giovedì 19 gennaio 2023

22 Gennaio 2023 – III Domenica del Tempo Ordinario


Mt 4,12-23
Avendo intanto saputo che Giovanni era stato arrestato, Gesù si ritirò nella Galilea e, lasciata Nazaret, venne ad abitare a Cafarnao, presso il mare, nel territorio di Zàbulon e di Nèftali, perché si adempisse ciò che era stato detto per mezzo del profeta Isaia: "Il paese di Zàbulon e il paese di Nèftali, sulla via del mare, al di là del Giordano, Galilea delle genti; il popolo immerso nelle tenebre ha visto una grande luce; su quelli che dimoravano in terra e ombra di morte una luce si è levata". 
Da allora Gesù cominciò a predicare e a dire: “Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino”. 
Mentre camminava lungo il mare di Galilea vide due fratelli, Simone, chiamato Pietro, e Andrea suo fratello, che gettavano la rete in mare, poiché erano pescatori. E disse loro: «Seguitemi, vi farò pescatori di uomini». Ed essi subito, lasciate le reti, lo seguirono. Andando oltre, vide altri due fratelli, Giacomo di Zebedèo e Giovanni suo fratello, che nella barca insieme con Zebedèo, loro padre, riassettavano le reti; e li chiamò. Ed essi subito, lasciata la barca e il padre, lo seguirono. Gesù andava attorno per tutta la Galilea, insegnando nelle loro sinagoghe e predicando la buona novella del regno e curando ogni sorta di malattie e di infermità nel popolo.

Venuto a conoscenza dell’arresto di Giovanni, Gesù abbandona Nazareth per rifugiarsi nelle zone più a nord della Galilea, precisamente a Cafarnao, sulla riva del Lago di Genesaret, nei territori di Zabulon e Neftali, abitato dalle omonime tribù di Israele. Un territorio di frontiera che a quei tempi i puri di Gerusalemme guardavano con molto sospetto, luogo in cui si mischiavano credenze e riti, culture e lingue, luogo imbastardito, meticcio, perduto. Basti pensare che proprio da quei territori proveniva il movimento estremista degli zeloti, e che dare del “Galileo” a qualcuno equivaleva definirlo “terrorista”. È proprio da questo luogo che Gesù inizia la sua predicazione, dai confini della storia. 
Dio è sempre così, preferisce i lontani, quelli con una vita difficile, a quelli che vivono tranquillamente, senza grossi problemi: Gesù preferisce abitare e condividere tutto con queste persone, portare ad esse luce, donare testimonianza, far capire che Dio è in mezzo a loro. 
È un segno molto importante per noi, per noi Chiesa di Cristo: perché, come Lui, anche noi dobbiamo dimostrare al mondo di oggi che Dio è qui, è presente tra noi, vive con noi; dobbiamo farlo perché Lui è stanco di rimanere solo, abbandonato nei tabernacoli; è stanco di essere tirato in ballo soltanto dentro le chiese alla domenica e nelle feste comandate; è stanco di essere sistematicamente estromesso dalla vita quotidiana della gente, dai luoghi dell’economia, della politica, del divertimento, della cultura. 
Ecco perché noi cristiani, noi che appunto ci raduniamo ogni domenica per celebrare la vittoria pasquale di Cristo, dobbiamo rispondere positivamente a questa situazione; dobbiamo sentire il dovere – una volta usciti di chiesa – di testimoniare con la nostra vita, con il nostro vissuto quotidiano, la reale presenza di Gesù nel mondo! Dobbiamo farlo da persone impegnate, consapevoli del nostro ruolo e della verità assoluta della nostra fede. 
Convertitevi!” è infatti l’invito bruciante, categorico, che Gesù rivolge oggi nel vangelo a tutti gli uomini: “Convertitevi perché il Regno si è fatto vicino”. Cosa vuol dire esattamente con queste parole? Che il “Regno” di Dio non è fantasia, non è immaginazione: è invece una realtà che ci riguarda molto da vicino, è la presenza concreta di Dio tra noi, è la sua reale presenza salvifica nel mondo. Non siamo più soli nel nostro vivere quotidiano: il regno di Dio “si è fatto vicino”, Dio è qui, è al nostro fianco, è con noi! 
Ed è proprio questa presenza di Dio che noi cristiani siamo chiamati a testimoniare: perché oggi siamo noi, i moderni discepoli, che dobbiamo diventare, per il mondo che ci guarda, la prova della presenza di Dio, la verifica della bontà del suo messaggio evangelico, del suo regno spirituale. Come? “Convertendoci” per primi: impostando cioè la nostra vita sugli insegnamenti del suo Vangelo. 
È un compito urgente, che non può essere rimandato: Dio infatti ci sta aspettando; non per rimproverarci, non per impaurirci con qualche dura paternale. Nossignori: ci aspetta semplicemente per dirci: “Guarda che ti sto aspettando, come fai a non accorgertene? Dài, datti da fare, seguimi!”. Si, pensiamo noi, ma in che modo? Semplice: il Vangelo di oggi, descrivendo la “chiamata” di Gesù ai suoi primi discepoli, ci fa capire perfettamente come: in pratica dobbiamo preoccuparci solo dell’essenziale, abbandonando il superfluo, tralasciando tutte quelle cose inutili che ci affannano la vita! Impossibile? Non per chi crede veramente; non per chi, come appunto i primi discepoli e poi tutti i santi, si sono lasciati guidare da Gesù.
Prendiamo allora in mano anche noi la nostra vita, identifichiamo le nostre debolezze, le nostre infedeltà, i nostri limiti; purifichiamo la nostra mentalità, buttiamo via le certezze ingannevoli, e soprattutto proponiamoci seriamente di seguire Lui, l’unica Verità che non inganna. 
Certo, oggi è difficile capire il significato, la portata, le conseguenze di questo “convertitevi” così categorico: siamo troppo legati alle inutili prospettive del mondo: la gente è completamente assorbita da altri problemi: a nessuno viene in mente di cambiare uno stile di vita comodo, rilassante, tranquillo, senza particolari obblighi verso Dio e il prossimo, con un altro che, al contrario, richiede impegno, attenzione, energia, carità, sacrificio. Lasciare il benessere concreto dell’immediato per investire tempo e fatica in prospettive spirituali future, incerte, immaginarie, fantasiose, per l’uomo moderno, edonista e pragmatico, è una scelta difficile, che lo sconcerta, gli fa paura, perché significherebbe andare verso l’ignoto, verso ciò che non ammette, che non vuol conoscere perché gli fa paura, lo rende ansioso. Ecco perché è molto più semplice fare gli indifferenti e continuare per la propria strada. 
Capita però, a noi cristiani, che se guardiamo più in profondità, dentro di noi, nella nostra coscienza, quello che vediamo non ci soddisfa affatto: perché è vero che ci professiamo credenti da una vita, che continuiamo a frequentare puntualmente la chiesa, ad accostarci ai sacramenti, ma ci accorgiamo di essere sempre gli stessi, sempre uguali! In pratica, facciamo delle opere buone, siamo generosi, cerchiamo sempre di apparire delle persone oneste, per bene, ma, in fondo, dobbiamo riconoscere che anteponiamo a tutto i nostri interessi, il nostro benessere, il nostro tornaconto: in altre parole ci accorgiamo che ogni iniziativa, sia materiale che spirituale, è condizionata, spinta, dal nostro egoismo occulto. Succede allora che, spinti dalla nostra coscienza, decidiamo di migliorare la nostra vita, di “convertirci”, di seguire fedelmente le indicazioni di Gesù; solo che invece di mettere umilmente in pratica i suoi messaggi, noi perdiamo tempo a razionalizzarli, a teorizzarli, a fare dei “distinguo”, a personalizzarli a nostro comodo. Perché in questo siamo bravi: al punto che poi alla fine, tutti i nostri “fermi” e grandi propositi, si tramutano puntualmente in superflue sceneggiate: la nostra accidia, la nostra indifferenza, il nostro egoismo, continuano ad aver sempre la meglio. La nostra risposta alla chiamata di Dio, è sempre mediocre, scadente, “con riserva”: che equivale a non “rispondere” per nulla. 
A questo punto dobbiamo farci una domanda: “Perché tanta incoerenza? Perché lasciarci condizionare passivamente dal mondo, dalle ideologie, dall’apparire, dall’egoismo? Non è certo questa la “conversione che Dio ci chiede! È ben altro!”. Una fede autentica, credere veramente in Dio, convertirsi a Lui, non si accontenta di belle parole, di promesse inutili; non consiste in uno stanco florilegio di preghiere, di salmodie, di invocazioni, corrose dall’abitudine. Vivere la fede, la propria conversione a Dio, è felicità, euforia, entusiasmo: è soprattutto movimento, terremoto, abbandono. Significa obbedire, aprirsi all’ascolto, lasciarsi coinvolgere, non tirarsi indietro! È Dio che ci chiama, non facciamo i tonti, rispondiamo! Tutti noi, nella nostra vita, abbiamo ricevuto da Dio, e continuiamo a riceverlo, l’invito a seguirlo: un invito fondamentale, determinante, con cui Dio bussa al nostro cuore, ci interpella, dice “Vieni!”: una chiamata dolcissima, promettente, è vero, ma insieme categorica, precisa, senza scadenze, in costante attesa della nostra risposta: “Eccomi, Signore!”; una risposta che dev’essere incondizionata, ferma, sostenuta da una incrollabile fiducia in Lui; un’adesione che per la logica del mondo è “follia”, è “non senso”, è “costrizione”: ma per chi sceglie di seguire il Vangelo, per chi decide di abbandonarsi completamente a Dio, è solo Vita, Armonia, Amore!
Amen. 

