giovedì 9 febbraio 2023

12 Febbraio 2023 – VI Domenica del Tempo Ordinario


Mt 5,17-37
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Non crediate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto ad abolire, ma a dare pieno compimento. In verità io vi dico: finché non siano passati il cielo e la terra, non passerà un solo iota o un solo trattino della Legge, senza che tutto sia avvenuto. Chi dunque trasgredirà uno solo di questi minimi precetti e insegnerà agli altri a fare altrettanto, sarà considerato minimo nel regno dei cieli. Chi invece li osserverà e li insegnerà, sarà considerato grande nel regno dei cieli. Io vi dico infatti: se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli.

 Un vangelo all’apparenza contraddittorio quello di oggi. Dapprima Gesù conferma in pieno la validità della Legge antica, e subito dopo si affretta a puntualizzare, a mettere dei paletti, a fare dei “distinguo”. Ma non c’è contraddizione alcuna in ciò, perché Lui stesso lo dichiara apertamente: “sono venuto per dare compimento”, sono venuto cioè a dare alla Legge il suo significato autentico. 
Gesù è molto franco e preciso: ciò che non gli sta bene è l’osservanza della legge divina puramente formale, esteriore: uno stile di vita adottato ormai da tutti. Ad un certo punto sembra spazientirsi e dire: “Basta, così non si può più andare avanti. Il vostro rapporto con Dio non può continuare a basarsi soltanto sulla superficialità, su di una religiosità personalizzata, accomodante, unicamente scenica e rappresentativa; non potete riempirvi la bocca dicendo: Noi siamo ebrei, siamo figli di Abramo, siamo il popolo dell’Alleanza, per poi fare come vi pare. Non potete giustificarvi dicendo che ciò che fate è volontà di Dio, è parola di Dio, quando Dio in realtà non c'entra proprio per nulla: voi non eseguite con il cuore le sue disposizioni, non fate la sua volontà, ma preferite comportarvi falsamente come gli scribi e i farisei, il cui rapporto con la legge è solo maniacale, fittizio, letterale: “Se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli”. 
A quei tempi infatti le autorità religiose imponevano a tutti una osservanza scrupolosa e totale di qualunque suggerimento della Bibbia, anche del più piccolo e insignificante: “se la Legge dice così, dovete fare così!”. Gesù invece chiarisce: “Neanche per sogno! Non dovete essere “ottusi”, non dovete preoccuparvi solo di quello che è scritto, ma del perché è scritto; dovete capire cioè cosa Dio vuole realmente da voi, e lo capirete soltanto se le vostre risposte, le vostre azioni, provengono dall’amore che nutrite per Lui, se sono generate e guidate dalla carità, da un totale coinvolgimento della vostra anima, non certo dalla superficialità, dall’ignoranza, obbedendo ciecamente, meccanicamente, senza sapere perché, senza alcuna convinzione.
Purtroppo non solo gli ebrei di allora, ma anche i cristiani di oggi, talvolta ragionano e si comportano con la loro stessa mentalità farisaica. Quante volte anche noi ci nascondiamo dietro tutta una serie di “regole”, di tradizioni fasulle! “Io mi comporto correttamente perché vado in chiesa tutte le domeniche, osservo i comandamenti e i precetti, rispetto il prossimo, faccio elemosine, amo i fratelli, amo il Papa, amo la Chiesa ecc.; per questo mi ritengo un buon cristiano, sono un cristiano in piena regola!”. Ovviamente, dopo la nostra brava esibizione autoreferenziale, ci aspettiamo anche un bel: “Ma che bravo!”
Solo che non siamo “bravi” proprio per niente! Pensiamo, parliamo e ci comportiamo così ad esclusivo compiacimento personale, per sentirci migliori degli altri, più rispettabili, additati come esempio; il nostro è un cristianesimo infantile, meccanico, superficiale, basato su poche nozioni mnemoniche imparate dal catechismo di Pio X: non ci interessa nient’altro, perché così ci sentiamo già in regola, superiori a qualunque altra “interpretazione” pretesca. Così facendo, però, ci qualifichiamo al massimo come scrupolosi, puntuali “esecutori”, ma non certo come “bravi cristiani”: perché nel nostro “fare”, nel nostro “rispettare” la legge di Dio, non c’è l’Amore, non c’è Dio, ci siamo solo “noi”! Amare gli altri solo perché ci viene comandato, equivale a non amare, significa essere vuoti, sterili; significa non aver nulla di “profondo”, di speciale, da donare; significa avere un cuore gelido, arido. Significa insomma accontentarci delle apparenze, rinunciando di donare Vita.
Ecco perché la legge di Gesù è “nuova”, completamente “diversa”: Egli non abolisce l'Antica Alleanza, ma prescrive, nei suoi confronti, un approccio più autentico e profondo. Stabilisce cioè che la sua osservanza non sia più solo esteriore, materiale (sono fedele a Dio perché osservo i suoi precetti) ma diventi interiore, convinta, emozionale (sono fedele a Dio perché lo amo, vivo nel suo amore). Non cancella la legge dei padri antichi, ma rompe definitivamente con quella mentalità che si fermava al “fare”, all’obbedire passivamente, al considerare obbligatorie certe usanze assurde, improponibili già a quei tempi; insomma egli condanna non la legge, ma il suo interpretarla ed eseguirla in maniera falsa, stupida, artificiosa, senza senso.  
Del resto le leggi, come tutte le cose, con il passare del tempo, o si evolvono, si perfezionano, oppure perdono la loro validità. Gesù non dice: “Abramo, Mosè e gli antichi, hanno sbagliato”. Al contrario sono stati tutti molto importanti per il loro tempo; ma oggi noi conosciamo verità che una volta essi ignoravano; oggi noi abbiamo capito che Dio non è solo un giudice inflessibile che puntualmente ci punisce ogni qualvolta sbagliamo; abbiamo capito che Dio non è una realtà esclusiva, riservata a poca gente, ad un singolo popolo, per di più numericamente limitato, ma è il Dio di tutti gli uomini, di tutto il mondo, dell’universo intero; abbiamo capito, soprattutto, che Dio è amore, è misericordia, compassione, tenerezza per tutti, per le donne, per i bambini, per gli esclusi, per i lebbrosi, per i peccatori.
Tutto questo per gli antichi non era ancora chiaro, e quindi non possiamo giudicarli: teniamo soltanto il “buono” e lasciamo ciò che non lo è più.
Non rimaniamo ancorati a semplici regole: le regole sono fatte per l'uomo e non l'uomo per le regole (Mc 2,27). Le regole insegnano a vivere, servono per aiutarci a stare con gli altri, a condividere gli stessi spazi, a raggiungere obiettivi comuni: ma quando si rivelano inservibili per la Vita, quando risultano obsolete, superate, devono essere aggiornate, corrette, sostituite. Solo i valori universali rimangono immutabili, durano per sempre; le regole, servono solo a realizzarli, a metterli in pratica, e quindi vanno sempre adattate, adeguate.
Noi insomma non dobbiamo lasciarci condizionare dalle apparenze, dal “si è fatto sempre così”; dobbiamo scendere in profondità, dobbiamo agire sempre in sintonia con la nostra coscienza. Dobbiamo, come dice Gesù, essere uomini liberi, uomini autentici, schietti, veri. Non dobbiamo cedere ai compromessi, all’ambiguità, all’ipocrisia, alla ricerca esclusiva del nostro “star bene”, costi quel che costi; dobbiamo avere il coraggio di difendere i nostri ideali, i nostri programmi, le nostre azioni; non svendiamo la nostra dignità per inseguire passeggere e inutili ideologie. Anche a costo di andare controcorrente.
Troppe volte, purtroppo, siamo riluttanti ad esporci, a difendere apertamente il nostro pensiero! Troppe volte cerchiamo di sottrarci alle nostre responsabilità! Ebbene, Gesù ci insegna che dobbiamo avere il coraggio di uscire allo scoperto, di parlare francamente, di comportarci da “cristiani”, da uomini e donne di fede: il nostro parlare deve essere sempre e solo “sì, sì; no, no”. Il “politichese”, che oggi va tanto di moda, non fa per noi, è solo ambiguità, inganno: Cristo non si è mai sognato di adottare un espediente così squallido. Mai! Un valido motivo per fare anche noi altrettanto! Amen.

 

  

giovedì 2 febbraio 2023

05 Febbraio 2023 – V Domenica del Tempo Ordinario


Mt 5,13-16  
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Voi siete il sale della terra; ma se il sale perde il sapore, con che cosa lo si renderà salato? A null’altro serve che ad essere gettato via e calpestato dalla gente. Voi siete la luce del mondo; non può restare nascosta una città che sta sopra un monte, né si accende una lampada per metterla sotto il moggio, ma sul candelabro, e così fa luce a tutti quelli che sono nella casa. Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli».

