GLI AUGURI PIU' CORDIALI A TUTTI
giovedì 24 dicembre 2015
venerdì 18 dicembre 2015
20 Dicembre 2015 – IV Domenica di Avvento
«In quei giorni Maria si alzò e
andò in fretta verso la regione montuosa, in una città di Giuda» (Lc 1,39-45).
Siamo
alla quarta domenica del tempo di Avvento, la domenica prima del Natale.
Il
vangelo di oggi ci presenta l’incontro tra Maria ed Elisabetta, tra queste due
donne che sono “parenti” non tanto di sangue, ma soprattutto per quanto sta loro capitando e che le accomuna entrambe: l’una e l’altra cioè hanno gravidanze impossibili; l’una e l’altra
hanno mariti scettici; l’una e l’altra hanno figli “particolari”; l’una e l’altra
sono madri di una novità che non conoscono e che le supera.
Si capiscono bene, proprio perché vivono cose simili.
Si capiscono bene, proprio perché vivono cose simili.
Maria
quindi, dal nord della Galilea, si mette in viaggio, in fretta, verso il sud
della Giudea.
Facciamo
mente locale per un attimo: Maria intraprende da sola un viaggio di molti giorni; una donna a quel tempo, se da sola
(!), era esposta a pericoli di ogni genere! Inoltre, per scendere dalla Galilea alla
Giudea, era necessario allungare di molto il viaggio, almeno di tre o quattro giorni, per evitare di passare
attraverso la Samaria, secolare nemica dei Giudei. Insomma, una impresa impensabile.
Ma lei è decisa: si alza e parte! A volte noi immaginiamo Maria come modello di umiltà, di
silenzio, di riservatezza: una donna dimessa che ubbidisce sempre e se ne sta zitta, nella sua stanzetta, una madre tutta casa e preghiera. Ma dai vangeli non appare affatto così: è una donna risoluta, forte, coraggiosa, intraprendente.
Del
resto c'era voluto un bel coraggio per dire “sì” ad una maternità come la sua, per affrontare il giudizio di Giuseppe, dei famigliari, della gente, per acclamare apertamente, nella sua condizione femminile di quel tempo: “Dio rovescia i potenti... rimanda i ricchi
a mani vuote... disperde i superbi...”. Poteva essere vista come sovversiva, e andare incontro a gravi conseguenze!
Il
vangelo ci dice dunque che Maria ha fretta, ma non dice il perché. Dice però
che arrivata da Elisabetta, entra “nella
casa di Zaccaria e salutò Elisabetta”. Ha cioè così tanta fretta da
dimenticarsi di salutare Zaccaria, il padrone di casa? Forse che durante il viaggio è diventata improvvisamente scortese, maleducata? Oppure c’è dell’altro,
un qualcosa successo proprio in quella casa? Zaccaria in effetti era rimasto
muto (e sordo!) perché era stato refrattario all’annuncio di Dio: egli,
sacerdote e religioso, aveva rifiutato lo Spirito Santo, aveva rifiutato l’annuncio
di Dio.
Maria
ed Elisabetta, invece, lo Spirito Santo lo hanno accolto. E questo Spirito le ha riempite non solo di un figlio ma di una gioia, di una sensibilità, di
una profondità che Zaccaria non può avere.
In
pratica Luca vuol dirci: solo chi è vivo può capire la vita; solo chi è
innamorato può capire l’amore; solo chi ha la gioia può capire certi gesti. Zaccaria
non può capire; Zaccaria non può vibrare; non sa entusiasmarsi, non sa
stupirsi, non sa meravigliarsi, non sa piangere, non sa rallegrarsi, non ha
quel cuore che queste donne hanno. Il suo è un cuore morto. Soltanto chi ha il
cuore vivo, pieno d’amore, chi ha il cuore grande, può capire l’annuncio di
Dio, ed ha fretta, come Maria, di condividerlo. Gli altri non possono capire
perché sono legati alle logiche della mente umana, alle logiche economiche, alle
logiche finanziarie, della paura.
Osserviamo poi cosa dice il vangelo in proposito: “Appena Elisabetta
ebbe udito il saluto di Maria, il bambino le sussultò in grembo. Elisabetta fu
piena di Spirito Santo” (1,41). Il Battista, già dal ventre di Elisabetta
riconosce Gesù nel ventre di Maria. Non per niente il Battista dirà di Gesù: “Costui vi battezzerà in Spirito Santo” (Lc
3,16). In pratica il Battista riconoscerà l’attività di Gesù come quella di
colui che immerge le persone non più nell’acqua, come lui, ma nello Spirito.
Luca qui sta facendo teologia e non storia: vuol dirci cioè che il Battista
riconosce fin dall’inizio l’opera e l’operato di Gesù: riconosce cioè in Lui proprio
Colui che deve venire.
Inoltre,
il saluto di Maria, che è piena di Spirito Santo, trasmette ad
Elisabetta lo stesso Spirito. Maria passa ad Elisabetta ciò che vive, ciò che
possiede, ciò che ha. Maria è piena di Spirito e passa lo Spirito. Ognuno passa quello che ha, quello che è. Il loro saluto cioè è uno scambio, una comunicazione di
percezioni, di energie vitali, di vibrazioni dell’anima. È quell’incontro in cui,
al di là dei discorsi, i cuori e le anime si sfiorano e si toccano.
Le loro parole sono piene di significato, sono “pesanti”, profonde.
Noi, invece, parliamo tanto, proprio perché comunichiamo poco. Riempiamo con le
parole il vuoto di senso del nostro parlare.
“Elisabetta fu piena
di Spirito Santo”: lo Spirito non possiede il sacerdote
(Zaccaria) ma soltanto chi accoglie Dio (Elisabetta). Maria è quindi la prima profetessa;
Elisabetta la seconda.
Poi
Elisabetta dice: “A che debbo che la
madre del mio Signore venga a me?”. Lo Spirito che è in lei, le fa
cambiare anche il modo di vedere: ora Maria non è più tanto una sua “parente”, ma la “madre
del suo Signore”, cioè la Madre del Messia atteso. Per chi ha fede i legami dell’anima sono
più importanti dei legami di sangue. E conclude: “beata colei che ha creduto
nell’adempimento delle parole del Signore”.
La lode a Maria è una evidente disapprovazione
nei confronti di Zaccaria suo marito. Egli, che doveva essere profeta, è muto;
Maria, invece, che non era nessuno, è piena di Spirito; Maria è beata, ossia “graziata”,
perché ha creduto alla parola del Signore; Zaccaria è “disgraziato” (=senza
grazia) perché non ha creduto. Maria ha creduto a qualcosa che non era mai
accaduto nella storia di Israele e si è fidata. Zaccaria invece, il sacerdote,
non ha creduto a qualcosa che era successo e capitato tante altre volte (la
nascita di figli da donne sterili, come Sara o Rebecca). È la prima beatitudine
del vangelo:“Beata colei che ha creduto”; una beatitudine che esalta non tanto
la maternità di Maria ma la sua fede. Maria per il vangelo è grande non tanto
per la maternità ma per la fede che ha avuto: ha creduto dove nessun altro lo
ha fatto.
Questo
vangelo ci dice appunto una cosa molto importante: ciò in cui noi crediamo davvero, con tutto il cuore, ci trasforma completamente, e passa da noi agli altri trasformando anche loro.