  

giovedì 12 gennaio 2023

15 Gennaio 2023 – II DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


Gv 1, 29-34 
Il giorno dopo, vedendo Gesù venire verso di lui, disse: «Ecco l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo! Egli è colui del quale ho detto: “Dopo di me viene un uomo che è avanti a me, perché era prima di me”. Io non lo conoscevo, ma sono venuto a battezzare nell’acqua, perché egli fosse manifestato a Israele». Giovanni testimoniò dicendo: «Ho contemplato lo Spirito discendere come una colomba dal cielo e rimanere su di lui. Io non lo conoscevo, ma proprio colui che mi ha inviato a battezzare nell’acqua mi disse: “Colui sul quale vedrai discendere e rimanere lo Spirito, è lui che battezza nello Spirito Santo”. E io ho visto e ho testimoniato che questi è il Figlio di Dio».

 Il Vangelo di oggi, in questa ripresa del Tempo Ordinario, ci propone ancora una volta la figura di Giovanni, il battezzatore: non il burbero e scontroso profeta penitenziale, ma un Battista più dolce, vinto dall’evidenza, più umile, che in veste di testimone oculare, addita ai presenti il personaggio chiave della redenzione umana, e ne rivela pubblicamente la vera identità: è l’«Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo».  
Una definizione solenne e plastica, che contiene l’assoluta e sbalorditiva novità di Gesù, vittima sacrificale: una novità che il Battista, ormai certo, senza tanti giri di parole, si affretta a mettere in chiaro agli occhi di tutti i presenti.  
A differenza della tradizione ebraica, secondo cui è l’uomo che si deve offrire a Dio, attraverso varie forme di offerte sacrificali cruenti, il Battista ci presenta qui un Dio che capovolge completamente le parti! È Lui – Dio –la vittima che si immola per noi, l’Agnello che spontaneamente si dona in sacrificio. Un’autentica rivoluzione, uno stravolgimento di valori che introduce nuove verità: l’uomo non deve conquistare nulla, non ha nulla da “meritare”; deve semplicemente accogliere la mano che Dio gli tende come dono; soprattutto non deve mai pretendere da Lui aiuto e amicizia, vantando dei meriti per azioni o iniziative puramente esteriori, fatti senza alcun coinvolgimento del cuore, e per questo stesso inutili, sterili, perché preoccupate più dell’apparire che dell’essere.
Dio non è un contabile che sta seduto dietro ad una scrivania per registrare e tenere il conto delle nostre buone azioni e dei nostri sacrifici quotidiani, soprattutto se fatti senza vero amore.
Nella nuova economia della salvezza introdotta da Gesù, c’è un novum fondamentale, un novum che stravolge le antiche liturgie: non più agnelli e capri da offrire in sacrificio a Dio, ma è Dio stesso che si offre come vittima sacrificale; è Lui che affronta la morte “per noi”; è attraverso la sua vita e il suo morire, che noi scopriamo la commovente verità del suo essere Amore assoluto; un Amore che supera di gran lunga tutti i delitti, tutti i peccati dell’intera umanità, messi insieme.
È proprio così: Dio è l’unico Amore fedele nei secoli, colui che ci ha riscattato sacrificando la sua vita: quando infatti guardiamo la croce, quello che vediamo appeso ad essa è Gesù, l’Agnello di Dio, la Vittima che si è immolata sul quel patibolo per liberarci da ogni schiavitù, da ogni peccato, da ogni colpa.
Per quanto possiamo sbagliare nella nostra vita, Dio è più forte del nostro male: Egli è l’Amico, il Guaritore, l’Amore, l’Avvocato (Paraclito), che riempie, consola, difende il nostro cuore.
È solo di questo infatti di cui noi tutti abbiamo bisogno, come scriveva Giacomo Leopardi in una lettera al fratello: “Io non ho bisogno né di gloria, né di stima, né di altre cose simili, ma solo di amore”. Ebbene, solo Dio può soddisfare in pieno questo bisogno dell’uomo.
Nella nostra vita di creature siamo soggetti a sofferenze, angosce, dolori di qualunque genere; ma se permettiamo a Dio di entrare nel nostro cuore, di stare con noi in noi, allora capiremo che Lui è un vero amico fedele, un valido sostegno, una nuova forza prorompente; sentiremo il conforto di avere una Persona che ci ascolta, che ci sorregge prontamente se vacilliamo, un rifugio sempre disponibile, in cui sentirci completamente sicuri e amati. E quanto bisogno abbiamo veramente tutti noi di sentirci amati! 
Gesù è l’agnello che toglie i “peccati” del mondo: ma di quali “peccati” parliamo? Per l’uomo contemporaneo esiste ancora il peccato? Che importanza gli viene data? Che percezione ne ha questa società edonista? Poca, purtroppo, pochissima; anzi direi proprio nessuna!
D’altro canto, oggi sentiamo ripetere insistentemente che Dio è misericordioso, che ci ama incondizionatamente, che nulla può interferire con il suo Amore, che è Lui che ci rincorre, che ci vuole salvare ad ogni costo: allora, pensa l’uomo della strada, perché stare sempre in tensione a preoccuparci del peccato? Tanto, se Lui è così buono come dicono, sicuramente ci perdona anche se pecchiamo!”: Eh no, caro signore: dobbiamo pensarci, eccome! Perché Dio, per quanto buono e misericordioso sia, non salva nessuno contro la sua volontà! Per questo non dobbiamo mai abbassare la guardia, non dobbiamo mai sottovalutare l’importanza delle nostre azioni. Il nostro disinteresse, il nostro menefreghismo totale, equivale al nostro negare la realtà di Dio, significa porsi in contrapposizione a lui, significa cioè non tenere in alcun conto quanto Lui ha fatto per noi, significa essere indifferenti al dolore che la nostra ingratitudine provoca nel suo cuore innamorato.
E continua a sbagliare anche chi pensa: “e poi, che peccati potrò mai fare?”.