 Dopo aver indicato con le “beatitudini” il difficile passaggio attraverso cui ogni discepolo deve passare per imitarlo fedelmente, rivolto ancora ai suoi Gesù esclama: «Voi siete il sale della terra… Voi siete la luce del mondo!». 
In altre parole: “Voi poveri pescatori che io vi ho scelto per essere pescatori di umanità, voi che mi avete obbedito ciecamente, riconoscendo in me il volto di Dio, voi “siete” il sale che con la vostra testimonianza dà sapore alla vita di quanti incontrate, “siete” quella luce che io chiamandovi ho acceso nel vostro cuore e che voi ora, “siete” chiamati ad accendere nel cuore di quanti porterete alla conversione”.
Anche qui Gesù si esprime con grande affabilità: non dà ordini, non usa imperativi, non dice “voi dovete essere”; ma usa uno stile colloquiale, comunica semplicemente una nuova caratteristica della loro attuale personalità: “voi già ora, accettando di seguire me, siete “sale”, siete già “luce”: qualunque vostra iniziativa infonde sapore e luce in chi vi guarda”.
Essere luce ed essere sale, significa pertanto essere elementi fondamentali per la vita dei fratelli, significa offrire loro significato e speranza, significa aiutarli a rispondere alle grandi domande che tutti si pongono: “Che senso ha la vita? Dove sta andando il mondo?”.
Le parole di Gesù sono sempre ricche di simbolismi: noi per questo dobbiamo approfondirle, dobbiamo capire il significato profondo dei loro riferimenti, per consentire loro di raggiungere il loro scopo. Le similitudini di Gesù hanno sempre infatti la capacità di dire grandi cose sulla vita concreta, con parole semplici, con riferimenti immediatamente comprensibili. Alla fine ci rendiamo conto che non c’è grande distanza tra il mistero del Regno che Gesù vuol farci conoscere, e gli eventi quotidiani, piccoli e grandi, della nostra vita: perché ogni personale conquista, come pure ogni tragedia, possono illuminarci per comprendere il mistero di Dio. Anche nei momenti più bui e difficili. Anche quando ci accorgiamo che la società in cui viviamo, che la Chiesa in cui crediamo, stanno precipitando in un tragico domani.
Inutile ignorarlo, inutile chiudere gli occhi ad ogni costo, fingendo che tutto sia roseo: il dramma mortale di questo nostro tempo è di dover assistere alla progressiva diffusione e normalizzazione di un cristianesimo senza Cristo, una religione senza fede, un culto senza convinzione.
Sono realtà drammatiche che portano ad inevitabili conflittualità interiori: il positivo e naturale desiderio dell'uomo di conoscer il senso autentico del suo vivere e del suo morire, è messo purtroppo in seria difficoltà, dall’incombente prospettiva di una insanabile sconfitta della civiltà cristiana, di una caparbia negazione del trascendente, di una insensata indifferenza ai valori umani e religiosi.
In questo momento drammatico della storia, il mondo, nonostante il suo delirio, attende comunque, ancorché inconsciamente, una risposta chiara e concreta, un'indicazione, una testimonianza che dia speranza e ragioni per continuare a vivere.
Ebbene, in tale contesto, essere luce e sale per i fratelli, diventa la missione primaria del nostro professarci cristiani; un compito che sicuramente ci spaventa, soprattutto se guardiamo alla nostra debolezza, alle nostre infedeltà, che troppo spesso ci privano proprio di luce e sale, rendendoci opachi, pieni di ombre, assolutamente insipidi.
Si, perché essere luce del mondo e sale della terra, significa donarsi ai fratelli in modo totale, costante, convinto. Equivale a dimostrare che il nostro cristianesimo non è affatto sterile e passivo, ma al contrario dinamico, entusiasta, intraprendente: è insomma una vita vissuta in Cristo, impregnata di gioia, di luce, di significato, di esultanza.
Una cosa impegnativa, sicuramente, ma non impossibile: grazie a Dio, la storia è piena di questi esempi: ci sono infatti, anche oggi, innumerevoli persone che, per la loro carità, per il loro altruismo senza limiti, meritano la nostra ammirazione, la nostra stima più sincera: sono sacerdoti, religiosi, uomini e donne consacrati, laici, che vivono in costante e disinteressato servizio per gli altri. Sono persone, dirigenti, insegnanti, assistenti, operai, che troviamo puntualmente negli ospedali, nelle case, nelle scuole, nell'industria, dovunque è richiesta una parola, un gesto di conforto. Persone normalissime, con mille difetti e limiti personali, ma che riflettono senza limiti la luce della carità e dell’amore di Dio.
Ecco: di fronte a queste nascoste realtà, dobbiamo aprire gli occhi, dobbiamo cogliere e fare nostro quanto di buono e di bello c'è davvero nel mondo: dobbiamo essere consapevoli che, proprio per la presenza del male che insidia il cuore umano, noi tutti siamo chiamati a testimoniare e a portare Dio nel mondo, trasmettendo a tutti la luce e il calore del suo amore.
Ognuno allora deve chiedersi: sono io sale e luce per i fratelli, per le persone che vivono accanto a me? La mia vita è realmente un dono? Mi rendo conto che la mia vocazione di cristiano è dare amore e che, quando non amo, rimango nell'oscurità, nella tristezza, nell’intimo sconforto? Perché un grande pericolo ci insidia da sempre: un nemico multiforme ben radicato e nascosto dentro di noi, sotto nomi diversi: “egoismo, individualismo, orgoglio, indifferenza, disinteresse, insensibilità”. Ogni giorno, ogni minuto che per egoismo, pigrizia, disinteresse, passa senza alcuna iniziativa da parte nostra, è un giorno perso, un'occasione mancata; al contrario, ogni nostro passo spinto dalla carità, ogni atto che facciamo con amore, è un dono incalcolabile per tutti i fratelli, perché rivela al mondo intero un riflesso del volto di Dio.
Che significato avrebbe infatti essere “luce”, accendere, illuminare la nostra vita con l’amore divino e poi nasconderci sotto il “moggio” del disinteresse, dell’indifferenza, del non far nulla? Una lampada accesa va messa in alto, su un candelabro, perché la sua luce rischiari il cammino di tutti. Ecco perché, davanti alla prospettiva mondiale di un totale black out di Dio, dobbiamo prendere in mano la situazione, dobbiamo chiedere al Signore di rendere più luminosa la “nostra” luce, per contribuire nel nostro piccolo, con sempre maggior vigore, con nuovo entusiasmo, ad allontanare l’oscurità che incombe sull'umanità.
Comportandoci come? Semplicemente, umilmente, da autentici cristiani: i santi infatti ci hanno insegnato che sono le buone opere dei credenti, animate dalla preghiera e dall’amore, che assicurano l’efficacia della Luce divina nel mondo: è quindi la nostra vita, il nostro gestirla con fede e carità, il nostro vivere il Vangelo in modo convinto e coerente, che alimentano quella nostra piccola ma luminosa luce, grazie alla quale tutti, se vogliono, possono camminare più agevolmente sulla strada che li porta a Dio.
Gesù non ci chiede di fondare associazioni religiose, gruppi di preghiera, di promuovere spettacoli e pellegrinaggi spirituali; non ci chiede di scrivere libri di spiritualità, di moderare dibattiti televisivi sull’esistenza di Dio; ci chiede soltanto di mettere in pratica con semplicità le sue “beatitudini”, di testimoniare il suo Vangelo con la nostra vita, fedelmente, ma umilmente.
Non sono i fiumi di parole, ma soltanto le nostre azioni concrete, animate dalla “luce” splendente di Dio, che possono raggiungere il cuore dei fratelli, e suggerire loro: “Amico mio, guarda che anche tu sei luce, sei anima, sei Spirito di Dio; anche tu sei emozione, energia, fuoco; anche tu, se vuoi, puoi essere Luce per il mondo, puoi essere calore, puoi essere gusto: perché anche tu appartieni a quel Tutto che è Dio, quel Tutto, che già risplende dentro di te, che già riscalda il tuo cuore”.
Ecco, questo solo Dio si aspetta da noi e dalla società in cui viviamo: perché fino a quando gli uomini esigono di camminare senza la sua “luce”, fino a quando pretendono di vivere senza neppur conoscere il “sapore” del suo “amore”, per questo mondo non c’è alcuna possibilità di salvezza! Amen.

  

giovedì 26 gennaio 2023

29 Gennaio 2023 – IV Domenica del Tempo Ordinario


Mt 5,1-12 
In quel tempo, vedendo le folle, Gesù salì sul monte: si pose a sedere e si avvicinarono a lui i suoi discepoli. Si mise a parlare e insegnava loro dicendo: «Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli. Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati. Beati i miti, perché avranno in eredità la terra. Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati. Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia. Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio. Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli. Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli. Così infatti perseguitarono i profeti che furono prima di voi».

