giovedì 10 dicembre 2015

13 Dicembre 2015 – III Domenica di Avvento

«Poiché il popolo era in attesa e tutti, riguardo a Giovanni, si domandavano in cuor loro se non fosse lui il Cristo, Giovanni rispose a tutti dicendo: «Io vi battezzo con acqua; ma viene colui che è più forte di me, a cui non sono degno di slegare i lacci dei sandali. Egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco» (Lc 3,10-18).

Giovanni Battista fu il più grande profeta del suo tempo. La sua predicazione era esigente e dura, senza compromessi, e in sostanza affermava: “Dio sta per venire, state attenti!. Se non fate frutti di conversione, se non vi pentite, se non cambiate, non avete scampo”. Il Dio del Battista era pertanto un Dio severo, un Dio che incuteva timore: “Se non siete a posto, sarete condannati”. Parole che imponevano un esame profondo della propria vita e un conseguente cambiamento di rotta, una sincera conversione mediante il battesimo nelle acque del Giordano.
Ebbene: il vangelo di oggi ci presenta un piccolo spaccato dell'ambiente: di quello che succedeva intorno al Battista, di quello che la gente voleva sapere da lui, delle domande più frequenti che gli venivano rivolte; domande che lasciavano trasparire la volontà di cambiare vita: “Che cosa debbo fare?”. È la prima domanda spontanea che uno in difficoltà pone a colui che ritiene in grado di potergli dare una risposta valida e pertinente. E Giovanni lo era in tutti i sensi.
Troppo spesso però, soprattutto ai nostri giorni, la stessa domanda viene posta a personaggi di tutt'altro genere, personaggi scadenti che si auto propongono falsamente come “ispirati”, personaggi che in realtà sono dei ciarlatani, degli approfittatori: “Cosa devo fare?”. È gente che cerca una soluzione al loro problema; che chiede di entrare a far parte magari di un certo rinomato gruppo di spiritualità, pensando di trovare l'aiuto di cui ha bisogno; gente che cerca nella loro vita una nuova via da percorrere, un nuovo metodo, magari di meditazione, di silenzio, di preghiera, per poter risolvere ciò che non va in loro, che sciolga i loro legami col male.
Ovviamente le soluzioni prospettate da questi venditori di fumo - spesso appartenenti purtroppo anche al clero e alla gerarchia ecclesiastica, nullità camuffate in ascetici e pii predicatori, preoccupati però solo di promuovere il loro apparire sui media - si rivelano inadatte a risolvere gli scompensi individuali e profondi dell’animo umano.
Eppure, cosa non si inventa oggi la gente per cercare, per trovare, per correre da simili personaggi! Del resto è una legge del mercato: la domanda intensifica l’offerta; per cui in giro oggi ne abbiamo per tutti i gusti: personaggi che si dicono inviati direttamente da Dio, che si credono dotati di poteri divini, extrasensoriali, paranormali o speciali. E poiché la pressione della sofferenza è molto intensa, e il desiderio di sollievo è altrettanto forte, ognuno può liberamente accedere alla cura più congeniale.
Oggi, abbiamo la “pillola” miracolosa per tutto: per dimagrire, per far bene l’amore, per essere felici, per non essere tristi. 
Ci illudiamo che sia sufficiente una semplice pillola per star bene, per essere sereni, per stare in pace con la propria anima; ci illudiamo di poter comprare facilmente, a basso costo, tutto ciò di cui abbiamo bisogno: felicità, amore, comprensione, fiducia. 
Ci illudiamo cioè che in commercio ci sia un qualcosa di magico che risolva i nostri problemi... ma è solo illusione, cruda e sterile illusione.
Attorno a noi prospera purtroppo un florido commercio religioso: un supermercato del sacro in grado di esaudire qualunque fantasia: c’è il sito internet in cui possiamo prenotare (ovviamente con offerta a pagamento) la messa, il rosario, le preghiere per le nostre necessità, per tutte le “nostre intenzioni”; c'è il tour operator che organizza, ovviamente a pagamento, pellegrinaggi con incontri personalizzati con i santoni del momento, c'è il guru di turno pronto a soddisfare ogni nostra curiosità sulla vita da noi vissuta prima di questa attuale; c’è il mago infallibile che ci mette in contatto con i nostri “morti”; c’è poi il santone, in contatto diretto con Padre Pio, che guarisce a distanza qualunque nostra malattia, sia spirituale che fisica, tramite versamento di un'offerta a mezzo “bollettino postale”; c'è il gruppo carismatico pseudo religioso che ci accoglie a braccia aperte, promettendoci felicità e benessere spirituale, effettuando donazioni alla loro chiesa; c’è infine la folla oceanica di indovini, fattucchieri,  che vendono i numeri vincenti del lotto, che ci predicono il futuro, che ci fanno incontrare l'anima gemella, l’amore della nostra vita, e via dicendo. 
In realtà, se viviamo dando retta all’imbonitore di turno, rischiamo veramente grosso; e non ci vuole molto a capirlo, basta guardare al nostro stile alienante di vita, alle quotidiane tragedie familiari, alle notizie drammatiche dei telegiornali !
Purtroppo persone confuse, disorientate, deboli, fragili ce se sono ancora troppe nella nostra società del benessere e dell’autogestione; persone che continuano sinceramente a chiedere a destra e a sinistra: “Che cosa devo fare?”
Beh, a tutti piacerebbe che ci fosse una pillola che risolve magicamente le nostre depressioni, ma non c’è. A tutti piacerebbe che ci fosse una sola breve preghiera, universale e potente, per ottenere l'illuminazione della nostra mente ogni volta che ne abbiamo bisogno! Ma non c’è. I ritrovati magici appartengono solo a quelle persone che credono di aver le risposte giuste per tutti e tutto! Ma ciò è impossibile!
Giovanni Battista, infatti, non offre soluzioni. Le sue sono risposte pratiche, sono cose concrete da fare, che poi in definitiva hanno tutte un comune denominatore: Giovanni non dice: “Fai questo o fai quello”; ma: “Guarda dentro alla tua vita. È lì che devi trovare ciò che è bene per te, ciò di cui hai bisogno”.

“Cosa dobbiamo dunque fare?”: nulla di sovrumano. Tutto dipende da chi siamo noi, da cosa abbiamo dentro, da cosa viviamo nel nostro cuore, nella nostra anima. Dobbiamo fare cioè quello che realmente è bene per la nostra vita; dobbiamo agire sulla nostra vita, umilmente e in silenzio: non c’è bisogno di compiere azioni sensazionali, straordinarie, davanti a tutti. Dobbiamo solo cercare di cambiare praticamente la nostra vita, di diventare migliori, più profondi, più capaci di fede, di dare fiducia e di esserne degni, più capaci cioè d’amare, più capaci d’ascolto e di vita: non dobbiamo fare necessariamente la nostra “buona azione quotidiana”: non serve a nulla.
Guardiamo seriamente nel profondo della nostra anima. Parliamo con noi stessi e con Dio. Facciamo trenta minuti di silenzio assoluto davanti al Tabernacolo. Soprattutto siamo onesti nel nostro esame personale; accorgiamoci della nostra invidia, della nostra superbia, del nostro egoismo, e riconosciamoli; tiriamo fuori gli scheletri nascosti dentro di noi, ecc.
Alla gente in pratica Giovanni diceva: “Ti accorgi che nel tuo fratello, nel tuo amico, nel tuo famigliare qualcosa non va? È qui che devi agire. Ti accorgi di essere diventato scontroso, irritabile, intrattabile con i tuoi cari, in famiglia, al lavoro? È qui che devi agire. Non dai più il meglio di te stesso perché ti senti insoddisfatto, perché pensi di essere discriminato, sottovalutato, di non essere considerato come vorresti? È qui che devi agire”. Dobbiamo cioè lavorare e agire dove c’è il problema, non altrove!
Vanno infatti da Giovanni i pubblicani, gente che trafficava con i soldi, che poteva rubare, intascare molto e bene: “Che dobbiamo fare? Dobbiamo fare un’offerta particolare? Dobbiamo ritirarci e diventare monaci?”. “No; visto però che voi trafficate con i soldi, siate leali, siate onesti; non fate gli strozzini e gli usurai. Non vendete per i soldi la vostra anima, i vostri cari, le vostre amicizie, i vostri rapporti o ciò che avete di più caro. È dentro la vostra vita che dovete cambiare, è qui che dovete agire”.
Vanno i militari, gente senza scrupoli, gente che con la forza otteneva ciò che voleva: “E noi che dobbiamo fare?”. E Giovanni: “Non abusate del vostro potere, della vostra forza e del vostro ruolo. Non estorcete a nessuno, non cercate di ottenere mai niente con la violenza”.
Purtroppo invece quanti di noi si comportano come dei "militari": genitori che impongono ai figli un regime severo, rigoroso, senza gioia né giocosità; mariti che si comportano militarmente con le loro mogli: le controllano, le vogliono sempre disponibili, ai loro comandi, ubbidienti, sottomesse; preti che sembrano dei dittatori; sono dispotici, severi e onnipotenti. Non apprezzano alcuna collaborazione.
Purtroppo nelle nostre case, nei luoghi pubblici e privati, addirittura nelle parrocchie, esistono spesso violenza psicologica, mobbing, pressioni di ogni tipo, ricatti. È ancora qui che dobbiamo agire. 
È chiaro che è molto più semplice, per Natale, fare il presepio e andare alla messa di mezzanotte. È chiaro che è molto più semplice fare dei buoni pensieri sulla pace nel mondo, desiderare che tutti siano felici, ma non è questo il Natale che dobbiamo preparare. Natale è fare ciò che dobbiamo fare e non dell’altro.
Il contadino che nel cortile separa il frumento dalla pula (che verrà bruciata) è un’immagine che incute ansia, paura e timore. Noi non dobbiamo avere paura di Dio. Ma dobbiamo sapere, però, che siamo noi stessi a tirare le conseguenze delle nostre azioni. Dio non ci punisce mai; siamo noi che ci creiamo i nostri inferni, come conseguenza di ciò che facciamo. Dio non punisce mai nessuno; siamo noi che ci puniamo da soli con certi modi di vivere.
Il Battista battezzava con acqua: era il desiderio della gente di cambiare vita. Il vero battesimo, però, è quello di fuoco. Il vero battesimo, quello del Cristo, della Vita vera, non è altro che conquistare la propria anima, la propria parte divina, spirituale. È un battesimo di fuoco perché riscalda la vita, le dà passione, energia; è la forza per andare avanti. È un battesimo di fuoco perché illumina il nostro mondo interiore; ci fa vedere e ci fa capire. È un battesimo di fuoco perché brucia le illusioni che ci siamo costruito, perché ci fa vedere ciò che siamo realmente: cioè niente!.
Il nostro battesimo di fuoco, allora, è portare alla luce, far nascere, la forza che ci abita dentro, la vita grande e piena che ci scorre nelle vene, il Dio che dorme e che aspetta di essere risvegliato per diventare il Signore della nostra vita.
Nell’acqua siamo nati ma è solo nel fuoco che cresceremo. E questo, per il vangelo, è rinascereAmen.