Se esaminiamo la nostra vita alla luce del solo decalogo, forse possiamo anche sentirci tranquilli: andiamo a messa, non ammazziamo nessuno, facciamo le nostre elemosine, non bestemmiamo, ecc. Ma abbiamo mai pensato in quanti altri modi possiamo “peccare” contro l’infinita bontà di Dio? Per esempio quando non vogliamo maturare e crescere spiritualmente, quando, sapendo che c’è un problema col prossimo, facciamo finta di nulla, quando la vita spirituale non circola più in noi: viviamo cioè come se fossimo già morti, siamo insensibili, niente ci commuove, niente ci emoziona, niente ci appassiona; peccato è ignorare le nostre responsabilità, preferire il buio della menzogna alla luce della verità, non preoccuparci delle tante infermità, delle tante debolezze, delle tante ferite che non mettiamo nelle mani di Dio; le lasciamo invece marcire in fondo al nostro cuore, fino ad infettare il nostro spirito, la nostra anima, fino a corroderla e ad ucciderla: infatti dove c’è vita non c’è morte; dove c’è espressione non c’è depressione; dove c’è amore non c’è chiusura; dove c’è il bene non c’è il male. Pertanto, peccato, male, morte, significa non esprimere pienamente la vita dello Spirito che ognuno ha dentro di sé.
Di una cosa dobbiamo essere convinti: che nella vita non possiamo accontentarci di “non fare il male”, ma dobbiamo scegliere sempre di “fare il bene”! 
Ogni domenica quando andiamo a Messa, nell’ascoltare il celebrante che ci indica la persona di Gesù, se ci raccogliamo in noi stessi possiamo sentire la sua voce che ci sussurra: “Se vuoi vengo anche da te, per portarti pace, amore, speranza, perdono. Mi lasci entrare? Mi apri la porta?”. Sicuramente, di fronte a tanta amabilità, non arriveremo mai a dirgli sgarbatamente un “no” secco: in realtà, però, non gli diciamo neppure un “si” convinto, entusiasta, sincero, forse perché in quel preciso momento il nostro cuore, la nostra mente, sono impegnati altrove, sono interessati ad altro; succede spesso infatti, che la nostra partecipazione alla Liturgia Eucaristia, le nostre risposte siano, fin dall’inizio, meccaniche, ripetitive, non esprimano alcun desiderio, alcuna necessità, alcun entusiasmo di accogliere Gesù in casa nostra: quindi alla sua domanda, alla sua offerta, in pratica gli rispondiamo: “No grazie, scusami tanto Gesù, ma ho altro da fare, al momento non mi serve nulla!”. Ma ce ne rendiamo veramente conto? Con una leggerezza, una incoscienza veramente imperdonabile, giriamo le spalle all’unica Persona che ci ama sul serio, a Colui che ha sacrificato la sua vita per amor nostro, per riscattarci, per restituirci all’amore di nostro Padre.
Fare la comunione non è solo un dovere, un precetto, una necessità: è molto di più! È ammettere umilmente l’impossibilità di gestire da soli la nostra esistenza, a causa dei nostri limiti, delle nostre debolezze, dei nostri errori; è riconoscere apertamente di aver “fame” di Lui, di “volerLo” materialmente dentro di noi, di essere certi che la sua presenza ci comunica forza, coraggio, sicurezza; ma “fare la comunione” significa soprattutto rispondere al suo amore, comunicargli concretamente il nostro amore, dirgli il nostro “grazie” sincero e convinto; significa sfruttare al meglio la possibilità di far entrare nel buio del nostro cuore quella Luce sfolgorante che vuole illuminarlo, portargli pace, perdono, amore. È con questi doni preziosi, insostituibili, che Gesù è sempre disponibile per noi!  
Ma allora perché tanta gente va in chiesa e non fa la comunione? È tanto distratta e indifferente da non porsi neppure il problema? Magari non vuole farsi coinvolgere troppo? È difficile capirlo, ma ancor più giustificarlo: rifiutare l’Eucaristia, infatti, è come andare a far visita ai propri genitori e non dar loro neppure un bacio, entrare in casa di un amico e non degnarlo di un saluto, andare ad un pranzo di nozze e non toccare cibo. Ma perché? Perché rinunciare in questa vita ad un autentico incontro con Dio, così meraviglioso, così rigenerante, un incontro in cui ci dona tutto sé stesso, ci rinvigorisce, ci dà gioia, amore, serenità, perdono? Eppure, nella vita, quando ci innamoriamo di una persona qualunque, non vediamo l’ora di incontrarla, ci prepariamo accuratamente per far bella figura, per piacerle: ci mettiamo il vestito “buono”, ci comportiamo educatamente, cerchiamo di evitare quelle nostre “abitudini” che potrebbero in qualche modo ferirla! Ma allora, se desideriamo così tanto incontrare una semplice persona umana, se facciamo di tutto per dimostrarle il nostro amore, per condividere con lei momenti esclusivi, come mai non ci sentiamo “affamati”, entusiasti, desiderosi, di vivere un’esperienza analoga, ma decisamente più straordinaria, più esclusiva, più coinvolgente, addirittura con Gesù, il Figlio di Dio?
Non giustifichiamoci pensando scioccamente: “Se è vero che Lui mi ama, farà tutto Lui. È talmente buono, che capirà!”. Nossignori: nel cammino della fede, nella conversione del cuore, non è assolutamente possibile rimanere spettatori passivi, disinteressati, immobili: perché qualunque azione Dio predisponga per la nostra salvezza, essa avrà esito positivo solo ed esclusivamente se da parte nostra ci sarà pronta accettazione, fattiva compartecipazione, volontaria e libera collaborazione; siamo noi che dobbiamo muoverci: siamo noi che dobbiamo scegliere di lasciarci salvare, di lasciarci guarire il cuore e l’anima, di rimanere sempre con Lui: una iniziativa umana, che è stata da sempre l’unica, alla quale Dio ha risposto puntualmente, positivamente, senza mai deludere nessuno! Amen.

