«In quel tempo, Gesù prese con
sé Pietro, Giovanni e Giacomo e salì sul monte a pregare. Mentre pregava, il
suo volto cambiò d’aspetto e la sua veste divenne candida e sfolgorante» (Lc 9,28-36)
Per
capire pienamente il vangelo di oggi, la Trasfigurazione di Gesù sul Tabor, dobbiamo
fare un passo indietro. Poco prima di questo episodio, Gesù rivela ai suoi che
Egli “deve andare a Gerusalemme e
soffrire molto da parte degli anziani e dei sacerdoti; che verrà ucciso, ma il
terzo giorno sarebbe risorto”(Mt 16,21).
La
reazione di Pietro è immediata e più che ovvia: lo prende in disparte e gli
assicura: “Questo non ti accadrà mai!”; ma Gesù, interpretando queste parole come
un’azione di Satana, gli risponde seccamente: “Via da me, satana!”: ripete cioè le stesse parole che aveva usato nel
deserto per il diavolo.
Come
mai Pietro non accetta questo annuncio di Gesù? Perché non è per niente in
linea con quello che i discepoli e la gente si aspettava da Lui, dal Messia. Tutti
infatti pensavano a Gesù come ad un Messia trionfalistico; ad uno cioè che calcasse
le orme di Mosè e di Elia, i due antichi personaggi, che nella mentalità comune
rappresentavano la Legge e i Profeti, ossia la promessa di Dio; in altre parole,
il massimo che per quel tempo si potesse immaginare. Come mai? Mosè era stato
il grande liberatore e il grande condottiero che aveva liberato il popolo dalla
schiavitù; era stato così grande e così vicino a Dio da ricevere le Tavole
della Legge, e da poter ammirare la gloria stessa di Dio. Elia, invece, era
stato il più grande profeta, colui che aveva ripulito Israele da tutti i falsi
sacerdoti di Baal: in un solo giorno aveva ucciso 450 falsi sacerdoti (1Re 18,20-46), scannandoli con le
proprie mani. Anche Lui aveva parlato e incontrato Dio.
Due
personaggio insomma che, secondo la tradizione popolare, non sarebbero morti,
ma rapiti in cielo (Dt 34,6; 2Re 2,11).
Per questo tutti si aspettavano il loro ritorno alla fine dei tempi.
Cresciuti
con queste convinzioni, i discepoli che seguono Gesù, si aspettano quindi che Egli
assomigli a loro, che sia cioè, come Mosè ed Elia, potente, trionfante, giusto,
liberatore. Non possono accettare un Gesù che parla di passione e morte: per le
loro menti la morte è la fine di tutto, è il fallimento della sua missione.
E
allora cosa fa Gesù? Prende con sé Pietro, Giovanni e Giacomo, (e siamo al
vangelo di oggi), sale su un monte alto e si apparta a pregare.
E qui
Gesù chiarisce le cose: Mosè ed Elia discorrono con Gesù. Non è più Gesù che
deve essere come Mosè e come Elia, ma sono Mosè ed Elia che discorrono, che
sono visti in funzione di Gesù.
Pietro,
nonostante sia completamente rapito, frastornato da questa visione (“Facciamo
tre tende, una per te, una per Mosè, una per Elia”) continua a mettere Mosè e
non Gesù al posto d’onore, al centro dei tre (al centro ci sta la figura più
carismatica, quella più importante). Continua cioè a rimanere fisso e ancorato
ai suoi schemi, continua a vedere Gesù come il Messia che tutti si aspettano.
Ma Gesù non è così. E la voce di Dio scioglie ogni dubbio: “Questi è il Figlio mio, l’eletto; ascoltatelo!”. È Gesù che va
ascoltato e non Mosè o Elia, grandi personaggi certo, ma niente in riferimento
a Gesù.
E
questo per noi costituisce un fatto importante ed emblematico: tutto l’Antico
Testamento (la Legge e i Profeti), ha cioè senso, solo se passano attraverso
Gesù. Se non è in sintonia con il messaggio di Cristo non ha valore per la vita
del credente.
Gesù
quindi delude le aspettative della gente e dei discepoli: non è come volevano
che Lui fosse. Invece del Messia forte e potente, è un Messia sofferente e
debole: Gesù non sarà come Mosè e non sarà come Elia: non romperà la testa e
non ucciderà tutti gli operatori di iniquità di Gerusalemme, ma saranno loro,
al contrario, a ucciderlo. Gesù sarà solo se stesso, sarà Gesù e basta! Egli non
ha paura di esser se stesso, anche se ne conosce bene le conseguenze: l’impopolarità.
Anche
per noi, essere noi stessi, comporta spesso grossi disagi: ma il beneficio enorme
che ne ricaviamo, è l’autenticità, l’essere felici di ciò che siamo, avere la
forza di vivere la nostra vita dovunque ci porti, perché questa noi siamo.
Essere noi stessi, essere veri, viversi, infonde vitalità e forza impagabili.
