«Quando già era l’alba, Gesù
stette sulla riva, ma i discepoli non si erano accorti che era Gesù. Gesù disse
loro: Figlioli, non avete nulla da mangiare? Gli risposero: No. Allora egli
disse loro: Gettate la rete dalla parte destra della barca e troverete» (Gv 21,1-19).-
Nel
vangelo di oggi Gesù raggiunge i discepoli sul Lago di Tiberiade: ma essi non
lo vedono. È sempre così: Dio c’è, noi non lo vediamo, quindi non c’è.
Lui
chiede: “Avete qualcosa da mangiare?”. Lo chiede anche a noi: ma noi cosa abbiamo
da offrirgli? Abbiamo qualcosa in noi di un certo valore da potergli dare? Un
qualcosa che sia valido, efficace, utile al nutrimento e alla crescita della nostra
e dell’altrui vita? Se siamo onesti dobbiamo rispondere: “No” (21,5). Perché in fondo dobbiamo ammettere
che non siamo felici di come siamo, che ci sentiamo vuoti, depressi, frustrati,
insoddisfatti di tutto e di tutti. Quindi di veramente prezioso da regalare, non
abbiamo proprio nulla. Anzi, un qualcosa di importante su cui lavorare ce l’abbiamo: è l'ammettere
a noi stessi che non abbiamo nulla, che non siamo proprio nessuno! Un fatto che ci deve preoccupare: perché non possiamo risollevare la nostra situazione negativa
se ci ostiniamo a ignorarla. Quindi la prima cosa da fare è prenderci di petto,
e dirci francamente: “Così non va! Per che cosa viviamo? Che scopo ha la nostra
vita?”. E fare una decisa inversione di marcia: una decisione che, vi assicuro,
per farla ci vuole tanto coraggio: ma perché? Perché a noi piace vivere illudendoci,
prospettandoci scenari di benessere e felicità, liberi da qualunque problema o
imprevisto; un mondo posticcio e irreale in cui fingiamo di stare veramente a
nostro agio: “Ho un lavoro, ho una casa, ho dei figli, non mi manca niente!”. Indossiamo
la maschera pubblicitaria del “Mulino Bianco”, della famiglia felice, e tutto
fila liscio. Ma dentro di noi? Meglio non guardare: perché troppo spesso
moriamo di solitudine, di delusione, di malcontento, di rabbia, di vuoto.
Allora,
la prima condizione per poter guarire, come già detto, è che dobbiamo ammettere
di essere malati; dobbiamo soprattutto ammettere che siamo noi, e non gli
altri, i malati gravi: siamo cioè noi per primi che dobbiamo cambiare vita, noi
per primi che dobbiamo muoverci.
Dio ci
aiuta certamente, ci mette veramente del suo, in questo nostro progetto di
restauro interiore: ma non lo fa come pensiamo noi. Noi vorremmo che Lui
intervenisse subito con una azione dall’esito istantaneo: un evento dal cielo,
un miracolo incredibile che, all’improvviso, in un attimo, ci cambia la vita,
fa sparire tutti i nostri problemi; una parola magica che, solo a pronunciarla,
otteniamo quanto vogliamo. Ma non è così. Per raggiungere un risultato, anche
minimo, dobbiamo provare, riprovare, faticare.
È
quanto Gesù richiede ai suoi: dopo una intera notte di faticoso lavoro senza alcun
risultato, Egli li rimanda in mare, al largo, nonostante fossero appena
rientrati, stanchi e sfiduciati! Solo che ora li manda con un ordine ben
preciso: “Gettate la rete dalla parte
destra della barca e troverete” (21,6). La destra, per gli antichi, era la
parte della ragione, della determinazione, del volere a tutti i costi un certo
risultato, mentre la sinistra era quella dell’incompetenza, dell’affidarsi alle
possibilità, al caso.