mercoledì 2 dicembre 2015

6 Dicembre 2015 – II Domenica di Avvento

«La parola di Dio venne su Giovanni, figlio di Zaccaria, nel deserto» (Lc 3,1-6).

La parola di Dio scese su Giovanni. È un incontro vivo, che lo trasforma, che lo fa fiorire e genera il suo frutto. Dopo questa discesa il Battista se ne va per tutta la regione a predicare.
Quando la parola di Dio all’inizio della storia scende sulla creazione nasce il mondo e ogni essere vivente. Quando la parola di Dio attraverso l’angelo scende su Maria, nasce Gesù. La parola che scende su Giovanni lo invia, lo spinge e lo fa profetizzare. Dio quando scende, quando viene, produce una creazione, una nascita, un rinnovamento.
Allora: l’incontro con Dio è un incontro che ci crea, ci cambia e ci invia, produce cioè un movimento. Noi eravamo qualcosa ma dopo aver ascoltato la Parola, nel senso di “mangiata, assimilata, gustata, fatta penetrare”, noi non siamo più gli stessi: perché quella produce un movimento, un cambiamento, un’apertura dentro di noi.
Noi durante una giornata ascoltiamo tantissime parole! Ma la parola di Dio non è così. Nella nostra vita abbiamo detto una miriade di parole religiose. Ma la parola di Dio non è così. Quante volte abbiamo ascoltato il vangelo in chiesa! Ma la parola di Dio non è così. La parola di Dio è quella parola che ci penetra nelle profondità, ci scuote, è sempre destabilizzante, ci tocca, ci colpisce nell’intimo. È quella parola che ci viene sempre in mente, anche se non sappiamo il perché, che ci risuona, che ci vibra, che sentiamo che ci richiama e che ci riguarda. È quella parola che non ci lascia indifferenti. È quella parola che fa succedere qualcosa.
Il Battista predica nel deserto.
Deserto (in ebraico midebar) vuol dire “ciò che viene dal Verbo”. Geograficamente il deserto palestinese è una regione montuosa, con scarsa vegetazione, poco abitata, sede di pastori, predoni ed eremiti (eremos in greco vuol dire proprio deserto).
Ma nella Bibbia il deserto è un luogo per cui si deve passare. Non si può giungere da nessuna parte, in nessuna terra promessa se non si ha il coraggio e la forza di affrontare il proprio deserto.
È stato un passaggio necessario dopo la liberazione dall’Egitto (Es 5,1; 13, 17-21), per quella babilonese (Is 40,3); è stato un luogo necessario per Mosè (Es 3), per Elia (1Re 19), per Paolo (Gal 1,17), per Gesù (Lc 4,1-13).
Il deserto più che un luogo fisico è una dimensione della vita. Viene, cioè, un momento in cui bisogna smettere di sfuggire a se stessi, smettere di cercare risposte fuori di noi, smettere di riempirci e di imbottirci di idee, filosofie e pensieri vari, e guardarci per davvero in faccia senza mentirci. Nel deserto non c’è nessuno: ci siamo noi, completamente soli.
Molte persone hanno il terrore di stare da soli con loro stessi. Molte persone cercano il “tempo per sé”: si riposano, leggono un libro, fanno qualche sport, escono con gli amici; fanno, insomma, quello che di solito non fanno mai. Bene! Ma “stare con sé” è un’altra cosa.
Nel deserto il Battista predica un battesimo di conversione per il perdono dei peccati
Predicare: kerysso, vuol dire urlare, dire ad alta voce. La radice ker indica il cuore. Giovanni non fa catechesi, lunghi discorsi o omelie; i suoi sono messaggi semplici che partono dal cuore e che arrivano al cuore: messaggi brevi, appassionati, diretti e incisivi. Anche Gesù parlava così. Il messaggio non ci deve convincere: dobbiamo solo accettarlo perché ci tocca l’anima.
Il battesimo è di conversione per il perdono dei peccati.
Conversione è meta-noeo (“tornare indietro”) e indica il cambiamento di pensiero. Perdono (afiemi) indica il “lasciar andare, il liberare, il mandare via, il rimettere”. Peccato in ebraico è una freccia che non giunge al bersaglio.
Battesimo (in greco baptizein, immergersi) indica l’immersione nelle acque.
È la legge della vita: per conoscere Dio, la Vita, bisogna immergersi nelle acque che contengono la luce e la non luce (le tenebre). Bisogna confrontarsi con tutti i mostri interiori, che noi chiamiamo male, che tendiamo ad isolare, ad eliminare, a mettere in disparte e a non confrontarci.
Tutta la storia della salvezza è il tentativo di entrare dentro queste acque buie, tenebrose, di peccato, per confrontarsi con esse e uscirne, con l’aiuto di Dio, vittoriosi.
Il mondo non è un Eden meraviglioso ma un territorio dove dobbiamo accettare la nostra luce e la nostra non-luce, i nostri lati di splendore e i nostri lati oscuri, quelli di gloria e quelli di tenebra.
Anche gli Ebrei dovettero immergersi nelle acque del Mar Rosso, fare un lungo cammino, confrontarsi con tutta una serie di nemici per uscirne, con la presenza di Dio, vittoriosi.
Il cammino degli ebrei fu un cammino con grandi fedeltà, grandi luci, ma anche con grandi infedeltà e idolatrie, un cammino d’ombra. E dovettero percorrerlo fino in fondo, tutto, per arrivare alla Terra Promessa.
Anche Gesù si immerge nel Giordano. Anche Gesù è dovuto discendere in questo mondo di luce e di buio, di già e di non-ancora. Anche lui ha dovuto confrontarsi con il buio personale (le tentazioni), le tenebre del mondo e del male che lo ostacolavano, e che alla fine lo uccisero.
Anche noi il giorno del nostro battesimo usciamo dalle acque del fonte: da lì inizia il nostro cammino di confronto con la luce e il buio che vive dentro ciascuno di noi.
Siamo già figli di Dio, ma solo immergendoci, incontrando il non-ancora che ci fa paura, che respingiamo, che a volte demonizziamo, ma che ci appartiene, potremo diventarlo veramente.
Siamo un seme che può diventare pianta. L’opera è semplice e complessa: dobbiamo raddrizzare i nostri sentieri.
Non è forse vero che siamo aggressivi, crudeli? Non è forse vero che dentro di noi coviamo tanta rabbia, tanta superbia, tanto egoismo? Non è forse vero che dietro al nostro bel volto sorridente, dietro a tanto “Dio”, a volte c’è tutto questo?
E tutto questo “storto”, questo irrisolto, dove andrà a finire? Come agirà se lo lasceremo libero dentro di noi?
Come possiamo essere protagonisti della nostra vita con tutte queste scelte non fatte, con tutte queste vie non raddrizzate? Come possiamo essere figli della luce con tutto questo nascosto e questo buio dentro?
Ebbene, se accettiamo che la sua Parola scenda nel nostro cuore, se la facciamo crescere dentro di noi, se la facciamo diventare robusta, se la mettiamo in condizione di produrre fiori e frutta, allora vedremo la Salvezza. Allora vedremo emergere da noi il Figlio dell’uomo, ciò che siamo veramente, la nostra immagine originale, nella nostra bellezza pura, naturale, divina: perché quello che siamo ora non le assomiglia neppure lontanamente. Allora potremo ammirare faccia a faccia il Figlio di Dio. Allora tutto ci sarà chiaro: non avremo più dubbi o domande, perché quando si vede, quando c’è la luce, tutto appare luminoso! Allora nulla ci farà più paura, perché finalmente potremo vedere con i nostri occhi come stanno le cose: ci renderemo conto cioè che tutti (uomini, mondo, universo, bene e male) siamo nelle Sue mani, avvolti e riscaldati dal Suo dolce sguardo. E mentre noi siamo ancora occupati a perder tempo per conquistare chissà chi e chissà cosa, Lui sorride e ci protegge. 
Amen.


mercoledì 25 novembre 2015

29 Novembre 2015 – I Domenica di Avvento – Anno C


«Vegliate in ogni momento pregando, perché abbiate la forza di sfuggire a tutto ciò che sta per accadere, e di comparire davanti al Figlio dell’uomo»( Lc 21,25-28.34-36).

