, strutturalmente distinto dal
fusto della vite, è comunque parte di essa, ne è la sua propaggine, e solo se
rimane unito ad essa può portare frutto: il fusto quindi è la vita per il
tralcio, è il suo nutrimento, la sua forza, il suo tutto. Vite e tralcio
formano pertanto un tutt’uno inseparabile, per il benessere degli altri.
Purtroppo, in questa nostra società,
ricca di “tralci” umani completamente diversi, piuttosto che una fraterna collaborazione
al bene comune, vige una radicale, errata, controproducente concorrenza: ognuno,
sopravalutando se stesso, è convinto che nessuno possa superarlo, che nessuno sia
“più” di lui, non accetta “superiorità” di alcun genere; gli dà fastidio cioè
che nella vita, gli altri esprimano meglio di lui le loro potenzialità,
realizzino con maggior successo i loro programmi, diventino insomma quei
“tralci unici”, che producono frutto in qualità e quantità per essi
irraggiungibili.
Ciò che caratterizza invece
qualunque comunità, non sarà mai il fare tutti le stesse cose, l’essere tutti
uguali, possedere tutti le stesse identiche capacità: la superiore qualità del
prodotto di una vite non è data dalla quantità di uva prodotta dai singoli
tralci, ma dalla sua bontà, dal suo gusto, dalla maturazione succosa dei suoi grappoli,
dovuti appunto ad una più capillare circolazione della linfa, alla migliore
esposizione ai raggi del sole; in altre parole, riferito a noi, è l’amore, il
dialogo, la condivisione, la comprensione, la disponibilità che in una
convivenza crea stabilità, serenità, pace, benessere comune.
Molte famiglie, molte
comunità, molti “gruppi”, pensano di essere “uniti” solo perché si radunano
insieme molto spesso. Ma non è l’incontrarsi di frequente che dimostra l’unione
di un gruppo. Essere uniti è tutt’altra cosa; significa condividere nell’anima,
nello spirito, nella vita gli stessi sentimenti, gli stessi ideali; significa
“sentire” che gli altri condividono con noi le loro personali e diverse aspirazioni,
le particolari necessità dell’anima, esattamente come noi facciamo con loro:
l’unione vera, infatti, è data da una vicinanza “sentita”, dalla convivenza di
due spiriti assolutamente diversi, liberi e autonomi, non certo da una
compresenza fisica.
Noi che siamo i “tralci”,
pertanto, non dobbiamo mai staccarci dalla vite, che rappresenta l’unica nostra
possibilità di emergere, di sopravvivere; non dobbiamo mai staccarci dalla
nostra “vite”, dal nostro “Spirito”, dalla nostra anima; mai arrogarci le
prerogative della vite, mai cercare di sopraffare l’altro, perché nell’esatto
momento in cui lo facciamo, perdiamo ogni nostra vitalità comune, rinsecchiamo,
siamo destinati ad una morte spirituale certa. È la legge della sopravvivenza:
il tralcio, staccato dalla vite, inesorabilmente muore. Non esistono alternative.
Gesù dunque si propone come
“Vite”, come “Vita” vera: “Io sono il sapore della vita, io sono il gusto,
l’ebbrezza della vita, sono l’elisir della felicità, l’unico vero piacere della
vita”. Parole però che lasciano trasparire anche le difficoltà del percorso per
giungere a tanto: ogni qualvolta, per esempio, il sacerdote nel celebrare
l’Eucaristia pronuncia sul vino, frutto della vite, la formula sacramentale
“Questo è il mio calice, versato per voi”, con cui lo transustanzia nel sangue
di Cristo, ci ricorda due cose importanti: che il “sangue versato”, oltre che riferirsi
alla passione di Gesù, ci mette di fronte alla nostra situazione umana, alle
nostre malattie, alle nostre sofferenze; ci ricorda soprattutto, però, che quel
“sangue” è Gesù stesso in persona che diventa nostro gusto, nostro sapore, nostra
gioia di vivere: è Lui infatti che con la sua presenza dentro di noi, ci
infonde vitalità, entusiasmo, serenità, vita pura, e soprattutto il suo amore.
Vivere nell’intimità divina,
in stretta unione con Gesù, nostra Vite, vuol dire per noi “tralci” segregarci
dalle cose futili della quotidianità, rifugiarci nel silenzio della nostra
anima, lasciarci inebriare dalla Sua presenza, agevolare in noi la trasfusione
della Sua forza, della Sua potenza, del Suo amore.
Chi rimane insensibile a
tutto ciò, è a dir poco un rinunciatario, uno che non sa “vivere”, uno che quando
piove preferisce stupidamente starsene all’aperto e bagnarsi, piuttosto che
entrare in “casa” sua! Come può pensare infatti di entrare in intimità con Dio,
chi si rifiuta a priori di entrare in intimità con sé stesso? Per entrare in autentica
unione con Lui non basta andare in chiesa e riempirlo di parole, di promesse,
di chiacchiere, di preghiere biascicate: bisogna lasciarsi compenetrare dalla
sua presenza, in una silenziosa, adorante, disposizione spirituale dell’anima!
Sono troppi quelli che purtroppo parlano “a Dio” ma non “con Dio”. Sono troppi quelli
che quando sono in chiesa, quando sono davanti a Dio, quando pregano, quando
cantano, quando celebrano, non provano più alcuna emozione interiore, nessun
trasporto spirituale, nessuno slancio; persone che non si commuovono più di
fronte alle parole di Gesù; che non si lasciano coinvolgere in ciò che fanno;
che non provano l’ebbrezza del canto o l’intima e preziosa sonorità del
silenzio. Persone, insomma, che hanno solo paura di Dio, hanno soggezione di
Lui, non vogliono aprirsi; persone che in cambio, nella loro mediocrità,
diventano logorroiche, lo subissano di vuote parole, piuttosto che di prove
tangibili di amore. Sono troppe le persone che parlano agli altri dell’amore di
Dio, che invitano tutti ad amarlo, ma lo fanno soltanto con la voce, con la
bocca, perché il loro cuore è arido, insensibile; la loro vita lascia
trasparire solo tristezza, amarezza, fallimenti, sconfitte, rimorsi. Non è così
che dimostriamo di “amare Dio”. Non è questo l’amore che Dio vuole da noi, non
è questa la felicità che ha pensato per noi: Egli al contrario, per noi, ha
creato il sole, le stelle, le bellezze della natura, la vita, il mondo intero;
soprattutto ci ha donato il suo amore, perché lo gustassimo, lo assaporassimo,
ci saziassimo con esso il cuore e l’anima.
Gesù dice: “Rimanete in me”.
E ce lo ripete continuamente, quasi ossessivamente, perché dobbiamo coglierne
il pieno significato. È importantissimo, perché in questo “rimanere in Lui” c’è
tutto il segreto della vita felice: poter cioè anticipare, già in questa vita,
quella felicità futura che ci è stata promessa per quando lo vedremo “così
come egli è” (1Gv 3,2).
I ragazzi di oggi, a chi è
visibilmente distratto, chiedono perentoriamente: “Sei connesso o no?”. Ebbene,
chiediamocelo anche noi: il nostro cuore, il nostro cervello, la nostra anima,
sono sempre “connessi” con Lui? Guai a noi se chiudiamo questo contatto, guai a
noi se stacchiamo la spina, perché, ci dice oggi Gesù, “senza di me, voi non
potete far nulla”: non dimentichiamo mai questa verità, perché Lui è l’unico
canale che ci trasmette linfa, forza, vita, amore, felicità. Amen.