 

  

venerdì 6 gennaio 2023

08 Gennaio 2023 – BATTESIMO DEL SIGNORE



Mt 3, 13-17 Allora Gesù dalla Galilea venne al Giordano da Giovanni, per farsi battezzare da lui. Giovanni però voleva impedirglielo, dicendo: «Sono io che ho bisogno di essere battezzato da te, e tu vieni da me?». Ma Gesù gli rispose: «Lascia fare per ora, perché conviene che adempiamo ogni giustizia». Allora egli lo lasciò fare. Appena battezzato, Gesù uscì dall’acqua: ed ecco, si aprirono per lui i cieli ed egli vide lo Spirito di Dio discendere come una colomba e venire sopra di lui. Ed ecco una voce dal cielo che diceva: «Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento».

 Anche Gesù, come una grande moltitudine di persone, segue il Battista; sono addirittura cugini: per lui Giovanni è un esempio, il punto di riferimento, il maestro, uno dei più grandi profeti; e come tutti, anche Gesù è lì al Giordano per il battesimo, confuso tra la folla, in umile attesa del suo turno, simile in questo ai tantissimi che vogliono ottenere il perdono per i loro peccati; ma una volta disceso nelle acque del fiume, ed essere stato battezzato, tutto cambia, improvvisamente succede un fatto nuovo, impensabile, straordinario, decisivo. 
Quello che doveva essere un semplice evento “battesimale”, assume un significato assolutamente inedito, sia per la vita terrena di Gesù, che per la vita di tutte le creature: Gesù, per la prima volta, si rende conto di quanto egli valga agli occhi del Padre, di fronte al suo Dio. Si rende conto che il “suo” Dio, che è poi il Dio del suo vangelo, è diametralmente l’opposto al Dio intransigente e severo di Giovanni. Lo capisce immediatamente, in maniera inequivocabile: “No, Padre, tu non sei così! Non c’è motivo di aver paura di te. Tu non sei come mi hanno insegnato fino ad oggi; io che ora ti sto sperimentando, toccando, incontrando, ti conosco veramente per quello che sei”. 
È così che un semplice “battesimo d’acqua”, acquista in Gesù un significato “altro”, diventa un evento rassicurante, una solenne investitura, una certezza che lo sosterrà in ogni istante difficile della sua missione terrena. 
Oggi infatti, più che al battesimo di Gesù (egli non aveva alcun peccato da farsi “lavare”!) noi assistiamo alla sua “chiamata” ufficiale, all’esplicito invito “paterno” di dare avvio alla sua missione. Ciò che Matteo vuole qui dire, va ben oltre il significato di un avvenimento materiale, di routine; il suo è invece un tentativo di esprimere una realtà nuova, inesprimibile: la trasformazione intima di Gesù; un cambiamento interiore innegabile, che repentinamente si è reso visibile, riscontrabile da tutti. Gesù da quel preciso istante è un altro uomo. La sua stretta unione col Padre, prima personalissima e nascosta, diventa ora “riconoscibile” da tutti, diventa di dominio pubblico, attraverso la successione di “segni” che tutti hanno avuto modo di percepire: “Si aprirono i cieli”, sottolinea Matteo: il mondo del cielo (Dio) e quello della terra (Cristo) sono in stretta, indissolubile comunione, in costante collegamento; e si sono aperti per rendere possibile qualunque comunicazione. 
“Ed egli vide lo Spirito di Dio discendere come una colomba”: non che ci fosse una colomba in carne ed ossa; è un simbolismo per dire che veramente qualcosa di soprannaturale è entrato in Gesù. Qualcosa che seppur invisibile, tutti sono in grado di verificarne la presenza. È lo Spirito del Padre: Gesù l’ha veramente sentito entrare in sé, ha percepito un cambio repentino, deciso, una rassicurante osmosi reciproca di sentimenti d’Amore. Anche all’inizio della storia del mondo, nel primo capitolo della Genesi, lo Spirito aleggia sulle acque; adesso però (in forma di colomba) aleggia su Gesù; lì la prima creazione non ha funzionato: l’uomo vecchio ha rovinato tutto; qui succede il contrario. Gesù è il nuovo inizio della storia, segna l’inizio dell’economia salvifica; è l’uomo nuovo che ricostruirà la primitiva armonia dell’umanità col Padre creatore. Lo Spirito divino, l’Amore del Padre in simbiosi con quello del Figlio, ne è il garante. E - come già successo nella Bibbia nei confronti di re, di giudici, di profeti, di sacerdoti - lo Spirito di Dio scende sul prescelto, e indica a Gesù la particolarità della missione che lo attende; una missione unica, personale, indelegabile; una missione universale, divenuta urgente, improcrastinabile. 
“Ed ecco una voce dal cielo”: non si tratta di una voce esterna, rumorosa (in quel momento Gesù è in preghiera); ma è una voce silenziosa, interiore; ciò che Gesù sente, lo sente dentro di sé; sono parole rassicuranti, che lo mettono di fronte a se stesso: “Io, Gesù, sono figlio di Dio; Lui è mio Padre; gli piaccio (si compiace); io sono il Cristo; è mio Padre che mi ha voluto così: sono il suo prediletto, il suo “messia” l’unto dal suo Spirito. Egli mi ha inviato qui su questa terra, per compiere una missione ben precisa; ora è arrivato il momento: ora non posso più tardare; ora devo muovermi; Lui è con me!”. 
È proprio l’assorbimento intimo da parte di Gesù di questi concetti “messianici”, il suo riconoscersi in essi, che determina oggi l’evento “battesimale” nella sua vita: un punto di non ritorno, una rottura definitiva col passato, un passaggio obbligatorio da superare. 
Una vera e propria “chiamata” dunque. Sembra quasi che anche Gesù sia passato attraverso quelle stesse sensazioni che per noi creature umane trasformano una semplice chiamata in “chiamata di Dio”. Fatti ovviamente i dovuti “distinguo”. 
Tutti noi infatti, chi più chi meno distintamente, siamo o siamo stati oggetto di una speciale chiamata di Dio: forse non ce ne rendiamo ancora conto, di come e dove, visto che non si tratta di una chiamata col cellulare o per “sms”. Ma per tutti, è un’occasione unica, particolarissima, intensa, di grande intimità; un’esperienza che continua nel tempo a rivoluzionarci il cuore e l’anima, un’esperienza da cui non se ne esce mai identici a prima. È un incontro/scontro con Qualcuno che ci sconvolge letteralmente la vita, che ci rende completamente diversi. È una irruzione (ir-rompo) di Dio, talmente imperiosa e forte, da romperci dentro, da spaccarci, da sconquassarci, da destabilizzarci. “Essere chiamati da Dio” significa percepire un qualcosa che ci toglie il respiro, che ci spezza in due, che ci attraversa, che ci lascia esanimi; uno stato d’animo che ci terrorizza tanto è grandioso e bello. 
Per inciso: è proprio per questo motivo che una volta i monaci, i consacrati, nell’abbracciare la vita religiosa, cambiavano il loro nome: abbandonavano la vecchia identità per assumerne una nuova. Era un modo per indicare una verità profonda e personale: “da quando ho detto sì alla tua chiamata, Dio, non sono più io; sono un’altra persona”. 
Ecco; se anche noi vogliamo dare seguito alla “chiamata di Dio”, viverla con l’entusiasmo che merita, dobbiamo prima “calarci”, discendere nel nostro Giordano: dobbiamo cioè immergerci nella nostra umanità, fatta di errori, di condizionamenti, di paure, gelosie, ostinazioni, perversioni; dobbiamo fare i conti con tutto questo marciume; dobbiamo renderci conto del non fatto, dell’incompiuto, delle occasioni perse, degli errori ripetitivi; dobbiamo in una parola prendere atto della nostra miseria, del nostro niente di fatto, di tutte le situazioni peccaminose e mortali che hanno reso asfittica la nostra vita cristiana. E soprattutto dobbiamo correre ai ripari: subito, immediatamente. Dobbiamo lavare, lavare e lavare. Dobbiamo tagliare, ripulire, distruggere; dobbiamo ristrutturare completamente la nostra casa, ricreare un habitat degno dell’Amore, del Divino. Perché solo così potremo offrire piena ospitalità allo Spirito di Dio: a quello Spirito d’Amore che solo ci può consigliare, confortare, amare, proteggere. 
Guai a noi se rifiutassimo di “immergerci”; guai a noi se fossimo convinti di essere delle “brave e giuste persone”, e quindi di non aver bisogno di alcun Giordano; guai a noi, perché in tal caso non arriveremo mai a incontrare e a conoscere l’amore di Dio; non potremo mai sperimentare quell’abbraccio di amore gratuito che Dio riserva a quanti si sottopongono al “lavaggio sacramentale” delle loro colpe. Non possiamo pretenderlo questo amore; non ne abbiamo alcun diritto; è un amore che si ottiene soltanto dando prova d’amore. Dio non è in obbligo con noi, anzi con nessuno. Pretendere di barattare il suo amore con le nostre presunte “opere buone”, equivale solo a dimostrare, una volta di più, la nostra presunzione, la nostra superbia, la nostra arroganza. L’amore non si “contrappone”, non è “conflittuale”, non “pretende” nulla: è solo “dono”, è a servizio, previene, accompagna, si offre, spontaneamente e gratuitamente, come “risposta” alla “chiamata/amore” di Dio! 
Ascoltiamola dunque nel silenzio della nostra anima questa chiamata: ascoltiamo la Voce dell’Amore che instancabilmente ci sussurra: “Io ti amo. A me vai bene così, coraggio, datti da fare!”. Perché questa è la voce che ci salva; questa è la voce che ci fa rinascere: anche se siamo così, impresentabili; è questa voce che ci fa sentire sempre, in ogni caso, amati. Allora, se sappiamo di essere amati, che aspettiamo? Viviamo, purifichiamo, laviamo, cambiamo, rispondiamo, e soprattutto amiamo! 
In questa epifania battesimale di Dio, possano tutti sperimentare queste consolanti sensazioni: entrino in noi, nel nostro cuore, diventino vita, tocchino il profondo della nostra anima; risuonino nelle nostre zone d’ombra, nelle zone buie, ferite, abbandonate, rifiutate; diventino, per noi tutti, una musica celestiale confortevole. Fidiamoci di questa Voce; rispondiamo sinceramente e fiduciosamente a questa “chiamata”, e incamminiamoci liberi, felici e sicuri per le vie del mondo, là dove Egli ci aspetta. Amen.

 

  

giovedì 29 dicembre 2022

1° Gennaio 2023 – MARIA SS.MA MADRE DI DIO – REGINA DELL PACE


Lc 2,16-21 
In quel tempo, [i pastori] andarono, senza indugio, e trovarono Maria e Giuseppe e il bambino, adagiato nella mangiatoia. E dopo averlo visto, riferirono ciò che del bambino era stato detto loro. Tutti quelli che udivano si stupirono delle cose dette loro dai pastori. Maria, da parte sua, custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore. I pastori se ne tornarono, glorificando e lodando Dio per tutto quello che avevano udito e visto, com’era stato detto loro. Quando furono compiuti gli otto giorni prescritti per la circoncisione, gli fu messo nome Gesù, come era stato chiamato dall’angelo prima che fosse concepito nel grembo.