Inizia il tempo liturgico di Avvento, tempo che ci porta e che ci prepara al Natale.
Sul piano personale, l’avvento è quello spazio aperto perché un “figlio” e una “nascita” possano accadere in noi. Dio nasce ogni anno il 25 di dicembre. Non è un dato rituale, cronologico, tradizionale. E’ un fatto: Dio continua a nascere; Dio, dove c’è spazio e disponibilità, certamente verrà. Ecco allora che l’avvento non è tanto un periodo dell’anno ma una dimensione della vita, è la certezza che una nuova nascita sta per avvenire in noi: Dio, con la sua venuta in noi, vuole sorprenderci, meravigliarci; vuole portarci lontano, molto lontano dalle nostre derive di insicurezza.
Questo vangelo lo abbiamo già sentito quindici giorni fa nella versione di Marco. Anche Luca usa lo stesso termine “Figlio dell’uomo”. Anche qui egli verrà in maniera apocalittica, da fine del mondo. Ma cosa vuol dire esattamente “Figlio dell’uomo?”.
Il termine proviene dall’Antico Testamento, esattamente da Daniele (7,13-14). Per “Figlio dell’uomo” si intende un uomo comune che, partendo da condizioni umili, è chiamato a vivere qualcosa di grande, ha una missione importantissima, è in intimo contatto con Dio l’Altissimo.
Un particolare che ci deve rincuorare: perché anche noi non siamo certo molto “importanti”. Anche noi, tutto sommato, siamo dei perfetti “nessuno”. Eppure possiamo essere “Figli dell’uomo”. Anche per noi cioè c’è qualcosa di grande! Anche noi siamo grandi! Anche la nostra vita ha un senso profondo per noi e per il mondo. Certo il Figlio dell’uomo non nasce senza sconvolgimenti, senza “angoscia” e sconvolgimenti. Tutto ciò che è grande, vero e potente, ha un costo. E diventare noi stessi ha il costo più grande.
Se guardiamo all’investimento dal punto di vista di coinvolgimento, pericolo, esposizione, difficoltà, siamo tentati di lasciar perdere. Ma se guardiamo a ciò che possiamo essere, allora ne vale proprio la pena; anzi di più: ne vale assolutamente la pena! Perché questa è la nostra vera libertà: diventare ciò che possiamo essere.
Poi il vangelo parla di vegliare, di non dormire (21,36), di non farci prendere dal sonno.
Gesù lo diceva in continuazione: “Tenete gli occhi aperti, non dormite; non addormentatevi; non anestetizzatevi”. Perché se dormiamo, ad un risveglio improvviso, tutto ciò che ci succede intorno, sembra un tranello, un imprevisto: ma non è così.
Quante persone dicono di star male, di soffrire, di essere insoddisfatte. Ma cosa fanno per uscire dalla loro situazione? Alcuni dicono che “non hanno tempo; che è difficile, che è troppo impegnativo”: e continuano a dormire!
Altre persone, invece, dicono di voler cambiare. E si buttano a capofitto: frequentano tutti i corsi di catechesi, sono presenti a tutti gli incontri di spiritualità, in qualunque iniziativa sono sempre entusiasticamente in prima fila: ma poi, se si guardano dentro, sono sempre allo stesso punto, non fanno un passo in avanti. È come se dormissero profondamente.
A volte, purtroppo, anche i cammini spirituali possono diventare una droga: ne facciamo tanti, a volte troppi, pensando che questo basti a renderci migliori. Talvolta succede anche, paradossalmente, che questi percorsi individuali di spiritualità, frequentati al di fuori delle nostre comunità, invece di portarci ad un effettivo miglioramento di noi stessi, diventino al contrario una fuga dalle nostre responsabilità, diventino un alibi per non impegnarci nelle iniziative “domestiche”, nelle nostre parrocchie: “Io non posso esserci, non sarò presente, ho un incontro di perfezionamento in quell’altra parrocchia, in quel Centro di spiritualità; non posso mancare! Del resto quello che succede qui, è ben poco istruttivo, non mi attira, non vedo spiccare “carismi”, non vedo guide veramente “illuminate”; io miro a livelli più impegnativi, più avanzati! Io sento di incontrare Dio solo in quelle specifiche realtà”.
Quanto ci illudiamo! Non capiamo che Dio viene proprio là, in quel paese, in quella città, in quella parrocchia, dove Lui ci ha chiamati: è là che lui ripete per noi il suo Natale! Tutto il resto è solo un paravento, una droga, una deleteria ubriacatura di noi stessi, del nostro “ego”.
Per Dio è esattamente come se continuassimo a dormire: perché pregare Dio “a modo nostro”, seguendo le nostre ispirazioni, non vuol dire che siamo svegli e nella giusta attesa della sua venuta.
Per questo il vangelo, concludendo, ci raccomanda: “Vegliate e pregate” (21,36).
A pensarci bene, allora, una grande forma di preghiera è il non prendere sonno, non dormire.
Il verbo “pregate”, infatti, (“deomai”), vuol dire anche “aver bisogno, necessitare, desiderare”. Quindi noi, “abbiamo bisogno di non prendere sonno”, di non alienarci, di non vivere in un mondo che non è il nostro, di non ubriacarci di chimere.
Non permettiamo che il nostro cuore prenda sonno e non provi più la gioia per le cose umili, l’entusiasmo per le cose piccole, la passione per il luogo dove Dio ci ha chiamati: non corriamo il pericolo che la nostra anima, stanca di cercare Dio in ogni dove, si assopisca e non riesca a sentire la Sua voce proprio in casa nostra, dove Lui ci ha chiamati e dove ci aspetta pazientemente.
Non permettiamo che la nostra mente si lasci plagiare da spiritualità troppo “mistiche”, da “percorsi di santità” esclusivi: rimaniamo “figli dell’uomo”, nella nostra normalità, nella nostra umiltà, nel luogo in cui Dio ci vuole, nella nostra Parrocchia, tra i nostri fratelli più vicini.
Perché quando ci addormenteremo nel sonno della pace, Dio che ci verrà incontro, non ci chiederà quanto conosciamo di lui, quanto abbiamo studiato per capirlo, quanto lo abbiamo cercato di qua o di là, in ogni angolo della terra; ma più semplicemente ci interrogherà su quanto abbiamo fatto in casa nostra, nella nostra comunità, per i nostri fratelli; su quanto siamo stati attivi nel farlo conoscere, amare, servire, insieme a noi, in quell’angolo di mondo in cui Lui ci ha posto.
Amen.


mercoledì 18 novembre 2015

22 Novembre 2015 – Solennità di Gesù Cristo Re dell’universo

«Allora Pilato gli disse: Dunque tu sei re? Rispose Gesù: Tu lo dici: io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce» (Gv 18,33-37).