E lo
richiede anche a noi; Gesù anche con noi adotta la stessa procedura: dopo i
nostri fallimenti, ci rimanda ogni volta nella nostra vita, nel nostro
quotidiano; e non ci dice di cambiare lavoro, di cambiare famiglia; non ci dice
di stravolgere la nostra esistenza, di abbandonare tutto e tutti e di andare
chissà dove. L’ordine che impartisce anche a noi è sempre lo stesso: “Fai le
cose di prima, le stesse, ma adesso falle in maniera razionale, consapevole.
Non vivere più con la testa fra le nuvole; non aspettare che le tue difficoltà
spariscano magicamente, fatti delle domande serie, osservati, guardati, vedi
come reagisci, chiediti cosa vuoi da te, qual è il tuo ideale, cosa ti
appassiona”.
Allora,
piuttosto che fare come fanno tutti, piuttosto che seguire supinamente la
maggioranza, iniziamo col chiederci: “Io cosa voglio? Di cosa ho bisogno? Cosa
mi va di accettare e cosa non mi va di accettare? Mi sta bene questo
comportamento? Quali dinamiche mi muovono? Quali sono le paure che mi condizionano?
Cosa mi blocca? Sono autentico in quel che faccio? Quali maschere preferisco indossare?”.
Dobbiamo essere convinti che solo una vita vissuta consapevolmente può dare
felicità. Per questo dobbiamo dare un nome, il suo nome, ad ogni cosa. E poi
ancora: “In che cosa sono unico? Che cosa mi attrae nel profondo (perché “lì
dove c’è il tuo cuore, lì c’è il tuo tesoro”)? Per che cosa voglio vivere?
Quanto sono disposto a mettermi in gioco, ad espormi, a rischiare?”.
Noi ci
illudiamo invece che quanto è in grado di saziare i nostri cuori si trovi al di
fuori di noi (21,3). Però ciò che ci riempie
le reti, ciò che ci fa cantare di gioia, ciò che ci fa sentire figli unici, e
insieme fratelli, amati dallo stesso Dio, ciò che ci rende così vivi da lodarlo
e ringraziarlo per il dono della vita, ciò che ci crea quell’energia continua che
sentiamo dentro, è solo Lui, e Lui non si trova fuori di noi ma dentro di noi.
Per
questo dobbiamo “stabilire il contatto” con noi stessi, dobbiamo calare le
nostre reti dentro di noi; perché se vogliamo che esse (il cuore, l’anima)
siano piene, è con noi che dobbiamo stare, con noi e con il Dio che ci inabita.
Dobbiamo conoscerci, non dobbiamo fuggire di fronte ai nostri mostri, ma
familiarizzare con essi, non dobbiamo trascurare il potere negativo dei nostri
istinti, ma dobbiamo individuarli, dominarli e farceli amici; dobbiamo essere i
padroni assoluti del nostro mondo interiore, sapendo di trovarvi sempre
presente il Dio della Vita.
Questo
fu il miracolo che gli apostoli riuscirono a compiere. Trovarono Dio nella loro
vita ordinaria, nella vita di tutti i giorni. E con Lui la loro vita non fu più
la stessa, da quel momento tutto cambiò.
Sappiamo,
ce lo dice il vangelo di oggi, che Giovanni era il discepolo che Gesù amava (21,7): un amore che egli percepiva
distintamente nel suo cuore, pur senza rendersene conto; un amore però che ha
permesso solo a lui, umile pescatore da una vita, di riconoscere Gesù: “È il Signore!” (21,7). Così anche noi,
se amiamo Gesù, se amiamo il nostro prossimo, se ascoltiamo ciò che ci
suggerisce il cuore, se sentiamo il bisogno di cercarlo nel silenzio e nella preghiera,
pur nella nostra debolezza e caducità, potremo un giorno “vedere” il Signore. E da quel momento la nostra vita inizierà a
cambiare giorno dopo giorno, e ci scopriremo pieni di entusiasmo, di stupore,
di meraviglia, di gioia.
Ma, in
sostanza, cosa dobbiamo fare? In che modo possiamo “vederlo” (e non solo “pensarlo”)?