 Matteo inizia il lungo discorso della montagna con il testo sulle “beatitudini” di oggi: Gesù, salito su una collina del Lago di Tiberiade, come un nuovo Mosè, consegna la nuova legge a quanti vogliono seguirlo: una legge non più scolpita su tavole di pietra, ma che deve rimanere incisa nel cuore di ciascuno, poiché rappresenta il percorso obbligatorio per quanti vogliono raggiungere la massima aspirazione cristiana: assomigliare a Gesù, diventare come Lui, vivere nella gioia di sentirsi da Lui amati. 
Su questa terra siamo tutti dei mendicanti di gioia. Tutti, credenti o meno, sperimentiamo di non disporre nella nostra vita di motivi sufficienti a farci sentire veramente soddisfatti, pienamente realizzati. Sì, certo, viviamo momenti intensi, belli, memorabili, gioie semplici e vere che risollevano – grazie a Dio! – il cuore e la vita; ma non sono sufficienti, a realizzare tutto quel desiderio di assoluto che portiamo inciso nel cuore. Il nostro mondo pragmatico ci fa ipocritamente credere che ottenere la felicità sia facile: basta possedere, apparire, esagerare. Solo che chi si illude con tale menzogna si ritrova intimamente annullato, inebriato, completamente strappato da sé stesso. 
Le Beatitudini di Gesù sono sicuramente l'unica rivoluzione della storia umana in grado di stravolgere positivamente il cuore dell'uomo; tutte le altre "rivoluzioni", quelle sociali, al contrario, lo hanno lasciato, e continuano a lasciarlo, profondamente infelice, abbandonato alla sua naturale inquietudine di egoista, violento, ingordo.
È vero che, vista dall’esterno, superficialmente, questa innovazione introdotta da Gesù, effettivamente sconcerta: «Beati i poveri in spirito, beati gli afflitti, i miti, gli affamati di giustizia, i misericordiosi, i puri di cuore, gli operatori di pace, i perseguitati, gli insultati...».
Siamo decisamente agli antipodi di come ragiona la logica umana: le beatitudini infatti si concentrano proprio su quelle situazioni che la moderna società edonista, spinta dal suo delirio egoista, disprezza, ignora, ritiene sgradevoli.
Ma in realtà cosa vuol dirci Gesù di tanto detestabile? Esalta forse un modo di vivere miserabile, rinunciatario, da perdente? Una vita triste, segnata solo da rinunce e sofferenze? Ci dice forse che saremo felici e fortunati soltanto se siamo poveri (in greco “ptokòi”, letteralmente "straccioni"), se subiamo violenza, se proviamo dolore, se piangiamo, se veniamo oltraggiati?
Nossignori, non diciamo stupidaggini! Dio non ama il dolore, non ama la sofferenza: lo stesso Gesù, per quanto gli è stato possibile, ha cercato di evitare il supplizio della croce (“Padre, allontana da me questo calice…”).
Le Beatitudini di Gesù, al contrario, rispondono esclusivamente alla logica dell'amore, del servizio, del perdono, della pace, della bontà, della tenerezza. Sono situazioni che illuminano la realtà umana, che la immettono in una prospettiva di salvezza, che va oltre il tempo, nell'eternità, ma che va costruita già nell’oggi, accettando di viverle appunto con gioia seguendo le indicazioni di Cristo.
Indicazioni che, secondo il suo stile, non sono dei comandi, delle imposizioni, tipo: “per essere beato devi necessariamente vivere così”. Sono invece delle proposte, dei consigli, ci dicono cioè che se ci comportiamo in un certo modo, possiamo diventare suoi degni discepoli, possiamo vivere seguendo il suo esempio, diventare come Lui! Sono insomma dei suggerimenti che ci offrono la possibilità concreta di fare una scelta: accettarla o meno, poi, tocca solo a noi.
Le beatitudini non sono quindi una soluzione definitiva ai nostri problemi, sono piuttosto un cammino, una conquista per la loro soluzione. Infatti, non arrivano ad escludere i contrasti, i conflitti, le cattiverie umane, perché purtroppo tutto ciò appartiene a quella zavorra umana con cui dobbiamo convivere; non insegnano a scansare le contrarietà della vita ma ad entrarci dentro, a superarle; non insegnano a sottrarsi al dolore ma ad esprimerlo; non insegnano a fuggire di fronte alla paura ma a guardarla in faccia; non dicono che la povertà è un bene: la povertà è “miseria” per tutti! Non dicono che una vita da oppressi, perseguitati, schiavizzati è una cosa buona: no, è una cosa terribile, crudele; chi ama vivere così è un masochista, un autolesionista, un malato mentale!
Dobbiamo insomma capire che Gesù, nel darci queste regole di vita, ha voluto soprattutto documentarci come lui stesso ha vissuto su questa terra, sono la sua fedele autobiografia, ha voluto cioè svelarci i tratti del suo volto, del volto del Padre.
Il Padre infatti è veramente un Dio povero, un Dio misericordioso, un Dio mite, un Dio che ama la pace, un Dio che, per amore dell’uomo, è sempre pronto anche a soffrire. Un Dio diverso da come gli uomini lo possono immaginare, un Dio così straordinario e armonioso, che solo Gesù ce lo poteva svelare, perché lui e il Padre sono una cosa sola.
Le beatitudini di Gesù, quindi, non sono legge, ma Vangelo; sono un dono che egli ci ha fatto diventando nostro fratello. Senza il dono di sé stesso e del Suo Spirito, le beatitudini sarebbero infatti pura ideologia: sublime quanto si voglia, ma pur sempre un’ideologia. Per questo Gesù non si è limitato solo a dire, a parlare, ma si è offerto a noi esattamente in ciò che ha detto, in ciò che ha insegnato, imprimendo così la sua legge nel nostro cuore.
Per capire bene però, per fare pienamente nostra questa “legge”, prima di salire sul “monte” e ascoltare la serie dei suoi: “Makàrioi, Beati”, dobbiamo incontrarlo sulla riva del lago, abbandonare le nostre abitudini, le nostre convinzioni, dire “si” alla sua chiamata, e seguirlo: dobbiamo cioè “convertirci”, cambiare mentalità, perché solo così potremo ascoltarlo con fiducia, solo così potremo far giungere questo “lieto messaggio” proprio là dove vivono gli uomini del mondo, quella “folla” che Gesù ci ha messo accanto come fratelli.
Dobbiamo spiegare loro perché Dio non tratta tutti allo stesso modo, perché non dona a tutti lo stesso aiuto, ma a ciascuno dà quel tanto che gli serve, privilegiando chi ha meno: un cuore povero, un cuore affranto riceve infatti da Dio molta più attenzione e tenerezza di un cuore sazio che non ha bisogno di nulla.
Dobbiamo spiegarlo bene a chi vive nel dolore, nella malattia, nella povertà, a chi si sente solo e abbandonato. Dobbiamo dirgli che non è nel dolore, nella malattia, nella miseria, che può trovare gioia, serenità, coraggio, ma nel sapere con certezza che Dio è sempre vicino a lui, pronto a correre in aiuto proprio di chi vive nel dolore di chi è sofferente, di chi è povero, di chi è discriminato. Se infatti noi, nonostante le nostre sofferenze, le nostre sventure, riusciremo comunque ad essere sereni, felici, se in una parola ci sentiremo “beati”, vuol dire che abbiamo incontrato Dio in noi, vuol dire che ci siamo resi conto che Lui è veramente il nostro unico sostegno, vuol dire che niente e nessuno potrà mai toglierci quella forza, quella fiducia, quella serenità che proviamo, perché esse sono la Sua risposta concreta e benefica, alla piena fiducia che noi abbiamo riposto in Lui.
È difficile vivere il Vangelo, lo sappiamo bene; è difficile perpetuare nella storia il sogno di Dio che ci vuole uniti nella sua Chiesa. Ma la fatica che facciamo nel restare sempre fedeli ai suoi insegnamenti, lo sforzo eroico che compiamo nel convertirci alla logica del Regno di Dio, anticipano e realizzano esattamente le promesse delle Beatitudini.
Va riconosciuto, è vero, che questa pagina risulta particolarmente indigesta, assurda, inattuabile per quanti nel mondo non seguono il Vangelo come modello di vita: anzi lo è spesso anche per quei tanti cristiani tiepidi e distratti come noi.
Ma è solo per questo che ci lasciamo scoraggiare? Per questo rinunciamo a combattere? Per questo preferiamo tornare ai nostri affari, al nostro egoismo, alla nostra indifferenza, alle nostre comodità inutili e senza senso?
Certo è molto più semplice rimanere sdraiati a guardare la nostra televisione, becera e insulsa; ad abbandonarci all’effimero, al divertimento, al frastuono di un mondo altrettanto becero e insulso; a nutrirci delle idiozie di una società allo sbando, che insiste a sputare oscenità su Gesù, sulla Chiesa e su quanti la frequentano!
Quanto sarebbe invece più consolante, più rassicurante, più redditizio ascoltare umilmente la voce suadente di Dio che ci sussurra: “Figliolo mio, non temere, sono sempre qui con te! Camminiamo insieme: e quando ti sentirai stanco, deluso, debilitato, abbandonato, insultato, lasciati pure cadere tra le mie braccia; io sarò sempre felice di sorreggerti!”.
A questo punto, sicuramente il nostro cuore non avrebbe più alcun motivo per raccattare qua e là i richiami, le lusinghe, le follie di questo mondo: perché ogni nostra necessità, ogni preoccupazione, ogni debolezza, ogni momento difficile della nostra vita, verrebbero completamente assorbiti dalla potenza del suo smisurato amore di Padre. E noi ci sentiremmo veramente “beati”, consolati e rinfrancati da quella sua promessa di eternità: “Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli”! Amen.