Oggi la chiesa celebra la festa di Cristo Re. Il vangelo di Giovanni ci propone una scena del processo di Gesù: dopo il suo arresto e la consegna da parte del sommo sacerdote Caifa alle autorità romane, Gesù risponde ad una serie di domande che gli vengono poste da Pilato.
Interessante è qui sottolineare un particolare: Gesù è legato, ma in effetti è l’unico libero: tutti quelli che lo giudicano, apparentemente “liberi”, non legati, sono invece imprigionati tutti dalle loro paure.
Le autorità religiose sono infatti legate dalla paura di perdere i loro privilegi, la loro posizione. Anna e Caifa, le autorità religiose, sono terrorizzati dal potere di Gesù e dalla sua libertà. Gesù è un uomo pericolosissimo perché fa ragionare perfino le guardie che vanno da lui per arrestarlo. Un uomo che fa ragionare le persone, un uomo libero, è pericoloso perché non è controllabile da niente e da nessuno. Ogni potere si fonda infatti sul fatto che chi sta sotto deve credere a chi sta sopra; e quando questo non succede più, il potere di chi sta sopra crolla. Perché se chi sta sotto inizia a ragionare, a pensare diversamente, a vedere le cose da un altro punto di vista, questo mina il potere di chi sta sopra. Per questo Gesù è da eliminare.
La massima vittoria del potere è smettere di far pensare autonomamente quelli che stanno sotto. Quando chi sta sotto è ubbidiente, un semplice esecutore di ordini, un burattino, allora chi sta sopra può fare tutto.
Anche Pietro, che seguiva Gesù da lontano, è legato dalla paura di scegliere, ha paura di schierarsi, di prender una posizione chiara, di stare dalla parte “di Gesù”. E in certe situazioni il non schierarsi è condannare la verità.
Pilato stesso è legato dalla paura dell’opinione altrui: i capi religiosi portano Gesù nel pretorio, la sede di Pilato, ma non entrano per non contaminarsi, dovendo mangiare la Pasqua (Gv 18,28). Pilato è un pagano e loro, da bravi credenti, non entrano in luogo pagano.
Giovanni mette in luce l’ipocrisia di questa gente: “Stanno per condannare Gesù ma non entrano nel pretorio per non contaminarsi!”. Sembra dirci: “Attenti a quelli troppo devoti, troppo pii, a quelli che hanno troppa fede!”: esibire troppa bontà, spesso rivela il contrario: l’assenza, la carenza totale di bontà.
Quando gli portano Gesù, Pilato dice loro: “Che accusa portate contro questo uomo?”. E loro si sentono subito offesi: “Se non fosse un malfattore non te l’avremmo consegnato” (Gv 18,30).
Le persone super-religiose non si sentono mai in discussione: gli altri sbagliano, gli altri fanno male, gli altri sono cattivi, ma loro mai. Questi infatti vanno da Pilato e gli fanno capire a chiare lettere: “Noi l’abbiamo già condannato!”. Loro non possono sbagliare, loro sanno.
C’è un modo di ragionare talvolta così arrogante, come in questo caso, che invece di contribuire a farci cambiare opinione, a farci rivedere il nostro parere, a farci evolvere, a farci ricredere, in una parola invece di aiutare a “convertirci”, contribuisce solo a rinforzare in noi la presunzione di stare nel giusto.
Allora Pilato dice loro: “Prendetelo e giudicatelo secondo la vostra legge(Gv 18,31). Pilato ricorda a questa gente che non si può accusare qualcuno senza prima averlo ascoltato. E questi gli rispondono: “A noi non è consentito di mettere a morte nessuno” (Gv 18,31-32). Eccoli qua! Non portano Gesù da lui per processarlo ma per ammazzarlo. “A noi non è permesso mettere a morte nessuno!”. Per ottenere da Pilato il verdetto di morte, lo ricattano minacciandolo di inadempienza nell’esercizio della giustizia. Una falsa accusa che, se riferita a Cesare, poteva compromettere la sua posizione: e questo lo induce ad accogliere la loro richiesta.
Prima però, e da questo punto inizia il vangelo di oggi, Pilato entra nel pretorio, chiama Gesù e gli dice: “Tu sei il re dei Giudei?” (Gv 18,33). Pilato sa già che i capi religiosi accusano Gesù di essere un rivoluzionario.
Ma Gesù ama tutti, anche Pilato: per questo gli chiede di ragionare con la sua testa: “Dici questo da te oppure altri te l’hanno detto sul mio conto?”. Cioè : “Sei tu che lo pensi o sono gli altri che pensano in te? Ti fai influenzare dagli altri?”. E Pilato di contro: “Sono forse io Giudeo!”. Cioè: “Non sono giudeo! Io non penso come la tua gente”. Ed è vero: non pensa come loro ma si lascerà condizionare dal loro giudizio. Pilato può liberare Gesù, ma ha paura di quello che potrà pensare e fare la gente.
L’unico uomo che ha realmente potere, Pilato, è l’uomo più legato e imprigionato.
E qui c’è una frase tremenda: “La tua gente e i sommi sacerdoti ti hanno consegnato a me: che cosa hai fatto?” (Gv 18,35). Gesù portava un Dio diverso, un Dio nuovo. Per questo era pericoloso. Il vangelo, la buona novella, non è stata rifiutata perché era buona ma perché era nuova. Le persone preferivano credere al vecchio (anche se era disumano) piuttosto che accettare il nuovo cambiamento e la nuova immagine di Dio.
Allora Gesù chiarisce le cose: “Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù” (Gv 18,36).
Cosa gli dice Gesù? “Il mio regno non ha nulla a che vedere con i regni di quaggiù. I regni di quaggiù hanno soldati, servitori e armi; e i potenti si fanno servire. Ma nel mio regno più uno è potente, grande, e più lui si mette a servire, non a farsi servire”. Nel regno umano la gente chiede: “Cosa fai tu per me?”. In quello divino: “Cosa posso fare io per te?”.
Nel regno umano: “Mi ami? Mi vuoi bene? Perché non me lo dici mai?”. In quello divino: “Io ti amo; ti voglio bene; io ci sarò sempre per te; e tu potrai venire sempre da me!”.
Nel regno umano: “Mi aiuti? Perché non mi aiuti?”. In quello divino: “In cosa ti posso essere di aiuto?”. Nel regno umano: “Non ci sei mai! Mi trascuri!”. In quello divino: “Esci con me? Mi piacerebbe invitarti a mangiare con me. Ti va?”. Nel regno umano: “Tu non mi hai mai dato nulla”. In quello divino: “Sento quanto mi ami; riconosco il tuo aiuto; grazie per tutto quello che hai fatto per me; ti sarò sempre riconoscente”.
Nel regno umano la gente chiede, pretende, vuole e si aspetta dagli altri. Nel regno divino, invece, la gente si propone, si offre e si mette a servizio.
Allora Pilato gli dice: “Dunque tu sei re?” (Gv 18,37). E Gesù: “Per questo io sono nato e per questo sono venuto al mondo: per rendere testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità ascolta la mia voce” (Gv 18,37). Gesù è il re della verità, ma di quale verità? La verità di Dio.
Gesù manifesta la verità di Dio: Dio non è colui che chiede, che vuole, che s’indigna o s’arrabbia, ma colui che si mette in ginocchio davanti agli uomini e lava loro i piedi. Dio non chiede, Dio dona. Dio non vuole l’amore, Egli viene a portare il suo.
Questo era inaccettabile per i religiosi del tempo: se l’uomo è amato da Dio, loro, i sacerdoti e le autorità del Tempio, a cosa servono? Se l’uomo ha libero accesso all’amore di Dio, perché andare al Tempio per il perdono dei peccati? Se Dio ti ama al di là di tutto, perché rispettare tutte le 613 regole religiose? Se è Dio che ama, a che serve il culto?
Tutto questo non poteva essere accettato dalle autorità religiose del tempo perché scardinava alla base le loro strutture, perché in questo modo loro perdevano di senso. Per questo Gesù deve essere ucciso.
Gesù dice: “Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce” (Gv 18,37). Noi avremmo detto il contrario: “chi ascolta la voce di Gesù è nella verità”. Cosa vuol dire esattamente Gesù? Verità (aletheia) vuol dire “togliere il velo”. La verità è quella cosa che ognuno deve scoprire da solo: deve tirare su il velo e vedere cosa nasconde sotto. Magari non è come lui pensava, magari non è come voleva, magari lo costringe a cambiare vita, magari lo sconvolge, magari è difficile da accettare, magari è dolorosa. Ma è la verità.
Per ascoltare Gesù, bisogna avere questa capacità, essere disponibili a non mettere “filtri”, a non anteporre continuamente le nostre vedute alla verità.
Per ascoltare Gesù, portatore di verità, dobbiamo avere il coraggio di affrontare la verità, di essere pronti cioè a scoprire, a vedere, ad affrontare ciò che si cela dietro la nostra facciata di perbenismo, qualunque cosa essa nasconda. Altrimenti di Gesù accetteremo solo ciò che vorremo accettare, solo ciò che ci piacerà o ciò che è conforme alle nostre idee.
E Pilato chiede: “Che cos’è la verità?” (Gv 18,38). A lui non interessa nulla della verità: cerca solo di menar il can per l’aia. E se ne lava le mani. Pilato non accetta la verità; egli agisce seguendo il suo credo: delle verità giudee, a lui non interessa proprio nulla. Per due volte dice: “Io non trovo in lui nessuna colpa” (Gv 18,38; 19,6) e cerca di liberarlo (Gv 19,12). Un paradosso: Lui, che non vuole sapere, che non vuole “aprirsi”, Lui conosce perfettamente la verità: Gesù è innocente. Ma la sua cecità, la sua ignavia, il suo tornaconto, avranno il sopravvento su di lui: si arrenderà, se ne fregherà della verità, e lo consegnerà in mano ai Giudei.
Ebbene: cosa ci dice oggi questo vangelo? Che Gesù fu un uomo libero: e che se vogliamo essere felici, dobbiamo essere “liberi” anche noi.
Per molte persone, banalmente, la libertà consiste nel fare ciò che vogliono, nel seguire i propri istinti, nell’ignorare la volontà degli altri; è “libero” chi mostra i muscoli, chi esibisce la sua forza, chi è franco e dice le cose in faccia: ma tutto questo, scusate, non vuol dire essere “liberi”; vuol dire semplicemente essere aggressivi. Questa gente non è libera: ma giustifica il proprio comportamento, la propria forza, la propria “pseudo sincerità”, la propria franchezza, solo per legittimarsi, per essere cioè “liberi” di ferire il prossimo, di comportarsi come meglio crede: ma questa non è libertà, è sopraffazione!
Per il vangelo, libertà è vivere nella verità: “La verità vi farà liberi” (Gv 8,32). Ciò significa che noi diventeremo liberi solo se scopriremo chi siamo realmente, solo facendo verità su di noi stessi. La libertà è un cammino, è un processo dinamico. E più diventeremo liberi, più diventeremo sovrani, re, padroni della nostra vita. Ogni verità, che scopriremo dentro di noi, ci renderà sempre più liberi; e ogni libertà ci renderà sempre più felici.
Amen.

mercoledì 11 novembre 2015

15 Novembre 2015 – XXXIII Domenica del Tempo Ordinario

«In quei giorni, dopo quella tribolazione, il sole si oscurerà, la luna non darà più la sua luce, le stelle cadranno dal cielo e le potenze che sono nei cieli saranno sconvolte. Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire sulle nubi con grande potenza e gloria» (Mc 13,24-32).