Un nuovo anno inizia oggi, un evento tutto sommato banale, che il disperato bisogno di certezze degli uomini ha riempito di una ritualità laica, fatta di fuochi d'artificio, di tavole opulente, di bevute e di brindisi stimolanti, nel tentativo pagano di esorcizzare il tempo affinché nei giorni futuri assicuri gioia e serenità. Ubriacatura del non senso, dimenticanza voluta del vero senso del tempo e della vita. Tutto ciò perché l’uomo continua a sperare per il suo domani in qualcosa di nuovo, di più soddisfacente: qualunque cosa, purché sia in grado di colmare il vuoto della sua assenza di valori. 
Per noi cristiani, invece, da quando Dio lo inabita, il tempo è sacro. Per noi il tempo, la storia, la nostra storia, non è una squallida serie di avvenimenti che si susseguono senza senso, davanti a noi, ma al contrario, è quello “spazio” esistenziale che ci viene donato per realizzare il progetto che Dio ha su di noi, un breve frammento di infinito, in cui realizzare di essere sue creature.
Nella nostra vita ci sono spazi di tempo felici, positivi, come l’innamoramento giovanile, la nascita di un figlio, il raggiungimento di un traguardo; momenti alternati da altri più difficili, più dolorosi, più strazianti come una grave malattia, un fallimento affettivo, la perdita di una persona cara. Noi sappiamo però che ogni istante della nostra vita è abitato dalla tenerezza di Dio. Certo, salute, pace, benessere, sono tutte cose importantissime, ma non sono “la vita”: non possiamo monopolizzarle, non sono una nostra esclusiva, non ci sono dovute. Non possiamo pretendere che Dio risolva i nostri problemi, né che continuamente debba facilitarci, appianarci l’esistenza. La vita è un mistero e come tale va accolta, capita, usata, rispettata. Perché la vita non è nostra: è solo in prestito d’uso. Prima o poi va restituita, e dobbiamo rendere conto di come l’abbiamo gestita. Da qui l’importanza delle periodiche revisioni, di osservare scrupolosamente le istruzioni di Colui che la presiede, dobbiamo assolutamente fidarci di Lui.
È quanto ha fatto scupolosamente la giovane Maria di Nazareth.
Quella Maria che oggi festeggiamo con il titolo di "Madre di Dio", di “Regina della pace”: quella Maria che oggi scopriamo turbata, impaurita, preoccupata; troppe cose le sono successe in pochi giorni: dover partorire da sola, confinata in un ricovero per animali, lontana da casa sua, senza alcuna sistemazione, con rozzi e poco raccomandabili personaggi che improvvisamente le sono comparsi davanti, eccitati e vocianti, che parlano, parlano, sostenendo di aver miracolosamente saputo di lei e del bambino, nei confronti del quale si stanno comportando in modo così strano. E lei che fa? Nulla, rimane in silenzio: è inquieta per tutti questi eventi che le sono piombati addosso; e raccolta in sé stessa li rivive uno per uno. Anzi, come scrive letteralmente Luca, “sunetèrei tà rèmata tàuta, sumbàllusa en tè kardìa autès”, ossia: serbava questi eventi in cuor suo “mettendoli insieme”, “ricomponendoli nel loro ordine”, raccogliendo insieme tutti questi “pezzi” di vita. Semplicemente. Non reagisce, non si ribella, non inveisce: perché lei si fida ciecamente del suo Dio.
Ecco, nella nostra vita manca molto spesso proprio questo “entrare” nel nostro cuore, “in noi stessi”, per esaminare, valutare, ricomporre la nostra vita; ci lasciamo purtroppo travolgere da una vita frenetica, incalzante, che ci sbatte in ogni dove; non sappiamo dare un ordine, un senso compiuto agli eventi; non sappiamo trovare un loro “filo” conduttore: assomigliamo un po’ a quel bucato lavato, strizzato e ammucchiato in una bacinella, a cui serve un filo “teso in alto” su cui stendere ogni cosa ad asciugare. Ecco, a noi serve proprio questo “elemento unificatore”, prezioso, insostituibile, unico: la fede. Non ci fidiamo di Dio! Vorremmo che Dio pensasse come noi, che volesse soltanto ciò che vogliamo noi. Ma i criteri di Dio non sono quelli nostri; lo afferma Lui stesso: “I miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie(Is 55,8); perché: “Io non guardo ciò che guarda l’uomo: l’uomo guarda l’apparenza, Io guardo il cuore!” (1Sam 16,7).
È stato così per Maria, è stato così per Giuseppe, è stato così per i pastori e per i Magi; continua ad essere così anche per noi: e sarà per sempre così, ogni qualvolta Dio deciderà di servirsi della collaborazione degli uomini: egli in ciò non guarderà mai al potere, alla ricchezza, alla scienza, ai primati personali: il suo metodo è e sarà sempre lo stesso: “La pietra che i costruttori hanno scartato è diventata la pietra d’angolo” (Mt 21,42); Dio, cioè, continuerà a mettere come “base” portante, come riferimento nei suoi progetti, proprio quella pietra di “scarto”, quella “pietra” cioè che i “costruttori” (il mondo) considera inadatta, inservibile.
A questo proposito, nell’occasione del Natale, ci siamo mai chiesto che fine hanno fatto i capi religiosi, i dirigenti del Tempio, gli “esperti” di religione? Perché l’Angelo del Signore non ha portato la bella notizia (euanghelìzomai) a nessuno della Gerusalemme “bene”, quella dei nobili, dei ricchi, della gente che conta, dei “giusti”, degli osservanti scrupolosi della Legge? Perché al contrario lo ha fatto capire soltanto ai pastori e ai magi lontani, che all’epoca erano visti i primi come truffatori, gente di malaffare, i secondi come gente sognatrice, inaffidabile? Sempre per lo stesso motivo: perché Dio da che mondo è mondo non seguirà mai i nostri criteri, né quelli che la civiltà moderna, la civiltà contemporanea dei consumi, giudica come fondamentali, prioritari: “Che patrimonio possiedi? Sei abbastanza potente? Sei ricco? Fino a che punto puoi spingerti con la tua autorità?”. I criteri di Dio sono infatti completamente diversi: “Sei disponibile? Saprai accettare il mio amore? Ti lascerai condurre dove voglio io? Collaborerai con me anche quando ciò che ti chiedo ti sembrerà irrazionale, inutile?”.
Dio pensa e usa metodi completamente diversi: Egli, per ciascuno di noi, ha programmato un incredibile viaggio nel tempo, un viaggio straordinario, eccezionale, meraviglioso: ma non può attuarlo se noi non ci fidiamo di Lui, se gli resistiamo, se continuiamo ad opporci, a voler fare sempre di testa nostra, a stabilire ciò che è bene o male per noi. Ecco perché Dio sceglie soltanto coloro che sono disponibili, che si abbandonano a Lui, alla sua volontà, che rispondono, come Maria: “Va bene, Signore, non so dove mi vuoi portare, ma mi fido di te. Sia fatta la tua volontà! Guida tu la mia vita, a me sta bene così!”.
Non è meraviglioso, questo modo di relazionarsi con Dio? Abbandonarsi completamente alla sua volontà? Lasciare che sia Lui a provvedere ad ogni cosa? Questa sì che è “fede”, amici! 
Allora all’inizio di questo anno nuovo, guardiamo a Maria, imitiamola, cerchiamo di vivere ogni giorno come lei, chiediamole aiuto, seguiamo i suoi consigli di mamma, e diciamo anche noi: “Signore, io mi fido di te; Prendimi per mano e portami dove vuoi Tu. Non ti importunerò più con i mei risentimenti; non ti chiederò più perché certe cose succedono solo a me, e che male ho fatto per meritarle ecc. Smetterò di ostacolarti, di tirarmi indietro. Qualunque cosa accada, so con certezza che Tu mi aspetti là, in fondo a quella strada, a quel tunnel: guidami e io ti seguirò; tu davanti e io, dietro, calcherò le tue orme! “Anche se vado per una valle oscura, non temo alcun male, perché tu sei con me! (Sal 23, 4).
Che bello sarebbe poter vivere con questo spirito ogni singolo giorno di quest’anno! Le nostre ansie, i nostri dubbi, le nostre insicurezze svanirebbero completamente e dentro di noi regnerebbe una pace infinita. Quella pace interiore che Maria, “Regina della pace”, ha vissuto durante tutta la sua vita.
E allora che questa pace scenda anche in noi e nel mondo: sia Pace nelle nostre case, nelle comunità in cui viviamo; sia Pace dove lavoriamo e dove ci divertiamo; ma sia soprattutto Pace in quei paesi, in cui imperversa ancora una inutile guerra fratricida, fomentata solo dall’odio, dal delirio di onnipotenza, da un egoismo dispotico e spietato.
Augurare la Pace è augurare l’incontro con Dio: possa allora l’umanità intera incontrare e conoscere Dio non solo nelle Chiese cristiane, nelle Sinagoghe o nelle Moschee, ma possa conoscerLo soprattutto nell’incontro con i fratelli, nell’ascolto reciproco, nell’aiuto a chi è in difficoltà, nel perdono dopo qualunque scontro, nell’amore che, sempre e in ogni occasione, tutti possono donare a tutti.
Voglio pertanto contestualizzare questo mio augurio, con quella meravigliosa espressione tratta dal Libro dei Numeri: “Il Signore Dio faccia risplendere per noi il suo volto, e ci faccia grazia, ci conceda pace!” (Nm 6,22)Far risplendere il volto”, splendido semitismo per indicare il sorriso di una persona. Dio, nostro Padre, è un Dio che ci “sorride”; un Dio che pensando a noi, illumina il suo volto: non un Dio corrucciato, impenetrabile, scostante, irritato: ma un Dio sorridente, innamorato, sempre attento e pronto a correre in nostro aiuto.
Buon anno allora a voi tutti amici, conosciuti e sconosciuti, ma comunque fratelli tutti in Cristo. Il Dio, che “fa nuove tutte le cose” (Ap 21,5), quest’anno vuol “rinnovare” anche noi, vuole conoscerci meglio: e ce lo chiede sorridendo, amandoci profondamente!
Perché non rispondergli anche noi con un sorriso? Amen.

