«Quelle diciotto persone, sulle
quali crollò la torre di Sìloe e le uccise, credete che fossero più colpevoli
di tutti gli abitanti di Gerusalemme? No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete
tutti allo stesso modo» (Lc 13,1-9).
Due fatti di cronaca recente, uno consumato dalle
autorità occupanti (una rappresaglia soffocata nel sangue), l’altro puramente
fortuito (il crollo di una torre con numerose vittime), avevano particolarmente
scosso l’opinione pubblica, soprattutto per le loro implicazioni: all’epoca
infatti tutti erano fermamente convinti che
il male, le disgrazie fisiche, gli infortuni, capitassero agli uomini in
espiazione dei loro peccati personali o di quelli dei parenti più stretti.
Il
vangelo di oggi si apre alludendo proprio a questi fatti di cronaca: alcune persone, nel riportarli a Gesù, gli avrebbero
esternato tutto il loro sdegno e la loro amarezza nel constatare come una così grande
quantità di persone “infedeli” fossero cadute vittime dei loro peccati.
Nella
sua risposta, però, Gesù non commenta i fatti ma li usa per spezzare la
mentalità del tempo. Egli in sostanza dice: “Quelli
che sono morti non sono più colpevoli di voi!” (13,2.4). Cioè: “Quei
poveretti non sono morti per espiare le loro colpe: anzi vi assicuro che voi
che mi state ascoltando non siete di certo meno peccatori o colpevoli di loro!”.
Era una
mentalità molto diffusa, ben radicata e dura a morire, che veniva motivata con
l’espressione: “Chi sbaglia, deve pagare!”, dalla quale, come conseguenza, si traeva
la conclusione che: “Chi ama, deve castigare”.
Una
regola formativa che, pur stemperata col tempo nella sua rigidità assoluta, è
giunta fino al nostro recente passato. Per cui, fino a pochi anni fa, la
punizione costituiva un “dovere” per ogni buon “maestro” di vita: così, per
esempio, un buon padre, per essere tale, doveva severamente punire i propri
figli troppo esuberanti, “perché le piante storte vanno raddrizzate da subito,
fin da giovani”.
Oggi
fortunatamente questo tipo di mentalità assolutista, è quasi del tutto tramontata.
Del resto, che tipo di amore può esercitare colui che per principio castiga
drasticamente, umilia, ferisce o usa violenza su dei piccoli? L’esperienza ha
dimostrato infatti che la punizione fisica non insegna nulla, non è mai
educativa; semmai stabilisce soltanto che chi è il più forte esige obbedienza, e
chi è il più debole, se non si adegua, automaticamente “le prende”. Un modo di
pensare pertanto che il tempo ha dimostrato completamente errato: chi castiga,
non ama; perché chi ama veramente, non può in nessun caso procurare dolore, sofferenza,
umiliazione a colui che egli ama.
Intere
generazioni però sono cresciute imparando a loro spese che per “essere amati”
era necessario soffrire, stare male, accettare l’impossibile, rinunciare spesso
alla propria dignità: così, per esempio, per salvare “l’amore” in famiglia, si
accettava l’alcolismo, “le botte”, le umiliazioni, i tradimenti, gli abusi. Bisognava
“portare pazienza”, perché in questo modo si acquistavano “meriti davanti al
Signore”, si era dei “bravi cristiani”. È per questo che “i giovani” del secolo
scorso hanno accettato cose impossibili: e quando oggi i figli o nipoti
chiedono “perché”, non sanno rispondere. L’unica cosa che sanno dire è: “È
sempre stato così; ci hanno insegnato così; abbiamo imparato questo”.