Il vangelo di oggi è uno di quei testi che viene preso come l’annuncio della fine del mondo. Ci sono dei gruppi, come i testimoni di Geova o i gruppi religiosi apocalittici, che parlano moltissimo di “prepararsi”, di “vegliare”, di “essere pronti”, di “fine del mondo”, vedendo segnali premonitori in ogni dove.
Ma questo passo del vangelo, come tanti altri dello stesso tenore, non alludono affatto alla fine del mondo. Parlano della fine di “un mondo”, è vero;  ma non della fine “del mondo”.
Penso che il bisogno di attaccarsi alla “fine del mondo” risponda soltanto ad una loro esigenza interiore, inascoltata, di far finire un loro mondo, a cui sono molto attaccati e da cui non riescono a staccarsi. Sperano che accada dal di fuori , e dall’alto, ciò che loro non riescono a fare personalmente nel loro intimo.
Bene: il testo di oggi inizia dunque col v. 24 del capitolo 13 di Marco. C’è un antefatto: al primo versetto dello stesso capitolo un discepolo, uscendo con Gesù dal tempio, gli dice: “Maestro guarda che pietre e che costruzioni” (Mc 13,1): di fronte a tanta bellezza, a tanta maestosità e potenza del tempio di Jahweh, il poveretto rimane rapito. Non per nulla tutti erano convinti che se Gerusalemme si fosse trovata in difficoltà, Dio sarebbe intervenuto in prima persona proprio lì, nel tempio, per salvarla.
Ma Gesù gli risponde: “Vedi queste grosse costruzioni? Non rimarrà qui pietra su pietra che non venga distrutta” (Mc 13,2). E più avanti, ribadendo il concetto, dice: “Ciò sarà il principio dei dolori” (Mc 13,8): in realtà il testo greco dice: “sarà il principio delle doglie”; cioè: sarà doloroso, come il partorire, ma che Gerusalemme venga distrutta, è un bene, è un fatto positivo, poiché questo tempio impedisce la comunione tra Dio e gli uomini.
Già dall’inizio del capitolo 13 si parla quindi di cadute di elementi ritenuti simboli di certezze, elementi indistruttibili. “Infatti sorgeranno falsi cristi e falsi profeti i quali daranno segni e prodigi per sedurre, se possibile, gli stessi eletti (Mc 13,22). È un avvertimento.
Ma vediamo cosa segue subito dopo. Gesù (siamo al vangelo di oggi), prosegue:
“In quei giorni, dopo quella tribolazione (cioè la distruzione del tempio) il sole si oscurerà e la luna non darà più il suo splendore e gli astri si metteranno a cadere” (Mc 13,24).
Cosa vuol dire qui Marco? Egli utilizza semplicemente delle espressioni dell’Antico Testamento, in cui il sole, la luna, gli astri erano oggetti di culto, venivano adorati dalla gente.
Noi, quando parliamo di religione ebraica, pensiamo subito ad una religione rigidamente monoteista, una religione cioè che adorava un unico Dio. Ma se andiamo a vedere non è stato sempre così: all’inizio anch’essi credevano nel sole, nella luna e in tante altre divinità; soltanto con il tempo sono arrivati a credere in un solo Dio. C’è stato, cioè, nel corso dei secoli un lungo processo di purificazione, anche se in certi periodi la religione politeista cananea riprendeva il sopravvento.
Allora cosa sono questi “astri” che cadranno dal cielo? Qui, lo ripeto, la fine del mondo non c’entra niente: nessuna calamità, nessun giudizio, nessun sconvolgimento cosmico. Lo sconvolgimento e la catastrofe riguardano solo le entità celesti (gli dei) che abitano nei cieli, non la terra.
In altre parole, tutte queste divinità pagane sono destinate a cadere giù definitivamente: un certo tipo di religione pagana finisce, perde il suo splendore e l’idolatria entra in crisi. Ma prima è necessario che “il vangelo sia proclamato a tutte le genti” (Mc 13,10). Cioè: quando il vangelo sarà accolto da tutti, queste divinità pagane finiranno, perché di fronte al vangelo tutta questa religiosità scompare.
Ecco perché “gli astri si metteranno a cadere” (Mc 13,25: il verbo indica un cadere continuo): non è una pioggia di asteroidi, di stelle, di pianeti, ma semplicemente la caduta progressiva e inarrestabile delle divinità celesti di quel tempo; inoltre anche i potenti, i principi, i re, cioè tutte quelle persone che si ritenevano “divine”, di fronte all’annuncio e all’espansione del vangelo, subiranno la stessa tragica fine .
Per capire ancora meglio dobbiamo riferirci al profeta Isaia: “Come mai sei caduto dal cielo, astro mattutino, figlio dell’aurora? Come mai sei stato steso a terra, signore dei popoli?” (Is 14,12).
Questo “astro del mattino” (identificato con Lucifero, precipitato dall’alto dei cieli) altri non era che il re di Babilonia, che si arrogava il rango divino, era “salito in cielo” diventando, oggi diremmo, una vera “star”, era cioè convinto di essere Dio, una divinità. E cosa dice Isaia di lui?
“Eppure tu pensavi: Salirò in cielo, sulle stelle di Dio, innalzerò il trono, dimorerò sul monte dell’assemblea, nella parti più remote del settentrione. Salirò sulle regioni superiori delle nubi, mi farò uguale all’Altissimo. E invece sei stato precipitato negli inferi (=sotto terra), nelle profondità dell’abisso” (Is 14,13-14); il potente re di Babilonia, che si credeva un Dio, è finito anch’egli in una tomba (lett. nell’Ade/Sheol, nel regno dei morti)! Così sulla tomba di Alessandro Magno hanno scritto: “Basta questa terra (un metro per due!) all’uomo a cui non bastava il mondo”. Ecco dov’è finita tutta la sua potenza!
Dunque: “le potenze nei cieli saranno sconvolte” (Mc 13,25). Sono tutte queste pseudo divinità (potenti, governanti, false divinità, ecc.) che finiranno saranno sconvolte!
“Allora si vedrà il Figlio dell’uomo venire sulle nubi con grande potenza e gloria” (Mc 13,26). “Venire sulle nubi”: le nubi non sono il mezzo di trasporto di Dio, ma indicano la realtà di Dio, come avviene nella trasfigurazione in cui nella nube la voce dice:  (cfr. la nube della trasfigurazione e la voce: “Questi è il figlio mio prediletto” (Mc 9,7). Cioè: gli “astri” cadono, mentre il Figlio dell’uomo “sale”.
Qui c’è una regola valida in ogni tempo: ogni volta che cade un regime ingiusto, un potere disumano, la dignità, l’Uomo, si afferma (il Figlio dell’uomo = la vera umanità). Ogni caduta di un sistema oppressore o di un’idea iniqua, qualunque esso od essa sia, è una liberazione per l’uomo.
Allora non c’è una venuta fisica del Figlio dell’uomo: ma è il risplendere di Dio in noi, nella nostra cultura, nella nostra società, nelle nostre relazioni, nel nostro vivere personale e sociale.
“Ed egli manderà gli angeli e riunirà i suoi eletti dai quattro venti, dall’estremità della terra fino alle estremità del cielo” (Mc 13,27).
“Manderà gli angeli”: chi sono questi angeli? Per Marco è addirittura una persona, il Battista: “Ecco, io mando il mio “ànghelon”, il mio messaggero, davanti a te” (Mc 1,2). Per cui gli angeli sono quelle persone che diventano “messaggeri” di pienezza di vita; sono i messaggeri umani di Dio. L’angelo non trasmette una dottrina ma un’esperienza: questi angeli non sono quindi nient’altro che le persone che hanno già conosciuto, che hanno già sperimentato Dio.
Saranno essi che “riuniranno gli eletti” (Mc 13,27), riuniranno cioè tutti coloro che hanno vissuto per il bene dell’uomo. Cioè: mentre le potenze dei cieli (gli oppressori), coloro che hanno combattuto contro la Vita, cadranno, tutti quelli che hanno combattuto per la Vita verranno fuori e vivranno.
Concludo: cosa può dire a noi questo vangelo?
Dobbiamo saper valorizzare ciò che ci succede, sia esso un dramma, una tragedia oppure un’occasione da non perdere, altrimenti in nessun altro modo avremmo potuto fare ciò che non volevamo o temevamo di fare.
Cadono il sole, la luna, gli astri: crollano cioè tutti i nostri punti di riferimento; può sembrare la fine, ma al contrario può essere la venuta del Figlio dell’uomo in noi, cioè la nascita di una parte di noi molto più vera, una parte di noi che altrimenti, in nessun altro modo avrebbe potuto nascere.
Noi tentiamo di controllare tutto: decidiamo, pianifichiamo, progettiamo, facciamo delle previsioni, dei sogni, cerchiamo di raggiungere sempre ciò che ci proponiamo, per i nostri sogni impieghiamo tutte le nostre energie, ecc. Bene: ma in tutto questo, dove mettiamo Dio? Dov’è il suo spazio di azione? Se decidiamo tutto noi, Lui come può agire?
Proprio per questo Dio si trova nell’imprevisto, in ciò che non ci aspettiamo, nelle sorprese. Perché questo è l’unico spazio che gli rimane per agire, visto che noi decidiamo e pianifichiamo sempre tutto. E se Dio volesse farci capire qualcosa che non vogliamo capire, in quale altro modo potrebbe farlo, se non sorprendendoci, se non dandoci qualche sberla per farci pensare?