Qual è
allora l’unica via sicura e infallibile per realizzarci? Vivere la nostra originalità.
Noi
siamo unici: è per questo che ci siamo. Siamo tutti figli unici di Dio! Se non
fosse così non ci saremmo, perché il nostro esserci non avrebbe senso. Le
fotocopie in natura non esistono; Dio fa nascere solo pezzi unici, il resto non
serve.
La
maggior parte delle persone, per essere accettata, per non essere allontanata,
accantonata, tende a conformarsi agli altri, cerca di fare come fanno tutti. Per
questo i bambini hanno la necessità di rimanere nel loro ambiente, nella loro
famiglia; per questo si adattano, volenti o nolenti, a quanto viene loro richiesto.
Un bambino non può permettersi di essere cacciato dalla propria famiglia: ne morirebbe.
Non gli rimane che adattarsi. Ma noi non siamo più bambini. Siamo grandi, siamo
adulti, e siamo qui a questo mondo per vivere autonomamente il nostro destino, per
compiere la nostra personale missione, per far emergere la nostra unicità, la
nostra originalità. È ovvio che, se noi siamo noi stessi, normali, vitali, non
assomigliamo a nessuno. Come è altrettanto ovvio che se siamo esattamente come
gli altri, non siamo più noi stessi. Essere come tutti vuol dire pertanto aver
fallito in pieno la nostra unicità.
Noi
dobbiamo sempre andare avanti per la nostra strada. Nostro unico modello da
seguire è Gesù che fu davvero unico, diverso da tutti, “fuori” da tutti gli
schemi: chi segue Dio non può seguire nessun altro. Quando apparteniamo a Dio,
infatti, quando lui è la nostra famiglia, non abbiamo più bisogno di cercare l’appartenenza
a “famiglie umane”: perché allora siamo liberi da ogni appartenenza, siamo
liberi dal doverci conformare agli altri per paura di rimanere soli o rifiutati.
Noi apparteniamo a Lui; e se Lui è con noi, non siamo mai soli. La nostra libertà
viene dall’appartenere a Dio: quando siamo Suoi non abbiamo bisogno di essere
di altri. Se siamo di altri, lo ripeto, non siamo più Suoi!
La
felicità viene dall’amore. Quando siamo innamorati lo capiamo subito! La vera felicità
viene infatti dal sentire che qualcuno è con noi, che sta con noi, che è dalla nostra
parte, che condivide tutto di noi. È una sensazione esplosiva, una vigorosa sferzata
alle nostre potenzialità, una iniezione di forza, di coraggio di voglia di combattere
e di andare avanti.
È la
nostra trasfigurazione: è la forza che ci proviene dalla consapevolezza di ciò
che siamo e di ciò che dobbiamo fare: allora il tempo può anche scorrere
intorno a noi, ma noi abbiamo un obiettivo ben preciso; allora viviamo ma la
nostra vita, le nostre fatiche, le nostre lotte, hanno un senso ben preciso;
allora non ci lasciamo distrarre da cose inutili, ma ci concentriamo in quella che
è la nostra meta; allora ci rendiamo conto che la nostra esistenza, il nostro
esserci, è in se stesso una benedizione per noi e per il mondo; allora capiamo che
per noi è un bene esserci, non per essere accettati da tutti, ma perché la Vita
ha bisogno di noi.
Quando
poi arriveremo a capire anche che tutto ciò che abbiamo vissuto nella nostra
vita è nostro e ci riguarda, che tutto “doveva” essere proprio così, e che è
bene che sia stato così, che non poteva essere altrimenti, allora la nostra
vita diventerà luminosa, chiara, tutto verrà integrato al suo posto: perché capiremo
e accetteremo che tutto “viene da Dio”.
Di
fronte ad una esperienza dolorosa, infatti, noi abbiamo due modi di porci: una
negativa, di fastidio, di repulsione: “Perché proprio a me? Cos’ho fatto io di
male da meritarmi questo? Non lo accetto!”. L’altra positiva: “Cosa vuol dirmi
Dio, la Vita, con questa prova? Cosa vuole insegnarmi? Che messaggio devo
cogliere per il mio bene?”. Ebbene: quest’ultimo è il presupposto giusto per
adeguarci umilmente al volere divino, perché nulla di ciò che ci accade è senza
senso, nulla senza un significato recondito importante; tutto, invece, contiene
un messaggio, un suggerimento per noi, e per questo dobbiamo imparare a
decifrarlo; tutto ci riguarda, tutto serve per la nostra missione. La vita allora
non è più questione di fortuna o di sfortuna, ma tutto ciò che succede è un
modo con cui essa cerca di aiutarmi, con cui mi allena a tirar fuori le mie
capacità, ciò che sono.
Dobbiamo
solo smetterla di lamentarci, di fare le vittime, perché in questo modo
rischiamo di sabotare sistematicamente la nostra vita, non sapendo cogliere i
tanti inviti alla felicità.