Maria crede fermamente che suo figlio è “divino”:
e suo figlio sarà il Messia, il Figlio di Dio. Elisabetta crede che suo figlio
è “divino”: e suo figlio diventerà l’Annunciatore di Dio. Maria ed Elisabetta
credono alla grandezza dei loro figli ancor prima che nascessero; e i bambini,
appena concepiti, già percepiscono questa fede, questa fiducia, questa
grandezza, questo valore, nel pensiero delle loro madri: e poi realizzeranno in pieno, quel valore che esse avevano da subito accreditato loro.
E noi?
Ci pensiamo come esseri divini? Abbiamo nei confronti nostri e di chi ci sta
vicino quello stesso atteggiamento che Maria ed Elisabetta hanno avuto per i
loro figli: stima, consapevolezza, meraviglia, fiducia, amore? Tutti noi siamo
destinati ad essere “divini”: ma solo se avremo una grande fede, come la loro, saremo convinti e potremo diventarlo veramente. Se invece, come Zaccaria, ci
lasciamo vincere dalla paura, rimarremo degli essere incompiuti, infelici, incompleti;
non aprendo il nostro cuore alla fede, perderemo la grande possibilità di
diventare Amore nell’Amore. Infatti, solo credendo profondamente ci convinceremo della nostra “divinità”, e faremo di tutto per tornare ad essere come siamo stati pensati. Amen.
giovedì 10 dicembre 2015
13 Dicembre 2015 – III Domenica di Avvento
«Poiché il popolo era in attesa
e tutti, riguardo a Giovanni, si domandavano in cuor loro se non fosse lui il
Cristo, Giovanni rispose a tutti dicendo: «Io vi battezzo con acqua; ma viene
colui che è più forte di me, a cui non sono degno di slegare i lacci dei
sandali. Egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco» (Lc 3,10-18).
Giovanni
Battista fu il più grande profeta del suo tempo. La sua predicazione era
esigente e dura, senza compromessi, e in sostanza affermava: “Dio sta per
venire, state attenti!. Se non fate frutti di conversione, se non vi pentite,
se non cambiate, non avete scampo”. Il Dio del Battista era pertanto un Dio severo, un
Dio che incuteva timore: “Se non siete a posto, sarete condannati”. Parole che imponevano un esame profondo della propria vita e un conseguente cambiamento di rotta, una sincera conversione mediante il battesimo nelle
acque del Giordano.
Ebbene: il
vangelo di oggi ci presenta un piccolo spaccato dell'ambiente: di quello che succedeva intorno al Battista, di quello che la gente voleva sapere da lui, delle domande più
frequenti che gli venivano rivolte; domande che lasciavano trasparire la
volontà di cambiare vita: “Che cosa
debbo fare?”. È la prima domanda spontanea che uno in difficoltà pone a colui che
ritiene in grado di potergli dare una risposta valida e pertinente. E Giovanni lo era
in tutti i sensi.
Troppo
spesso però, soprattutto ai nostri giorni, la stessa domanda viene posta a
personaggi di tutt'altro genere, personaggi scadenti che si auto propongono falsamente come “ispirati”, personaggi che in
realtà sono dei ciarlatani, degli approfittatori: “Cosa devo fare?”. È gente che cerca una soluzione al loro problema; che chiede di entrare a far parte magari di un certo rinomato gruppo di spiritualità, pensando di trovare l'aiuto di cui ha bisogno; gente che cerca nella loro vita una nuova via da percorrere, un nuovo metodo, magari di
meditazione, di silenzio, di preghiera, per poter risolvere ciò che non va in loro, che sciolga i loro legami col male.
Ovviamente
le soluzioni prospettate da questi venditori di fumo - spesso appartenenti purtroppo anche al clero e alla gerarchia ecclesiastica, nullità camuffate in ascetici e pii predicatori, preoccupati però solo di promuovere il loro apparire sui media - si rivelano inadatte a risolvere gli scompensi individuali e profondi dell’animo
umano.
Eppure,
cosa non si inventa oggi la gente per cercare, per trovare, per correre da simili personaggi! Del resto è una legge del mercato: la domanda intensifica l’offerta; per cui in giro oggi ne abbiamo per tutti i gusti: personaggi che si dicono inviati direttamente da Dio, che
si credono dotati di poteri divini, extrasensoriali, paranormali o speciali. E poiché la
pressione della sofferenza è molto intensa, e il desiderio di sollievo è altrettanto forte, ognuno può liberamente accedere alla cura più congeniale.
Oggi, abbiamo la “pillola” miracolosa per tutto: per dimagrire, per far bene l’amore, per essere felici, per non essere tristi.
Ci illudiamo che sia sufficiente una semplice pillola per star bene, per essere sereni, per stare in pace con la propria anima; ci illudiamo di poter comprare facilmente, a basso costo, tutto ciò di cui abbiamo bisogno: felicità, amore, comprensione, fiducia.
Ci illudiamo cioè che in commercio ci sia un qualcosa di magico che risolva i nostri problemi... ma è solo illusione, cruda e sterile illusione.
Oggi, abbiamo la “pillola” miracolosa per tutto: per dimagrire, per far bene l’amore, per essere felici, per non essere tristi.
Ci illudiamo che sia sufficiente una semplice pillola per star bene, per essere sereni, per stare in pace con la propria anima; ci illudiamo di poter comprare facilmente, a basso costo, tutto ciò di cui abbiamo bisogno: felicità, amore, comprensione, fiducia.
Ci illudiamo cioè che in commercio ci sia un qualcosa di magico che risolva i nostri problemi... ma è solo illusione, cruda e sterile illusione.
Attorno a noi prospera purtroppo un florido commercio religioso: un supermercato del sacro in grado di esaudire qualunque fantasia: c’è il sito internet in cui possiamo prenotare (ovviamente con offerta a pagamento) la messa, il rosario, le preghiere per le nostre necessità, per tutte le “nostre intenzioni”; c'è il tour operator che organizza, ovviamente a pagamento, pellegrinaggi con incontri personalizzati con i santoni del momento, c'è il guru di turno pronto a soddisfare ogni nostra curiosità sulla vita da noi vissuta prima di questa attuale; c’è il mago infallibile che ci mette in contatto con i nostri “morti”; c’è poi il santone, in contatto diretto con Padre Pio, che guarisce a distanza qualunque nostra malattia, sia spirituale che fisica, tramite versamento di un'offerta a mezzo “bollettino
postale”; c'è il gruppo carismatico pseudo religioso che ci accoglie a braccia aperte, promettendoci felicità e benessere
spirituale, effettuando donazioni alla loro chiesa; c’è infine la folla oceanica di
indovini, fattucchieri, che vendono i numeri vincenti del lotto, che ci predicono il futuro, che ci fanno
incontrare l'anima gemella, l’amore della nostra vita, e via dicendo.
In
realtà, se viviamo dando retta all’imbonitore di turno, rischiamo veramente
grosso; e non ci vuole molto a capirlo, basta guardare al nostro stile alienante
di vita, alle quotidiane tragedie familiari, alle notizie drammatiche dei
telegiornali !
Purtroppo
persone confuse, disorientate, deboli, fragili ce se sono ancora troppe nella
nostra società del benessere e dell’autogestione; persone che continuano sinceramente
a chiedere a destra e a sinistra: “Che cosa devo fare?”.