Allora, quando tutto ci va bene, viviamolo e ringraziamo Dio. Quando tutto crolla, viviamolo e ringraziamo Dio. Quando c’è l’amore, viviamolo e ringraziamo Dio. Quando c’è il rifiuto, viviamolo e ringraziamo Dio. Quando c’è la vita, viviamola e ringraziamo Dio. Quando la morte ci tocca da vicino, viviamola e ringraziamo comunque Dio. Viviamo insomma ogni istante della nostra vita, ringraziando Dio per quell’istante. Amen.


mercoledì 4 novembre 2015

8 Novembre 2015 – XXXII Domenica del Tempo Ordinario

Gesù si trova nel tempio di Gerusalemme e la gente lo ascolta volentieri, accorrendo da ogni parte. E qui dà una prima spallata ai notabili del Tempio: “Guardatevi dagli scribi” (Mc 12,38).

Ma chi erano questi scribi? A noi il termine “scriba” ci fa pensare a degli “scrivani”, a degli “amanuensi”, gente incaricata di copiare i libri sacri per divulgarli, ma non è così. Gli scribi erano i teologi per eccellenza, il magistero infallibile, la Dottrina della Fede del tempo. Studiavano la Scrittura tutta la vita e a quarant’anni ricevevano lo stesso “Spirito di Mosè”: e da quel momento erano “la Parola” del Dio vivente. E se vi era contraddizione tra la parola di Dio scritta e quella dello scriba, la sua era quella corretta, che tutti dovevano seguire. La loro autorità era maggiore dei re e del sommo sacerdote.
Purtroppo, a quel tempo, il grande problema degli scribi, era Gesù. Sì, perché la gente lo ascoltava, pendeva dalle sue labbra, era entusiasta delle sue parole: come era successo fin dagli inizi nella sinagoga di Cafarnao (Mc 1,21-28), in cui tutti i presenti si ripetevano l’un l’altro: “Oh, questo sì che viene da Dio!” (Mc 1,27). “Finalmente delle parole chiare e comprensibili! Parlano al cuore, vengono da Dio! Non sono come quelle quelle degli scribi!”.
E decretano: “Questa è una nuova dottrina insegnata con autorità” (Mc 1,27): “nuova” non perché è un’altra: ma perché è di una qualità totalmente superiore a quella precedente, cioè a quella degli scribi.
Di fronte a questa campagna “dissacratoria”, gli scribi decidono di partire da Gerusalemme (Mc 3,22) per raggiungere il luogo dove predicava Gesù, e controllare l’ortodossia di quest’uomo che si atteggiava a Maestro. Sono in gruppo compatto, come se fossero la Santa Sede dell’epoca: non dei semplici preti ma il fior fiore di cardinali, di teologi: gente preparatissima, intelligente!
E cosa vedono? Vedono immediatamente la coerenza di Gesù: tutto quello che Lui dice e insegna, Lui stesso lo mette prima in pratica. Non possono dire alla gente: “Gesù vi inganna, vi racconta falsità” perché tutti hanno occhi: e con Lui i ciechi tornano a vedere, gli zoppi a camminare, i paralitici si rialzano e i morti tornano a vivere. Sono cose che tutti possono vedere. E loro non possono certo dire: “Non è vero!”. Allora dicono: “Sì, lo fa’, ma lo fa in nome del diavolo!”. “Gesù? È un indemoniato, un eretico! Bestemmia!” (Mc 3,22). “È vero che guarisce (non potevano negarlo!), ma fa il vostro bene per portarvi ancor di più nella perdizione”.
E qui Gesù pronuncerà le parole più dure della sua vita: “Tutti i peccati saranno perdonati e anche le bestemmie, eccetto chi avrà bestemmiato contro lo Spirito Santo: sarà reo di colpa eterna, senza nessun perdono” (Mc 3,28-29).
Parole forti, Parole che hanno fatto da sempre tanta paura e tutti si saranno chiesti (e si chiederanno): ma cos’è questo peccato contro lo Spirito Santo? È il peccato che commettono le autorità religiose (Papa, Vescovi, preti, teologi: quanti cioè sono preposti ad insegnare e a trasmettere la Parola di Dio; qui sono gli scribi, ai quali Gesù appunto si riferisce) quando,  avvalendosi della loro autorità, sostengono che gli insegnamenti di Gesù (Vangelo e dottrina della Chiesa) non solo non fanno bene all’uomo, ma addirittura sono per lui un male, lo ingannano, lo portano alla perdizione. Non possono essere perdonati perché, consapevolmente, chiamano “male” ciò che al contrario è “bene”. Per Gesù questo è intollerabile, è la cosa più nefasta possibile.
Per questo dunque Gesù esclama senza eufemismi: “Guardatevi dagli scribi” (Mc 12,38). Che significa: “State attenti!”. Non fatevi ingannare! Non c’è da fidarsi di loro, evitateli! Non fatevi ingannare dalle loro cariche, dal ruolo e dall’immagine che ostentano. Non lasciatevi suggestionare dai modi con cui si presentano, dai comportamenti con cui si esibiscono in pubblico!”.È semplice riconoscerli, questi “scribi” di ieri e di oggi, questi “ricchi di nulla”, questi arricchiti arroganti e dispotici: perché “amano passeggiare in lunghe vesti” (Mc 12,38) (letteralmente non “amano”, ma “thelo”, vogliono). Loro non si sentono come tutti gli altri: loro sono “di più”, sono superiori a tutti gli altri; loro hanno un rapporto particolare e diretto con Dio: per questo indossano vestiti (stolè) particolari, proprio per distinguersi dagli altri.
Chi veste così, chi “sfoggia” i vari Armani, Valentino ecc., vuole essere ammirato, vuole essere notato, invidiato. Ma il vestito che li diversifica, nasconde la loro miseria interiore. Luca in 16,19 ricorda che il ricco vestito di porpora e di bisso era un poveraccio nel cuore, senza misericordia, senza amore, pieno solo di inferno e di insensibilità. Più uno è povero nello spirito, vuoto dentro, e più cercherà di coprire la sua miseria con abiti sontuosi.
Quando poi sono in mezzo alla gente, questi scribi vogliono che sia chiaro che: “Io non sono come voi”: amano “Ricevere i saluti nelle piazze” (Mc 12,38). I saluti non sono: “Buongiorno, buona sera…”, ma l’essere additati di nascosto con ammirazione: “Ecco lo scriba, il dottore, il monsignore, Sua Eccellenza, il Presidente…”; poiché dentro sono vuoti (non c’è la persona) vivono di questo; poiché si sentono nessuno, hanno bisogno dei titoli e del ruolo per sentirsi qualcuno: di modo che la gente possa dire: “Che persona importante!, Che persona gradevole, quanto è istruita! Chissà quante lauree ha conseguito”. Non cadeteci!
Vogliono inoltre “i primi seggi nelle sinagoghe” (Mc 12,39): nella sinagoga c’erano dei gradini per cui i primi seggi stavano in alto, sopra gli altri, bene in vista, mentre gli altri erano sotto. Oggi stanno tutti in prima fila, seduti nelle poltrone di velluto rosso… Vogliono esser ben visibili, distinti dagli altri. Vogliono “i primi posti nei banchetti” (Mc 12,39): sono quelli a fianco del padrone di casa, i posti migliori per essere serviti per primi, per essere considerati importanti.
Lo stesso vale anche per quando pregano: “Io non sono come gli altri, che sono peccatori…”.
Questo è dunque quanto gli scribi dimostrano all’esterno; ma al loro interno? Altra realtà: “Divorano le case delle vedove” (Mc 12,40). Nella Bibbia le vedove e gli orfani sono la categorie più deboli, perché non hanno nessuno che le difenda, sono le meno protette. Per questo, si dice, che è Dio stesso il loro protettore. Al contrario cosa fanno questi signori? Non hanno alcuna pietà per questa gente che dovrebbero difendere. “Non hai soldi? È un problema tuo!”. “Hai peccato? Potevi pensarci prima! Fuori!”.
“Ostentano di fare lunghe preghiere” (Mc 12,40). Tante preghiere, tanti rosari, tante funzioni, tanti segni di croce ma per Gesù è tutto un “bla, bla, bla...”.
Una storia vecchia quanto il mondo: già il profeta Isaia lo aveva notato: “Questo popolo mi onora con le labbra ma il suo cuore è lontano” (Is 29,13; Mc 7,6).
“Essi riceveranno una condanna più severa”, dice il vangelo: la loro condanna viene qui ancora una volta decretata.
Poi, di punto in bianco, il vangelo mette Gesù nel tempio, di fronte al tesoro.
Dobbiamo sapere una cosa: quando uno peccava, per ricevere il perdono doveva “pagare” in denaro o portando degli animali. I sacerdoti del tempio, quindi, erano felici quando la gente peccava, perché più peccava e più loro si arricchivano!
E cosa vede Gesù di fronte al tesoro? Tutti i ricconi arrivano e gettano le loro cospicue offerte. Una povera donna, invece, vi getta solo due spiccioli, tutto quello che aveva per vivere. I primi hanno fatto una cospicua elemosina, donando comunque un nulla rispetto a quanto possiedono. Questa donna, invece, no! Lei dà al tempio tutto ciò che le serve per vivere. Senza preoccuparsi di cosa l'indomani mangeranno lei e i suoi figli.
Da un altro punto di vista, il vangelo ripropone lo stesso concetto: da un lato i ricchi, i potenti, che vivono la loro “religiosità” con superba ostentazione; dall’altro il poveretto che offre a Dio tutto se stesso nel silenzio e nell’anonimato.
E allora, una domanda nasce spontanea: “Perché Dio dimostra di apprezzare di più una poveretta che offre al tempio tutto ciò che ha? Forse che Dio vuole la morte delle persone? Forse che Dio vuole da noi soltanto sacrifici e privazioni? È questo il comportamento che Dio ci chiede?”..
Nossignori: Dio non vuole la morte di nessuno. Anzi, se leggiamo attentamente il vangelo, vediamo che il messaggio è decisamente un altro: “Vivi! Dio non vuole la morte ma la vita”.
Infatti cosa ha fatto Gesù in tutti suoi giorni di vita terrena? Ha sempre aiutato la gente a vivere per davvero. Se uno era cieco gli diceva: “Apri gli occhi non nasconderti la verità”. Cioè: “Puoi vivere di più”. Se uno era paralitico gli diceva: “Smettila di piangerti addosso, alzati in piedi, affronta le difficoltà e fai la tua strada. Vivi in prima persona, perché ne sei capace”. Se uno era morto (come l’amico Lazzaro) gli diceva: “Vieni fuori. Smettila di morire: vivi, senti, emozionati, slegati da ciò che ti fa morire, esprimiti, realizzati”. Se uno era imprigionato dai sensi di colpa per la sua vita, come la peccatrice, Lui diceva: “Vivi. Avrai sbagliato, ma tu sai amare. Adesso torna ad amare perché tu lo puoi”. Se uno era ingabbiato da tristi e ottuse leggi religiose, Lui gli diceva: “Vivi! La religione, il sabato, le regole religiose sono fatte per l’uomo e non l’uomo per il sabato”. Se uno era insoddisfatto, Lui gli diceva: “Vivi! Seguimi! Se vuoi la vera felicità devi trovare un senso alla tua vita e un modo per spendere ciò che sei e metterlo a servizio degli altri”. Se il tuo rapporto con Dio ti spegne, questo non è il Dio del vangelo.
Quello che nel vangelo di oggi Dio ci fa capire è invece un’altra cosa: la condanna della superbia, del fare il bene unicamente per farsi ammirare, dell’ostentare una religione puramente esteriore, superficiale, priva di contenuti, di pietà, di convinzioni, di fede, di serietà; di prediligere al contrario chi è umile, chi fa il bene nel nascondimento, nella modestia, senza esibizionismi, senza pubblicità, chi ama i fratelli col poco a sua disposizione, chi condivide il suo niente nella gioia e nell’amore per gli altri.
Egli fa esplicito riferimento infatti a quelle leggi che Lui stesso ha scolpito nel cuore di ogni uomo: “Scegli la vita e non la morte: tu sei vita. Scegli te stesso così come sei: tu sei questo; accetta la tua storia, le tue origini, la tua infanzia, le tue radici; se vuoi essere qualcos’altro da quello che sei, non potrai che fallire; parti dalla tua realtà. Scegli di diventare te stesso: tu sei unico; tu non sei come tuo padre, né come tua madre, né come gli altri: il tuo compito è fare il tuo viaggio verso di te per esser ciò che veramente sei, come Dio ti ha creato. Scegli l’amore: fai vivere il tuo amore; l’amore di Dio vive in te: conoscilo, sperimentalo e poi usalo verso di te e verso gli altri, usando la misericordia, la tenerezza, la compassione. Scegli di donarti: realizzati nel dono di te; la vita ha bisogno di essere data, versata, spesa per una grande causa: allora ci si sente al servizio del mondo e di Dio, allora si è utili, e vivere acquista finalmente il suo senso profondo.
Amen.