Come possiamo percepirlo? Come sentirlo? Sicuramente non facendo cose
straordinarie, eclatanti, ma nei piccoli eventi di tutti i giorni, come nel
dare una risposta “diversa” dalle solite, nell’iniziare una cosa nuova, nel
riuscire finalmente a dire un “no”, nell’ammettere una paura che ci
destabilizza, nel riuscire a pronunciare uno “scusami”, nel lasciarci andare alle emozioni, nel dare spazio ad
un’idea creativa e un po’ pazza, nell’adottare un comportamento controcorrente,
nel fare un incontro che non ci aspettavamo, nell’ammirare un tramonto sul
mare, in una passeggiata in montagna, nello specchiarci in uno sguardo o in un
sorriso di nostro figlio, in una complicità con nostra moglie, ecc.. Ecco, è in
queste piccole cose che possiamo dire: “È il Signore!”, e riscoprire in noi una
nuova concezione di vita.
La
gente cerca Dio nelle visioni, nelle apparizioni, perché non “lo vede” nella
propria vita. Per questo lo cerca “fuori”. Ma Dio ci appare, ci incontra, solo
nella chiesa della nostra anima. A volte tutto questo nostro cercare nuove esperienze
religiose, nuovi entusiasmi mistici, nuove esaltazioni carismatiche, denota in
noi più una mancanza di fede, un bisogno di apparire, che una vera necessità,
un autentico desiderio di incontrarlo.
Dio c’è
per noi solo se lo “vediamo”. Altrimenti è un’idea che abbiamo in testa: forse è
Lui, forse no. Se lo “vediamo” non può esserci alcun dubbio; ma se “non lo vediamo”,
finiamo per credere in qualcosa che non sappiamo cosa sia.
Dove lo
possiamo “vedere” concretamente? Soltanto dove c’è “carità e amore”. Le idee
brillanti, le migliori strutture organizzative, l’efficientismo senza l’amore,
senza il cuore, senza la Vita, certamente “non vedono” il Signore. Come è
successo a Pietro. Egli, infatti, non riconosce il Signore: lui è l’uomo
razionale, efficiente, irruento; è l’uomo dell’azione, l’uomo che non concede spazio
ai sentimentalismi, al cuore. Solo Giovanni, il discepolo dell’amore, lo vede,
lo riconosce e gli dice: “È il Signore!”.
Pietro
in pratica assomiglia un po’ a quella chiesa dei nostri giorni, a quei
presbiteri, a quei vescovi, a quei cristiani, che dopo una prima risposta generosa
ed entusiasta alla loro chiamata, procedono stancamente, vivono di rendita, senza
iniziative spontanee, adagiandosi nel loro consueto trantran; vanno a “pescare”,
certo, ma non riescono a prendere nulla perché la loro vita è piatta, inerte, vivono
una routine quotidiana priva di fervore e di entusiasmo.
Grazie
a questo suo carattere intermittente, Pietro compie una serie di azioni
avventate e per certi versi fuori da ogni nostra logica. Una volta riconosciuto
Gesù, infatti, senza alcuna esitazione, egli si getta in mare per raggiungerlo.
Era al largo, tribolando con le reti stracariche, perché non aspettare che la barca
con il suo carico approdasse a riva? Questa decisione improvvisa di Pietro rivela
però un forte simbolismo: egli deve buttarsi in acqua, perché deve “bagnare” (21,7) la propria presunzione,
la propria sicurezza. Deve cioè fare un bagno
di umiltà. Deve ricredersi. Deve immergersi anche lui nel “mare” dell’amore. Deve
insomma ridare nuovi impulsi, nuovo slancio, nuova vitalità e duttilità alla
sua mente poiché, continuando con la rigidità inflessibile dei suoi schemi
mentali, avrebbe rischiato di bloccare il suo cuore e di condannare a morte certa
la sua anima.
