«Dopo tre giorni lo trovarono
nel tempio, seduto in mezzo ai maestri, mentre li ascoltava e li interrogava. E
tutti quelli che l’udivano erano pieni di stupore per la sua intelligenza e le
sue risposte» (Lc 2,41-52).
Luca,
nel vangelo di oggi, ci presenta la prima e unica volta in cui Maria parla a
Gesù. Egli, tra l’altro, è l’evangelista che più esalta Maria: ebbene, l’unica
volta in cui Maria parla a Gesù si deve sorbire un duro rimprovero.
La Liturgia
ci presenta questo vangelo a modello della festa della Santa Famiglia, ma a
dire il vero più che una santa famiglia sembra una famiglia un po’ scombinata. È
un episodio in cui nessuno ci fa una bella figura.
Non ci
fanno bella figura i genitori che perdono il figlio e non se ne accorgono! Se
ne accorgono dopo una giornata di cammino: ma come si fa!
Non fa
una bella figura Gesù: “Volevi rimanere a Gerusalemme? Potevi almeno avvisarci!”,
gli dicono giustamente Maria e Giuseppe. E quando i genitori lo trovano dopo
tre giorni gli dicono: “Eravamo angosciati, ti cercavamo! Perché ci hai fatto
questo?”, Gesù sembra non capire, e li rimprovera: “Perché mi cercavate?”. Poi
li tratta da impreparati: “Non sapevate che devo fare le cose del Padre mio?”.
Non fa
una bella figura Giuseppe che non vede rispettata la sua autorità di padre né
da parte di Gesù (“Cosa vuoi da me!”) ma neppure da sua moglie visto che è lei
che interviene, togliendogli la parola (era solo il padre che aveva l’autorità per
parlare).
Inoltre,
l’unico che ha un nome è Gesù: si parlerà di padre e di madre, di genitori ma
non saranno mai nominati né Giuseppe né Maria. Egli ha dodici anni: non è quindi
ancora adulto (lo si diventava a tredici anni), ma era usanza far partecipare a
quel pellegrinaggio al Tempio anche i ragazzi dodicenni per abituarli al
compimento del precetto che l’anno seguente sarebbe diventato obbligatorio.
Luca dice
poi che “i suoi genitori, tutti gli anni si recavano a Gerusalemme per la festa
di Pasqua”. Quindi, quella di Gesù, è una famiglia religiosa, una che segue
scrupolosamente le tradizioni dei padri. Ma qui Luca più che dei fatti storici vuole
sottolinearci un pensiero teologico: che a Gesù, cioè, non interessa tanto la
tradizione dei padri, quanto di seguire la volontà del “Padre”. E questo è e
sarà sconcertante non solo per la sua famiglia ma per tutto il popolo. Perché
tutti si aspettavano il Messia in un certo modo e invece Gesù sarà
completamente diverso.
Maria
e Giuseppe lo sanno già, ma non l’hanno ancora capito. Pensano infatti che Gesù
li segua, che segua la tradizione d’Israele. Non capiscono invece che saranno
loro a dover seguire Gesù.
“Credendo che egli fosse nella
comitiva, fecero una giornata di viaggio, e poi si misero a cercarlo tra i
parenti e i conoscenti; non avendolo trovato, tornarono in cerca di lui a
Gerusalemme”. E
lo trovano nel Tempio, “seduto in mezzo
ai maestri”: lo stare in mezzo è l’immagine
con cui la Bibbia presenta la sapienza
di Dio: Gesù quindi viene presentato come la sapienza divina che “ascolta” ma
che soprattutto “interroga”. E quelli che lo udivano “erano pieni di stupore per la sua intelligenza e le sue risposte” (Lc
2,47).
Più
che stupiti, i dottori della Legge sono
“indispettiti”, poiché non accettano
le risposte di Gesù; non accettano per principio che qualcuno venga a fare il
maestro in casa loro! Tant’è che la volta successiva in cui Gesù entrerà nel
tempio, essi cercheranno di ucciderlo.
Oltretutto
che fa questo ragazzo? Parla di Dio in una maniera completamente nuova, completamente
diversa da quella che essi conoscono e che impongono al popolo: una maniera che
solo Lui, come Figlio di Dio, conosce e può sperimentare.
“Al vederlo restarono stupiti”
(Lc 2,48). I
suoi genitori rimangono sbigottiti, esterrefatti, per ciò che vedono: no, questo
figlio non segue la tradizione; non si comporta come loro.
E qui
Maria commette il primo errore: lo chiama “figlio” (Lc 2,48) e usa il termine teknon che significa “quello che io ho partorito”: include
cioè una connotazione di dipendenza, di legame fisico, che Gesù non accetta.
