«Vi ho detto queste cose mentre
sono ancora presso di voi. Ma il Paraclito, lo Spirito Santo che il Padre
manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che
io vi ho detto» (Gv 14,15-16.23-26).
Pentecoste
è la solennità che si celebra, come dice la parola greca “cinquanta giorni” dopo
Pasqua. Per gli ebrei questa festa all’inizio dell’estate, rievoca la
consegna dei comandamenti sul Sinai, e segna l’inizio della raccolta del
grano. Per i cristiani invece, ricorda l’effusione dello Spirito Santo: Gesù, risorto
e asceso in cielo, ritorna su questa terra sotto la forma di Spirito di Dio.
Perché
i cinquanta giorni: perché per gli antichi “cinquanta” era il numero della
pienezza di un tempo; i cinquanta giorni della Pentecoste indicano quindi che
un tempo è finito: si è concluso il tempo del Gesù terreno e delle sue
apparizioni, e si apre un nuovo tempo, il tempo dell’uomo, della Chiesa e dello
Spirito.
Gesù
se n’è andato, lasciando i discepoli nella paura, tra mille dubbi e tanta
incertezza: “Cosa accadrà ora? Cosa faremo da soli? Che fine faremo?”. Possiamo
capire tutta la loro preoccupazione: stanno vivendo un momento di crisi
profonda, radicale, decisiva.
Li
possiamo capire perché anche noi, molte volte, ci troviamo nella loro identica situazione.
Tutto sembra andare per il meglio: stiamo vivendo tranquillamente la nostra
vita, abbiamo un buon lavoro, una casa accogliente, una bella famiglia, tanti amici
simpatici. In famiglia siamo molto presenti, e quando possiamo, aiutiamo
volentieri anche il prossimo. Passiamo insomma per delle brave persone,
ammirate e rispettate.
Ma c’è
qualcosa che non va: nel profondo del cuore, ci sentiamo insoddisfatti perché
ci rendiamo conto di non essere esattamente come sembriamo all’esterno: dentro
di noi siamo spenti, svogliati, indolenti; procediamo solo per forza d’inerzia,
per abitudine: andiamo in chiesa, rispettiamo le regole cristiane, siamo
generosi, ma non c’è slancio nella nostra fede, non c’è passione, non c’è partecipazione;
quando parliamo di Dio, quando preghiamo, le nostre parole sono superficiali, fredde,
non lasciamo trasparire né entusiasmo, né amore.
Come
mai? Che ci succede? Ci sentiamo in crisi, ansiosi, abbattuti, esattamente come
lo erano gli apostoli. Cosa dobbiamo fare allora in simili circostanze?
Dobbiamo
scoprire dentro la nostra anima lo Spirito del Signore, dobbiamo lasciarci
infiammare da Lui il nostro cuore intiepidito: in una parole dobbiamo vivere
sul serio la nostra “Pentecoste”.
Per la
vita degli apostoli questo giorno ha segnato un salto di qualità netto, determinante,
definitivo: da un livello di superficie sono passati ad un livello di
profondità, dall’esteriorità all’interiorità, dalla dipendenza all’autonomia,
dalla schiavitù di se stessi alla libertà più assoluta.
Parlavano
una lingua che tutti, anche se stranieri, riuscivano a capire perché avevano
ristabilito il contatto con Dio, sceso in quel giorno dentro di loro. Quel Gesù
con cui avevano vissuto giornate memorabili per le strade della Palestina, con
cui avevano mangiato e parlato, proprio quel Gesù ora lo sentivano non più accanto a
loro, all’esterno, ma dentro di loro: lo sentivano forte e chiaro, potente e
presente. Mentre prima vivevano nella paura di perderlo, ora erano certi che
nessuno, mai, sarebbe riuscito a toglierlo dai loro cuori. Perché ciò che è
dentro di noi, lo Spirito, nessuno può sottrarcelo.
La loro
fu insomma una trasformazione totale, sconvolgente, un cambiamento che rovesciò
il loro modo di pensare, di esprimersi, di agire, mettendo in crisi tutte le
loro vecchie certezze.