 

  

giovedì 22 dicembre 2022

25 Dicembre 2022 - DOMENICA DI NATALE DEL SIGNORE


Lc 2,1-14 
In quei giorni un decreto di Cesare Augusto ordinò che si facesse il censimento di tutta la terra. Questo primo censimento fu fatto quando Quirinio era governatore della Siria. Tutti andavano a farsi censire, ciascuno nella propria città. Anche Giuseppe, dalla Galilea, dalla città di Nazareth, salì in Giudea alla città di Davide chiamata Betlemme: egli apparteneva infatti alla casa e alla famiglia di Davide. Doveva farsi censire insieme a Maria, sua sposa, che era incinta. Mentre si trovavano in quel luogo, si compirono per lei i giorni del parto. Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia, perché per loro non c’era posto nell’alloggio. C’erano in quella regione alcuni pastori che, pernottando all’aperto, vegliavano tutta la notte facendo la guardia al loro gregge. Un angelo del Signore si presentò a loro e la gloria del Signore li avvolse di luce. Essi furono presi da grande timore, ma l’angelo disse loro: «Non temete: ecco, vi annuncio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi, nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore, che è Cristo Signore. Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia». E subito apparve con l’angelo una moltitudine dell’esercito celeste, che lodava Dio e diceva: «Gloria a Dio nel più alto dei cieli e sulla terra pace agli uomini, che egli ama».

Gesù è la più grande dimostrazione d'amore che Dio, nostro Padre, ci abbia mai donato. Il suo Natale è la festa dell'amore gratuito, profondo, sincero, puro. Il Natale è la più bella notizia che si possa ancora raccontare a tutti gli uomini di questo mondo tristi, sofferenti, confusi, feriti: Dio, l'infinito, si è fatto “finito”, umano, legandosi a noi in maniera indissolubile per puro amore, per la sua irresistibile esigenza di amarci, di consolarci, di lenire le nostre sofferenze, i nostri dolori, con la sua costante, misericordiosa, presenza: una realtà che deve assolutamente rassicurarci, farci amare la vita, ricolmarci di ottimismo. 
Noi oggi non ce ne rendiamo conto, ma siamo coinvolti in mille altre cose, siamo completamente presi da mille stupidaggini inutili, quando un evento simile dovrebbe invece scuoterci profondamente, dovrebbe commuoverci, intenerirci, colmarci di gioia! 
È infatti impossibile non avvertire che qualcosa di grande è veramente accaduto nel mondo. Oggi siamo illuminati da una stella che è penetrata nel nostro buio, rischiarandolo per sempre: accorgiamoci di Gesù; accogliamolo nella nostra vita, lasciamo germogliare e crescere in noi quella novità, quella santità, quell’amore che con Lui sono sbocciati a Betlemme. 
Dio si è fatto uomo! L'Infinito, l'Eterno, l'Onnipotente, continua a preoccuparsi di noi, ad avere cura di noi, a dimostrarci amore, misericordia. Dio l'infinto ci ama da sempre: ci ama al punto da mandare suo Figlio in questa nostra storia così dura, ingrata, sterile. Dio Padre non ha avuto esitazioni nell’inviare suo Figlio in mezzo a noi, che non eravamo più figli; e continua sempre a farlo ogni anno, perché ci ama; perché vuole caparbiamente trasformarci, vuole darci un cuore nuovo, un cuore innamorato, di figli autentici. 
Purtroppo, quanta pena, quanta sofferenza, quanto dolore c’è oggi nel cuore degli uomini! Quanto desiderio di felicità, quanto bisogno di consolazione, di sollievo, di bontà.
Ebbene: oggi, tutta l’umanità, il mondo intero, è a conoscenza che la felicità esiste veramente, ha un suo preciso riferimento: l'Emmanuele, Gesù, Dio. 
Occorre uscire dalla prigione del nostro egoismo, dalla freddezza dell’orgoglio e dell'indifferenza. Facciamoci piccoli e umili: andiamo a Betlemme, cioè a Cristo Gesù; apriamo il cuore ai fratelli, tendiamo la mano a chi ci sta accanto, rendiamo ospitale il nostro cuore, la nostra casa, il nostro lavoro, il nostro paese, il nostro mondo. Perché è soltanto sulla via dell'amore che potremo fare esperienza di Dio. Ed è soltanto in Lui che troveremo quella pace, quella fiducia, quella serenità, quell’amore che tanto ci mancano. 
Se facciamo attenzione, noteremo che sono quattro le parole guida che la Liturgia di Natale ci propone con insistenza: sono “luce, gioia, bontà, pace”.
Sono parole che illustrano perfettamente l’immagine di Gesù, parole che rappresentano in sintesi tutto ciò di cui abbiamo bisogno estremo, che ogni uomo desidera ardentemente.
In questi giorni particolari, sentiamo di frequente ripetere, che il Natale è bello come un sogno: ed è vero; perché ogni uomo di questo mondo sogna in cuor suo luce, gioia, bontà, pace. È quel classico clima “da sogno” che questa ricorrenza riesce ogni anno a creare con le sue luci, con i presepi, con gli alberi, le strade e le vetrine illuminate, con le musiche semplici e nostalgiche, lo scambio di doni e di auguri, la riscoperta della famiglia, con il ricordo degli amici lontani, dei parenti scomparsi, di quanti si trovano nella sofferenza, nell’angoscia, nel dolore...
Lasciamoci prendere allora, cari amici, da questo sogno! È Dio che in Gesù vuole farci sognare una vita con Lui, piena di luce, di gioia, di bontà, di pace: esattamente come lui l'ha pensata per l’intera umanità, perché Lui ama tutti. 
Lasciamoci penetrare da questo sogno, sempre più in profondità, in modo che diventi desiderio concreto, nostro progetto, nostro impegno, nostra vita reale.
Come? Ce lo suggerisce Gesù stesso: «Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date» (Mt 10,8). Abbiamo ricevuto da Dio luce, gioia, bontà, pace? Doniamo a tutti, anche noi, luce, gioia, bontà, pace.
Spesso sentiamo dire: “Non ci sono più i valori di una volta! Non c'è più vero cristianesimo”. Ebbene, che aspettiamo? Diffondiamoli noi i valori inalienabili! Viviamolo noi il vero cristianesimo! In questo consista il nostro Natale! Perché se riuscirà a far emergere il meglio di noi stessi, sicuramente renderà la nostra vita più sensibile, più responsabile, più bella: sensibilità, responsabilità, bellezza, che possiamo condividere ogni giorno con i nostri fratelli.
Chiediamoci allora a questo proposito: io cosa faccio di particolarmente valido per incontrare Gesù? Che posizione occupa nella graduatoria dei miei interessi, nella mia vita concreta? Come posso accoglierlo perché sia realmente luce, pace, forza, salvezza nella mia vita, nella vita dei fratelli, nel mondo, nella società attuale? Semplice: dobbiamo vivere ogni giorno il nostro Natale; dobbiamo cercare di incontrare ogni giorno Gesù, il Dio Bambino, il nostro Salvatore.
Dio non è mai lontano, è sempre con noi: anche oggi, anche domani: lo possiamo incontrare nella vita della Chiesa, nella Parola di Dio, nella preghiera, nei Sacramenti, negli uomini nostri fratelli: è la Chiesa infatti che continua la presenza e l'opera di Gesù. Quando ascoltiamo o leggiamo la Bibbia, il Vangelo, è Cristo che parla al nostro cuore, al cuore della Chiesa. Così pure quando ci accostiamo ai Sacramenti, quando ci confessiamo, quando ci comunichiamo, quando incontriamo il prossimo, è Gesù che noi incontriamo, è a Gesù che noi chiediamo perdono, è Gesù che si offre a noi in cibo, in nutrimento, in sostegno e forza.
È in questo modo che Dio è veramente con noi, sempre: e noi possiamo essere sempre con Lui, possiamo vivere in Lui, accogliere e rendere viva la sua grazia in tutte le nostre azioni.
Dipende solo da noi: perché siamo noi che possiamo trasformare con la luce, con la grazia del Natale, ogni nostra giornata, ogni istante della nostra vita. Amen.

BUON NATALE, AMICI, A VOI E A TUTTI I VOSTRI CARI!