Beh, a
tutti piacerebbe che ci fosse una pillola che risolve magicamente le nostre depressioni, ma non c’è. A tutti piacerebbe che ci fosse una sola breve preghiera,
universale e potente, per ottenere l'illuminazione della nostra mente ogni volta che ne abbiamo
bisogno! Ma non c’è. I ritrovati magici appartengono solo a quelle persone che credono di aver le risposte giuste per tutti e tutto! Ma ciò è impossibile!
Giovanni
Battista, infatti, non offre soluzioni. Le sue sono risposte pratiche, sono cose concrete
da fare, che poi in definitiva hanno tutte un comune denominatore: Giovanni non dice: “Fai questo o fai quello”; ma: “Guarda dentro
alla tua vita. È lì che devi trovare ciò che è bene per te, ciò di cui hai bisogno”.
“Cosa
dobbiamo dunque fare?”: nulla di sovrumano. Tutto dipende da chi siamo noi, da cosa abbiamo dentro, da
cosa viviamo nel nostro cuore, nella nostra anima. Dobbiamo fare cioè quello
che realmente è bene per la nostra vita; dobbiamo agire sulla nostra vita, umilmente
e in silenzio: non c’è bisogno di compiere azioni sensazionali, straordinarie,
davanti a tutti. Dobbiamo solo cercare di cambiare praticamente la nostra vita, di diventare migliori, più profondi, più capaci di fede, di dare fiducia e di
esserne degni, più capaci cioè d’amare, più capaci d’ascolto e di vita: non dobbiamo
fare necessariamente la nostra “buona azione quotidiana”: non serve a nulla.
Guardiamo seriamente nel profondo della nostra anima. Parliamo con noi stessi e con Dio. Facciamo trenta minuti di silenzio assoluto davanti al Tabernacolo. Soprattutto siamo onesti nel nostro esame personale; accorgiamoci della nostra invidia, della nostra superbia, del nostro egoismo, e riconosciamoli; tiriamo fuori gli scheletri nascosti dentro di noi, ecc.
Guardiamo seriamente nel profondo della nostra anima. Parliamo con noi stessi e con Dio. Facciamo trenta minuti di silenzio assoluto davanti al Tabernacolo. Soprattutto siamo onesti nel nostro esame personale; accorgiamoci della nostra invidia, della nostra superbia, del nostro egoismo, e riconosciamoli; tiriamo fuori gli scheletri nascosti dentro di noi, ecc.
Alla
gente in pratica Giovanni diceva: “Ti accorgi che nel tuo fratello, nel tuo amico, nel tuo famigliare qualcosa non
va? È qui che devi agire. Ti accorgi di essere diventato scontroso, irritabile, intrattabile con i tuoi cari, in famiglia, al lavoro? È qui che devi agire. Non dai più il meglio di te stesso perché ti senti insoddisfatto, perché pensi di essere discriminato, sottovalutato, di non essere considerato come vorresti? È qui che
devi agire”. Dobbiamo cioè lavorare e agire dove c’è il problema, non altrove!
Vanno infatti da Giovanni i pubblicani, gente che trafficava con i soldi, che poteva rubare, intascare molto e bene: “Che dobbiamo fare? Dobbiamo fare un’offerta particolare? Dobbiamo ritirarci e diventare monaci?”. “No; visto però che voi trafficate con i soldi, siate leali, siate onesti; non fate gli strozzini e gli usurai. Non vendete per i
soldi la vostra anima, i vostri cari, le vostre amicizie, i vostri rapporti o
ciò che avete di più caro. È dentro la vostra vita che dovete cambiare, è qui
che dovete agire”.
Vanno
i militari, gente senza scrupoli, gente che con la forza otteneva ciò che
voleva: “E noi che dobbiamo fare?”. E Giovanni: “Non abusate del vostro potere,
della vostra forza e del vostro ruolo. Non estorcete a nessuno, non cercate di ottenere mai niente con la violenza”.
Purtroppo invece quanti di noi si comportano come dei "militari": genitori che impongono ai figli un regime severo,
rigoroso, senza gioia né giocosità; mariti che si comportano militarmente con
le loro mogli: le controllano, le vogliono sempre disponibili, ai loro comandi,
ubbidienti, sottomesse; preti che sembrano dei dittatori; sono dispotici,
severi e onnipotenti. Non apprezzano alcuna collaborazione.
Purtroppo nelle
nostre case, nei luoghi pubblici e privati, addirittura nelle parrocchie, esistono spesso violenza
psicologica, mobbing, pressioni di ogni tipo, ricatti. È ancora qui che dobbiamo agire.
È
chiaro che è molto più semplice, per Natale, fare il presepio e andare alla messa
di mezzanotte. È chiaro che è molto più semplice fare dei buoni pensieri sulla
pace nel mondo, desiderare che tutti siano felici, ma non è questo il Natale che dobbiamo
preparare. Natale è fare ciò che dobbiamo fare e non dell’altro.
Il contadino
che nel cortile separa il frumento dalla pula (che verrà bruciata) è un’immagine
che incute ansia, paura e timore. Noi non dobbiamo avere paura di Dio. Ma
dobbiamo sapere, però, che siamo noi stessi a tirare le conseguenze delle nostre
azioni. Dio non ci punisce mai; siamo noi che ci creiamo i nostri inferni, come conseguenza di ciò che facciamo. Dio non punisce mai nessuno; siamo noi che ci
puniamo da soli con certi modi di vivere.
Il
Battista battezzava con acqua: era il desiderio della gente di cambiare vita.
Il vero battesimo, però, è quello di fuoco. Il vero battesimo, quello del
Cristo, della Vita vera, non è altro che conquistare la propria anima, la
propria parte divina, spirituale. È un battesimo di fuoco perché riscalda la
vita, le dà passione, energia; è la forza per andare avanti. È un battesimo di
fuoco perché illumina il nostro mondo interiore; ci fa vedere e ci fa capire. È
un battesimo di fuoco perché brucia le illusioni che ci siamo costruito, perché ci fa
vedere ciò che siamo realmente: cioè niente!.
Il nostro battesimo di fuoco, allora, è portare alla luce, far nascere, la forza che ci
abita dentro, la vita grande e piena che ci scorre nelle vene, il Dio che dorme
e che aspetta di essere risvegliato per diventare il Signore della nostra vita.
Nell’acqua siamo nati ma è solo nel fuoco che cresceremo. E questo, per il vangelo, è rinascere. Amen.
Nell’acqua siamo nati ma è solo nel fuoco che cresceremo. E questo, per il vangelo, è rinascere. Amen.
mercoledì 2 dicembre 2015
6 Dicembre 2015 – II Domenica di Avvento
«La parola di Dio venne su
Giovanni, figlio di Zaccaria, nel deserto» (Lc 3,1-6).
La
parola di Dio scese su Giovanni. È un incontro vivo, che lo trasforma, che lo fa
fiorire e genera il suo frutto. Dopo questa discesa il Battista se ne va per
tutta la regione a predicare.
Quando
la parola di Dio all’inizio della storia scende sulla creazione nasce il mondo
e ogni essere vivente. Quando la parola di Dio attraverso l’angelo scende su
Maria, nasce Gesù. La parola che scende su Giovanni lo invia, lo spinge e lo fa
profetizzare. Dio quando scende, quando viene, produce una creazione, una
nascita, un rinnovamento.
