Mt 16,13-20
In quel tempo, Gesù, giunto nella regione di Cesarea di Filippo, domandò ai suoi discepoli: «La gente, chi dice che sia il Figlio dell’uomo?». Risposero: «Alcuni dicono Giovanni il Battista, altri Elia, altri Geremia o qualcuno dei profeti». Disse loro: «Ma voi, chi dite che io sia?». Rispose Simon Pietro: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente». E Gesù gli disse: «Beato sei tu, Simone, figlio di Giona, perché né carne né sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli. E io a te dico: tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le potenze degli inferi non prevarranno su di essa. A te darò le chiavi del regno dei cieli: tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli». Allora ordinò ai discepoli di non dire ad alcuno che egli era il Cristo.
Il vangelo di oggi si apre con una precisa domanda di Gesù ai suoi
discepoli. A noi può sembrare strano che Gesù voglia conoscere l’opinione della
gente sul suo conto. Ma non dobbiamo dimenticare che la società del suo tempo
si fondava principalmente sui valori di onore e disonore: più di chi fosse in
realtà, uno doveva preoccuparsi soprattutto di che cosa la gente pensasse di
lui; il valore delle persone era infatti stimato in base alle opinioni della
gente: più cioè sull’apparire che sull’essere. L'onore del clan, della
famiglia, della tribù era l’unica cosa importante: veniva prima ancora del
valore reale delle persone.
Un metro di giudizio, del resto, che non è molto lontano da quello
imposto dalla mentalità di questa nostra società contemporanea super evoluta.
Anche oggi, la paura di non essere “valutati”, di non venir considerati dalla
gente, è profondamente radicata in noi: “Nessuno mi considera, nessuno mi
apprezza, nessuno mi vuole”. È l’indicatore della nostra insicurezza: per
questo siamo sempre in affanno, alla continua ricerca di stima, di amore, di
amicizie, di riconoscimenti. Più questa paura ci domina e più la nostra vita
diventa una corsa alla ricerca dell’apparire, una vita fittizia e irreale. Non
conta più ciò che siamo, ciò che viviamo o ciò che sentiamo, ciò che Dio
sussurra al nostro cuore, il nostro progetto di vita, la nostra vocazione:
conta soltanto non sfigurare, essere accettati, apprezzati, ammirati.
Ma perché Gesù sembra adeguarsi a tale mentalità? Perché agli occhi dei
suoi discepoli vuole essere un uomo come tutti gli altri, il più possibile
aderente alla loro “forma mentis”; vuole essere in tutto
come uno di loro. È quindi naturale che il Maestro si preoccupi di conoscere
cosa pensino di lui, della sua missione, della sua predicazione, le folle che
lo seguono, in continua crescita, giorno dopo giorno: Egli vuole mettersi in
gioco anche su questo. Ovviamente senza per questo rimanere turbato o succube
delle loro risposte.
I discepoli, quindi, sollecitati in maniera così diretta, gli riportano
le opinioni più diffuse: “Ti ritengono Giovanni Battista, Elia, Geremia, un
profeta”. Tutto vero. Però sono anche un po' reticenti e bugiardi, perché di
Gesù si dicevano tante altre cose; si diceva, per esempio, che era un poco di
buono, uno che stava volentieri con le donne, uno che assumeva atteggiamenti
scandalosi e ambigui, che stava apertamente in compagnia di gente scomunicata
come i pubblicani, uno che amava mangiare e bere, insomma un
"eretico". Tutto questo non glielo dicono, anche se erano voci
altrettanto diffuse, che loro ovviamente ben conoscevano.
Gesù, del resto, fu molto amato ma anche molto odiato, perché non fu
una persona insignificante, anonima, senza carismi, uno che lasciava
indifferenti; tutt’altro: una volta che l'avevi incontrato, dovevi
necessariamente scegliere: o ti piaceva o ti infastidiva; o lo consideravi
amico oppure nemico. Non c’erano alternative.
Gesù, prima di esprimere quella richiesta, aveva già guarito centinaia
di persone, aveva risuscitato morti, aveva moltiplicato il pane per migliaia di
persone, aveva sedato tempeste. Eppure tutto questo non gli era servito ad
ottenere dalla gente un riconoscimento corale, sincero, onesto.
Che altro avrebbe dovuto fare ancora, perché tutti gli credessero? La
fede non nasce da ciò che guardiamo ma da “come” guardiamo. Guardare
superficialmente, senza interesse, senza coinvolgimento mentale, non porta
automaticamente alla fede: bisogna guardare con passione, con serietà, con
onestà, bisogna farlo con altri “occhi”, non con quelli corporali, ma con
quelli dello spirito; perché non c'è peggior cieco di chi non vuol vedere.
Ecco perché le dicerie della gente su Gesù sono così diverse: perché
sono il risultato di una visione parziale, superficiale: ciò che dicono di lui
è vero, ma non rispecchia la realtà: sono supposizioni, opinioni, ragionamenti,
ipotesi, congetture, giudizi o pregiudizi.