D’altronde
l’idea “se sbagli, paghi” sta dietro anche ad un’altra espressione ancora oggi piuttosto
abusata, male interpretata e male spiegata: “Dio è morto per i tuoi peccati”; una
dichiarazione che ha scosso nel profondo la coscienza di intere generazioni. “Tu
hai peccato, hai fatto il male e Dio ha dovuto pagare per te; Lui ha sofferto ed
è morto sulla croce proprio per colpa tua, per i peccati che tu hai commesso”. Espressioni
adottate molto più di frequente per noi anziani: una prospettiva che generava
in noi un autentico senso di colpa, ci faceva sentire cattivi, sbagliati, fatti
male, colpevoli del dolore di Gesù. Quando a Catechismo ci sentivamo dire: “Gesù
è morto a causa dei tuoi peccati” non potevamo avere la capacità di capire, di renderci
conto, che non si trattava dei “nostri” peccati personali; semplicemente ci
sentivamo cattivi, personalmente colpevoli. E questo sentimento ci tornava
puntuale e sconvolgente ogni qual volta la mamma o il papà o qualche fratellino,
soffrivano, stavano male: la conclusione era sempre la stessa: “se soffrono, è per
colpa mia”. E impauriti aspettavamo una punizione che prima o poi doveva
arrivare.
Oggi
tutto questo è tramontato, anche se talvolta possiamo ancora imbatterci in
espressioni tipo: “Lo sai che con la tua cattiveria fai piangere Gesù? Perché
procuri tanto dolore alla mamma? Tu mi fai morire! Con tutti i sacrifici che io
e papà facciamo per te”; e non ci rendiamo conto che a lungo andare il bambino si
sentirà ingrato, cattivo, senza cuore, e penserà di non poter mai essere
felice. E spesso accade che questi sensi di colpa si trascinino fino all’età
adulta, compromettendo uno sviluppo ed una maturità sana, aperta, propositiva,
felice.
Quante
persone, anche oggi, non sanno infatti divertirsi: non sanno giocare, non sanno
ridere, non si concedono mai un po’ di relax, delle pause, delle cose
piacevoli. Sono sempre impegnati a fare, produrre, realizzare qualcosa, pur di
non fermarsi in loro stessi; sono continuamente in presa diretta, fanno di
tutto, ma solo per un benessere esteriore: mai nulla per il loro benessere
interiore. Ecco perché educare un bambino con il senso di colpa, significa
distruggergli il piacere della vita, vuol dire avvelenargli il sangue, vuol
dire: “Così non andrà mai bene; così non basterà mai; devi fare molto di più”;
che, tradotto, vuol dire: “Non vali nulla, sei sbagliato!”.
Gesù
dunque, con l’intervento riportato nel Vangelo di oggi, cerca di spezzare
questa mentalità oppressiva: anche se subito dopo, con il seguito delle sue
parole, sembra in qualche modo riproporla: “Se
non vi convertirete, perirete tutti allo stesso modo” (13,3.5). Cioè: “se
non cambierete vita, se non la smetterete di fare peccati, anche voi morirete allo
stesso modo; farete la stessa fine di quei Galilei”.
Ma cosa
vuol dire in realtà Gesù con queste parole? È per caso una frase intimidatoria,
nel senso che se non cambiamo vita, Dio per punizione ci farà morire? Nossignori:
Gesù non vuol dire questo. Dio non punisce, mai! Egli vuol semplicemente dire: “Guardate
che tutto quello che fate ha delle conseguenze, delle ripercussioni”; in altre
parole: “Se voi continuate a comportarvi negativamente , ricordatevi che il
risultato che otterrete sarà altrettanto negativo! Non si tratta di una
condanna, ma di una logica conseguenza.
Un
giorno un Padre del deserto disse ai suoi discepoli: Vi do due notizie: una
buona e l’altra cattiva. Quella cattiva è: “Se fate cose mortali, morirete”. “E
quella buona?”, chiesero incuriositi i discepoli: “Che adesso lo sapete”,
rispose il maestro.
La
vita è nelle nostre mani e nelle nostre scelte. Molto infatti di quanto ci
succede, succede perché noi lo vogliamo. È matematico. Tuttavia non dobbiamo colpevolizzarci,
né cercare di ignorare o sottovalutare questa “legge” così dura: dobbiamo solo
imparare umilmente a non ripetere gli stessi errori che ci hanno messo in tale
situazione.
Convertirsi
vuol dire infatti cambiare drasticamente direzione; shub in ebraico indica proprio un cambio radicale di rotta: stiamo
andando in una certa direzione, ci accorgiamo che è sbagliata, dobbiamo cambiare
strada; ecco, in questo consiste “convertirsi”: dobbiamo cioè fare una decisa inversione
a “U”.
Molti
dei nostri comportamenti ci portano inevitabilmente a morire dentro, ci
riducono alla superficialità, ci allontanano sempre più dal nostro cuore e da
noi stessi. Il fatto è che purtroppo non ce ne accorgiamo.