 

 

giovedì 19 gennaio 2023

22 Gennaio 2023 – III Domenica del Tempo Ordinario


Mt 4,12-23
Avendo intanto saputo che Giovanni era stato arrestato, Gesù si ritirò nella Galilea e, lasciata Nazaret, venne ad abitare a Cafarnao, presso il mare, nel territorio di Zàbulon e di Nèftali, perché si adempisse ciò che era stato detto per mezzo del profeta Isaia: "Il paese di Zàbulon e il paese di Nèftali, sulla via del mare, al di là del Giordano, Galilea delle genti; il popolo immerso nelle tenebre ha visto una grande luce; su quelli che dimoravano in terra e ombra di morte una luce si è levata". 
Da allora Gesù cominciò a predicare e a dire: “Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino”. 
Mentre camminava lungo il mare di Galilea vide due fratelli, Simone, chiamato Pietro, e Andrea suo fratello, che gettavano la rete in mare, poiché erano pescatori. E disse loro: «Seguitemi, vi farò pescatori di uomini». Ed essi subito, lasciate le reti, lo seguirono. Andando oltre, vide altri due fratelli, Giacomo di Zebedèo e Giovanni suo fratello, che nella barca insieme con Zebedèo, loro padre, riassettavano le reti; e li chiamò. Ed essi subito, lasciata la barca e il padre, lo seguirono. Gesù andava attorno per tutta la Galilea, insegnando nelle loro sinagoghe e predicando la buona novella del regno e curando ogni sorta di malattie e di infermità nel popolo.

Venuto a conoscenza dell’arresto di Giovanni, Gesù abbandona Nazareth per rifugiarsi nelle zone più a nord della Galilea, precisamente a Cafarnao, sulla riva del Lago di Genesaret, nei territori di Zabulon e Neftali, abitato dalle omonime tribù di Israele. Un territorio di frontiera che a quei tempi i puri di Gerusalemme guardavano con molto sospetto, luogo in cui si mischiavano credenze e riti, culture e lingue, luogo imbastardito, meticcio, perduto. Basti pensare che proprio da quei territori proveniva il movimento estremista degli zeloti, e che dare del “Galileo” a qualcuno equivaleva definirlo “terrorista”. È proprio da questo luogo che Gesù inizia la sua predicazione, dai confini della storia. 
Dio è sempre così, preferisce i lontani, quelli con una vita difficile, a quelli che vivono tranquillamente, senza grossi problemi: Gesù preferisce abitare e condividere tutto con queste persone, portare ad esse luce, donare testimonianza, far capire che Dio è in mezzo a loro. 
È un segno molto importante per noi, per noi Chiesa di Cristo: perché, come Lui, anche noi dobbiamo dimostrare al mondo di oggi che Dio è qui, è presente tra noi, vive con noi; dobbiamo farlo perché Lui è stanco di rimanere solo, abbandonato nei tabernacoli; è stanco di essere tirato in ballo soltanto dentro le chiese alla domenica e nelle feste comandate; è stanco di essere sistematicamente estromesso dalla vita quotidiana della gente, dai luoghi dell’economia, della politica, del divertimento, della cultura. 
Ecco perché noi cristiani, noi che appunto ci raduniamo ogni domenica per celebrare la vittoria pasquale di Cristo, dobbiamo rispondere positivamente a questa situazione; dobbiamo sentire il dovere – una volta usciti di chiesa – di testimoniare con la nostra vita, con il nostro vissuto quotidiano, la reale presenza di Gesù nel mondo! Dobbiamo farlo da persone impegnate, consapevoli del nostro ruolo e della verità assoluta della nostra fede. 
Convertitevi!” è infatti l’invito bruciante, categorico, che Gesù rivolge oggi nel vangelo a tutti gli uomini: “Convertitevi perché il Regno si è fatto vicino”. Cosa vuol dire esattamente con queste parole? Che il “Regno” di Dio non è fantasia, non è immaginazione: è invece una realtà che ci riguarda molto da vicino, è la presenza concreta di Dio tra noi, è la sua reale presenza salvifica nel mondo. Non siamo più soli nel nostro vivere quotidiano: il regno di Dio “si è fatto vicino”, Dio è qui, è al nostro fianco, è con noi! 
Ed è proprio questa presenza di Dio che noi cristiani siamo chiamati a testimoniare: perché oggi siamo noi, i moderni discepoli, che dobbiamo diventare, per il mondo che ci guarda, la prova della presenza di Dio, la verifica della bontà del suo messaggio evangelico, del suo regno spirituale. Come? “Convertendoci” per primi: impostando cioè la nostra vita sugli insegnamenti del suo Vangelo. 
È un compito urgente, che non può essere rimandato: Dio infatti ci sta aspettando; non per rimproverarci, non per impaurirci con qualche dura paternale. Nossignori: ci aspetta semplicemente per dirci: “Guarda che ti sto aspettando, come fai a non accorgertene? Dài, datti da fare, seguimi!”. Si, pensiamo noi, ma in che modo? Semplice: il Vangelo di oggi, descrivendo la “chiamata” di Gesù ai suoi primi discepoli, ci fa capire perfettamente come: in pratica dobbiamo preoccuparci solo dell’essenziale, abbandonando il superfluo, tralasciando tutte quelle cose inutili che ci affannano la vita! Impossibile? Non per chi crede veramente; non per chi, come appunto i primi discepoli e poi tutti i santi, si sono lasciati guidare da Gesù.
Prendiamo allora in mano anche noi la nostra vita, identifichiamo le nostre debolezze, le nostre infedeltà, i nostri limiti; purifichiamo la nostra mentalità, buttiamo via le certezze ingannevoli, e soprattutto proponiamoci seriamente di seguire Lui, l’unica Verità che non inganna. 
Certo, oggi è difficile capire il significato, la portata, le conseguenze di questo “convertitevi” così categorico: siamo troppo legati alle inutili prospettive del mondo: la gente è completamente assorbita da altri problemi: a nessuno viene in mente di cambiare uno stile di vita comodo, rilassante, tranquillo, senza particolari obblighi verso Dio e il prossimo, con un altro che, al contrario, richiede impegno, attenzione, energia, carità, sacrificio. Lasciare il benessere concreto dell’immediato per investire tempo e fatica in prospettive spirituali future, incerte, immaginarie, fantasiose, per l’uomo moderno, edonista e pragmatico, è una scelta difficile, che lo sconcerta, gli fa paura, perché significherebbe andare verso l’ignoto, verso ciò che non ammette, che non vuol conoscere perché gli fa paura, lo rende ansioso. Ecco perché è molto più semplice fare gli indifferenti e continuare per la propria strada. 
Capita però, a noi cristiani, che se guardiamo più in profondità, dentro di noi, nella nostra coscienza, quello che vediamo non ci soddisfa affatto: perché è vero che ci professiamo credenti da una vita, che continuiamo a frequentare puntualmente la chiesa, ad accostarci ai sacramenti, ma ci accorgiamo di essere sempre gli stessi, sempre uguali! In pratica, facciamo delle opere buone, siamo generosi, cerchiamo sempre di apparire delle persone oneste, per bene, ma, in fondo, dobbiamo riconoscere che anteponiamo a tutto i nostri interessi, il nostro benessere, il nostro tornaconto: in altre parole ci accorgiamo che ogni iniziativa, sia materiale che spirituale, è condizionata, spinta, dal nostro egoismo occulto. Succede allora che, spinti dalla nostra coscienza, decidiamo di migliorare la nostra vita, di “convertirci”, di seguire fedelmente le indicazioni di Gesù; solo che invece di mettere umilmente in pratica i suoi messaggi, noi perdiamo tempo a razionalizzarli, a teorizzarli, a fare dei “distinguo”, a personalizzarli a nostro comodo. Perché in questo siamo bravi: al punto che poi alla fine, tutti i nostri “fermi” e grandi propositi, si tramutano puntualmente in superflue sceneggiate: la nostra accidia, la nostra indifferenza, il nostro egoismo, continuano ad aver sempre la meglio. La nostra risposta alla chiamata di Dio, è sempre mediocre, scadente, “con riserva”: che equivale a non “rispondere” per nulla. 
A questo punto dobbiamo farci una domanda: “Perché tanta incoerenza? Perché lasciarci condizionare passivamente dal mondo, dalle ideologie, dall’apparire, dall’egoismo? Non è certo questa la “conversione che Dio ci chiede! È ben altro!”. Una fede autentica, credere veramente in Dio, convertirsi a Lui, non si accontenta di belle parole, di promesse inutili; non consiste in uno stanco florilegio di preghiere, di salmodie, di invocazioni, corrose dall’abitudine. Vivere la fede, la propria conversione a Dio, è felicità, euforia, entusiasmo: è soprattutto movimento, terremoto, abbandono. Significa obbedire, aprirsi all’ascolto, lasciarsi coinvolgere, non tirarsi indietro! È Dio che ci chiama, non facciamo i tonti, rispondiamo! Tutti noi, nella nostra vita, abbiamo ricevuto da Dio, e continuiamo a riceverlo, l’invito a seguirlo: un invito fondamentale, determinante, con cui Dio bussa al nostro cuore, ci interpella, dice “Vieni!”: una chiamata dolcissima, promettente, è vero, ma insieme categorica, precisa, senza scadenze, in costante attesa della nostra risposta: “Eccomi, Signore!”; una risposta che dev’essere incondizionata, ferma, sostenuta da una incrollabile fiducia in Lui; un’adesione che per la logica del mondo è “follia”, è “non senso”, è “costrizione”: ma per chi sceglie di seguire il Vangelo, per chi decide di abbandonarsi completamente a Dio, è solo Vita, Armonia, Amore!
Amen. 