 

giovedì 15 dicembre 2022

18 Dicembre 2022 - IV DOMENICA DI AVVENTO



Mt 1, 18-24 
Così fu generato Gesù Cristo: sua madre Maria, essendo promessa sposa di Giuseppe, prima che andassero a vivere insieme si trovò incinta per opera dello Spirito Santo. Giuseppe suo sposo, poiché era uomo giusto e non voleva accusarla pubblicamente, pensò di ripudiarla in segreto. Però, mentre stava considerando queste cose, ecco, gli apparve in sogno un angelo del Signore e gli disse: «Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa. Infatti il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo; ella darà alla luce un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati». Tutto questo è avvenuto perché si compisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: «Ecco, la vergine concepirà e darà alla luce un figlio: a lui sarà dato il nome di Emmanuele», che significa “Dio con noi”. Quando si destò dal sonno, Giuseppe fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore e prese con sé la sua sposa.

Quella notte per Giuseppe non fu certamente facile! Lui i suoi progetti li aveva, eccome. Progetti modesti, da giovane artigiano: la bottega andava bene, merito della sua bravura e della sua affabilità con i clienti. Certo, non era una gran piazza, Nazareth, ma col tempo, chissà, avrebbe potuto ingrandirsi e, addirittura, trasferirsi nella vicina Sefforis. Da lì a poco avrebbe preso in casa la sua promessa sposa Maria, che tutti gli invidiavano per la bellezza e la sua naturale modestia. Insomma, per Giuseppe, il pensiero di una famiglia con quella ragazza che gli aveva rapito il cuore, era fonte di gioia incontenibile.
Improvvisamente però, tutti i progetti di Giuseppe vengono frantumati da un evento incredibile, impensabile: la gravidanza di Maria; lui sa di non esserne il responsabile, e questa certezza lo getta in una tremenda angoscia. Ma come: Maria? Proprio lei? Com’è potuto succedere? 
Ovviamente soltanto lui è a conoscenza di quel figlio non suo. E allora, cosa deve fare? Non è questo, però, il tempo per covare rabbia, né per autocommiserarsi; deve solo agire: ma come? Seguire la prassi, denunciandola alle autorità, e abbandonarla al suo destino? Lui sa bene che il destino delle donne adultere, in Israele, è la morte per pubblica lapidazione. No, non può fare questo a Maria. 
È ormai molto tardi; la notte lo attende con le sue ansie tremende; è ancora completamente sveglio, e nel suo continuo rigirarsi nel pagliericcio, orribili visioni del domani continuano a gettarlo nella disperazione più cupa. Ha sempre davanti agli occhi il volto sorridente di Maria: non riesce a capacitarsi, non vuole arrendersi all'evidenza, alla realtà. Il suo orgoglio di maschio è sicuramente ferito, ma nulla può demolire l’amore granitico che egli nutre per la sua giovane sposa. La sua mente, ora, è tesa, concentrata nel valutare ogni possibile alternativa. Finalmente una soluzione gli sembra meno traumatica: al rabbino avrebbe dichiarato di essersi stancato di Maria, di non amarla più, per cui intendeva annullare il contratto matrimoniale. Maria ne sarebbe uscita con l'onore compromesso, è vero, ma avrebbe avuto salva la vita. Ecco, sì, questa è l’unica strada percorribile. 
Sul fare del mattino, sfinito dai dubbi, dal dolore e dall’angoscia, Giuseppe cade in un sonno profondo. Ed è qui che Dio irrompe nella sua vita: un angelo improvvisamente si materializza nel sonno, e gli parla di una missione che lui doveva necessariamente compiere, di un figlio di Maria che doveva nascere per salvare il mondo, che pertanto egli doveva accogliere Maria come sua legittima sposa, per proteggere lei e quel bimbo che portava in grembo, perché questa era la volontà di Dio, l’Altissimo. Certo, Maria era già la sua sposa, ma Dio dall’eternità si era innamorato di lei, e aveva scelto il suo grembo verginale per la nascita del Verbo, suo Figlio. 
Giuseppe, di fronte a quella figura autorevole, tace; rimane in ascolto, sbalordito, senza parole; non reagisce, non discute, non chiede neppure qualche spiegazione o altre informazioni. Ascolta e basta: ma nello stesso istante, ancora nel sonno, Giuseppe abbraccia e fa suo quel “progetto eterno di Dio”, anche se non era quello il “suo” progetto, anche se non lo riguardava, se non gli apparteneva: ma questo lo ha reso grande agli occhi di Dio, e agli occhi degli uomini, l’uomo esemplare dell'ascolto e dell’obbedienza a Dio! 
A questo punto, in un sussulto, si sveglia: è sereno; i pensieri tenebrosi sono scomparsi, dissolti dalla luce del mattino: ora Giuseppe ha riacquistato tutta la sua lucidità, la sua forza, il suo entusiasmo, la sua fede: se Maria ha accettato di prestare il grembo a Dio, lui, Giuseppe, è pronto a fare da padre a quel Dio che nascerà uomo da lei. Non gli servono altre spiegazioni; ha capito che Dio vuole entrare nella storia umana, e che per farlo, ha scelto di servirsi della sua giovane sposa come madre, e di lui, come solerte figura paterna, nonché “garante” del progetto divino. 
Matteo, ottimo conoscitore dell’animo umano, ci tiene a sottolineare che Giuseppe è un uomo “giusto”: è cioè corretto, autentico, di grande onestà morale; uno che non giudica dalle apparenze; uno che accetta all’istante, senza recriminazioni, il disegno salvifico del suo Dio; è un “giusto” perché, nella generosità del suo cuore, accetta di condividere con Lui la sua sposa immacolata; è “giusto” perché, scrupoloso “custode” di quel progetto soprannaturale, si oppone alla follia umana dominante, al giudizio di morte della gente “ignorante”; è “giusto” perché aderisce responsabilmente, con entusiasmo, alla prospettiva di assumere, di fronte all’intera umanità, il ruolo apparente di “padre” per un nascituro divino, per un “debole” e “indifeso” Dio bambino. Per questo egli è l’uomo “giusto”, l’icona perfetta della santità per quanti, in ogni tempo, tenteranno di seguire umilmente, tra infinite difficoltà, le istruzioni di quel “suo” Figlio divino, che ha insegnato ad amare tutti nello stesso modo con cui Lui stesso ha amato. 
Purtroppo, però, ci sono uomini che, diversamente da Giuseppe, polemizzano, discutono, contestano, bestemmiano il loro Dio; nel loro farneticante delirio rifiutano il suo amore, disconoscono la sua grazia, rifiutano la sua rassicurante presenza, il suo aiuto misericordioso; inebriati di falsa onnipotenza, di illusoria autosufficienza, si prostituiscono alle stolte divinità di questo mondo, sperperando la loro breve e instabile vita. 
Non solo: ma quante volte anche noi “cristiani”, rispondiamo svogliatamente alla chiamata di Dio: prendiamo tempo, puntualizziamo, rimandiamo, dimentichiamo. In pratica non lo “ascoltiamo”: e se anche al momento sembriamo disponibili, poi continuiamo a comportarci comunque a modo nostro. “Ascoltare”, invece, significa accettare, significa agire di conseguenza, eseguire con molta umiltà quanto ci viene suggerito: significa accettare la volontà di Dio, farla immediatamente nostra, senza porre condizioni o “distinguo” personali. 
Per professarci buoni cristiani infatti non basta evitare di compiere il male; non basta nemmeno essere caratterialmente giusti, onesti, ma dobbiamo saper accettare, volere, amare, fare nostri, quei consigli, quelle indicazioni che Dio suggerisce alla nostra coscienza. Perché ciò richiede sempre un amore vero, concreto, vissuto: un amore che non sboccia a cose fatte, quando tutto ci appare chiaro, quando tutto è pianificato e sicuro: ma un amore preventivo, un amore che cresce, si sviluppa, si perfeziona in corso d’opera, quando ancora non vediamo alcun risultato certo, un amore che nasce dalla piena fiducia in Lui. Questo è il miracolo che dobbiamo chiedere a Dio nel suo Natale: un miracolo d’amore, che faccia sbocciare nel mondo e nel nostro cuore un amore veramente nuovo, impegnato, operante, positivo. Amen.