Quando
ad un certo punto ci succede il “dramma”, quando cioè le nostre azioni, il
nostro comportamento ci si ritorce “contro”, piangiamo e diciamo: “Com’è stato
possibile? Perché ci è successo questo? Perché Dio mi ha fatto questo?”. Ma Dio
non c’entra: la causa siamo noi: sapevamo dove andare, ma volutamente abbiamo
continuato a correre per la strada sbagliata, che ci ha portato inevitabilmente
nel precipizio. Era chiarissimo, ma non abbiamo voluto vedere. Allora, finché
siamo in tempo, convertiamoci, svegliamoci, accorgiamoci, perché verrà un momento
in cui sarà troppo tardi.
Oggi è
stato ampiamente dimostrato che perfino molte infermità sono conseguenza dei nostri
comportamenti, dei nostri vissuti profondi, dei nostri schemi mentali: allergie,
intolleranze, malattie psico-somatiche, affliggono l’umanità a seguito di determinati
e ben precisi comportamenti. Non sono una “punizione”, ma non dipendono neppure
da elementi patogeni esterni. Nascono per motivo interiori ben precisi.
Allora
“convertirsi” vuol dire aprire gli occhi, smettere di dormire, accorgersi,
farsi aiutare, riconoscere, rendersi conto, vedere ciò che dobbiamo vedere
anche se all’inizio può essere difficile. Solo se vediamo, se riconosciamo, se
avvertiamo, riusciamo a troncare certe spirali che ci portano a morire dentro e
fuori.
Responsabilità
(da respondeo, rispondere, risposta)
vuol dire che noi rispondiamo in prima persona della nostra vita, che non
deleghiamo, che non scarichiamo le colpe della nostra vita alla società, agli
altri, al passato, al mondo che è cattivo e che ce l’ha con noi. Responsabilità
vuol dire che accettiamo di essere noi alla guida della nostra vita e che
questa va nella direzione che noi le diamo.
La
parabola del fico completa ciò che Gesù sta dicendo. L’albero da frutto impiega
tre anni per crescere dopo i quali inizia a portare i primi frutti. L’albero
della parabola, invece, ha già sei anni e non ha ancora portato alcun frutto
(il padrone passa dopo tre anni di periodo fertile). Il fico non richiede cure
particolari, non ne ha bisogno. Ecco perché il padrone ordina di tagliarlo,
nonostante il vignaiolo chieda di fare ciò che normalmente non si fa’, tenta cioè
un’ultima possibilità.
Spesso
in passato, leggendo questa parabola, il commento era: “Che cattivo Gesù!
Perché non ha ancora un po’ di pazienza? Perché è così duro?”. In realtà la
parabola vuol solo dirci: “tu sei come quel fico!”: noi infatti possiamo portare
frutto; possiamo vivere in maniera feconda, possiamo essere felici, possiamo svilupparci,
realizzarci. Questo noi lo possiamo: la vita dà a tutti la possibilità di
portare frutto, offre occasioni speciali, particolari, ci fa incrociare
situazioni uniche affinché questo avvenga.
Tutti
noi abbiamo avuto degli incontri che ci portavano in una certa direzione. Tutti
noi abbiamo incontrato delle persone che ci facevano respirare un’altra aria.
Tutti noi abbiamo incrociato qualcuno che ci diceva: “Vieni da questa parte;
provaci; forza, vedrai che ce la puoi fare!”. Tutti noi abbiamo vissuto
situazioni particolari e tragiche (la morte di un figlio, di un parente, di un amico
carissimo; un momento difficile di vita; una sofferenza interiore; una
malattia, ecc.) che ci chiamavano nel dolore a vivere diversamente.
Cosa abbiamo
fatto noi in quelle situazioni? Rinuncia oggi e rinuncia domani, posticipa,
rimanda, tralascia, abbandona, evita, rifuggi oggi e rifuggi domani: ma verrà
un giorno in cui sarà impossibile pensare al “domani”. E l’albero verrà
tagliato: e non c’è più nulla da fare.
E non
è un giudizio o una condanna di Gesù: è solamente una conseguenza delle nostre
scelte. Del nostro troppo rimandare. Amen.
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