Gesù chiede nuovamente ai suoi la riservatezza nei suoi confronti: non vuole che la gente sappia della sua presenza. Egli vuole, prima del precipitare degli eventi, concentrarsi su di loro, per formarli, istruirli; per questo ha bisogno di tempo e di tranquillità.
Compattare un gruppo, una squadra, è decisivo per compiere qualunque impresa: se non si dispone di una buona squadra, si può essere bravi quanto si vuole ma non si va da nessuna parte. E Gesù lo sa. Egli sa benissimo che da solo il suo messaggio non potrebbe continuare. Per questo forma un gruppo di volontari, di appassionati, di gente libera, di gente che lo segue perché coinvolta, “presa”, entusiasta: e ad esso Egli dedica tempo e formazione, perché saranno loro che lo aiuteranno e che poi continueranno la sua missione.
Gesù dunque parla agli apostoli e dice loro: «Il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma, una volta ucciso, dopo tre giorni risorgerà» (Mc. 9,31).
Abbiamo già sentito domenica scorsa (Mc 8,27-35) un annuncio analogo: ma questa volta è un po’ diverso: se nel primo Gesù indica come autori della sua passione e morte le autorità religiose, tutta gente ebrea, qui parla più in generale di “uomini”. È l’umanità intera quindi che si rifiuta di accettare quella vera umanità che il Figlio dell’uomo è venuto a portare su questa terra, un’umanità che è solidarietà, perdono, amore, tenerezza, compassione, servizio, non violenza.
«Ma essi non comprendevano queste parole e avevano timore di chiedergli spiegazione» (Mc. 9,32). Non chiedono perché hanno paura dei chiarimenti, preferiscono non capire perché intuiscono che la novità degli insegnamenti del Maestro, del suo Vangelo, è completamente diversa dalla loro, da quella che essi intendono. Essi pensano ad una grande nazione, con a capo Gesù; ad un forte esercito, magari proprio sotto la loro guida, con armi e potere. Essi vedono in Gesù il nuovo Davide che restaurerà l’antico regno. Ma Gesù non è nulla di tutto questo. Lui è il “Figlio dell’uomo”.
Giunti a Cafarnao Gesù chiede loro: “Di cosa stavate discutendo lungo la via?” (Mc 9,33). È chiaro che non hanno voluto coinvolgere Gesù nel loro parlottio. Camminava insieme a loro, ma essi lo hanno volutamente escluso dai loro discorsi: come mai? Perché, annotazione molto bella di Marco, essi stavano discutendo su chi sarà “il più grande” al seguito di Gesù. Ancora una volta dimostrano di non aver capito nulla delle sue parole. Sono completamente fuori.
Gesù, che pensa sempre in positivo, interpreta invece il loro parlare un semplice scambio di opinioni, un’amichevole reciproco riflettere su qualcosa di interessante, di profondo: nella sua domanda infatti Marco gli fa usare il verbo “dialoghizo”, che indica appunto un conversare pacifico, tranquillo, quando invece, noi sappiamo, la loro era stata una vera e propria discussione, una disputa: non un “dialoghizo”, quindi, ma un autentico “dialego”; due modi diversi di affrontare le cose: Gesù è mosso dall’amore, essi invece covano nei loro animi ambizione, voglia di successo, desiderio di gloria mondana. Una differenza chiarissima, per cui, dice il vangelo, “essi tacevano” (Mc 9,34). Il loro è il classico silenzio dell’imbarazzo, l’ammutolirsi di chi capisce improvvisamente e inequivocabilmente di trovarsi sul versante opposto.
A questo punto Gesù, che conosceva bene la situazione, avrebbe potuto arrabbiarsi sul serio: “Siete dei testoni irrecuperabili, possibile che vi ostiniate ancora a non voler capire?”. Invece si siede, e pazientemente riparte offrendo loro una nuova opportunità. Ben diverso da noi, che di fronte ad una contrarietà scattiamo immediatamente: Lui sa che tutto si impara con calma e con grande pazienza.
E a scanso di ulteriori equivoci, spiega: “Se uno vuol essere il primo, sia l’ultimo di tutti, il servo di tutti” (Mc 9,35). Parole chiarissime, che vanno ben oltre l’oggetto del loro contendere.
