“Vi
do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato
voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che
siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri” (Gv 13, 31-33a.
34-35).
Per
comprendere bene il vangelo di oggi dobbiamo leggerlo nel suo contesto
originale, altrimenti i riferimenti e il significato delle parole sfuggirebbero
alla nostra attenzione.
Il testo
infatti inizia con “Quando fu uscito…”:
ma a chi si riferisce? Chi è la persona che, una volta uscita, costringe Gesù a
dare delle spiegazioni ai presenti su quanto è avvenuto immediatamente prima?
Che significa che Gesù ora si sente “glorificato”?
per che cosa?Cerchiamo di dare un senso a questi interrogativi, spostandoci su quanto accaduto immediatamente prima.
La scena si svolge all’interno del cenacolo, durante l’ultima cena: Gesù ha appena finito di lavare i piedi ai dodici, e sta raccomandando loro di seguire il suo esempio, mettendosi a servizio degli ultimi, di chi ne ha maggior bisogno. È un momento di grande intimità: egli sta impartendo le sue ultime raccomandazioni, sta consegnando loro il suo testamento spirituale: è serio, parla a voce bassa, confidenzialmente, lasciando emergere dal cuore tutta l’amarezza e l’inquietudine per l’imminenza del suo grande Sacrificio; improvvisamente tace, e proseguendo con voce rotta dall’emozione, rivela un particolare tremendo: “Uno di voi mi tradirà” (Gv 13,21).
Ne segue un silenzio glaciale. I dodici si guardano l’un l’altro: “Uno di noi? Impossibile! Noi siamo tutti con te!”. In loro domina lo sgomento, il dramma, la costernazione, ma si insinua anche il dubbio. Hanno bisogno di chiarimenti, e gli chiedono increduli: “Signore, chi è?”. “È colui per il quale inzupperò il boccone e glielo darò”, risponde Gesù.
Era usanza del tempo che nei banchetti importanti, il padrone di casa offrisse il primo boccone all’ospite d’onore, in segno di deferenza e di stima. È questo l’estremo gesto d’amore e di rispetto di Gesù nei confronti di Giuda, nel tentativo di distoglierlo dal suo insano proposito. Ha provato in tutti i modi, gli ha dimostrato tutta la sua amicizia, la sua disponibilità, il suo cuore generoso. Ma qualunque suo sforzo non è servito a nulla: Giuda insisterà nel suo rifiuto, ed uscirà dal cenacolo perdendosi nelle tenebre della notte.
È a questo punto che si allaccia il vangelo di oggi: “Quando fu uscito...”: una volta cioè che Giuda se n’è andato dal cenacolo, Gesù offre ai suoi una spiegazione su quanto successo, ma lo fa con parole di difficile interpretazione: “Ora il Figlio dell’uomo è stato glorificato…”; Giovanni nel riportarle, usa per ben cinque volte, in due soli versetti, il termine “glorificare”: ora, quando noi parliamo di “gloria, glorificare”, colleghiamo immediatamente questi termini alla fama, alla notorietà, al potere di una persona. Avere gloria per noi significa ottenere il pubblico consenso, la pubblica ammirazione; significa essere riconosciuti da tutti, essere arrivati molto in alto nella scala sociale; in genere noi “rendiamo gloria, glorifichiamo” le persone coraggiose, i santi, i martiri, le persone eccezionali che hanno vissuto eroicamente.
Nel linguaggio biblico, invece, “glorificare”, vuol dire “rivelare, mostrare, far vedere”. “Glorificare” è quando Dio si “rivela in tutta la sua maestà”, quando si rende visibile, quando fa conoscere solennemente la sua presenza: nel nostro caso, Gesù “glorifica” Dio, perché, lui stesso Dio, con la sua incarnazione, con la sua vita terrena, lo ha reso visibile, sperimentabile, toccabile con mano, a noi mortali.
Un fatto straordinario che deve valere come programma esistenziale per tutti gli uomini: perché anche noi dobbiamo “glorificare Dio”, dobbiamo farlo “emergere”, rendendolo “presente, visibile, palpabile” nella nostra persona e nella nostra vita: in una parola dobbiamo dimostrare concretamente di essere “suoi” discepoli, amandoci gli uni gli altri.
In questo modo Gesù capovolge completamente il senso delle nostre attuali categorie religiose. Per noi, infatti, è “cristiano”, cioè “di Cristo”, chi è battezzato, chi va a messa, chi rispetta certe regole e certe norme. Ma per Gesù essere cristiani, essere suoi discepoli, significa soprattutto “amare come Lui ha amato”, con un amore identico al suo, identico a quello del Padre.