Impariamo
a “trasfigurarci”: sì, perché “trasfigurazione” significa “felicità”. È stato
così per Gesù: con la sua trasfigurazione Egli ha guardato dentro di sé, ha
avuto l’esatta immagine di se stesso, e si è sentito approvato e confortato
dalla voce del Padre. È così anche per noi. La felicità sta tutta qui: guardarsi
dentro, vedere la vera faccia delle cose; non quel che appare all’esterno, l’immagine
esteriore, ma quello che c’è all’interno (la tras-figurazione, l’essenza).
Trasfigurazione infatti è quando percepiamo al di là dei nostri limiti e della nostra
debolezza, chi noi siamo e cos’è la nostra vita. È andare all’essenza, al
centro delle cose; è la visione della realtà. La nube, la quotidianità, la
forma, la materia, spesso la nasconde: ma la nostra trasfigurazione, il nostro sguardo
carico di luce divina, la penetra, permettendoci di vedere distintamente l’essenza,
la bellezza della vita.
La
vita è lavoro e durezza ma in certi giorni, sentendoci pienamente soddisfatti e
realizzati, ci viene anche da dire: “Ora potrei anche morire, tutto il bello
che poteva capitarmi, l’ho provato, ne sono pieno!”; ebbene, questa è
trasfigurazione, è felicità.
Un
fiore, un tramonto, il volo degli uccelli, non è niente di particolare: ma se lo
“guardiamo”, entriamo dentro e possiamo emozionarci per ciò che vediamo. Non siamo
matti, infantili o femminucce: è trasfigurazione. Se ci capita di piangere, di commuoverci
rimanendo estasiati e senza parole di fronte a parole come: “Ti amo!”, oppure: “Mi
sposi?”, oppure: “Sono incinta, aspettiamo un figlio!”, questa è
trasfigurazione. Se ci è capitato di prendere in braccio nostro figlio appena
nato, di guardarlo e di chiederci: “Viene da me? L’ho fatto proprio io?”, e di rimanere
attoniti, increduli di fronte a tale miracolo, tanto da non volerci più distaccare
da lui, ebbene, questa è trasfigurazione.
Se ci
è capitato di piangere solo perché eravamo felici, per nessun altro motivo, questa
è trasfigurazione. Se ci è capitato di innamorarci, di perdere la testa per
qualcuno, di provare un’emozione che fa battere all’impazzata il nostro cuore, questa
è trasfigurazione. Se ci è capitato di appassionarci per la musica, per la
poesia, per la verità e decidiamo di voler vivere solo per questi ideali, ebbene:
anche se il mondo ci tratterà da matti, noi conosceremo la felicità. Se ci è
capitato un fatto che ci ha stravolto la vita, che ci ha salvato, per cui non
siamo e non vogliamo più essere quelli di prima, sentendoci intimamente “toccati”,
questa è trasfigurazione. Se ci è capitato di essere attaccati, osteggiati,
accantonati per ciò che crediamo, per le nostre idee ma, pur soffrendo, non siamo
scesi a compromessi, non abbiamo patteggiato, ma siamo rimasti noi stessi,
autentici, questa è trasfigurazione. Allora possiamo guardarci allo specchio
con la dignità di un uomo e il coraggio di un guerriero.
Il
monte della Trasfigurazione è la nostra anima, il nostro cuore: lì noi capiremo
l’essenziale. Lì sentiremo la voce di Dio che ci dice: “Tu hai il diritto e il
dovere di essere felice: di una felicità che non è possedere, ma di far vivere
la luce, la missione, la vita, le doti, che sono in di te”.
Ecco: Dio
è in ognuno di noi e chiede di essere manifestato. Noi siamo in Dio e non abbiamo
nulla da temere perché siamo al sicuro: la nostra felicità sta quindi nel poter
scorgere questa luce che è in noi, nel poter scorgere il Divino, la Bellezza
assoluta che risiede in noi, e di testimoniarla a tutto il mondo. Noi abbiamo
bisogno di questa bellezza. Impariamo allora ad esclamare più spesso: “che
bello!”. Quando entriamo in chiesa per la Messa, gridiamolo nel nostro cuore: “che
bello!”. Ripetiamolo quando ci alziamo, nel silenzio, nel canto, nell’omelia,
nella comunione: “che bello!”. La Messa che noi celebriamo la Domenica deve
sempre essere il nostro salire sul Tabor per riempirci occhi e cuore della
bellezza di Dio. Facciamo delle nostre liturgie, dei momenti di bellezza!
Bellezza della Parola, degli arredi, del canto, del silenzio, dello stare
insieme come comunità... Non adagiamoci mai sulla bruttezza; il nostro sguardo
non indugi continuamente su ciò che non va bene! Il nostro dovere di cristiani è
di essere più contagiosi, più convincenti nel professare: “Signore, è bello per
noi essere qui, alla tua presenza!”.
Un
giorno un ciliegio chiese ad un mandorlo: “Parlami di Dio!”, e il mandorlo
fiorì!... e fu per lui trasfigurazione, fu per lui bellezza! Amen.