Ma Gesù, con le sue domande non si ferma qui. Quello che dicono di lui
i lontani, non gli interessa; Egli vuol sapere cosa “loro”, i suoi discepoli,
pensano di Lui. E quindi corregge il tiro: Ma “voi, chi dite
che io sia?”. E qui Pietro, prontamente, si lancia in una risposta che gli sgorga come
al solito dal cuore: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente!”.
Pietro non è un teologo,
non è un filosofo erudito che sentenzia. Pietro è istinto, intuizione,
passione. L’idea di Gesù, figlio di Dio, non gli proviene dall’istruzione, non
l’ha sviluppata gradualmente con anni di studio: per lui la realtà divina del
suo Maestro è l’illuminazione di un istante, un fulmine che gli ha infiammato
il cuore. Non è arrivato a comprenderlo tramite sillogismi, calcoli mentali,
ragionamenti: ma sotto l’impulso dello Spirito che ha fatto sussultare il suo
cuore generoso e innamorato. E Gesù lo conferma chiaramente: “Beato te
Simone, perché né la carne, né il sangue te l'hanno rivelato, ma il Padre mio
che è nei cieli”.
Oltre ai discepoli però quella domanda Gesù la rivolge anche a tutti
noi, direttamente, singolarmente. E dunque: “Chi è Gesù per noi? Cosa pensiamo
di Dio? Che rapporto abbiamo con Lui?
Se la nostra risposta è che sì, Dio lo conosciamo, questo significa
anche che lo sentiamo veramente come “nostro Padre”? che ascoltiamo la sua voce
che ci parla? Che abbiamo avuto modo di “sentirlo vicino” anche nelle prove
tragiche della vita? No? E allora, come possiamo dire di “conoscere” uno che
non abbiamo mai avuto occasione di incontrare? Perché “incontrarlo” significa “cambiare”
necessariamente qualcosa nella nostra vita, nel nostro carattere, nella nostra
persona! Se siamo sempre gli stessi, allora vuol dire che non l’abbiamo mai
incontrato, né mai conosciuto. Anzi, peggio, forse non abbiamo mai “voluto”
incontrarlo, conoscerlo, prenderlo in considerazione; per noi insomma, Lui non
conta nulla, è un “qualcosa” di irrilevante. Incontrarlo, conoscerlo, significa
al contrario lasciarlo entrare nel nostro cuore: è come aprire le porte ad un
uragano, lasciarsi investire da un vento impetuoso, irresistibile; è come
innamorarsi irrazionalmente, perdutamente, di qualcuno, fare un’esperienza
unica che ci sconvolge la vita.
Dio, dal canto suo, ha il cuore spalancato per tutti, aspetta tutti, è
disponibile per tutti: è un'esperienza, un incontro, che tutti possiamo fare;
non è un privilegio per i sapienti, per i santi, per i suoi ministri.
Incontrarlo non è difficile, e appena succede, ce ne accorgiamo subito:
sentiamo improvvisamente, istintivamente, la presenza dentro di noi di qualcuno
che ci consola, ci suggerisce nuove soluzioni e, prendendoci per mano, ci guida
per sentieri che prima ci erano sconosciuti, in una vita completamente nuova,
diversa; ci fa capire che fino ad allora abbiamo solo sopravvissuto, abbiamo
perso tempo, abbiamo vegetato, dormito, camminato a vuoto; e ci assicura che,
se ci fidiamo di Lui, tutto, anche qualunque dolore o tragedia, acquisterà un
valore straordinariamente meritorio.
“Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa”. È questa
la Chiesa di Cristo! La Chiesa è Cristo; è il luogo dell'incontro con Lui, dell'esperienza
di Dio. Altrimenti perde la sua ragion d’essere, la sua vitalità. Quando
andiamo in chiesa e partecipiamo ad una liturgia, ad un incontro di preghiera,
quello che conta non è ciò che diciamo o facciamo, i fiumi di parole distratte
che pronunciamo, ma solo se “tocchiamo” Dio, se lo “incontriamo” realmente, se
Lui ci “tocca” il cuore. Perché andare in chiesa, e non essere “toccati”, non
avere la percezione della Sua presenza, è inutile, è tempo perso. Se non c'è
Dio, non c’è vita!
La Chiesa di Cristo, fondata su Pietro “roccia”, deve essere dunque
anche per noi il luogo dove ci sentiamo figli di Dio, dove possiamo piangere,
sentirci a casa, sentirci compresi e ascoltati, dove possiamo dare voce a
quello che abbiamo dentro.
Amiamo allora la nostra Chiesa: difendiamola. Perché è Lei che ha la
missione fondamentale di proteggere quel sacro fuoco, quello Spirito che Dio ha
posto dentro ciascuno di noi; è la casa dell'anima, di quanto vive nell'anima.
È Lei che ci lega a Cristo, che ci rende liberi da tutti i comportamenti
devianti, aggressivi, da tutti quei demoni (rabbie, risentimenti, ossessioni,
ecc) che troppo spesso, malauguratamente ci dilaniano l’anima. Se noi rimaniamo
legati a Cristo, siamo veramente liberi, sciolti da tutto il resto; se
preferiamo rimanere legati al “resto”, perdiamo purtroppo la nostra libertà, la
nostra forza, la gioia di sentirci figli amati. Amen.