«Se uno mi ama, osserverà la
mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora
presso di lui» (Gv 14,23-29).
Siamo sempre
durante l’ultima cena. Prima della conclusione, Gesù pronuncia un lungo
discorso con il quale cerca di preparare i suoi amici alla imminente tragedia della
croce: è il lungo discorso di commiato dai suoi, essendo ormai giunto al finale
della sua missione terrena.
I
discepoli, come del resto succedeva normalmente, non capiscono molto di quelle
parole, che riguardano il loro immediato futuro: una cosa, però, la capiscono bene:
che tra non molto Gesù li avrebbe lasciati, e che essi avrebbero dovuto
affrontare delle tristi giornate senza di lui. L’Amico e Maestro, con cui hanno
condiviso gioie, entusiasmi, incomprensioni, miracoli, fatiche e preghiere, l’odio
e l’amore della gente, sta dunque per abbandonarli, sta per andarsene via.
Le
parole che Gesù pronuncia costituiscono dunque la traccia di un programma ben
preciso: sono le ultime istruzioni, un “viatico”, con cui intende predisporre i
loro animi ad effettuare un salto decisivo di qualità: a passare cioè da una
esperienza di vita comune esteriore, materiale, ad una nuova esperienza di
vita, sempre in comune, ma questa volta “spirituale”, interiore; li invita
praticamente a trasferirsi da quel cenacolo costruito nella pietra, in un altro
cenacolo, tutto spirituale, completamente nuovo, situato dentro di loro: perché
nei vari “cenacoli” di pietra, qui, in questo mondo, di persona, non lo avrebbero
più incontrato. Di lì a poco, quindi, lo avrebbero potuto incontrare solo
spiritualmente, nel cenacolo interiore del loro cuore, della loro anima; perché
Lui, Gesù, fisicamente, non ci sarebbe stato più.
Una
prospettiva, questa che appare agli occhi dei discepoli, decisamente tragica, che
li getta completamente nella confusione, nello sconforto, nell’angoscia, nel terrore:
“Cosa faremo senza di Te? Come potremo vivere senza di Te che sei la Vita? Chi
ci aiuterà? Chi ci sosterrà? Che senso avrà ancora la nostra vita?”. Sono all’incirca
le domande inquietanti che essi si pongono immediatamente.
In
fondo, fino ad allora, si erano illusi, avevano vissuto una meravigliosa
avventura; pensavano cioè che Gesù avrebbe instaurato il Regno dei cieli qui,
su questa terra; credevano che, con Lui presente e operante, si sarebbe
affermata una realtà nuova, diversa, universale, magari con l’intervento
risolutore di Dio Padre. E invece no!
In un
istante le loro sicurezze, le loro certezze, cedono; i loro sogni svaniscono, si
dissolvono come fumo nell’aria. “Cosa ci rimane ora? Con Gesù che se ne va, tutto
è finito!”.
Quello
che è successo agli apostoli è esattamente quello che succede anche a noi in simili
circostanze. Sono le stesse domande che ci poniamo nel momento tragico di una
separazione, nel momento in cui qualcuno che amiamo profondamente - il compagno
di una vita, un figlio, una persona cara - ci viene improvvisamente a mancare.
I
mostri del dolore, della disperazione, della caducità, dell’impotenza, ci
mettono di fronte alla provvisorietà della vita umana, alla consapevolezza di
non essere nessuno, di non possedere nulla di veramente “nostro”, di non avere
alcun diritto a trattamenti di favore da parte di Dio.
Tutto
scorre, tutto passa: come ci viene dato, così ci viene tolto. Questa è la
realtà che dobbiamo imparare. È uno degli aspetti dolorosi della vita, perché è
naturale considerare “nostro” chi, come un figlio, è parte di noi; è naturale e
inevitabile per noi provare nei suoi confronti attaccamento, affetto, amore; è
naturale pensare di non poter più vivere senza di lui; è quindi altrettanto
naturale che di fronte alla morte, il dolore ci sommerga, ci destabilizzi. Ripeto:
è la vita. Ma in tali situazioni il vangelo di oggi ci soccorre, prospettandoci
una verità ben più profonda, più vera. Con la morte non perdiamo tutto:
possiamo perdere la presenza materiale di una persona, ma la sua parte più
bella e nobile, non potremo mai perderla: la sua presenza spirituale, la sua
anima, la sua memoria, il suo ricordo, rimarranno vivi per sempre, scolpiti indelebilmente
nel nostro cuore.