Allora:
l’incontro con Dio è un incontro che ci crea, ci cambia e ci invia, produce cioè
un movimento. Noi eravamo qualcosa ma dopo aver ascoltato la Parola, nel senso
di “mangiata, assimilata, gustata, fatta penetrare”, noi non siamo più gli
stessi: perché quella produce un movimento, un cambiamento, un’apertura dentro
di noi.
Noi durante
una giornata ascoltiamo tantissime parole! Ma la parola di Dio non è così. Nella
nostra vita abbiamo detto una miriade di parole religiose. Ma la parola di Dio
non è così. Quante volte abbiamo ascoltato il vangelo in chiesa! Ma la parola
di Dio non è così. La parola di Dio è quella parola che ci penetra nelle
profondità, ci scuote, è sempre destabilizzante, ci tocca, ci colpisce nell’intimo.
È quella parola che ci viene sempre in mente, anche se non sappiamo il perché,
che ci risuona, che ci vibra, che sentiamo che ci richiama e che ci riguarda. È
quella parola che non ci lascia indifferenti. È quella parola che fa succedere
qualcosa.
Il Battista predica nel deserto.
Deserto
(in ebraico midebar) vuol dire “ciò che viene dal Verbo”.
Geograficamente il deserto palestinese è una regione montuosa, con scarsa
vegetazione, poco abitata, sede di pastori, predoni ed eremiti (eremos in greco vuol dire proprio deserto).
Ma
nella Bibbia il deserto è un luogo per cui si deve passare. Non si può giungere
da nessuna parte, in nessuna terra promessa se non si ha il coraggio e la forza
di affrontare il proprio deserto.
È
stato un passaggio necessario dopo la liberazione dall’Egitto (Es 5,1; 13, 17-21), per quella
babilonese (Is 40,3); è stato un
luogo necessario per Mosè (Es 3), per
Elia (1Re 19), per Paolo (Gal 1,17), per Gesù (Lc 4,1-13).
Il
deserto più che un luogo fisico è una dimensione della vita. Viene, cioè, un
momento in cui bisogna smettere di sfuggire a se stessi, smettere di cercare
risposte fuori di noi, smettere di riempirci e di imbottirci di idee, filosofie
e pensieri vari, e guardarci per davvero in faccia senza mentirci. Nel deserto
non c’è nessuno: ci siamo noi, completamente soli.
Molte
persone hanno il terrore di stare da soli con loro stessi. Molte persone
cercano il “tempo per sé”: si
riposano, leggono un libro, fanno qualche sport, escono con gli amici; fanno,
insomma, quello che di solito non fanno mai. Bene! Ma “stare con sé” è un’altra cosa.
Nel
deserto il Battista predica un battesimo di conversione per il perdono dei
peccati
Predicare:
kerysso, vuol dire urlare, dire ad
alta voce. La radice ker indica il
cuore. Giovanni non fa catechesi, lunghi discorsi o omelie; i suoi sono messaggi
semplici che partono dal cuore e che arrivano al cuore: messaggi brevi,
appassionati, diretti e incisivi. Anche Gesù parlava così. Il messaggio non ci
deve convincere: dobbiamo solo accettarlo perché ci tocca l’anima.
Il battesimo è di conversione
per il perdono dei peccati.
Conversione
è meta-noeo (“tornare indietro”) e
indica il cambiamento di pensiero. Perdono (afiemi) indica il “lasciar andare,
il liberare, il mandare via, il rimettere”. Peccato
in ebraico è una freccia che non giunge al bersaglio.
Battesimo
(in greco baptizein, immergersi) indica
l’immersione nelle acque.
È la
legge della vita: per conoscere Dio, la Vita, bisogna immergersi nelle acque
che contengono la luce e la non luce (le tenebre). Bisogna confrontarsi con tutti
i mostri interiori, che noi chiamiamo male, che tendiamo ad isolare, ad
eliminare, a mettere in disparte e a non confrontarci.
Tutta
la storia della salvezza è il tentativo di entrare dentro queste acque buie, tenebrose,
di peccato, per confrontarsi con esse e uscirne, con l’aiuto di Dio,
vittoriosi.
Il
mondo non è un Eden meraviglioso ma un territorio dove dobbiamo accettare la nostra
luce e la nostra non-luce, i nostri lati di splendore e i nostri lati oscuri,
quelli di gloria e quelli di tenebra.
Anche
gli Ebrei dovettero immergersi nelle acque del Mar Rosso, fare un lungo cammino,
confrontarsi con tutta una serie di nemici per uscirne, con la presenza di Dio,
vittoriosi.
Il
cammino degli ebrei fu un cammino con grandi fedeltà, grandi luci, ma anche con
grandi infedeltà e idolatrie, un cammino d’ombra. E dovettero percorrerlo fino
in fondo, tutto, per arrivare alla Terra Promessa.
Anche
Gesù si immerge nel Giordano. Anche Gesù è dovuto discendere in questo mondo di
luce e di buio, di già e di non-ancora. Anche lui ha dovuto confrontarsi con il
buio personale (le tentazioni), le tenebre del mondo e del male che lo
ostacolavano, e che alla fine lo uccisero.
Anche
noi il giorno del nostro battesimo usciamo dalle acque del fonte: da lì inizia
il nostro cammino di confronto con la luce e il buio che vive dentro ciascuno
di noi.
Siamo
già figli di Dio, ma solo immergendoci, incontrando il non-ancora che ci fa
paura, che respingiamo, che a volte demonizziamo, ma che ci appartiene, potremo
diventarlo veramente.
Siamo
un seme che può diventare pianta. L’opera è semplice e complessa: dobbiamo
raddrizzare i nostri sentieri.
Non è forse
vero che siamo aggressivi, crudeli? Non è forse vero che dentro di noi coviamo tanta
rabbia, tanta superbia, tanto egoismo? Non è forse vero che dietro al nostro
bel volto sorridente, dietro a tanto “Dio”, a volte c’è tutto questo?
E
tutto questo “storto”, questo
irrisolto, dove andrà a finire? Come agirà se lo lasceremo libero dentro di
noi?
Come possiamo
essere protagonisti della nostra vita con tutte queste scelte non fatte, con
tutte queste vie non raddrizzate? Come possiamo essere figli della luce con
tutto questo nascosto e questo buio dentro?
Ebbene,
se accettiamo che la sua Parola scenda nel nostro cuore, se la facciamo
crescere dentro di noi, se la facciamo diventare robusta, se la mettiamo in
condizione di produrre fiori e frutta, allora vedremo la Salvezza. Allora
vedremo emergere da noi il Figlio dell’uomo, ciò che siamo veramente, la nostra
immagine originale, nella nostra bellezza pura, naturale, divina: perché quello
che siamo ora non le assomiglia neppure lontanamente. Allora potremo ammirare faccia
a faccia il Figlio di Dio. Allora tutto ci sarà chiaro: non avremo più dubbi o
domande, perché quando si vede, quando c’è la luce, tutto appare luminoso!
Allora nulla ci farà più paura, perché finalmente potremo vedere con i nostri
occhi come stanno le cose: ci renderemo conto cioè che tutti (uomini, mondo, universo,
bene e male) siamo nelle Sue mani, avvolti e riscaldati dal Suo dolce sguardo.
E mentre noi siamo ancora occupati a perder tempo per conquistare chissà chi e
chissà cosa, Lui sorride e ci protegge.
Amen.
mercoledì 25 novembre 2015
29 Novembre 2015 – I Domenica di Avvento – Anno C
Inizia
il tempo liturgico di Avvento, tempo che ci porta e che ci prepara al Natale.