Loro infatti avevano litigato su chi sarebbe stato il “più grande”, Gesù invece stabilisce il comportamento di chi vuol essere il “primo”. Due situazioni differenti: perché mentre per gli apostoli “il più grande” è in assoluto uno che è “più” degli altri, per Gesù essere il “primo” non comporta l’essere “più” di nessuno: se uno solo dei discepoli può diventare il “più grande”, al contrario tutti, discepoli e non, possono essere i “primi”; come? diventando “servi” degli altri. E qui dobbiamo fare attenzione alle parole: Gesù parla volutamente di “servo” non di “schiavo”: il termine usato è “diàconos”, non “doulos”: quindi una differenza sostanziale, un approccio completamente diverso, perché mentre il “diacono” si mette spontaneamente a servizio degli altri, in maniera libera e volontaria, lo schiavo no: lui fa le cose solo perché è costretto a farle.
Essere “servo” dei fratelli, quindi, comporta un atteggiamento sinceramente propositivo, vuol dire in pratica non considerarci superiori a loro, non disprezzarli, non fagocitarli, non dominarli, non discriminarli. Vuol dire trattarli come trattiamo noi stessi, con la stessa cura, con la stessa sollecitudine, con lo stesso entusiasmo: ben consapevoli che nessuno è inferiore a noi, e che noi non siamo superiori a nessuno.
L’essere “servi”, pertanto, esclude anche ogni forma di servilismo, contrariamente a come talvolta ci hanno fatto credere: esclude cioè l’annullamento di noi stessi, della nostra dignità, il distruggerci, l’umiliarci, l’esaurirci, l’arrivare fino quasi a morire per “servire” gli altri; ancora: non vuol dire spersonalizzarci, non vuol dire che dobbiamo obbedire sempre e passivamente, stare sempre zitti, essere comunque accondiscendenti, soprattutto quando non dovremmo: soprattutto non vuol dire arrivare ad essere considerati persone inutili, degli zerbini da calpestare. Perché questa è una forma di spiritualità esasperata, inutile e dannosa. Significa non tenere in nessun conto la grande dignità che Dio ha riconosciuto a ciascuno di noi, in quanto opera delle sue mani.
E che fa Gesù a questo punto? Prende un bambino, lo pone in mezzo a loro e lo abbraccia.
Ma perché un bambino? Per la nostra cultura il bambino è il simbolo della tenerezza, dell’amore, della vulnerabilità, una persona importante da difendere e da accudire. Ma ai tempi di Gesù un bambino non era nessuno, non contava nulla, non aveva alcuna autorità, non aveva voce su nulla. Era come se non esistesse. “È così che dovete comportarvi, dice Gesù: dovete essere tutti come dei bambini!”. Che non vuol dire essere “infantili”, ma sentirsi come loro, essere cioè come loro incapaci di dominare gli altri, incapaci di usare forza e potere nei loro confronti; tant’è che “Chi accoglie uno di questi bambini nel mio nome, accoglie me e Colui che mi ha mandato” (Mc 9,37). In altre parole, sottolinea Gesù, “dovete essere come me, dovete imitare me, uomo mite e umile, che pur avendo potere, mi sono comportato come se non l’avessi”.
Il “vero potere” è quindi non avere potere. Il vero potere è l’amore: perché l’amore, come il bambino, non ha potere. Se avesse potere, non sarebbe più amore, ma autorità, dominio, supremazia: equivarrebbe cioè gestire gli altri, tenerli in pugno, farli girare intorno a sé; farli sentire in colpa, tenerli legati a noi per poterli manipolare.
Il potere, a differenza dell’amore, ignora gli altri, non rivolge loro la parola, impedisce loro di conoscere la verità, di conoscere cosa pensiamo, cosa decidiamo, come viviamo; manipola, seduce, minaccia, vuole avere sempre ragione. Il potere tende solo a distruggere gli altri; l’amore al contrario li valorizza, li sostiene, previene i loro bisogni, asciuga le loro lacrime, condivide le loro gioie.
C’è un solo modo di esercitare positivamente il potere coinvolgendo tutta la nostra autorità: unicamente verso noi stessi: e questo per migliorare le nostre virtù, per superare le contrarietà che incontriamo nel nostro cammino spirituale, per fare della nostra vita un canale di grazia; per raggiungere insomma l’amore vero di Gesù, l’unico amore che dà pace e pienezza, l’unico amore che ama senza alcuna costrizione. In tal caso non impegnare tutto il nostro potere per questo fine, equivale solo a comportarci come quei discepoli, ottusi e ostinati, che cercavano alibi, deleghe e giustificazioni inutili. Amen.