Ma come ama Dio? “Dio è amore”, proclama Giovanni: Dio è l’Amore assoluto e totale che, grazie ai meriti di Gesù, concede gratuitamente e indistintamente il suo “amore” a tutta l’umanità. Perché Dio ama tutti: anche quelli che non lo meritano; anche quelli che lo tradiscono; anche quelli che lo rifiutano.
Il “Figlio dell’uomo”, pertanto, ha “glorificato” il Padre, rivelando questo Amore del Padre all’umanità intera, rendendolo fruibile e sperimentabile concretamente da tutti; per questo stesso motivo il Padre ha “glorificato il Figlio” rendendo cioè noto a tutti la portata e il significato del suo sacrificio sulla croce, veicolo di amore per l’umanità intera.
Come possiamo allora anche noi partecipare alla gloria del Padre? significa amarlo come ha fatto il Figlio, senza chiedere nulla in cambio, senza avanzare pretese. Noi, è vero, non vediamo Dio; ed è altrettanto vero che amare chi non vediamo, è difficile; ma abbiamo i nostri fratelli che ci stanno sempre vicini, abbiamo il nostro prossimo che vediamo continuamente: amando loro, è come se amassimo Lui, perché “chi ama loro, ama me”.
Poi Gesù prosegue dicendo: “Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri”. Perché lo definisce “nuovo”? Perché un tempo il pio ebreo amava solo i componenti della propria famiglia o, al massimo, la gente del suo popolo: per cui “amare tutti”, indistintamente, era certamente una novità: ma non è ancora questa, la vera novità. Il “novum” dell’amore sta nelle parole che seguono: “Come io vi ho amato”. Questa è la “novità”; questo è il cambiamento rivoluzionario dell’amore: amare come ha fatto Gesù, amare con il suo stesso amore.
La vecchia legge stabiliva “ama il prossimo tuo come te stesso”: il termine di paragone era l’uomo. La legge nuova di Gesù, pone invece come termine di paragone l’amore di Dio: “Ama il prossimo tuo come Io ho amato te”. Se per gli Ebrei Dio era l’innominabile, l'invisibile, che incuteva timore, riverenza, lontananza, che esigeva servizi e sacrifici, per i cristiani Dio è gratuità, presenza continua, vicinanza, disponibilità, provvidenza e amore continuo: non siamo noi a dover “dare” qualcosa a lui, ma è lui che si dona a noi, è Lui che si abbassa al nostro livello, che si pone al nostro servizio, rimanendo sempre al nostro fianco; Una vera e propria rivoluzione.
Quindi il vangelo insiste concludendo: “Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri”.
Parole di estrema importanza, che meritano una più attenta considerazione proprio da parte nostra, di noi cattolici super praticanti e “chiesaioli”, che ci definiamo “osservanti” grazie alle nostre frequentazioni religiose domenicali. Gesù infatti non dice: “Si saprà che siete miei discepoli se andate a messa tutte le domeniche, se dite il rosario tutti i giorni, se ascoltate attentamente le prediche, se fate delle offerte generose, se siete iscritti a tutte le associazioni cattoliche”. No, Gesù non dice questo. Anzi, all’epoca, egli si è dimostrato particolarmente severo proprio con quella casta di scribi e farisei che si ritenevano gli unici “eletti” da Dio, gli “osservanti” perfetti, i custodi del tempio.
Ciò che ci deve distinguere, non è quindi l’apparire, il “fare”, il “dare”, l’essere giudicati importanti, diversi dagli altri, insostituibili alla parrocchia; il vero “marchio”, quello che ci fa riconoscere come discepoli di Cristo, quello fondamentale, è uno solo, l’amore. I riconoscimenti, gli stemmi, le insegne, gli abiti, le decorazioni, i riti, le celebrazioni, il canto, cose di cui andiamo tanto fieri, contano ben poco, sono solo dei corollari, incapaci da soli a qualificare la nostra fede, la nostra vita interiore.
La
nostra risposta alla “chiamata” di Dio, la nostra coerenza nel seguire i suoi
insegnamenti, va quindi misurata solo ed esclusivamente sull’amore: a Dio, alla
famiglia, ai fratelli, al proprio stato, ai propri doveri di cristiano e di cittadino;
non su un amore straordinario, eroico, da prima pagina dei giornali o da
interviste televisive, ma sull’amore discreto, umile, nascosto: in quei piccoli
gesti d’amore che non hanno bisogno di grandi imprese, di grande visibilità, ma
che comunque raggiungono subito lo scopo, perché compiuti nella riservatezza,
nell’umiltà, nel silenzio. Amen.