“In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto. Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna”. (Gv 12,20-33).
Il vangelo di oggi ci introduce nel compito misterioso della vita.
Giunto a
Gerusalemme, Gesù si trova di fronte al momento critico della sua vita: deve
decidere se tornare in Galilea o andare avanti fino in fondo. Finché predicava
in quel territorio aveva avuto sempre compito facile con i suoi avversari: la
Galilea era a nord, distava da Gerusalemme 15 giorni circa di cammino, e Lui
sapeva che rimanendo lassù, la sua vita non sarebbe mai stata in serio
pericolo.
Ora
però, a Gerusalemme, le cose sono diverse: capisce che il suo momento è
arrivato e deve decidere cosa scegliere: Galilea significa vivere, Gerusalemme,
morire: il bivio è davanti a Lui: e Lui, con decisione, sceglie Gerusalemme,
pur sapendo che continuare la sua missione nel Tempio, nella città “santa”,
centro della religione e del potere, significa sottoscrivere la propria fine.
La vita pone
ogni giorno anche noi davanti a delle scelte: prima o poi, inevitabilmente, come
Gesù, dovremo affrontare scelte difficili, senza ritorno: scelte che non
offrono alternative, che vanno fatte in quel momento. Sono situazioni importanti,
in cui siamo chiamati a dare un senso alla nostra vita, a darle una forma, a
modellarla.
A questo
proposito c’è un termine che Giovanni ripete puntigliosamente in questo brano,
che sicuramente ci offre la soluzione ottimale per attuare questa nostra scelta:
è il verbo “doxàzo”, che letteralmente significa “glorificare,
onorare, lodare”, rendere “doxa”, rendere “gloria”: solo che
noi, quando parliamo di “gloria”, pensiamo immediatamente ai
riconoscimenti mediatici dell’essere famosi, conosciuti, stimati, adulati,
idolatrati; pensiamo ai divi della tv, ai campioni dello sport, ai grandi
protagonisti della musica, della scienza, della letteratura
Per
Giovanni invece, tributare “gloria”, “glorificare” significa “rendere
evidente, visibile, trasparente” nella propria persona, nella propria vita,
la presenza di Dio: questo infatti deve essere il motivo di fondo delle nostre
scelte. È così, in questo senso, che Gesù glorifica il Padre: nessuno mai
infatti più di Lui ha reso visibile la presenza di Dio nella propria persona: tutto
il suo vivere, il suo agire, il suo morire, è avvenuto in perfetta simbiosi con
il Padre; così, allo stesso modo, il Padre “glorifica” Gesù, rende cioè
manifesto il legame indissolubile, divino, che lo lega al Figlio: lo fa con
particolari “teofanie”, lo fa quando Gesù guarisce, quando accoglie i peccatori,
quando resuscita Lazzaro, quando dice le beatitudini.
Il
culmine di questo glorificare, il momento in cui si rende visibile in
maniera inequivocabile la presenza di Dio in Gesù, è tuttavia sulla croce: è sottomettendosi
alla volontà del Padre, che il Figlio accetta di bere fino in fondo il calice sacrificale
della sua morte; è nelle mani del Padre, che il Egli affida il suo spirito: un
gesto di incalcolabile amore che li unisce indissolubilmente, un amore che
dalla croce si riversa copioso sull’intera umanità.
“Se
il chicco di grano (in ebraico bar),
caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto”.
Ora, la parola “bar”,
in ebraico, oltre che “chicco di grano”, significa anche “figlio”:
quindi nel pronunciare queste parole, Gesù allude alla sua persona; Egli sa perfettamente
che quel “chicco di grano”, quel “Figlio”, che doveva “morire” per
portare “molto frutto”, era Lui, solo Lui! Riusciamo allora a capire meglio un
Gesù che, giorno dopo giorno, accetta questa sua missione mortale,
dolorosissima, inevitabile; è vero, in qualche momento anche Lui, apparentemente
sfiduciato, viene assalito dall’angoscia, dallo sgomento: l’uomo Gesù, come
tutti, odia la morte, non vorrebbe morire: “Padre mio se è possibile, passi
da me questo calice”, ma non arriva mai a pensare, anche per
un solo istante, di potersi sottrarre: “Però non come voglio io, ma come
vuoi tu” (Mt 26,39).
Egli sa di essere la vittima di
espiazione voluta dal Padre, Egli sa che la sua missione terrena è di riscattare
sulla croce l’intera umanità, di ridarle l’originale dignità, lasciandole inoltre
in eredità, come memoriale della sua offerta, il suo corpo e il suo sangue, nella
sua materiale presenza Eucaristica, garanzia unica di vita immortale. Questo, e
solo questo, l’ha portato a offrire sé stesso come offerta nel sacrificio
perpetuo della croce.
Guardando quella croce, allora,
come pure qualunque croce si stagli sul nostro cammino, non dobbiamo più temere
di nulla: dobbiamo solo pensare alla “gloria” di Dio, alla sua presenza,
a quanto Dio ci ha ama, a quanto suo Figlio ha sofferto per “glorificare”
(= rendere visibile) il Padre, a come il Padre abbia “glorificato”
il Figlio sul patibolo del Golgota, proprio perché Lui “glorificasse” (=
si rendesse visibile) in tutti noi singolarmente: una realtà che ci deve assolutamente
tranquillizzare, ci deve confortare, perché realmente ci “glorifica”, ci
“dimostra” cioè che non siamo più soli, che Dio è con noi, che non saremo mai
più abbandonati a noi stessi.
C’è un solo modo per assolvere il
nostro debito di riconoscenza per tutto questo: “glorificare” Dio, fare
cioè in modo che il “seme” dello Spirito che Dio ha immesso in noi, e il “seme”
della sua Parola che dobbiamo accogliere e far “morire” in noi, diventino
visibili, evidenti nella nostra vita, determinino la nostra crescita spirituale
e umana, ci trasformino in testimoni viventi della presenza divina in noi.
È chiaro che per poter giungere a
ciò, dobbiamo liberarci di molta zavorra: dobbiamo modificare le nostre
priorità, avere il coraggio di fare i conti con la vita; dobbiamo cioè affrontare
le contrarietà, le delusioni, le sofferenze, le sconfitte. Ma soprattutto dobbiamo
far morire il nostro io interiore, il nostro narcisismo, il nostro
egoismo: solo così lo Spirito ci trasformerà in Vita, e potremo “glorificare”
Dio, testimoniando al mondo la sua presenza.
Allora potremo sentirci compiuti,
allora potremo vedere che il seme di Vita che noi spargeremo, puntualmente rinascerà,
crescerà, fiorirà negli altri, e potremo sentirci generatori di nuova Vita. Allora,
e solo allora, potremo umilmente considerarci una piccola cellula,
infinitesimale ma attiva, di quel “donarsi all’infinito” che chiamiamo Dio.
Amen.