giovedì 25 febbraio 2016

28 Febbraio 2016 – III Domenica di Quaresima

«Quelle diciotto persone, sulle quali crollò la torre di Sìloe e le uccise, credete che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme? No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo» (Lc 13,1-9).
  
Due fatti di cronaca recente, uno consumato dalle autorità occupanti (una rappresaglia soffocata nel sangue), l’altro puramente fortuito (il crollo di una torre con numerose vittime), avevano particolarmente scosso l’opinione pubblica, soprattutto per le loro implicazioni: all’epoca infatti tutti erano fermamente convinti che il male, le disgrazie fisiche, gli infortuni, capitassero agli uomini in espiazione dei loro peccati personali o di quelli dei parenti più stretti.
Il vangelo di oggi si apre alludendo proprio a questi fatti di cronaca: alcune persone, nel riportarli a Gesù, gli avrebbero esternato tutto il loro sdegno e la loro amarezza nel constatare come una così grande quantità di persone “infedeli” fossero cadute vittime dei loro peccati.
Nella sua risposta, però, Gesù non commenta i fatti ma li usa per spezzare la mentalità del tempo. Egli in sostanza dice: “Quelli che sono morti non sono più colpevoli di voi!” (13,2.4). Cioè: “Quei poveretti non sono morti per espiare le loro colpe: anzi vi assicuro che voi che mi state ascoltando non siete di certo meno peccatori o colpevoli di loro!”.
Era una mentalità molto diffusa, ben radicata e dura a morire, che veniva motivata con l’espressione: “Chi sbaglia, deve pagare!”, dalla quale, come conseguenza, si traeva la conclusione che: “Chi ama, deve castigare”.
Una regola formativa che, pur stemperata col tempo nella sua rigidità assoluta, è giunta fino al nostro recente passato. Per cui, fino a pochi anni fa, la punizione costituiva un “dovere” per ogni buon “maestro” di vita: così, per esempio, un buon padre, per essere tale, doveva severamente punire i propri figli troppo esuberanti, “perché le piante storte vanno raddrizzate da subito, fin da giovani”.
Oggi fortunatamente questo tipo di mentalità assolutista, è quasi del tutto tramontata. Del resto, che tipo di amore può esercitare colui che per principio castiga drasticamente, umilia, ferisce o usa violenza su dei piccoli? L’esperienza ha dimostrato infatti che la punizione fisica non insegna nulla, non è mai educativa; semmai stabilisce soltanto che chi è il più forte esige obbedienza, e chi è il più debole, se non si adegua, automaticamente “le prende”. Un modo di pensare pertanto che il tempo ha dimostrato completamente errato: chi castiga, non ama; perché chi ama veramente, non può in nessun caso procurare dolore, sofferenza, umiliazione a colui che egli ama.
Intere generazioni però sono cresciute imparando a loro spese che per “essere amati” era necessario soffrire, stare male, accettare l’impossibile, rinunciare spesso alla propria dignità: così, per esempio, per salvare “l’amore” in famiglia, si accettava l’alcolismo, “le botte”, le umiliazioni, i tradimenti, gli abusi. Bisognava “portare pazienza”, perché in questo modo si acquistavano “meriti davanti al Signore”, si era dei “bravi cristiani”. È per questo che “i giovani” del secolo scorso hanno accettato cose impossibili: e quando oggi i figli o nipoti chiedono “perché”, non sanno rispondere. L’unica cosa che sanno dire è: “È sempre stato così; ci hanno insegnato così; abbiamo imparato questo”.