Sul
piano personale, l’avvento è quello spazio aperto perché un “figlio” e una “nascita”
possano accadere in noi. Dio nasce ogni anno il 25 di dicembre. Non è un dato
rituale, cronologico, tradizionale. E’ un fatto: Dio continua a nascere; Dio,
dove c’è spazio e disponibilità, certamente verrà. Ecco allora che l’avvento
non è tanto un periodo dell’anno ma una dimensione della vita, è la certezza
che una nuova nascita sta per avvenire in noi: Dio, con la sua venuta in noi, vuole
sorprenderci, meravigliarci; vuole portarci lontano, molto lontano dalle nostre
derive di insicurezza.
Questo
vangelo lo abbiamo già sentito quindici giorni fa nella versione di Marco. Anche
Luca usa lo stesso termine “Figlio dell’uomo”. Anche qui egli verrà in maniera
apocalittica, da fine del mondo. Ma cosa vuol dire esattamente “Figlio dell’uomo?”.
Il
termine proviene dall’Antico Testamento, esattamente da Daniele (7,13-14). Per “Figlio
dell’uomo” si intende un uomo comune che,
partendo da condizioni umili, è chiamato a vivere qualcosa di grande, ha una
missione importantissima, è in intimo contatto con Dio l’Altissimo.
Un
particolare che ci deve rincuorare: perché anche noi non siamo certo molto “importanti”.
Anche noi, tutto sommato, siamo dei perfetti “nessuno”. Eppure possiamo essere “Figli
dell’uomo”. Anche per noi cioè c’è qualcosa di grande! Anche noi siamo grandi!
Anche la nostra vita ha un senso profondo per noi e per il mondo. Certo il Figlio
dell’uomo non nasce senza sconvolgimenti, senza “angoscia” e sconvolgimenti.
Tutto ciò che è grande, vero e potente, ha un costo. E diventare noi stessi ha
il costo più grande.
Se
guardiamo all’investimento dal punto di vista di coinvolgimento, pericolo,
esposizione, difficoltà, siamo tentati di lasciar perdere. Ma se guardiamo a
ciò che possiamo essere, allora ne vale proprio la pena; anzi di più: ne vale
assolutamente la pena! Perché questa è la nostra vera libertà: diventare ciò
che possiamo essere.
Poi il
vangelo parla di vegliare, di non dormire (21,36), di non farci prendere dal sonno.
Gesù
lo diceva in continuazione: “Tenete gli occhi aperti, non dormite; non
addormentatevi; non anestetizzatevi”. Perché se dormiamo, ad un risveglio improvviso,
tutto ciò che ci succede intorno, sembra un tranello, un imprevisto: ma non è
così.
Quante
persone dicono di star male, di soffrire, di essere insoddisfatte. Ma cosa fanno
per uscire dalla loro situazione? Alcuni dicono che “non hanno tempo; che è difficile,
che è troppo impegnativo”: e continuano a dormire!
Altre
persone, invece, dicono di voler cambiare. E si buttano a capofitto: frequentano
tutti i corsi di catechesi, sono presenti a tutti gli incontri di spiritualità,
in qualunque iniziativa sono sempre entusiasticamente in prima fila: ma poi, se
si guardano dentro, sono sempre allo stesso punto, non fanno un passo in avanti.
È come se dormissero profondamente.
A
volte, purtroppo, anche i cammini spirituali possono diventare una droga: ne facciamo
tanti, a volte troppi, pensando che questo basti a renderci migliori. Talvolta succede
anche, paradossalmente, che questi percorsi individuali di spiritualità, frequentati
al di fuori delle nostre comunità, invece di portarci ad un effettivo
miglioramento di noi stessi, diventino al contrario una fuga dalle nostre responsabilità,
diventino un alibi per non impegnarci nelle iniziative “domestiche”, nelle
nostre parrocchie: “Io non posso esserci, non sarò presente, ho un incontro di perfezionamento
in quell’altra parrocchia, in quel Centro di spiritualità; non posso mancare!
Del resto quello che succede qui, è ben poco istruttivo, non mi attira, non vedo
spiccare “carismi”, non vedo guide veramente “illuminate”; io miro a livelli
più impegnativi, più avanzati! Io sento di incontrare Dio solo in quelle specifiche
realtà”.
Quanto
ci illudiamo! Non capiamo che Dio viene proprio là, in quel paese, in quella
città, in quella parrocchia, dove Lui ci ha chiamati: è là che lui ripete per
noi il suo Natale! Tutto il resto è solo un paravento, una droga, una deleteria
ubriacatura di noi stessi, del nostro “ego”.
Per
Dio è esattamente come se continuassimo a dormire: perché pregare Dio “a modo
nostro”, seguendo le nostre ispirazioni, non vuol dire che siamo svegli e nella
giusta attesa della sua venuta.
Per
questo il vangelo, concludendo, ci raccomanda: “Vegliate e pregate” (21,36).
A
pensarci bene, allora, una grande forma di preghiera è il non prendere sonno,
non dormire.
Il
verbo “pregate”, infatti, (“deomai”), vuol dire anche “aver bisogno,
necessitare, desiderare”. Quindi noi, “abbiamo
bisogno di non prendere sonno”, di
non alienarci, di non vivere in un mondo che non è il nostro, di non ubriacarci
di chimere.
Non
permettiamo che il nostro cuore prenda sonno e non provi più la gioia per le
cose umili, l’entusiasmo per le cose piccole, la passione per il luogo dove Dio
ci ha chiamati: non corriamo il pericolo che la nostra anima, stanca di cercare
Dio in ogni dove, si assopisca e non riesca a sentire la Sua voce proprio in
casa nostra, dove Lui ci ha chiamati e dove ci aspetta pazientemente.
Non
permettiamo che la nostra mente si lasci plagiare da spiritualità troppo “mistiche”,
da “percorsi di santità” esclusivi: rimaniamo “figli dell’uomo”, nella nostra
normalità, nella nostra umiltà, nel luogo in cui Dio ci vuole, nella nostra Parrocchia,
tra i nostri fratelli più vicini.
Perché
quando ci addormenteremo nel sonno della pace, Dio che ci verrà incontro, non
ci chiederà quanto conosciamo di lui, quanto abbiamo studiato per capirlo,
quanto lo abbiamo cercato di qua o di là, in ogni angolo della terra; ma più
semplicemente ci interrogherà su quanto abbiamo fatto in casa nostra, nella
nostra comunità, per i nostri fratelli; su quanto siamo stati attivi nel farlo
conoscere, amare, servire, insieme a noi, in quell’angolo di mondo in cui Lui
ci ha posto.
Amen.
mercoledì 18 novembre 2015
22 Novembre 2015 – Solennità di Gesù Cristo Re dell’universo
«Allora Pilato gli disse: Dunque
tu sei re? Rispose Gesù: Tu lo dici: io sono re. Per questo io sono nato e per
questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità. Chiunque è
dalla verità, ascolta la mia voce» (Gv 18,33-37).
Oggi
la chiesa celebra la festa di Cristo Re. Il vangelo di Giovanni ci propone una
scena del processo di Gesù: dopo il suo arresto e la consegna da parte del
sommo sacerdote Caifa alle autorità romane, Gesù risponde ad una serie di
domande che gli vengono poste da Pilato.