Sempre
per questo il motivo, prima di buttarsi in acqua, “si veste” (21,7): ma se mentre
pescava era nudo, che senso ha rivestirsi proprio per gettarsi in mare? Il
senso c’è: vestirsi, significa infatti
per Pietro indossare davanti agli
altri la propria autorità di capo, significa rendere noto a tutti il proprio
ruolo, la propria funzione; autorità, ruolo, funzione, che hanno bisogno sempre
di un bagno di umiltà, di una certa “morbidezza” comportamentale. Lo stesso
bisogno che c’è anche oggi per quei “rappresentanti” del sacro, preti e laici
che siano, che si ritengono detentori unici della verità: che si credono
altrettanti Dio in qualunque situazione e in qualunque campo! Anche oggi ogni
tanto rispunta quell’intransigenza, quell’irruenza “petrina”, che hanno bisogno
di un buon lavaggio di umiltà. Ecco perché i capi, i pastori del gregge di Dio,
devono imitare Pietro che, immergendosi nel mare, ha purificato le sue colpe, ha
affrontato le sue paure, ha riconosciuto e abbandonato le sue rigidità: solo in
questo modo infatti, egli ha potuto essere scelto da Gesù come capo di quella
barca (la chiesa), da Lui destinata a portare frutto (una pesca miracolosa) e a
rimanere viva nei secoli grazie alla continua forza (lo Spirito, l’amore e la
presenza di Gesù) che la sospinge.
È Pietro
infatti che, una volta che anche gli altri discepoli sono giunti a riva, sale con
decisione sulla barca (la chiesa); è sempre lui che trascina a terra la rete
piena grossi pesci. È lui il protagonista. Dio non può far niente senza di lui.
Sì, è sempre Dio che fa: è infatti Gesù che ha già acceso il fuoco con il pesce
sopra (21,9), ma non può fare nient’altro
senza Pietro (la chiesa) e senza gli uomini, gli apostoli: “Portate un po’ del pesce che avete preso or ora” (21,10). Egli ha bisogno del loro amore.
E lo chiede apertamente, lo mette cioè come condizione essenziale per la vita
della chiesa.
Prima
di conferire il mandato a Pietro, infatti, Gesù antepone un esame sull’autenticità
del suo amore; ed usa in proposito due verbi: “agapào” e “filèin”. Ora,
in greco, “Agapào” indica l’amore profondo,
vero, libero da condizionamenti, assoluto, totale; un amore non invadente, non
impositivo, ma assolutamente gratuito e altruista. “Filèin” invece implica un amore meno impegnativo, è l’amore dell’amicizia,
è il voler bene ad una persona, senza
eccessivi coinvolgimenti personali.
Potremmo
quindi interpretare così le tre domande di Gesù, apparentemente sempre uguali,
ma molto diverse tra loro. La prima volta Egli chiede a Pietro: “Mi ami tu (agapàs) più degli altri?”. È
diretto Gesù, esige una risposta netta, un amore da “agapào”; e Pietro, intimorito, non se la sente di ostentare una sicurezza
che non ha, è più umile, per cui ridimensiona la portata della richiesta di
Gesù, e cambia verbo: “Sì, Signore, ti
voglio bene (filò sè)”. Egli si conosce bene, conosce le sue debolezze, i
suoi voltafaccia, e cerca quindi di mantenere un profilo basso: “Sì, Gesù, ti sono amico” (“filèin”). Ma Gesù non rinuncia: per la
seconda volta insiste per sapere se il suo amore è totale, incondizionato, e
Pietro, sempre più confuso, non sapendo dove Gesù andasse a parare, con più cautela,
con maggior circospezione, gli risponde che “sì,
Signore, io ti voglio bene” (“filèin”). Per la terza volta, Gesù gli
rivolge la stessa domanda: ma questa volta succede qualcosa di straordinario.
Gesù mette da parte l’impegnativo verbo “agapào”
ed usa “filèin”, lo stesso verbo di
Pietro: “Simone, mi vuoi bene (fileis
mè)? In pratica egli accetta il suo “ti voglio bene”, si abbassa, si accontenta,
si avvicina alle sue possibilità, lo raggiunge entro i suoi limiti: “Simone, se
ti fa paura l’amore impegnativo, totale, unico, mi sei almeno amico? Dammi almeno
questo tuo affetto, purché sia umile e sincero, e a me basterà; perché per me questo
tuo sentimento è già amore!”.