  

giovedì 12 gennaio 2023

15 Gennaio 2023 – II DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


Gv 1, 29-34 
Il giorno dopo, vedendo Gesù venire verso di lui, disse: «Ecco l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo! Egli è colui del quale ho detto: “Dopo di me viene un uomo che è avanti a me, perché era prima di me”. Io non lo conoscevo, ma sono venuto a battezzare nell’acqua, perché egli fosse manifestato a Israele». Giovanni testimoniò dicendo: «Ho contemplato lo Spirito discendere come una colomba dal cielo e rimanere su di lui. Io non lo conoscevo, ma proprio colui che mi ha inviato a battezzare nell’acqua mi disse: “Colui sul quale vedrai discendere e rimanere lo Spirito, è lui che battezza nello Spirito Santo”. E io ho visto e ho testimoniato che questi è il Figlio di Dio».

 Il Vangelo di oggi, in questa ripresa del Tempo Ordinario, ci propone ancora una volta la figura di Giovanni, il battezzatore: non il burbero e scontroso profeta penitenziale, ma un Battista più dolce, vinto dall’evidenza, più umile, che in veste di testimone oculare, addita ai presenti il personaggio chiave della redenzione umana, e ne rivela pubblicamente la vera identità: è l’«Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo».  
Una definizione solenne e plastica, che contiene l’assoluta e sbalorditiva novità di Gesù, vittima sacrificale: una novità che il Battista, ormai certo, senza tanti giri di parole, si affretta a mettere in chiaro agli occhi di tutti i presenti.  
A differenza della tradizione ebraica, secondo cui è l’uomo che si deve offrire a Dio, attraverso varie forme di offerte sacrificali cruenti, il Battista ci presenta qui un Dio che capovolge completamente le parti! È Lui – Dio –la vittima che si immola per noi, l’Agnello che spontaneamente si dona in sacrificio. Un’autentica rivoluzione, uno stravolgimento di valori che introduce nuove verità: l’uomo non deve conquistare nulla, non ha nulla da “meritare”; deve semplicemente accogliere la mano che Dio gli tende come dono; soprattutto non deve mai pretendere da Lui aiuto e amicizia, vantando dei meriti per azioni o iniziative puramente esteriori, fatti senza alcun coinvolgimento del cuore, e per questo stesso inutili, sterili, perché preoccupate più dell’apparire che dell’essere.
Dio non è un contabile che sta seduto dietro ad una scrivania per registrare e tenere il conto delle nostre buone azioni e dei nostri sacrifici quotidiani, soprattutto se fatti senza vero amore.
Nella nuova economia della salvezza introdotta da Gesù, c’è un novum fondamentale, un novum che stravolge le antiche liturgie: non più agnelli e capri da offrire in sacrificio a Dio, ma è Dio stesso che si offre come vittima sacrificale; è Lui che affronta la morte “per noi”; è attraverso la sua vita e il suo morire, che noi scopriamo la commovente verità del suo essere Amore assoluto; un Amore che supera di gran lunga tutti i delitti, tutti i peccati dell’intera umanità, messi insieme.
È proprio così: Dio è l’unico Amore fedele nei secoli, colui che ci ha riscattato sacrificando la sua vita: quando infatti guardiamo la croce, quello che vediamo appeso ad essa è Gesù, l’Agnello di Dio, la Vittima che si è immolata sul quel patibolo per liberarci da ogni schiavitù, da ogni peccato, da ogni colpa.
Per quanto possiamo sbagliare nella nostra vita, Dio è più forte del nostro male: Egli è l’Amico, il Guaritore, l’Amore, l’Avvocato (Paraclito), che riempie, consola, difende il nostro cuore.
È solo di questo infatti di cui noi tutti abbiamo bisogno, come scriveva Giacomo Leopardi in una lettera al fratello: “Io non ho bisogno né di gloria, né di stima, né di altre cose simili, ma solo di amore”. Ebbene, solo Dio può soddisfare in pieno questo bisogno dell’uomo.
Nella nostra vita di creature siamo soggetti a sofferenze, angosce, dolori di qualunque genere; ma se permettiamo a Dio di entrare nel nostro cuore, di stare con noi in noi, allora capiremo che Lui è un vero amico fedele, un valido sostegno, una nuova forza prorompente; sentiremo il conforto di avere una Persona che ci ascolta, che ci sorregge prontamente se vacilliamo, un rifugio sempre disponibile, in cui sentirci completamente sicuri e amati. E quanto bisogno abbiamo veramente tutti noi di sentirci amati! 
Gesù è l’agnello che toglie i “peccati” del mondo: ma di quali “peccati” parliamo? Per l’uomo contemporaneo esiste ancora il peccato? Che importanza gli viene data? Che percezione ne ha questa società edonista? Poca, purtroppo, pochissima; anzi direi proprio nessuna!
D’altro canto, oggi sentiamo ripetere insistentemente che Dio è misericordioso, che ci ama incondizionatamente, che nulla può interferire con il suo Amore, che è Lui che ci rincorre, che ci vuole salvare ad ogni costo: allora, pensa l’uomo della strada, perché stare sempre in tensione a preoccuparci del peccato? Tanto, se Lui è così buono come dicono, sicuramente ci perdona anche se pecchiamo!”: Eh no, caro signore: dobbiamo pensarci, eccome! Perché Dio, per quanto buono e misericordioso sia, non salva nessuno contro la sua volontà! Per questo non dobbiamo mai abbassare la guardia, non dobbiamo mai sottovalutare l’importanza delle nostre azioni. Il nostro disinteresse, il nostro menefreghismo totale, equivale al nostro negare la realtà di Dio, significa porsi in contrapposizione a lui, significa cioè non tenere in alcun conto quanto Lui ha fatto per noi, significa essere indifferenti al dolore che la nostra ingratitudine provoca nel suo cuore innamorato.
E continua a sbagliare anche chi pensa: “e poi, che peccati potrò mai fare?”.