 

mercoledì 28 ottobre 2015

1 Novembre 2015 – Tutti i Santi

“Vedendo le folle, Gesù salì sul monte: si pose a sedere e si avvicinarono a lui i suoi discepoli” (Mt 5,1-12).

Gesù non allontana le folle; Egli le ama, le attira sul “monte” perché possano ascoltare (tranquillamente seduti) il suo messaggio. Il monte indica la condizione divina. Non è più come nell’Antico Testamento, dove c’era timore, paura di avvicinarsi a Dio. Adesso avvicinarsi a Lui è motivo di vita.
Inoltre, per gli antichi, i monti erano la dimora degli dei (pensiamo all’Olimpo): Gesù sale e si siede; in greco “kathisantos”: più che sedersi, Gesù si “installa”, si “mette nel posto” riservato agli dei. Gesù, che è il figlio di Dio, si siede sul “trono di Dio” (monte). Questo è il suo posto, è l’ambone che gli spetta di diritto come maestro, la cattedra da cui può tenere la sua lezione.
“Gli si avvicinarono i suoi discepoli”: dopo che li aveva “attirati”, perché è Gesù che li attira, al pari della folla. Dio non è più un Dio da temere ma un Dio che attira, che attrae. Non è più un Dio da cui star lontani ma un Dio da incontrare, da avvicinare. Non un Dio che ci può punire (per cui più lontano stiamo meglio è) ma un Dio che vuole amarci. Un Dio che non vuole qualcosa da noi ma un Dio che è lì per dare Lui qualcosa a noi. Il Dio di Gesù non incute paura: se pensiamo che Dio incuta paura allora non stiamo seguendo quello del Vangelo.
Matteo dice che i discepoli gli si avvicinano: ma Dio, con Gesù, ci è sempre vicino, è costantemente a portata di mano.
Prima di Gesù (e spesso anche oggi!) non era così. Nella religione ebraica per poter incontrare Jahweh nel suo Tempio, gli uomini potevano arrivare soltanto fino a un certo punto: soltanto il sommo sacerdote poteva entrare, una volta all’anno, nella sancta sanctorum,  quella stanza in cui si riteneva che ci fosse la presenza di Dio. Quindi tra Dio e il popolo c’era un abisso. Ma ora con Gesù, tutti possono avvicinarsi a Dio. Tutti lo possono incontrare, perché Dio non mette più barriere (meriti; purità; peccato; sacralità, ecc.).
“Prendendo allora la parola li ammaestrava dicendo” (Mt 5,2).
A questo punto Gesù proclama le otto beatitudini: perché otto? Perché nella simbologia del cristianesimo primitivo indicava la resurrezione (“l’ottavo giorno”). Gesù infatti è resuscitato il primo giorno dopo la settimana (quindi 7-settimana + 1-il giorno dopo la settimana=8).
Con il numero di otto “beatitudini” Matteo ci fa capire che chi vive così vivrà per sempre, vivrà cioè una vita che non sarà interrotta dalla morte. Mentre l’osservanza dei comandamenti di Mosè assicurava lunga vita in questa terra (ma poi anche i giusti morivano e come tutti finivano nello Sheol) la pratica delle beatitudini assicura una vita che supera la morte. Sia la morte fisica: chi vive così, come Gesù, avrà la stessa fine di Gesù (morte e resurrezione). Sia la morte morale: chi vive così piangendo, commuovendosi, provando felicità, lottando, appassionandosi ad una causa, amando intensamente, è così vivo dentro di sé da non temere neppure la morte.
Le Beatitudini, nel testo greco, sono esattamente 72 parole, lo stesso numero dei popoli pagani cui si riferisce il libro della Genesi: per cui mentre i comandamenti erano per il solo popolo di Israele, le beatitudini sono destinate a tutte le popolazioni della terra, a tutta l’umanità.
“Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli” (Mt 5,3).
La prima beatitudine, non è solo la prima, ma è la condizione di tutte le altre.
Beati (“ascer”, in ebraico), indica la felicità Divina, una felicità impossibile da raggiungere sulla terra. Ebbene questa felicità, dice Gesù, è qualcosa che possiamo vivere già da ora, sulla terra. Noi cioè possiamo fin d’ora essere terribilmente felici, pieni, gioiosi, in pace, riconciliati.
I primi ad essere definiti beati da Gesù sono proprio i poveri in spirito; cioè quelle persone che liberamente, per amore, entrano in una mentalità di povertà: non per aggiungersi ai tanti poveri che già ci sono e che la società ha creato, ma per eliminarne le cause, per far capire che i beni. Le ricchezze nella vita non sono tutto. Gesù non chiede a noi di spogliarci, ma di vestire gli altri. Egli chiede cioè di abbassare il nostro livello di vita per permettere a quelli che ce l’hanno troppo basso di innalzarlo un po’. Non si tratta di fare elemosina (rimangono sempre un ricco in alto che da, e un povero in basso che riceve) ma di diventare fratelli. Perché l’altro, mio fratello, ha gli stessi miei diritti.
“Di essi è il regno dei cieli” (Mt 5,3). Gesù usa un verbo al presente: “Felici quelli che liberamente, volontariamente, per amore, sono disposti a condividere: di essi è il regno dei cieli”. Gesù non dice “sarà” ma “è”: il regno dei cieli, il regno di Dio, è già a loro disposizione.
Oggi è la festa di tutti i Santi del Cielo: ma è la festa anche di coloro che sono “beati” già fin d’ora su questa terra, perché vivono la loro vita donando se stessi; è la festa di quelli che, sull’esempio di Gesù, vivono per amare, per far del bene al prossimo, per confortarlo nelle difficoltà, per guarirlo nelle ferite dell’anima, per sostenerlo nelle contrarietà della vita.
Perché amare è come creare: è dare agli altri un qualcosa di noi stessi; un qualcosa che li faccia sentire accolti, apprezzati, valorizzati, compresi, supportati; un qualcosa che li faccia “rinascere”, un qualcosa per cui anch'essi possano riconoscere nel loro cuore quanto è grande l’amore di Dio per ognuno di noi. È così che si diventa santi; è così che anche noi possiamo diventarlo, è così che ci sentiremo completamente realizzati, fecondi, umili ma instancabili dispensatori dell’amore di Dio; è così che raggiungeremo infine, già su questa terra, quella gioia vera, quella gioia divina, promessa da Dio a quanti mettono in pratica i suoi consigli.