È quanto,
in effetti, sperimentarono gli apostoli. Essi persero l’amico più caro, la
persona che più amavano, il loro maestro, la loro guida. Sembrava una tragedia
senza fine, ma poi successe l’incredibile: dentro il loro cuore percepirono nettamente
la sua inconfondibile presenza: ce l’avevano dentro; era un fuoco che bruciava
la loro anima, una passione che infiammava il loro cuore, una luce che illuminava
il loro cammino. Per loro insomma era più vivo di prima, lo “sentivano” più di
prima. Un’esperienza sublime, che essi chiamarono lo Spirito, l’Amore, il
Risorto.
È la
grande confortevole verità che riguarda anche noi: le persone che abbiamo tanto
amato, anche se materialmente non ci sono più, continuano a vivere dentro di
noi, a parlare con noi, a farci sentire tutto il loro amore, la loro presenza.
È lo Spirito di Dio, la loro Anima immortale, che resterà sempre presente in
noi!
Gesù vuole
consolare fino in fondo i suoi, e prosegue dicendo: “Vi lascio la mia pace... Non sia turbato il vostro cuore e non abbia
timore”. Una perdita non deve generare depressione, dolore, paura. Egli usa
parole confortanti per i suoi discepoli: ma le sue sono anche parole, lo
ripeto, che costituiscono la più bella e consolante prospettiva per quanti di
noi, ogni giorno, piangono il distacco di una persona amata.
Sono
in genere altre le parole consolatrici che in tali frangenti sentiamo da amici
e parenti:
“Dio
si prende i fiori migliori”; oppure: “Dio si porta via sempre i più buoni”; o ancora:
“È la vita, vedrai che col tempo il dolore passerà”. Sono indiscutibilmente parole
belle, parole vere, sincere; ma le parole umane, anche se belle e profonde, difficilmente
arrivano a toccare l’anima. A volte, per assurdo, è preferibile il silenzio; una
dimostrazione di “esserci”, una presenza silenziosa. Nella mia recente esperienza
(perdonate la nota personale), ho particolarmente apprezzato proprio questa
“muta”, ma “presente”, consolazione.
“Consolare” (dal latino cum-solus), significa infatti “stare con chi è solo”: senza dire
nulla, senza fare nulla: solo esserci, assicurare la propria presenza, il
contatto, lo stare vicini: “Prendo la tua mano; non ti dico nulla, ma sto con
te. Guardami negli occhi e saprai che io ci sono. Non posso vivere questi
momenti per te, al posto tuo, ma
posso viverli con te”.
Gesù ha
rassicurato i suoi proprio in questo modo, assicurando nei loro cuori la
costante presenza del suo Spirito, del suo Amore! E lo fa continuamente anche
con noi.
Per
questo dobbiamo apprezzare in pieno questa presenza del Consolatore dentro di noi. È il nostro Ispiratore, il nostro
Avvocato. Dobbiamo trovarlo. Sentirlo. Ascoltarlo.
Se ci
sentiamo “abitati” dentro, è impossibile sentirci soli. Se invece continuiamo a
soffrire di solitudine, vuol dire che in noi qualcosa non funziona, vuol dire
che non permettiamo a nessuno di entrarci dentro, neppure a Dio.
Eppure
la nostra forza, la nostra bellezza sta tutta lì, dentro di noi. La forza di un
albero non sta in quello che si vede all’esterno, nelle foglie, nei rami o nel
tronco. La sua forza sta nelle radici, in ciò che non si vede, in ciò che gli scorre
dentro. È così anche per noi.
La
società di oggi si preoccupa esclusivamente di sviluppare l’apparire,
l’esteriore delle persone: devono essere sempre più belle, più ricche, più eleganti,
più ambiziose, più importanti. Ma così genera solo frustrazioni, fatue illusioni,
che finiscono per avvelenare la vita di tutte quelle persone che non hanno
ancora capito che la loro bellezza, la loro forza, la loro importanza è l’esatta
proiezione di quanto custodiscono dentro.
Esaminiamoci
allora, osserviamo com’è la nostra vita: se non ci piace come siamo fuori, vuol
dire che non abbiamo ancora scoperto, ancora non abbiamo conosciuto né
ascoltato, Colui che dal di dentro ci suggerisce come vivere una Vita vera e
autentica. Amen.
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