Se esaminiamo la nostra vita alla luce del solo decalogo, forse possiamo anche sentirci tranquilli: andiamo a messa, non ammazziamo nessuno, facciamo le nostre elemosine, non bestemmiamo, ecc. Ma abbiamo mai pensato in quanti altri modi possiamo “peccare” contro l’infinita bontà di Dio? Per esempio quando non vogliamo maturare e crescere spiritualmente, quando, sapendo che c’è un problema col prossimo, facciamo finta di nulla, quando la vita spirituale non circola più in noi: viviamo cioè come se fossimo già morti, siamo insensibili, niente ci commuove, niente ci emoziona, niente ci appassiona; peccato è ignorare le nostre responsabilità, preferire il buio della menzogna alla luce della verità, non preoccuparci delle tante infermità, delle tante debolezze, delle tante ferite che non mettiamo nelle mani di Dio; le lasciamo invece marcire in fondo al nostro cuore, fino ad infettare il nostro spirito, la nostra anima, fino a corroderla e ad ucciderla: infatti dove c’è vita non c’è morte; dove c’è espressione non c’è depressione; dove c’è amore non c’è chiusura; dove c’è il bene non c’è il male. Pertanto, peccato, male, morte, significa non esprimere pienamente la vita dello Spirito che ognuno ha dentro di sé.
Di una cosa dobbiamo essere convinti: che nella vita non possiamo accontentarci di “non fare il male”, ma dobbiamo scegliere sempre di “fare il bene”! 
Ogni domenica quando andiamo a Messa, nell’ascoltare il celebrante che ci indica la persona di Gesù, se ci raccogliamo in noi stessi possiamo sentire la sua voce che ci sussurra: “Se vuoi vengo anche da te, per portarti pace, amore, speranza, perdono. Mi lasci entrare? Mi apri la porta?”. Sicuramente, di fronte a tanta amabilità, non arriveremo mai a dirgli sgarbatamente un “no” secco: in realtà, però, non gli diciamo neppure un “si” convinto, entusiasta, sincero, forse perché in quel preciso momento il nostro cuore, la nostra mente, sono impegnati altrove, sono interessati ad altro; succede spesso infatti, che la nostra partecipazione alla Liturgia Eucaristia, le nostre risposte siano, fin dall’inizio, meccaniche, ripetitive, non esprimano alcun desiderio, alcuna necessità, alcun entusiasmo di accogliere Gesù in casa nostra: quindi alla sua domanda, alla sua offerta, in pratica gli rispondiamo: “No grazie, scusami tanto Gesù, ma ho altro da fare, al momento non mi serve nulla!”. Ma ce ne rendiamo veramente conto? Con una leggerezza, una incoscienza veramente imperdonabile, giriamo le spalle all’unica Persona che ci ama sul serio, a Colui che ha sacrificato la sua vita per amor nostro, per riscattarci, per restituirci all’amore di nostro Padre.
Fare la comunione non è solo un dovere, un precetto, una necessità: è molto di più! È ammettere umilmente l’impossibilità di gestire da soli la nostra esistenza, a causa dei nostri limiti, delle nostre debolezze, dei nostri errori; è riconoscere apertamente di aver “fame” di Lui, di “volerLo” materialmente dentro di noi, di essere certi che la sua presenza ci comunica forza, coraggio, sicurezza; ma “fare la comunione” significa soprattutto rispondere al suo amore, comunicargli concretamente il nostro amore, dirgli il nostro “grazie” sincero e convinto; significa sfruttare al meglio la possibilità di far entrare nel buio del nostro cuore quella Luce sfolgorante che vuole illuminarlo, portargli pace, perdono, amore. È con questi doni preziosi, insostituibili, che Gesù è sempre disponibile per noi!  
Ma allora perché tanta gente va in chiesa e non fa la comunione? È tanto distratta e indifferente da non porsi neppure il problema? Magari non vuole farsi coinvolgere troppo? È difficile capirlo, ma ancor più giustificarlo: rifiutare l’Eucaristia, infatti, è come andare a far visita ai propri genitori e non dar loro neppure un bacio, entrare in casa di un amico e non degnarlo di un saluto, andare ad un pranzo di nozze e non toccare cibo. Ma perché? Perché rinunciare in questa vita ad un autentico incontro con Dio, così meraviglioso, così rigenerante, un incontro in cui ci dona tutto sé stesso, ci rinvigorisce, ci dà gioia, amore, serenità, perdono? Eppure, nella vita, quando ci innamoriamo di una persona qualunque, non vediamo l’ora di incontrarla, ci prepariamo accuratamente per far bella figura, per piacerle: ci mettiamo il vestito “buono”, ci comportiamo educatamente, cerchiamo di evitare quelle nostre “abitudini” che potrebbero in qualche modo ferirla! Ma allora, se desideriamo così tanto incontrare una semplice persona umana, se facciamo di tutto per dimostrarle il nostro amore, per condividere con lei momenti esclusivi, come mai non ci sentiamo “affamati”, entusiasti, desiderosi, di vivere un’esperienza analoga, ma decisamente più straordinaria, più esclusiva, più coinvolgente, addirittura con Gesù, il Figlio di Dio?
Non giustifichiamoci pensando scioccamente: “Se è vero che Lui mi ama, farà tutto Lui. È talmente buono, che capirà!”. Nossignori: nel cammino della fede, nella conversione del cuore, non è assolutamente possibile rimanere spettatori passivi, disinteressati, immobili: perché qualunque azione Dio predisponga per la nostra salvezza, essa avrà esito positivo solo ed esclusivamente se da parte nostra ci sarà pronta accettazione, fattiva compartecipazione, volontaria e libera collaborazione; siamo noi che dobbiamo muoverci: siamo noi che dobbiamo scegliere di lasciarci salvare, di lasciarci guarire il cuore e l’anima, di rimanere sempre con Lui: una iniziativa umana, che è stata da sempre l’unica, alla quale Dio ha risposto puntualmente, positivamente, senza mai deludere nessuno! Amen.