È esattamente questo che ci dice il Vangelo delle beatitudini: “La vera gioia sta nel dare, meglio ancora, nel darsi; nel creare, con la nostra abnegazione, motivi di vita, di gioia, di riconoscenza a Dio, a chi è nello sconforto, nella solitudine, a chi è bisognoso di aiuto materiale e spirituale. Donarsi vuol dire essere utili, vuol dire riconoscere alla nostra vita il suo significato più profondo; vuol dire che quel poco che facciamo, è pur sempre un bene per il mondo; vuol dire che siamo importanti non per la fama, per la cultura, per i nostri averi, ma per il nostro amore, per la nostra umile e sincera dedizione.
Le beatitudini infatti sono una proposta di felicità: “Vuoi essere felice? Vivi così”. Mentre per il mondo felicità è avere cose, titoli, possedimenti, fama, gloria, per Gesù felicità è essere, è vivere, è intrattenere con gli altri autentiche relazioni. Per il mondo felicità è possedere; per Gesù felicità è essere liberi. Per il mondo la felicità è fuori di noi: “Se avrò quella cosa; se avrò quella persona; quando sarò così, ecc.”. Per Gesù è dentro di noi: “Se ti libererai dai tuoi demoni, dai tuoi mostri, se sarai trasparente, ti conoscerai”.
Le beatitudini dicono: “Vuoi essere veramente felice, vivo?”. “Vivi così!”.
Le beatitudini non sono un comando, “Devi essere così”, ma una scelta: “Se vuoi essere vivo dentro, sentire la Vita, l’energia che ti pulsa nel cuore, la vera felicità, vivi così”. Possiamo insomma dire che le beatitudini sono la guida per condurre una vita sana per il corpo e soprattutto per l’anima.
Vediamone brevemente il significato.
Dunque, “Beati i poveri in spirito”: se facciamo il contrario, se dipendiamo dalla ricchezza, non possiamo essere “beati”. Ma non è tanto la ricchezza ad essere dannosa, quanto il possesso, la dipendenza, l’esserne schiavi. L’uomo che dipende dalla ricchezza sostituisce con essa la propria autostima, il proprio valore. Non è la sessualità ad essere pericolosa, né la birra e neppure la sigaretta: il vero pericolo è la dipendenza, il non poterne più fare a meno, l’esserne schiavi.
Una madre, per assioma, non può essere considerata pericolosa: ma se siamo dipendenti in tutto e per tutto da lei, se la nostra personalità continua ad essere il riflesso della sua, se non gestiamo autonomamente la nostra vita, ma viviamo succubi di ogni sua personale valutazione, allora sì. Il padre, la moglie, i figli, il capo, non sono pericolosi, ma se noi viviamo per loro (cioè in funzione loro), se non riusciamo a starne senza, a distaccarci, se siamo dipendenti da quello che pensano o vogliono da noi, allora non solo sono pericolosi ma mortali. Quindi, beati i poveri in spirito: rimaniamo cioè liberi, non dipendiamo da niente e da nessuno: facciamo in modo che la nostra vita sia rivolta solo a Dio e che solo Lui sia il nostro Dio. Sì, perché Gesù ci chiede anche una povertà più alta, più difficile, più meritoria: il distacco anche dai beni morali e perfino da quelli spirituali. Chi pretende infatti di essere stimato e considerato dagli altri, chi è attaccato alla propria volontà, alle proprie idee o è troppo dipendente dalla propria autostima, dalle lodi, dagli apprezzamenti del mondo, o addirittura chi si rinchiude in un proprio benessere “spirituale”, non è “povero nello spirito”, ma ricco possessore di se stesso. “Se qualcuno vuol venire dietro di me – dice il Signore - rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua” (Mt 16,24 ).
Beati gli afflitti: il contrario è il non saper piangere, il non sentire il dolore che viviamo. Cosa succede se non piangiamo mai, se non ci commuoviamo mai? Succede che col tempo il nostro cuore si sclerotizza, fa la crosta, indossa una corazza e diventa insensibile. Noi non sentiamo più nulla. E quando non sentiamo più nulla, perdiamo ogni sensibilità, cadendo facilmente nelle malattie dello spirito.
Beati i miti: il contrario è essere duri con se stessi . Cosa succede se irrigidiamo il nostro cuore? Lo stesso di quando irrigidiamo oltre misura i muscoli per raggiungere qualcosa: mal di schiena, tensioni, strappi, ecc: non siamo troppo duri con noi stessi: affidiamoci a Lui. Lasciamo fare a Lui.
Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia: il contrario è vivere in superficie, senza ascoltare la “fame” di cose giuste, di passione, di “vita vera”, di profondità. Praticamente diventiamo ciò che viviamo. Se parliamo solo di materia, diventeremo tali.
Beati i misericordiosi: il contrario è essere spietati. Perché avere pietà degli altri? Non guardiamo in faccia nessuno, giudichiamo sempre, “tagliamo in due” gli altri; ma poi non lamentiamoci quando avremo lo stesso trattamento. Perché ciò che facciamo agli altri, prima di tutto lo facciamo a noi.
Beati i puri di cuore: il contrario è vedere “cattive intenzioni dappertutto”. Vedere sempre il male; vedere sempre il lato negativo, l’imbroglio dietro ogni cosa; mettere sempre in evidenza l’unica cosa negativa invece di guardare il tanto positivo che c’è; vedere nemici e pericoli dappertutto... però  poi non chiediamoci perché viviamo nell’ansia, nel controllo e nella paura. Ciò che si vede fuori, altro non è che quello che siamo dentro.
Beati gli operatori di pace: il contrario è vivere nel rancore, nella rabbia, nell’odio: coltivare rancore per ogni piccolo sgarbo; perdonare, ma senza mai dimenticare; legarcela al dito; vivere nella rabbia... ma poi non lamentiamoci se viviamo male, se ci viene un’ulcera, una colite, una gastrite, ecc. Vivere nella rabbia è il modo migliore per essere sempre in guerra: e la guerra fa solo morti.
Beati i perseguitati per causa della giustizia: il contrario è sentirsi perseguitati ingiustamente. “Tutti ce l’hanno con me; nessuno mi vuole; non mi ami; non mi vuoi; con tutto quello che faccio per te, cosa ti ho fatto di male?”. Vediamo tutto nero, ci sentiamo vittime del mondo, degli eventi; ci sentiamo perseguitati ingiustamente... ma poi non chiediamoci perché siamo depressi o così tristi, o perché le cose non cambiano mai.
Le cose non cambiano mai perché siamo noi a non voler far cambiare la prospettiva alla nostra vita.
Le beatitudini: un semplice manuale per vivere felici, per vivere da santi: viviamo così e la nostra casa sarà piena di gioia, di amore, di serenità.
Amen.