Interessante
è qui sottolineare un particolare: Gesù è legato, ma in effetti è l’unico libero:
tutti quelli che lo giudicano, apparentemente “liberi”, non legati, sono invece
imprigionati tutti dalle loro paure.
Le
autorità religiose sono infatti legate dalla paura di perdere i loro privilegi,
la loro posizione. Anna e Caifa, le autorità religiose, sono terrorizzati dal
potere di Gesù e dalla sua libertà. Gesù è un uomo pericolosissimo perché fa
ragionare perfino le guardie che vanno da lui per arrestarlo. Un uomo che fa
ragionare le persone, un uomo libero, è pericoloso perché non è controllabile
da niente e da nessuno. Ogni potere si fonda infatti sul fatto che chi sta
sotto deve credere a chi sta sopra; e quando questo non succede più, il potere
di chi sta sopra crolla. Perché se chi sta sotto inizia a ragionare, a pensare
diversamente, a vedere le cose da un altro punto di vista, questo mina il
potere di chi sta sopra. Per questo Gesù è da eliminare.
La
massima vittoria del potere è smettere di far pensare autonomamente quelli che
stanno sotto. Quando chi sta sotto è ubbidiente, un semplice esecutore di
ordini, un burattino, allora chi sta sopra può fare tutto.
Anche Pietro,
che seguiva Gesù da lontano, è legato dalla paura di scegliere, ha paura di
schierarsi, di prender una posizione chiara, di stare dalla parte “di Gesù”. E
in certe situazioni il non schierarsi è condannare la verità.
Pilato
stesso è legato dalla paura dell’opinione altrui: i capi religiosi portano Gesù
nel pretorio, la sede di Pilato, ma non entrano per non contaminarsi, dovendo mangiare
la Pasqua (Gv 18,28). Pilato è un
pagano e loro, da bravi credenti, non entrano in luogo pagano.
Giovanni
mette in luce l’ipocrisia di questa gente: “Stanno per condannare Gesù ma non
entrano nel pretorio per non contaminarsi!”. Sembra dirci: “Attenti a quelli
troppo devoti, troppo pii, a quelli che hanno troppa fede!”: esibire troppa
bontà, spesso rivela il contrario: l’assenza, la carenza totale di bontà.
Quando
gli portano Gesù, Pilato dice loro: “Che accusa portate contro questo uomo?”. E
loro si sentono subito offesi: “Se non fosse un malfattore non te l’avremmo
consegnato” (Gv 18,30).
Le
persone super-religiose non si sentono mai in discussione: gli altri sbagliano,
gli altri fanno male, gli altri sono cattivi, ma loro mai. Questi infatti vanno
da Pilato e gli fanno capire a chiare lettere: “Noi l’abbiamo già condannato!”.
Loro non possono sbagliare, loro sanno.
C’è un
modo di ragionare talvolta così arrogante, come in questo caso, che invece di contribuire
a farci cambiare opinione, a farci rivedere il nostro parere, a farci evolvere,
a farci ricredere, in una parola invece di aiutare a “convertirci”, contribuisce
solo a rinforzare in noi la presunzione di stare nel giusto.
Allora
Pilato dice loro: “Prendetelo e
giudicatelo secondo la vostra legge” (Gv
18,31). Pilato ricorda a questa gente che non si può accusare qualcuno
senza prima averlo ascoltato. E questi gli rispondono: “A noi non è consentito di mettere a morte nessuno” (Gv 18,31-32).
Eccoli qua! Non portano Gesù da lui per processarlo ma per ammazzarlo. “A noi
non è permesso mettere a morte nessuno!”. Per ottenere da Pilato il verdetto di
morte, lo ricattano minacciandolo di inadempienza nell’esercizio della
giustizia. Una falsa accusa che, se riferita a Cesare, poteva compromettere la
sua posizione: e questo lo induce ad accogliere la loro richiesta.
Prima
però, e da questo punto inizia il vangelo di oggi, Pilato entra nel pretorio,
chiama Gesù e gli dice: “Tu sei il re dei
Giudei?” (Gv 18,33). Pilato sa già che i capi religiosi accusano Gesù di
essere un rivoluzionario.
Ma Gesù
ama tutti, anche Pilato: per questo gli chiede di ragionare con la sua testa: “Dici
questo da te oppure altri te l’hanno detto sul mio conto?”. Cioè : “Sei tu che lo
pensi o sono gli altri che pensano in te? Ti fai influenzare dagli altri?”. E
Pilato di contro: “Sono forse io Giudeo!”. Cioè: “Non sono giudeo! Io non penso
come la tua gente”. Ed è vero: non pensa come loro ma si lascerà condizionare
dal loro giudizio. Pilato può liberare Gesù, ma ha paura di quello che potrà
pensare e fare la gente.
L’unico
uomo che ha realmente potere, Pilato, è l’uomo più legato e imprigionato.
E qui
c’è una frase tremenda: “La tua gente e i sommi sacerdoti ti hanno consegnato a
me: che cosa hai fatto?” (Gv 18,35). Gesù portava un Dio diverso, un Dio nuovo.
Per questo era pericoloso. Il vangelo, la buona novella, non è stata rifiutata
perché era buona ma perché era nuova. Le persone preferivano credere al vecchio
(anche se era disumano) piuttosto che accettare il nuovo cambiamento e la nuova
immagine di Dio.
Allora
Gesù chiarisce le cose: “Il mio regno non
è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori
avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non
è di quaggiù” (Gv 18,36).
Cosa
gli dice Gesù? “Il mio regno non ha nulla a che vedere con i regni di quaggiù.
I regni di quaggiù hanno soldati, servitori e armi; e i potenti si fanno
servire. Ma nel mio regno più uno è potente, grande, e più lui si mette a
servire, non a farsi servire”. Nel regno umano la gente chiede: “Cosa fai tu per
me?”. In quello divino: “Cosa posso fare io per te?”.
Nel
regno umano: “Mi ami? Mi vuoi bene? Perché non me lo dici mai?”. In quello
divino: “Io ti amo; ti voglio bene; io ci sarò sempre per te; e tu potrai venire
sempre da me!”.
Nel
regno umano: “Mi aiuti? Perché non mi aiuti?”. In quello divino: “In cosa ti
posso essere di aiuto?”. Nel regno umano: “Non ci sei mai! Mi trascuri!”. In
quello divino: “Esci con me? Mi piacerebbe invitarti a mangiare con me. Ti va?”.
Nel regno umano: “Tu non mi hai mai dato nulla”. In quello divino: “Sento
quanto mi ami; riconosco il tuo aiuto; grazie per tutto quello che hai fatto
per me; ti sarò sempre riconoscente”.
Nel
regno umano la gente chiede, pretende, vuole e si aspetta dagli altri. Nel
regno divino, invece, la gente si propone, si offre e si mette a servizio.
Allora
Pilato gli dice: “Dunque tu sei re?” (Gv
18,37). E Gesù: “Per questo io sono
nato e per questo sono venuto al mondo: per rendere testimonianza alla verità.
Chiunque è dalla verità ascolta la mia voce” (Gv 18,37). Gesù è il re della
verità, ma di quale verità? La verità di Dio.
Gesù
manifesta la verità di Dio: Dio non è colui che chiede, che vuole, che s’indigna
o s’arrabbia, ma colui che si mette in ginocchio davanti agli uomini e lava
loro i piedi. Dio non chiede, Dio dona. Dio non vuole l’amore, Egli viene a
portare il suo.