Gesù in
pratica rallenta il suo passo sul ritmo di quello di Pietro; il quale, a questo
punto, capisce quanto Gesù tenga al suo amore, e sente il pianto salirgli in
gola; vede il suo Maestro che si abbassa a mendicare amore, vede un Dio accontentarsi
delle briciole, un Dio al quale basta veramente poco: un cuore sofferente,
ferito, che però vuol amare al meglio delle sue possibilità, sinceramente e
umilmente, nella consapevolezza dei suoi limiti.
Tre
volte Pietro ha rinnegato il Signore (18,27);
tre volte gli ha detto di no, e tre volte il Signore lo interroga sulle sue
motivazioni vere e profonde. Le posizioni di entrambi sono ancora lontane: “Mi ami come io ti amo?” chiede Gesù; “Ti voglio bene”, risponde Pietro. Egli sa
di essere in un enorme deficit d’amore; ha bisogno di crescere, di mettersi in
gioco, di rinnovarsi, di ammettere le proprie zone d’ombra e di falsità.
Gesù
insiste, pur conoscendo perfettamente i limiti di Pietro; ma lo fa per fargli
capire una cosa essenziale: “Tu che condurrai la mia Chiesa devi essere
profondamente convinto di amarmi, le tue motivazioni devono essere convinte,
totali, sincere. Apprezzo il fatto che tu non ti consideri esente dall’egoismo,
dal narcisismo, dalla gelosia, dalla competizione solo perché sei Pietro, mio
discepolo, e perché io ti sto ponendo alla guida della mia Chiesa. Non puoi
pensare infatti che solo per questo, paura, istinti, pulsioni, bisogni,
desideri, ferite, non ti tocchino; non puoi prescindere dalla tua umanità e
cedere all’illusione che questi pericoli non ti riguardino. Perché se vivi in
questa illusione, te lo ricordo, tu già mi tradisci, e tradisci te stesso. Ricordati
che sei vulnerabile; amami come puoi, ma amami sinceramente: siine consapevole
e vivi con gli occhi aperti”.
E infine
Gesù chiude: “Quando eri giovane ti
cingevi la veste da solo e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio un altro
ti cingerà la veste e ti porterà dove tu non vuoi” (21,19). La veste, l’abbiamo
già detto, è il ruolo, la posizione di Pietro. In pratica dice: “Come c’è un
tempo (gioventù) in cui tu decidi dove andare e cosa fare, e un tempo
(vecchiaia) in cui non sei tu a decidere dove andare e cosa fare, così tu
Pietro, tu Chiesa, devi decidere la direzione della tua strada, ma devi anche
lasciarti condurre da Dio dove Lui, e il corso della storia, ti portano. Seguimi su questa via. Lascia che sia
Dio a portarti, anche se non sai dove stai andando, anche se non vorresti
andarci, anche se a volte resisti con tutte le tue forze”.
Ciascuno
di noi vorrebbe decidere per la propria vita, tenerla in pugno e stabilire lui
dove andare. Ma avere fede, amare Dio, è lasciare spazio a Lui: lasciarci
condurre, lasciarci portare, lasciare che sia Lui a dirigere la nostra vita.
Nessuno
può dire a priori, infatti, che Dio ad un certo punto non voglia rovesciare la nostra
vita. Chi può dire che Dio non voglia qualcosa di più grande da noi? Chi può
dire che Dio non ci faccia lasciare il lavoro, le amicizie, le nostre idee, per
seguirlo più da vicino? Chi può dire che Dio non voglia cambiare radicalmente
il nostro carattere per farci diventare persone completamente diverse? Chi può
dire insomma che Dio non possa scombinare la nostra vita e le nostre idee?
Noi amiamo
immaginarci arrivati, celebri, ricchi, sposati con una moglie bellissima, con figli
meravigliosi, obbedienti, studiosi, adorabili: ma chi può assicurarci che un
domani la nostra vita non cambi radicalmente, diventando una realtà del tutto
diversa, esattamente all’opposto? L’importante è che noi siamo sempre pronti a
rinnovare a Dio il nostro amore, e a ripetergli: “dovunque mi condurrai, Signore, io
ti seguirò”. Amen.