 

  

venerdì 6 gennaio 2023

08 Gennaio 2023 – BATTESIMO DEL SIGNORE



Mt 3, 13-17 Allora Gesù dalla Galilea venne al Giordano da Giovanni, per farsi battezzare da lui. Giovanni però voleva impedirglielo, dicendo: «Sono io che ho bisogno di essere battezzato da te, e tu vieni da me?». Ma Gesù gli rispose: «Lascia fare per ora, perché conviene che adempiamo ogni giustizia». Allora egli lo lasciò fare. Appena battezzato, Gesù uscì dall’acqua: ed ecco, si aprirono per lui i cieli ed egli vide lo Spirito di Dio discendere come una colomba e venire sopra di lui. Ed ecco una voce dal cielo che diceva: «Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento».

 Anche Gesù, come una grande moltitudine di persone, segue il Battista; sono addirittura cugini: per lui Giovanni è un esempio, il punto di riferimento, il maestro, uno dei più grandi profeti; e come tutti, anche Gesù è lì al Giordano per il battesimo, confuso tra la folla, in umile attesa del suo turno, simile in questo ai tantissimi che vogliono ottenere il perdono per i loro peccati; ma una volta disceso nelle acque del fiume, ed essere stato battezzato, tutto cambia, improvvisamente succede un fatto nuovo, impensabile, straordinario, decisivo. 
Quello che doveva essere un semplice evento “battesimale”, assume un significato assolutamente inedito, sia per la vita terrena di Gesù, che per la vita di tutte le creature: Gesù, per la prima volta, si rende conto di quanto egli valga agli occhi del Padre, di fronte al suo Dio. Si rende conto che il “suo” Dio, che è poi il Dio del suo vangelo, è diametralmente l’opposto al Dio intransigente e severo di Giovanni. Lo capisce immediatamente, in maniera inequivocabile: “No, Padre, tu non sei così! Non c’è motivo di aver paura di te. Tu non sei come mi hanno insegnato fino ad oggi; io che ora ti sto sperimentando, toccando, incontrando, ti conosco veramente per quello che sei”. 
È così che un semplice “battesimo d’acqua”, acquista in Gesù un significato “altro”, diventa un evento rassicurante, una solenne investitura, una certezza che lo sosterrà in ogni istante difficile della sua missione terrena. 
Oggi infatti, più che al battesimo di Gesù (egli non aveva alcun peccato da farsi “lavare”!) noi assistiamo alla sua “chiamata” ufficiale, all’esplicito invito “paterno” di dare avvio alla sua missione. Ciò che Matteo vuole qui dire, va ben oltre il significato di un avvenimento materiale, di routine; il suo è invece un tentativo di esprimere una realtà nuova, inesprimibile: la trasformazione intima di Gesù; un cambiamento interiore innegabile, che repentinamente si è reso visibile, riscontrabile da tutti. Gesù da quel preciso istante è un altro uomo. La sua stretta unione col Padre, prima personalissima e nascosta, diventa ora “riconoscibile” da tutti, diventa di dominio pubblico, attraverso la successione di “segni” che tutti hanno avuto modo di percepire: “Si aprirono i cieli”, sottolinea Matteo: il mondo del cielo (Dio) e quello della terra (Cristo) sono in stretta, indissolubile comunione, in costante collegamento; e si sono aperti per rendere possibile qualunque comunicazione. 
“Ed egli vide lo Spirito di Dio discendere come una colomba”: non che ci fosse una colomba in carne ed ossa; è un simbolismo per dire che veramente qualcosa di soprannaturale è entrato in Gesù. Qualcosa che seppur invisibile, tutti sono in grado di verificarne la presenza. È lo Spirito del Padre: Gesù l’ha veramente sentito entrare in sé, ha percepito un cambio repentino, deciso, una rassicurante osmosi reciproca di sentimenti d’Amore. Anche all’inizio della storia del mondo, nel primo capitolo della Genesi, lo Spirito aleggia sulle acque; adesso però (in forma di colomba) aleggia su Gesù; lì la prima creazione non ha funzionato: l’uomo vecchio ha rovinato tutto; qui succede il contrario. Gesù è il nuovo inizio della storia, segna l’inizio dell’economia salvifica; è l’uomo nuovo che ricostruirà la primitiva armonia dell’umanità col Padre creatore. Lo Spirito divino, l’Amore del Padre in simbiosi con quello del Figlio, ne è il garante. E - come già successo nella Bibbia nei confronti di re, di giudici, di profeti, di sacerdoti - lo Spirito di Dio scende sul prescelto, e indica a Gesù la particolarità della missione che lo attende; una missione unica, personale, indelegabile; una missione universale, divenuta urgente, improcrastinabile. 
“Ed ecco una voce dal cielo”: non si tratta di una voce esterna, rumorosa (in quel momento Gesù è in preghiera); ma è una voce silenziosa, interiore; ciò che Gesù sente, lo sente dentro di sé; sono parole rassicuranti, che lo mettono di fronte a se stesso: “Io, Gesù, sono figlio di Dio; Lui è mio Padre; gli piaccio (si compiace); io sono il Cristo; è mio Padre che mi ha voluto così: sono il suo prediletto, il suo “messia” l’unto dal suo Spirito. Egli mi ha inviato qui su questa terra, per compiere una missione ben precisa; ora è arrivato il momento: ora non posso più tardare; ora devo muovermi; Lui è con me!”. 
È proprio l’assorbimento intimo da parte di Gesù di questi concetti “messianici”, il suo riconoscersi in essi, che determina oggi l’evento “battesimale” nella sua vita: un punto di non ritorno, una rottura definitiva col passato, un passaggio obbligatorio da superare. 
Una vera e propria “chiamata” dunque. Sembra quasi che anche Gesù sia passato attraverso quelle stesse sensazioni che per noi creature umane trasformano una semplice chiamata in “chiamata di Dio”. Fatti ovviamente i dovuti “distinguo”. 
Tutti noi infatti, chi più chi meno distintamente, siamo o siamo stati oggetto di una speciale chiamata di Dio: forse non ce ne rendiamo ancora conto, di come e dove, visto che non si tratta di una chiamata col cellulare o per “sms”. Ma per tutti, è un’occasione unica, particolarissima, intensa, di grande intimità; un’esperienza che continua nel tempo a rivoluzionarci il cuore e l’anima, un’esperienza da cui non se ne esce mai identici a prima. È un incontro/scontro con Qualcuno che ci sconvolge letteralmente la vita, che ci rende completamente diversi. È una irruzione (ir-rompo) di Dio, talmente imperiosa e forte, da romperci dentro, da spaccarci, da sconquassarci, da destabilizzarci. “Essere chiamati da Dio” significa percepire un qualcosa che ci toglie il respiro, che ci spezza in due, che ci attraversa, che ci lascia esanimi; uno stato d’animo che ci terrorizza tanto è grandioso e bello. 
Per inciso: è proprio per questo motivo che una volta i monaci, i consacrati, nell’abbracciare la vita religiosa, cambiavano il loro nome: abbandonavano la vecchia identità per assumerne una nuova. Era un modo per indicare una verità profonda e personale: “da quando ho detto sì alla tua chiamata, Dio, non sono più io; sono un’altra persona”. 
Ecco; se anche noi vogliamo dare seguito alla “chiamata di Dio”, viverla con l’entusiasmo che merita, dobbiamo prima “calarci”, discendere nel nostro Giordano: dobbiamo cioè immergerci nella nostra umanità, fatta di errori, di condizionamenti, di paure, gelosie, ostinazioni, perversioni; dobbiamo fare i conti con tutto questo marciume; dobbiamo renderci conto del non fatto, dell’incompiuto, delle occasioni perse, degli errori ripetitivi; dobbiamo in una parola prendere atto della nostra miseria, del nostro niente di fatto, di tutte le situazioni peccaminose e mortali che hanno reso asfittica la nostra vita cristiana. E soprattutto dobbiamo correre ai ripari: subito, immediatamente. Dobbiamo lavare, lavare e lavare. Dobbiamo tagliare, ripulire, distruggere; dobbiamo ristrutturare completamente la nostra casa, ricreare un habitat degno dell’Amore, del Divino. Perché solo così potremo offrire piena ospitalità allo Spirito di Dio: a quello Spirito d’Amore che solo ci può consigliare, confortare, amare, proteggere. 
Guai a noi se rifiutassimo di “immergerci”; guai a noi se fossimo convinti di essere delle “brave e giuste persone”, e quindi di non aver bisogno di alcun Giordano; guai a noi, perché in tal caso non arriveremo mai a incontrare e a conoscere l’amore di Dio; non potremo mai sperimentare quell’abbraccio di amore gratuito che Dio riserva a quanti si sottopongono al “lavaggio sacramentale” delle loro colpe. Non possiamo pretenderlo questo amore; non ne abbiamo alcun diritto; è un amore che si ottiene soltanto dando prova d’amore. Dio non è in obbligo con noi, anzi con nessuno. Pretendere di barattare il suo amore con le nostre presunte “opere buone”, equivale solo a dimostrare, una volta di più, la nostra presunzione, la nostra superbia, la nostra arroganza. L’amore non si “contrappone”, non è “conflittuale”, non “pretende” nulla: è solo “dono”, è a servizio, previene, accompagna, si offre, spontaneamente e gratuitamente, come “risposta” alla “chiamata/amore” di Dio! 
Ascoltiamola dunque nel silenzio della nostra anima questa chiamata: ascoltiamo la Voce dell’Amore che instancabilmente ci sussurra: “Io ti amo. A me vai bene così, coraggio, datti da fare!”. Perché questa è la voce che ci salva; questa è la voce che ci fa rinascere: anche se siamo così, impresentabili; è questa voce che ci fa sentire sempre, in ogni caso, amati. Allora, se sappiamo di essere amati, che aspettiamo? Viviamo, purifichiamo, laviamo, cambiamo, rispondiamo, e soprattutto amiamo! 
In questa epifania battesimale di Dio, possano tutti sperimentare queste consolanti sensazioni: entrino in noi, nel nostro cuore, diventino vita, tocchino il profondo della nostra anima; risuonino nelle nostre zone d’ombra, nelle zone buie, ferite, abbandonate, rifiutate; diventino, per noi tutti, una musica celestiale confortevole. Fidiamoci di questa Voce; rispondiamo sinceramente e fiduciosamente a questa “chiamata”, e incamminiamoci liberi, felici e sicuri per le vie del mondo, là dove Egli ci aspetta. Amen.

 

  

giovedì 29 dicembre 2022

1° Gennaio 2023 – MARIA SS.MA MADRE DI DIO – REGINA DELL PACE


Lc 2,16-21 
In quel tempo, [i pastori] andarono, senza indugio, e trovarono Maria e Giuseppe e il bambino, adagiato nella mangiatoia. E dopo averlo visto, riferirono ciò che del bambino era stato detto loro. Tutti quelli che udivano si stupirono delle cose dette loro dai pastori. Maria, da parte sua, custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore. I pastori se ne tornarono, glorificando e lodando Dio per tutto quello che avevano udito e visto, com’era stato detto loro. Quando furono compiuti gli otto giorni prescritti per la circoncisione, gli fu messo nome Gesù, come era stato chiamato dall’angelo prima che fosse concepito nel grembo.