D’altronde l’idea “se sbagli, paghi” sta dietro anche ad un’altra espressione ancora oggi piuttosto abusata, male interpretata e male spiegata: “Dio è morto per i tuoi peccati”; una dichiarazione che ha scosso nel profondo la coscienza di intere generazioni. “Tu hai peccato, hai fatto il male e Dio ha dovuto pagare per te; Lui ha sofferto ed è morto sulla croce proprio per colpa tua, per i peccati che tu hai commesso”. Espressioni adottate molto più di frequente per noi anziani: una prospettiva che generava in noi un autentico senso di colpa, ci faceva sentire cattivi, sbagliati, fatti male, colpevoli del dolore di Gesù. Quando a Catechismo ci sentivamo dire: “Gesù è morto a causa dei tuoi peccati” non potevamo avere la capacità di capire, di renderci conto, che non si trattava dei “nostri” peccati personali; semplicemente ci sentivamo cattivi, personalmente colpevoli. E questo sentimento ci tornava puntuale e sconvolgente ogni qual volta la mamma o il papà o qualche fratellino, soffrivano, stavano male: la conclusione era sempre la stessa: “se soffrono, è per colpa mia”. E impauriti aspettavamo una punizione che prima o poi doveva arrivare.
Oggi tutto questo è tramontato, anche se talvolta possiamo ancora imbatterci in espressioni tipo: “Lo sai che con la tua cattiveria fai piangere Gesù? Perché procuri tanto dolore alla mamma? Tu mi fai morire! Con tutti i sacrifici che io e papà facciamo per te”; e non ci rendiamo conto che a lungo andare il bambino si sentirà ingrato, cattivo, senza cuore, e penserà di non poter mai essere felice. E spesso accade che questi sensi di colpa si trascinino fino all’età adulta, compromettendo uno sviluppo ed una maturità sana, aperta, propositiva, felice.
Quante persone, anche oggi, non sanno infatti divertirsi: non sanno giocare, non sanno ridere, non si concedono mai un po’ di relax, delle pause, delle cose piacevoli. Sono sempre impegnati a fare, produrre, realizzare qualcosa, pur di non fermarsi in loro stessi; sono continuamente in presa diretta, fanno di tutto, ma solo per un benessere esteriore: mai nulla per il loro benessere interiore. Ecco perché educare un bambino con il senso di colpa, significa distruggergli il piacere della vita, vuol dire avvelenargli il sangue, vuol dire: “Così non andrà mai bene; così non basterà mai; devi fare molto di più”; che, tradotto, vuol dire: “Non vali nulla, sei sbagliato!”.
Gesù dunque, con l’intervento riportato nel Vangelo di oggi, cerca di spezzare questa mentalità oppressiva: anche se subito dopo, con il seguito delle sue parole, sembra in qualche modo riproporla: “Se non vi convertirete, perirete tutti allo stesso modo” (13,3.5). Cioè: “se non cambierete vita, se non la smetterete di fare peccati, anche voi morirete allo stesso modo; farete la stessa fine di quei Galilei”.
Ma cosa vuol dire in realtà Gesù con queste parole? È per caso una frase intimidatoria, nel senso che se non cambiamo vita, Dio per punizione ci farà morire? Nossignori: Gesù non vuol dire questo. Dio non punisce, mai! Egli vuol semplicemente dire: “Guardate che tutto quello che fate ha delle conseguenze, delle ripercussioni”; in altre parole: “Se voi continuate a comportarvi negativamente , ricordatevi che il risultato che otterrete sarà altrettanto negativo! Non si tratta di una condanna, ma di una logica conseguenza.
Un giorno un Padre del deserto disse ai suoi discepoli: Vi do due notizie: una buona e l’altra cattiva. Quella cattiva è: “Se fate cose mortali, morirete”. “E quella buona?”, chiesero incuriositi i discepoli: “Che adesso lo sapete”, rispose il maestro.
La vita è nelle nostre mani e nelle nostre scelte. Molto infatti di quanto ci succede, succede perché noi lo vogliamo. È matematico. Tuttavia non dobbiamo colpevolizzarci, né cercare di ignorare o sottovalutare questa “legge” così dura: dobbiamo solo imparare umilmente a non ripetere gli stessi errori che ci hanno messo in tale situazione.
Convertirsi vuol dire infatti cambiare drasticamente direzione; shub in ebraico indica proprio un cambio radicale di rotta: stiamo andando in una certa direzione, ci accorgiamo che è sbagliata, dobbiamo cambiare strada; ecco, in questo consiste “convertirsi”: dobbiamo cioè fare una decisa inversione a “U”.
Molti dei nostri comportamenti ci portano inevitabilmente a morire dentro, ci riducono alla superficialità, ci allontanano sempre più dal nostro cuore e da noi stessi. Il fatto è che purtroppo non ce ne accorgiamo.