Questo
era inaccettabile per i religiosi del tempo: se l’uomo è amato da Dio, loro, i
sacerdoti e le autorità del Tempio, a cosa servono? Se l’uomo ha libero accesso
all’amore di Dio, perché andare al Tempio per il perdono dei peccati? Se Dio ti
ama al di là di tutto, perché rispettare tutte le 613 regole religiose? Se è Dio
che ama, a che serve il culto?
Tutto
questo non poteva essere accettato dalle autorità religiose del tempo perché
scardinava alla base le loro strutture, perché in questo modo loro perdevano di
senso. Per questo Gesù deve essere ucciso.
Gesù dice:
“Chiunque è dalla verità, ascolta la mia
voce” (Gv 18,37). Noi avremmo detto il contrario: “chi ascolta la voce di
Gesù è nella verità”. Cosa vuol dire esattamente Gesù? Verità (aletheia) vuol dire “togliere il velo”.
La verità è quella cosa che ognuno deve scoprire da solo: deve tirare su il
velo e vedere cosa nasconde sotto. Magari non è come lui pensava, magari non è
come voleva, magari lo costringe a cambiare vita, magari lo sconvolge, magari è
difficile da accettare, magari è dolorosa. Ma è la verità.
Per
ascoltare Gesù, bisogna avere questa capacità, essere disponibili a non mettere
“filtri”, a non anteporre continuamente le nostre vedute alla verità.
Per
ascoltare Gesù, portatore di verità, dobbiamo avere il coraggio di affrontare la
verità, di essere pronti cioè a scoprire, a vedere, ad affrontare ciò che si cela
dietro la nostra facciata di perbenismo, qualunque cosa essa nasconda.
Altrimenti di Gesù accetteremo solo ciò che vorremo accettare, solo ciò che ci
piacerà o ciò che è conforme alle nostre idee.
E Pilato
chiede: “Che cos’è la verità?” (Gv 18,38).
A lui non interessa nulla della verità: cerca solo di menar il can per l’aia. E
se ne lava le mani. Pilato non accetta la verità; egli agisce seguendo il suo
credo: delle verità giudee, a lui non interessa proprio nulla. Per due volte
dice: “Io non trovo in lui nessuna colpa”
(Gv 18,38; 19,6) e cerca di liberarlo (Gv
19,12). Un paradosso: Lui, che non vuole sapere, che non vuole “aprirsi”, Lui
conosce perfettamente la verità: Gesù è innocente. Ma la sua cecità, la sua
ignavia, il suo tornaconto, avranno il sopravvento su di lui: si arrenderà, se
ne fregherà della verità, e lo consegnerà in mano ai Giudei.
Ebbene:
cosa ci dice oggi questo vangelo? Che Gesù fu un uomo libero: e che se vogliamo
essere felici, dobbiamo essere “liberi” anche noi.
Per
molte persone, banalmente, la libertà consiste nel fare ciò che vogliono, nel
seguire i propri istinti, nell’ignorare la volontà degli altri; è “libero” chi
mostra i muscoli, chi esibisce la sua forza, chi è franco e dice le cose in
faccia: ma tutto questo, scusate, non vuol dire essere “liberi”; vuol dire semplicemente
essere aggressivi. Questa gente non è libera: ma giustifica il proprio
comportamento, la propria forza, la propria “pseudo sincerità”, la propria franchezza,
solo per legittimarsi, per essere cioè “liberi” di ferire il prossimo, di comportarsi
come meglio crede: ma questa non è libertà, è sopraffazione!
Per il
vangelo, libertà è vivere nella verità: “La
verità vi farà liberi” (Gv 8,32). Ciò significa che noi diventeremo liberi solo
se scopriremo chi siamo realmente, solo facendo verità su di noi stessi. La
libertà è un cammino, è un processo dinamico. E più diventeremo liberi, più diventeremo
sovrani, re, padroni della nostra vita. Ogni verità, che scopriremo dentro di
noi, ci renderà sempre più liberi; e ogni libertà ci renderà sempre più felici.
Amen.
mercoledì 11 novembre 2015
15 Novembre 2015 – XXXIII Domenica del Tempo Ordinario
«In quei giorni, dopo quella
tribolazione, il sole si oscurerà, la luna non darà più la sua luce, le stelle
cadranno dal cielo e le potenze che sono nei cieli saranno sconvolte. Allora
vedranno il Figlio dell’uomo venire sulle nubi con grande potenza e gloria» (Mc
13,24-32).
Il
vangelo di oggi è uno di quei testi che viene preso come l’annuncio della fine del
mondo. Ci sono dei gruppi, come i testimoni di Geova o i gruppi religiosi
apocalittici, che parlano moltissimo di “prepararsi”, di “vegliare”, di “essere
pronti”, di “fine del mondo”, vedendo segnali premonitori in ogni dove.
Ma questo
passo del vangelo, come tanti altri dello stesso tenore, non alludono affatto alla
fine del mondo. Parlano della fine di “un
mondo”, è vero; ma non della fine “del mondo”.
Penso che
il bisogno di attaccarsi alla “fine del mondo” risponda soltanto ad una loro
esigenza interiore, inascoltata, di far finire un loro mondo, a cui sono molto attaccati e da cui non riescono a
staccarsi. Sperano che accada dal di fuori , e dall’alto, ciò che loro non
riescono a fare personalmente nel loro intimo.
Bene:
il testo di oggi inizia dunque col v. 24 del capitolo 13 di Marco. C’è un
antefatto: al primo versetto dello stesso capitolo un discepolo, uscendo con
Gesù dal tempio, gli dice: “Maestro
guarda che pietre e che costruzioni” (Mc 13,1): di fronte a tanta bellezza,
a tanta maestosità e potenza del tempio di Jahweh, il poveretto rimane rapito. Non
per nulla tutti erano convinti che se Gerusalemme si fosse trovata in
difficoltà, Dio sarebbe intervenuto in prima persona proprio lì, nel tempio, per
salvarla.
Ma
Gesù gli risponde: “Vedi queste grosse costruzioni?
Non rimarrà qui pietra su pietra che non venga distrutta” (Mc 13,2). E più
avanti, ribadendo il concetto, dice: “Ciò
sarà il principio dei dolori” (Mc 13,8): in realtà il testo greco dice: “sarà
il principio delle doglie”; cioè: sarà doloroso, come il partorire, ma che
Gerusalemme venga distrutta, è un bene, è un fatto positivo, poiché questo tempio
impedisce la comunione tra Dio e gli uomini.
Già
dall’inizio del capitolo 13 si parla quindi di cadute di elementi ritenuti simboli
di certezze, elementi indistruttibili. “Infatti sorgeranno falsi cristi e falsi
profeti i quali daranno segni e prodigi per sedurre, se possibile, gli stessi
eletti (Mc 13,22). È un avvertimento.
Ma vediamo
cosa segue subito dopo. Gesù (siamo al vangelo di oggi), prosegue:
“In quei giorni, dopo quella
tribolazione (cioè la distruzione del tempio) il sole si oscurerà e la luna non
darà più il suo splendore e gli astri si metteranno a cadere” (Mc 13,24).
Cosa vuol
dire qui Marco? Egli utilizza semplicemente delle espressioni dell’Antico Testamento,
in cui il sole, la luna, gli astri erano oggetti di culto, venivano adorati dalla gente.