Un nuovo anno inizia oggi, un evento tutto sommato banale, che il disperato bisogno di certezze degli uomini ha riempito di una ritualità laica, fatta di fuochi d'artificio, di tavole opulente, di bevute e di brindisi stimolanti, nel tentativo pagano di esorcizzare il tempo affinché nei giorni futuri assicuri gioia e serenità. Ubriacatura del non senso, dimenticanza voluta del vero senso del tempo e della vita. Tutto ciò perché l’uomo continua a sperare per il suo domani in qualcosa di nuovo, di più soddisfacente: qualunque cosa, purché sia in grado di colmare il vuoto della sua assenza di valori. 
Per noi cristiani, invece, da quando Dio lo inabita, il tempo è sacro. Per noi il tempo, la storia, la nostra storia, non è una squallida serie di avvenimenti che si susseguono senza senso, davanti a noi, ma al contrario, è quello “spazio” esistenziale che ci viene donato per realizzare il progetto che Dio ha su di noi, un breve frammento di infinito, in cui realizzare di essere sue creature.
Nella nostra vita ci sono spazi di tempo felici, positivi, come l’innamoramento giovanile, la nascita di un figlio, il raggiungimento di un traguardo; momenti alternati da altri più difficili, più dolorosi, più strazianti come una grave malattia, un fallimento affettivo, la perdita di una persona cara. Noi sappiamo però che ogni istante della nostra vita è abitato dalla tenerezza di Dio. Certo, salute, pace, benessere, sono tutte cose importantissime, ma non sono “la vita”: non possiamo monopolizzarle, non sono una nostra esclusiva, non ci sono dovute. Non possiamo pretendere che Dio risolva i nostri problemi, né che continuamente debba facilitarci, appianarci l’esistenza. La vita è un mistero e come tale va accolta, capita, usata, rispettata. Perché la vita non è nostra: è solo in prestito d’uso. Prima o poi va restituita, e dobbiamo rendere conto di come l’abbiamo gestita. Da qui l’importanza delle periodiche revisioni, di osservare scrupolosamente le istruzioni di Colui che la presiede, dobbiamo assolutamente fidarci di Lui.
È quanto ha fatto scupolosamente la giovane Maria di Nazareth.
Quella Maria che oggi festeggiamo con il titolo di "Madre di Dio", di “Regina della pace”: quella Maria che oggi scopriamo turbata, impaurita, preoccupata; troppe cose le sono successe in pochi giorni: dover partorire da sola, confinata in un ricovero per animali, lontana da casa sua, senza alcuna sistemazione, con rozzi e poco raccomandabili personaggi che improvvisamente le sono comparsi davanti, eccitati e vocianti, che parlano, parlano, sostenendo di aver miracolosamente saputo di lei e del bambino, nei confronti del quale si stanno comportando in modo così strano. E lei che fa? Nulla, rimane in silenzio: è inquieta per tutti questi eventi che le sono piombati addosso; e raccolta in sé stessa li rivive uno per uno. Anzi, come scrive letteralmente Luca, “sunetèrei tà rèmata tàuta, sumbàllusa en tè kardìa autès”, ossia: serbava questi eventi in cuor suo “mettendoli insieme”, “ricomponendoli nel loro ordine”, raccogliendo insieme tutti questi “pezzi” di vita. Semplicemente. Non reagisce, non si ribella, non inveisce: perché lei si fida ciecamente del suo Dio.
Ecco, nella nostra vita manca molto spesso proprio questo “entrare” nel nostro cuore, “in noi stessi”, per esaminare, valutare, ricomporre la nostra vita; ci lasciamo purtroppo travolgere da una vita frenetica, incalzante, che ci sbatte in ogni dove; non sappiamo dare un ordine, un senso compiuto agli eventi; non sappiamo trovare un loro “filo” conduttore: assomigliamo un po’ a quel bucato lavato, strizzato e ammucchiato in una bacinella, a cui serve un filo “teso in alto” su cui stendere ogni cosa ad asciugare. Ecco, a noi serve proprio questo “elemento unificatore”, prezioso, insostituibile, unico: la fede. Non ci fidiamo di Dio! Vorremmo che Dio pensasse come noi, che volesse soltanto ciò che vogliamo noi. Ma i criteri di Dio non sono quelli nostri; lo afferma Lui stesso: “I miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie(Is 55,8); perché: “Io non guardo ciò che guarda l’uomo: l’uomo guarda l’apparenza, Io guardo il cuore!” (1Sam 16,7).
È stato così per Maria, è stato così per Giuseppe, è stato così per i pastori e per i Magi; continua ad essere così anche per noi: e sarà per sempre così, ogni qualvolta Dio deciderà di servirsi della collaborazione degli uomini: egli in ciò non guarderà mai al potere, alla ricchezza, alla scienza, ai primati personali: il suo metodo è e sarà sempre lo stesso: “La pietra che i costruttori hanno scartato è diventata la pietra d’angolo” (Mt 21,42); Dio, cioè, continuerà a mettere come “base” portante, come riferimento nei suoi progetti, proprio quella pietra di “scarto”, quella “pietra” cioè che i “costruttori” (il mondo) considera inadatta, inservibile.
A questo proposito, nell’occasione del Natale, ci siamo mai chiesto che fine hanno fatto i capi religiosi, i dirigenti del Tempio, gli “esperti” di religione? Perché l’Angelo del Signore non ha portato la bella notizia (euanghelìzomai) a nessuno della Gerusalemme “bene”, quella dei nobili, dei ricchi, della gente che conta, dei “giusti”, degli osservanti scrupolosi della Legge? Perché al contrario lo ha fatto capire soltanto ai pastori e ai magi lontani, che all’epoca erano visti i primi come truffatori, gente di malaffare, i secondi come gente sognatrice, inaffidabile? Sempre per lo stesso motivo: perché Dio da che mondo è mondo non seguirà mai i nostri criteri, né quelli che la civiltà moderna, la civiltà contemporanea dei consumi, giudica come fondamentali, prioritari: “Che patrimonio possiedi? Sei abbastanza potente? Sei ricco? Fino a che punto puoi spingerti con la tua autorità?”. I criteri di Dio sono infatti completamente diversi: “Sei disponibile? Saprai accettare il mio amore? Ti lascerai condurre dove voglio io? Collaborerai con me anche quando ciò che ti chiedo ti sembrerà irrazionale, inutile?”.
Dio pensa e usa metodi completamente diversi: Egli, per ciascuno di noi, ha programmato un incredibile viaggio nel tempo, un viaggio straordinario, eccezionale, meraviglioso: ma non può attuarlo se noi non ci fidiamo di Lui, se gli resistiamo, se continuiamo ad opporci, a voler fare sempre di testa nostra, a stabilire ciò che è bene o male per noi. Ecco perché Dio sceglie soltanto coloro che sono disponibili, che si abbandonano a Lui, alla sua volontà, che rispondono, come Maria: “Va bene, Signore, non so dove mi vuoi portare, ma mi fido di te. Sia fatta la tua volontà! Guida tu la mia vita, a me sta bene così!”.
Non è meraviglioso, questo modo di relazionarsi con Dio? Abbandonarsi completamente alla sua volontà? Lasciare che sia Lui a provvedere ad ogni cosa? Questa sì che è “fede”, amici! 
Allora all’inizio di questo anno nuovo, guardiamo a Maria, imitiamola, cerchiamo di vivere ogni giorno come lei, chiediamole aiuto, seguiamo i suoi consigli di mamma, e diciamo anche noi: “Signore, io mi fido di te; Prendimi per mano e portami dove vuoi Tu. Non ti importunerò più con i mei risentimenti; non ti chiederò più perché certe cose succedono solo a me, e che male ho fatto per meritarle ecc. Smetterò di ostacolarti, di tirarmi indietro. Qualunque cosa accada, so con certezza che Tu mi aspetti là, in fondo a quella strada, a quel tunnel: guidami e io ti seguirò; tu davanti e io, dietro, calcherò le tue orme! “Anche se vado per una valle oscura, non temo alcun male, perché tu sei con me! (Sal 23, 4).
Che bello sarebbe poter vivere con questo spirito ogni singolo giorno di quest’anno! Le nostre ansie, i nostri dubbi, le nostre insicurezze svanirebbero completamente e dentro di noi regnerebbe una pace infinita. Quella pace interiore che Maria, “Regina della pace”, ha vissuto durante tutta la sua vita.
E allora che questa pace scenda anche in noi e nel mondo: sia Pace nelle nostre case, nelle comunità in cui viviamo; sia Pace dove lavoriamo e dove ci divertiamo; ma sia soprattutto Pace in quei paesi, in cui imperversa ancora una inutile guerra fratricida, fomentata solo dall’odio, dal delirio di onnipotenza, da un egoismo dispotico e spietato.
Augurare la Pace è augurare l’incontro con Dio: possa allora l’umanità intera incontrare e conoscere Dio non solo nelle Chiese cristiane, nelle Sinagoghe o nelle Moschee, ma possa conoscerLo soprattutto nell’incontro con i fratelli, nell’ascolto reciproco, nell’aiuto a chi è in difficoltà, nel perdono dopo qualunque scontro, nell’amore che, sempre e in ogni occasione, tutti possono donare a tutti.
Voglio pertanto contestualizzare questo mio augurio, con quella meravigliosa espressione tratta dal Libro dei Numeri: “Il Signore Dio faccia risplendere per noi il suo volto, e ci faccia grazia, ci conceda pace!” (Nm 6,22)Far risplendere il volto”, splendido semitismo per indicare il sorriso di una persona. Dio, nostro Padre, è un Dio che ci “sorride”; un Dio che pensando a noi, illumina il suo volto: non un Dio corrucciato, impenetrabile, scostante, irritato: ma un Dio sorridente, innamorato, sempre attento e pronto a correre in nostro aiuto.
Buon anno allora a voi tutti amici, conosciuti e sconosciuti, ma comunque fratelli tutti in Cristo. Il Dio, che “fa nuove tutte le cose” (Ap 21,5), quest’anno vuol “rinnovare” anche noi, vuole conoscerci meglio: e ce lo chiede sorridendo, amandoci profondamente!
Perché non rispondergli anche noi con un sorriso? Amen.