Le due
immagini “rombo come di vento” e “fuoco che si divideva” che Luca evoca negli
Atti (At 2,3), sottolineano questo passaggio
potente, destabilizzante, ma necessario, dello Spirito di Dio. Il “vento” infatti
spazza via, purifica, scompiglia, sconvolge; deve cioè essere anche per noi un
uragano che si abbatte (rombo), che ci libera dalle paure e dal dipendere dagli
altri. Il “fuoco” dello Spirito, deve determinare il nostro salto di calore, di
passione, l’essere “presi”, toccati nella nostra unicità di soggetti (ogni
lingua assume una sua forma diversa per ogni soggetto su cui scende).
Vivere
la nostra “Pentecoste” significa allora affrontare quel salto qualitativo che ci
porta dall’essere freddi, insipidi, all’essere infiammati di senso e di passione. Sarà
un contatto con Dio che permetterà di individuarci, di trovare la nostra forma,
la nostra vera fisionomia, la nostra unicità. Solo in questo modo possiamo
affrontare i grandi “passaggi” della vita: senza lo Spirito, se non c’è “vento”
e “fuoco”, non andiamo da nessuna parte, non possiamo fare scelte mirate e
determinanti.
Solo lo Spirito esprime dunque la verità che Dio abita dentro di
noi, che Dio è presente in noi. Ma cosa significa in particolare vivere “lo
Spirito”?
Se noi
chiediamo alla gente cos’è lo Spirito, la maggior parte non sa cosa
rispondere.
E se non sa rispondere è perché non lo conosce, non ne ha
esperienza, non lo ha mai vissuto.
Alcuni
pensano che lo Spirito sia un’aggiunta alla nostra personalità, un qualcosa di
accessorio, un optional di cui
possiamo anche farne a meno. Ma lo Spirito non è un “di più”, è un qualcosa di
essenziale, un qualcosa che fa parte del nostro essere fin dalla sua creazione. Altri pensano che lo Spirito sia l’opposto
della materia, per cui “spirituale” vuol dire disincarnato, fuori del mondo; quando,
ad esempio, sentono parlare di una “persona spirituale”, immaginano un monaco
che vive fuori dal mondo, che passa la vita pregando, odiando tutto ciò che c’è
nel mondo. Queste
persone dovrebbero leggere un po’ di più il vangelo; si renderebbero conto di
quanto Gesù fosse “materiale”: nel senso che mangiava, beveva, faceva festa, si
divertiva, abbracciava le donne. Eppure non possiamo certo dire che Gesù non fosse “spirituale”!
Lo Spirito dunque non entra in noi un giorno qualunque della nostra vita, ma abita già in noi, è
parte di noi. Lo Spirito infatti altro non è che il “modo” con cui Dio abita in
noi. Essere “spirituali” pertanto non è pregare molto, frequentare la chiesa,
fare elemosine, riunioni sacre, pellegrinaggi. Essere “spirituali” vuol dire “vivere
facendo vivere” Colui che è la nostra parte interiore. È in sintesi un modo di vivere, uno
stile di vita.
Quando
Gesù proclamava le beatitudini e diceva “beati i poveri, beati quelli che
piangono, beati quelli che soffrono”, era forse pazzo? Da che mondo è mondo, nessuno
ha mai accettato con piacere di soffrire, di essere perseguitato, deriso o
imprigionato: e sicuramente nessuno mai, sano di mente, lo accetterà in futuro!
E allora, come mai Gesù considerava tanto positivamente queste cose? Perché Lui
le guardava in una prospettiva diversa dalla nostra.
Tutto infatti
dipende da come noi guardiamo le cose: dipende cioè se entriamo dentro, nella
loro essenza, oppure se ci fermiamo solo all’esterno, all’apparenza.