Quando ad un certo punto ci succede il “dramma”, quando cioè le nostre azioni, il nostro comportamento ci si ritorce “contro”, piangiamo e diciamo: “Com’è stato possibile? Perché ci è successo questo? Perché Dio mi ha fatto questo?”. Ma Dio non c’entra: la causa siamo noi: sapevamo dove andare, ma volutamente abbiamo continuato a correre per la strada sbagliata, che ci ha portato inevitabilmente nel precipizio. Era chiarissimo, ma non abbiamo voluto vedere. Allora, finché siamo in tempo, convertiamoci, svegliamoci, accorgiamoci, perché verrà un momento in cui sarà troppo tardi.
Oggi è stato ampiamente dimostrato che perfino molte infermità sono conseguenza dei nostri comportamenti, dei nostri vissuti profondi, dei nostri schemi mentali: allergie, intolleranze, malattie psico-somatiche, affliggono l’umanità a seguito di determinati e ben precisi comportamenti. Non sono una “punizione”, ma non dipendono neppure da elementi patogeni esterni. Nascono per motivo interiori ben precisi.
Allora “convertirsi” vuol dire aprire gli occhi, smettere di dormire, accorgersi, farsi aiutare, riconoscere, rendersi conto, vedere ciò che dobbiamo vedere anche se all’inizio può essere difficile. Solo se vediamo, se riconosciamo, se avvertiamo, riusciamo a troncare certe spirali che ci portano a morire dentro e fuori.
Responsabilità (da respondeo, rispondere, risposta) vuol dire che noi rispondiamo in prima persona della nostra vita, che non deleghiamo, che non scarichiamo le colpe della nostra vita alla società, agli altri, al passato, al mondo che è cattivo e che ce l’ha con noi. Responsabilità vuol dire che accettiamo di essere noi alla guida della nostra vita e che questa va nella direzione che noi le diamo.
La parabola del fico completa ciò che Gesù sta dicendo. L’albero da frutto impiega tre anni per crescere dopo i quali inizia a portare i primi frutti. L’albero della parabola, invece, ha già sei anni e non ha ancora portato alcun frutto (il padrone passa dopo tre anni di periodo fertile). Il fico non richiede cure particolari, non ne ha bisogno. Ecco perché il padrone ordina di tagliarlo, nonostante il vignaiolo chieda di fare ciò che normalmente non si fa’, tenta cioè un’ultima possibilità.
Spesso in passato, leggendo questa parabola, il commento era: “Che cattivo Gesù! Perché non ha ancora un po’ di pazienza? Perché è così duro?”. In realtà la parabola vuol solo dirci: “tu sei come quel fico!”: noi infatti possiamo portare frutto; possiamo vivere in maniera feconda, possiamo essere felici, possiamo svilupparci, realizzarci. Questo noi lo possiamo: la vita dà a tutti la possibilità di portare frutto, offre occasioni speciali, particolari, ci fa incrociare situazioni uniche affinché questo avvenga.
Tutti noi abbiamo avuto degli incontri che ci portavano in una certa direzione. Tutti noi abbiamo incontrato delle persone che ci facevano respirare un’altra aria. Tutti noi abbiamo incrociato qualcuno che ci diceva: “Vieni da questa parte; provaci; forza, vedrai che ce la puoi fare!”. Tutti noi abbiamo vissuto situazioni particolari e tragiche (la morte di un figlio, di un parente, di un amico carissimo; un momento difficile di vita; una sofferenza interiore; una malattia, ecc.) che ci chiamavano nel dolore a vivere diversamente.
Cosa abbiamo fatto noi in quelle situazioni? Rinuncia oggi e rinuncia domani, posticipa, rimanda, tralascia, abbandona, evita, rifuggi oggi e rifuggi domani: ma verrà un giorno in cui sarà impossibile pensare al “domani”. E l’albero verrà tagliato: e non c’è più nulla da fare.
E non è un giudizio o una condanna di Gesù: è solamente una conseguenza delle nostre scelte. Del nostro troppo rimandare. Amen.



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