 

giovedì 8 dicembre 2022

11 Dicembre 2022 - III DOMENICA DI AVVENTO


Mt 11, 2-11 
In quel tempo, Giovanni, che era in carcere, avendo sentito parlare delle opere del Cristo, per mezzo dei suoi discepoli mandò a dirgli: «Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?». Gesù rispose loro: «Andate e riferite a Giovanni ciò che udite e vedete: I ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciato il Vangelo. E beato è colui che non trova in me motivo di scandalo!». Mentre quelli se ne andavano, Gesù si mise a parlare di Giovanni alle folle: «Che cosa siete andati a vedere nel deserto? Una canna sbattuta dal vento? Allora, che cosa siete andati a vedere? Un uomo vestito con abiti di lusso? Ecco, quelli che vestono abiti di lusso stanno nei palazzi dei re! Ebbene, che cosa siete andati a vedere? Un profeta? Sì, io vi dico, anzi, più che un profeta. Egli è colui del quale sta scritto: “Ecco, dinanzi a te io mando il mio messaggero, davanti a te egli preparerà la tua via”. In verità io vi dico: fra i nati da donna non è sorto alcuno più grande di Giovanni il Battista; ma il più piccolo nel regno dei cieli è più grande di lui».

Oggi, la Parola ci fa incontrare ancora una volta Giovanni: questa volta però è un uomo ben diverso dall’esaltato e scontroso urlatore del deserto: è in carcere e sa che sta per essere giustiziato a causa della sorda rabbia covata nei suoi confronti da una isterica cortigiana che manovrava la debolezza di un re-fantoccio. 
Giovanni ha vissuto tutta la sua vita di predicatore scomodo solo per preparare la strada al Messia, senza alcun riguardo verso coloro che vivevano nel peccato e nel vizio; e quando lo ha finalmente riconosciuto, il Messia, nascosto tra la folla dei penitenti che giungevano a farsi battezzare, lo ha accolto schernendosi, riconoscendo in lui il “potente” che dopo di lui avrebbe battezzato non con l’acqua ma con lo Spirito santo e fuoco; in cuor suo però era rimasto stupito, confuso per l'atteggiamento riservato e umile, con cui si era presentato colui che doveva essere il Salvatore del mondo.
Ora, nella solitudine del carcere, Giovanni è perplesso; pensa, è dubbioso. Le notizie che i suoi inviati gli riportano non fanno che accrescere le sue perplessità, lasciandolo costernato: il Messia non si sta comportando come un condottiero, un capo del popolo, non incita con veemenza la gente, non è rivoluzionario né tantomeno catastrofico, non annuncia l’imminente giudizio di Dio, non minaccia la sua vendetta con il fuoco divorante. Gesù, al contrario, continuando nel suo profilo basso, semplice, suadente: offre perdono incondizionato a tutti, rimette le colpe, non minaccia né attua vendette, dice che quel “fuoco divorante” Lui lo vuole accendere, certo, ma partendo dall'amore, non dal terrore. È insomma un Messia troppo dissimile da quello che Giovanni e Israele si aspettavano, è un personaggio completamente fuori schema, fuori da ogni loro sospirata previsione.
Del resto Dio spiazza sempre tutti: anche quelle persone che, come Giovanni, vivono la radicalità della fede, rischiando di costruirsi un Dio a propria immagine e somiglianza. La venuta di Dio che Giovanni si aspetta, è una venuta plateale, una irruzione nella storia con un frastuono assordante, accompagnata da schiere di angeli trionfanti. Gesù, invece, è solo; ci svela il volto di un Dio riservato, quasi nascosto: evidente, certo, ma pieno di ogni tenerezza e sensibilità, in ogni caso mai in maniera banale.
Gesù praticamente ci svela un Dio che divide il mondo in chi ama, o cerca di amare, o almeno si lascia amare, e chi no, in chi cioè gli volta le spalle. L'amore è una possibilità immensa, è l'unica cosa che ci lega tutti. Non i risultati, non gli sforzi, non le buone azioni ci salvano, ma la volontà di amare, nella fragilità di ciò che siamo o che ci impegniamo di essere.
Ma noi, dal canto nostro, siamo certi di Dio? Riprendiamo allora in mano il Vangelo e chiediamo a Dio, nella preghiera, di condurci sempre per mano nella nostra autenticità. Siamo sempre pieni di dubbi? Consoliamoci, non siamo i soli: anche il più grande degli uomini, l'ultimo dei profeti, è stato assalito dai dubbi.
“Andate e riferite a Giovanni ciò che udite e vedete…” replica Gesù ai discepoli che il Battista aveva inviato per informarsi sulla sua identità; non dà loro una risposta esauriente. Devono trarla da soli. La fede non richiede l’evidenza, non necessita di “prove certe”, Dio non è il risultato di un teorema scientifico, con buona pace di quei simpaticoni, che pretendono di vedere l’anima nelle radiografie! Ci vengono offerti degli indizi, solo deboli indizi che lasciano intatta l'ambiguità del segno. Non è Dio che deve dimostrare qualcosa, siamo noi che dobbiamo trovarlo, accantonando le nostre ideologie, prendendo coscienza e conoscenza di noi stessi e del Dio che abita in noi. 
“Guardati intorno, Giovanni”, è in pratica l’incoraggiamento di Gesù a suo cugino, dopo avergli elencato i grandi segni messianici profetizzati al popolo da Isaia. 
Ecco, questo è il punto: per riconoscere i segni della presenza di Dio, dobbiamo anche noi “guardarci intorno”: renderci conto di quante persone nel mondo hanno già incontrato Dio, e continuano ad incontrarlo: magari gente disperata, che trovandolo, ha dato un senso alla loro vita, convertendo il proprio cuore; persone straziate dal dolore, arrabbiate con Dio, che hanno imparato grazie a Lui, a perdonare; persone accecate dall'invidia o dalla cupidigia che con Lui hanno messo le ali, trasformandosi in gioia, in bontà, in amore quotidiano, in donazione di sé stessi! Dobbiamo guardare anche noi, come Giovanni, quelli che sono i segni della vittoria silenziosa del Messia, la forza dirompente del Vangelo sulle persone che cambiano, che guariscono, che scoprono Dio, potendo così ammirare, nelle pieghe del nostro mondo corrotto e inquieto, gesti di totale gratuità, vite consumate nel dono e nella speranza, squarci di fraternità in deserti di solitudine e di egoismo.
Dobbiamo guardare e riconoscere in questi segni la presenza del Regno di Dio.
Purtroppo spesso non li vediamo, non ce ne rendiamo conto, non li vogliamo vedere, non li possiamo vedere, perché il problema tragico del nostro tempo è proprio quella cecità interiore che impedisce di vedere, di toccare con mano la presenza di Dio, nascosta, silenziosa, ma decisamente reale e concreta, in tutto ciò che ci circonda.
Quante sfumature, nella natura e nelle persone, i nostri occhi, ispessiti dall’egoismo, non riescono a cogliere! Meraviglie che ci lasciano indifferenti, che non ci colpiscono, non ci stupiscono! Se la folgorante luce di Cristo non ci illumina l’anima e il cuore, nulla purtroppo di ciò che vediamo potrà mai estasiarci. Senza di Lui rimaniamo solo dei biechi famelici. Qualunque cosa tocchiamo, la sviliamo, la insudiciamo; la osserviamo, ma solo per desiderarla, per prenderla, per possederla. Guardiamo tutto ma non “vediamo” nulla, perché siamo completamente “ciechi”. 
Vivere l’Avvento significa, allora, modificare il nostro sguardo, far constatare ai tanti distratti, ovviamente a noi per primi, che il Regno avanza, è presente, che tutti noi possiamo renderlo visibile, contribuendo a realizzarlo. Impariamo tutti a riconoscere i segni della presenza di Dio, alziamo lo sguardo dalla nostra indifferenza, dal nostro dolore, per accorgerci della presenza e della salvezza di Dio, che si attua continuamente nelle nostre soffocate città.
In questa manciata di giorni che mancano al Natale, diventiamo anche noi segno di speranza per quanti a Natale si sentono abbandonati, soli, dimenticati! Pochi giorni, per assicurare a chi ancora non ha trovato Dio, che Dio c'è, che è amore: diciamo loro come Dio abbia cambiato la nostra vita, come ci abbia soccorso nel dolore e nelle prove della vita. Perché Dio c’è veramente, e ci segue sempre da vicino, passo dopo passo! Ecco, sia questa la nostra prospettiva, in un mondo che si dibatte tra problemi irrisolti, ipotesi strampalate, dubbi laceranti, dilaganti incertezze. Domandiamoci, come singoli credenti e come Chiesa, se siamo la risposta vivente alle domande profonde e incalzanti di tante persone che si dibattono nel buio; domandiamoci se siamo veramente quella risposta, che si trasforma in offerta di solidarietà, in atteggiamento di ascolto, in annuncio di speranza. Amen.