Gesù
fu per eccellenza l’uomo che vedeva le cose “oltre” l’esteriorità, Lui le
vedeva dentro, proiettate nei fatti, in quella realtà soprannaturale che Lui chiamava
“Regno di Dio”. E lo diceva sempre: “Il regno di Dio non è il paradiso, ma è
qui, oggi, è quello che vedi adesso. Dipende solo dai tuoi occhi”. Gesù vedeva gli
uccelli del cielo e i gigli del campo e vedeva Dio in essi, vedeva la luce, lo
spirito di Dio, ed esclamava: “Che meraviglia, che libertà; chi può vestire e fare
come loro?”. Gesù vedeva i fatti di cronaca e vi leggeva dentro la mano di Dio
che insegnava. Vedeva i sofferenti, i poveracci, i malati, le donne peccatrici,
e mentre tutti li evitavano, Lui li abbracciava, li incontrava, li baciava, li
accarezzava, cogliendo nel loro sguardo un disperato bisogno d’amore. Gesù
vedeva i peccatori e mentre tutti si fermavano all’apparenza: “Avete sbagliato,
siete peccatori, lontani da Dio!”, Lui entrava dentro di loro. Lui sapeva
cogliere la scintilla di luce, nascosta nel loro cuore, sapeva apprezzare anche
quel minimo desiderio di Vita, di riscatto morale, che si nascondeva nella loro
anima. Sulla croce, accanto a lui, c’era un ladrone, un peccatore incallito: e
mentre tutti vedevano il malfattore, l’assassino, Lui gli disse: “Oggi sarai
con me in Paradiso”. Condannato a morte, mentre noi proviamo solo rabbia verso i
suoi carnefici, Lui ha visto la flebile luce che filtrava dal nulla delle loro
tenebre: “Padre perdonali perché non sanno quello che fanno”. Gesù non si
fermava all’aspetto esteriore, materiale; Gesù vedeva lo Spirito, vedeva la Luce
che c’è dentro ogni cosa.
Questa
è la grande lezione di vita che Gesù ci ha lasciato: affinché, prima di sputare
sentenze e maldicenze sul prossimo, possiamo entrare in noi stessi per cogliere
la Luce vera, la voce dello Spirito, del nostro Consigliere, Avvocato e
Consolatore.
Oggi siamo
incapaci di essere “spirituali”, non riusciamo ad affrancarci dalla nostra “materialità”. Per questo ci deve soccorrere lo Spirito di Dio, per questo dobbiamo imparare
a viverlo. Il nostro vivere quotidiano è un continuo fare i conti con questa dicotomia
tra “materia” e “spirito”. Anche nelle cose più comuni, più frequenti: così, per
esempio, “materia” è il pane della domenica sull’altare, “spirito” è quando io
vedo in quel pane Cristo stesso; “materia” è quando vedo nel prossimo solo uno
che mi ostacola, che mi infastidisce, “spirito” è quando inizio a vedere in lui
una persona che soffre, uno che ha un cuore e un’anima; “materia” è quando mi
sveglio e di fronte al nuovo giorno, vedo solo un altro giorno di fastidioso lavoro,
“spirito” è quando vedo una nuova opportunità che mi viene concessa da Dio per
sperimentare la Vita; “materia” è quando ogni cosa mi fa innervosire, “spirito”
è quando mi chiedo il perché, cosa devo imparare, cosa devo cambiare del mio
comportamento, del mio modo di pensare; “materia” è quando guardo una donna solo
per possedere il suo corpo, “spirito” è quando vedo in quella donna una
creatura di Dio, con un cuore che batte e che pulsa, bisognoso magari di
comprensione e di conforto; “materia” è udire il cinguettio mattutino degli
uccelli, “spirito” è ascoltarlo, apprezzarlo, e trasformarlo in una preghiera che
il creato innalza a Dio. Tutta la vita può essere insomma terribilmente materiale o terribilmente spirituale, piena cioè di buio o di luce;
tutto può essere “materia”, tutto può essere “spirito”: trasformarlo nell’una o
nell’altro dipende solo da noi, dai nostri occhi, dall’ascolto del divino che è
in noi. Amen.