Mai nel Nuovo Testamento questo termine riapparirà applicato a Gesù. In questo
caso, per Maria, per la madre, il figlio è qualcuno sul quale lei ha dei diritti,
e il figlio è qualcuno che ha dei doveri nei suoi confronti. Potremo tradurlo
in italiano “bambino mio” (non “figlio”, che in greco è “uios” non “teknon”) tu
sei “quello che io ho partorito”, ossia “quello che mi appartiene”.
E
subito dopo viene il secondo errore della madre: “Ecco, tuo padre e io angosciati ti cercavamo” (Lc 2,48). E Gesù: “Perché mi cercavate?”. Una risposta, secondo
il nostro modo di pensare, assolutamente assurda! Ma non lo è, se seguiamo il
ragionamento di Gesù. Anzi la sua è una risposta perfetta, una risposta teologica:
Egli praticamente sta prendendo le distanze dalla tradizione di Israele: “Perché
mi cercavate nella carovana della tradizione? Lo sapete che io non sono lì!
Perché mi cercate lì?”. E conclude con il : “Non
sapevate...?” (Lc 2,49). Ebbene, cos’è che dovevano sapere? La madre ha
commesso l’errore di dire “tuo padre e io”.
“No, attenta Maria; ricordati che mio Padre non è Giuseppe. Il Padre mio è
qualcun altro. Tu Maria, lo devi sapere molto bene! Ti ricordi le parole dell’angelo?
O te le sei dimenticate?”.
Gesù quindi
è estremamente chiaro: io non devo occuparmi di Giuseppe o delle tradizioni ma,
letteralmente, è necessario che io sia “en
tòis tù patròs mù”: devo cioè essere “nelle cose del Padre mio” (Lc 2,49).
In altre parole: “Mio padre non sei tu, Giuseppe, ma Dio”.
Ed
ecco il finale: “Ma essi non compresero
le sue parole” (Lc 2.50). E possiamo anche capirli!
E
questo sarà il motivo conduttore di tutto il vangelo: Gesù nessuno lo capisce:
né i suoi genitori, né sua madre, né le autorità religiose, né le istituzioni.
Gli unici a capirlo sono quelli lontani da Dio.
Il testo
poi prosegue dicendo subito dopo (ma non compare nel vangelo di oggi): “Maria serbava tutte queste cose nel suo
cuore”. Ecco, questa è la grandezza di Maria: non capisce ancora il vero
senso delle cose, ma rimane aperta. Maria accoglie questi semi, anche se per
lei sono sconosciuti o assurdi: un giorno fioriranno.
E
concludo: cosa può dire a noi questo vangelo? Che noi nasciamo da nostro padre
e nostra madre, è vero: loro ci hanno dato la vita, ma non sono la nostra vita.
Li ringraziamo, li onoriamo per un dono che non potremo mai ricambiare ma noi
abbiamo un compito e una missione.
Quando
un genitore fa di suo figlio la sua unica ragione di vita, vuol dire che questo
genitore ha perso la sua vera ragione di vita. Perché dimostra di essere una
persona senz’anima, senza prospettive soprannaturali, senza nessun’altra missione,
come conseguenza, che quella di ridurre il figlio una sua esclusiva proprietà, uno
a suo completo servizio (visto che gli ha dato la vita!).
Noi
abbiamo delegato la vocazione divina ad alcune persone (preti, suore, ecc.),
come se solo loro avessero una chiamata da Dio. In questo modo ci siamo sì, messi
a posto la coscienza, ma non certamente il cuore. Ci siamo mai chiesti perché in
certi momenti siamo così tristi? Perché tutti abbiamo un’anima: e la nostra anima,
in questa vita, ha una missione, uno scopo ben preciso. Tutti infatti siamo dei
“chiamati”. Possiamo raccontarcela come vogliamo, ma nessuno di noi è qui per caso.
Possiamo far finta di nulla: nella vita possiamo dedicarci a tutt’altre cose, ma
la nostra anima continuerà a desiderare di essere, di fare, di vivere, ciò per
cui è stata creata.
La
felicità vera è scoprire appunto ciò per cui esistiamo: e siamo infelici quando
pensiamo di essere qui per caso, senza uno scopo. Ci sentiamo sperduti perché
non sappiamo dove andare (una vocazione è un riferimento chiaro). Siamo
annoiati, vuoti, perché scegliamo a casaccio, perché non sappiamo cosa ci serve
per davvero, non sappiamo ciò che scegliamo. Siamo pieni di paura perché non
abbiamo la forza di seguire la nostra vocazione (tutto è possibile per chi sa
dove andare). Le persone fanno tante cose nella vita, ma vivere la propria
vocazione, è un’altra cosa! Gesù stesso ha detto: “Io devo occuparmi delle cose
del Padre mio”. Anche noi abbiamo una vocazione, non dimentichiamocelo mai!
Amen.