Noi,
quando parliamo di religione ebraica, pensiamo subito ad una religione
rigidamente monoteista, una religione cioè che adorava un unico Dio. Ma se
andiamo a vedere non è stato sempre così: all’inizio anch’essi credevano nel
sole, nella luna e in tante altre divinità; soltanto con il tempo sono arrivati
a credere in un solo Dio. C’è stato, cioè, nel corso dei secoli un lungo processo
di purificazione, anche se in certi periodi la religione politeista cananea riprendeva
il sopravvento.
Allora
cosa sono questi “astri” che cadranno dal cielo? Qui, lo ripeto, la fine del mondo non c’entra
niente: nessuna calamità, nessun giudizio, nessun sconvolgimento cosmico. Lo
sconvolgimento e la catastrofe riguardano solo le entità celesti (gli dei) che
abitano nei cieli, non la terra.
In
altre parole, tutte queste divinità pagane sono destinate a cadere giù
definitivamente: un certo tipo di religione pagana finisce, perde il suo
splendore e l’idolatria entra in crisi. Ma prima è necessario che “il vangelo sia proclamato a tutte le genti”
(Mc 13,10). Cioè: quando il vangelo
sarà accolto da tutti, queste divinità pagane finiranno, perché di fronte al
vangelo tutta questa religiosità scompare.
Ecco
perché “gli astri si metteranno a cadere”
(Mc 13,25: il verbo indica un cadere
continuo): non è una pioggia di asteroidi, di stelle, di pianeti, ma
semplicemente la caduta progressiva e inarrestabile delle divinità celesti di
quel tempo; inoltre anche i potenti, i principi, i re, cioè tutte quelle persone
che si ritenevano “divine”, di fronte all’annuncio e all’espansione del vangelo,
subiranno la stessa tragica fine .
Per
capire ancora meglio dobbiamo riferirci al profeta Isaia: “Come mai sei caduto dal cielo, astro mattutino, figlio dell’aurora? Come mai sei stato steso
a terra, signore dei popoli?” (Is 14,12).
Questo
“astro del mattino” (identificato con Lucifero, precipitato dall’alto dei cieli)
altri non era che il re di Babilonia, che si arrogava il rango divino, era “salito
in cielo” diventando, oggi diremmo, una vera “star”, era cioè convinto di
essere Dio, una divinità. E cosa dice Isaia di lui?
“Eppure
tu pensavi: Salirò in cielo, sulle stelle di Dio, innalzerò il trono, dimorerò
sul monte dell’assemblea, nella parti più remote del settentrione. Salirò sulle
regioni superiori delle nubi, mi farò uguale all’Altissimo. E invece sei stato
precipitato negli inferi (=sotto terra), nelle profondità dell’abisso” (Is 14,13-14); il potente re di
Babilonia, che si credeva un Dio, è finito anch’egli in una tomba (lett. nell’Ade/Sheol,
nel regno dei morti)! Così sulla tomba di Alessandro Magno hanno scritto: “Basta
questa terra (un metro per due!) all’uomo a cui non bastava il mondo”. Ecco dov’è
finita tutta la sua potenza!
Dunque: “le potenze nei cieli saranno sconvolte”
(Mc 13,25). Sono tutte queste pseudo divinità (potenti, governanti, false
divinità, ecc.) che finiranno saranno sconvolte!
“Allora si vedrà il Figlio dell’uomo
venire sulle nubi con grande potenza e gloria” (Mc 13,26). “Venire sulle nubi”: le nubi non sono il mezzo di
trasporto di Dio, ma indicano la realtà di Dio, come avviene nella trasfigurazione
in cui nella nube la voce dice: (cfr. la
nube della trasfigurazione e la voce: “Questi
è il figlio mio prediletto” (Mc 9,7). Cioè: gli “astri” cadono, mentre il
Figlio dell’uomo “sale”.
Qui c’è
una regola valida in ogni tempo: ogni volta che cade un regime ingiusto, un
potere disumano, la dignità, l’Uomo, si afferma (il Figlio dell’uomo = la vera
umanità). Ogni caduta di un sistema oppressore o di un’idea iniqua, qualunque
esso od essa sia, è una liberazione per l’uomo.
Allora
non c’è una venuta fisica del Figlio dell’uomo: ma è il risplendere di Dio in noi,
nella nostra cultura, nella nostra società, nelle nostre relazioni, nel nostro
vivere personale e sociale.
“Ed egli manderà gli angeli e
riunirà i suoi eletti dai quattro venti, dall’estremità della terra fino alle
estremità del cielo” (Mc 13,27).
“Manderà gli angeli”: chi sono questi angeli? Per Marco
è addirittura una persona, il Battista: “Ecco,
io mando il mio “ànghelon”, il mio messaggero, davanti a te” (Mc 1,2). Per
cui gli angeli sono quelle persone che diventano “messaggeri” di pienezza di
vita; sono i messaggeri umani di Dio. L’angelo non trasmette una dottrina ma un’esperienza:
questi angeli non sono quindi nient’altro che le persone che hanno già
conosciuto, che hanno già sperimentato Dio.
Saranno
essi che “riuniranno gli eletti” (Mc
13,27), riuniranno cioè tutti coloro che hanno vissuto per il bene dell’uomo.
Cioè: mentre le potenze dei cieli (gli oppressori), coloro che hanno combattuto
contro la Vita, cadranno, tutti quelli
che hanno combattuto per la Vita
verranno fuori e vivranno.
Concludo:
cosa può dire a noi questo vangelo?
Dobbiamo
saper valorizzare ciò che ci succede, sia esso un dramma, una tragedia oppure
un’occasione da non perdere, altrimenti in nessun altro modo avremmo potuto
fare ciò che non volevamo o temevamo di fare.
Cadono
il sole, la luna, gli astri: crollano cioè tutti i nostri punti di riferimento;
può sembrare la fine, ma al contrario può essere la venuta del Figlio dell’uomo
in noi, cioè la nascita di una parte di noi molto più vera, una parte di noi che
altrimenti, in nessun altro modo avrebbe potuto nascere.
Noi
tentiamo di controllare tutto: decidiamo, pianifichiamo, progettiamo, facciamo
delle previsioni, dei sogni, cerchiamo di raggiungere sempre ciò che ci
proponiamo, per i nostri sogni impieghiamo tutte le nostre energie, ecc. Bene:
ma in tutto questo, dove mettiamo Dio? Dov’è il suo spazio di azione? Se decidiamo
tutto noi, Lui come può agire?
Proprio
per questo Dio si trova nell’imprevisto, in ciò che non ci aspettiamo, nelle
sorprese. Perché questo è l’unico spazio che gli rimane per agire, visto che noi
decidiamo e pianifichiamo sempre tutto. E se Dio volesse farci capire qualcosa
che non vogliamo capire, in quale altro modo potrebbe farlo, se non
sorprendendoci, se non dandoci qualche sberla per farci pensare?
Allora,
quando tutto ci va bene, viviamolo e ringraziamo Dio. Quando tutto crolla, viviamolo
e ringraziamo Dio. Quando c’è l’amore, viviamolo e ringraziamo Dio. Quando c’è
il rifiuto, viviamolo e ringraziamo Dio. Quando c’è la vita, viviamola e
ringraziamo Dio. Quando la morte ci tocca da vicino, viviamola e ringraziamo
comunque Dio. Viviamo insomma ogni istante della nostra vita, ringraziando Dio per
quell’istante. Amen.
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