giovedì 1 maggio 2014

4 Maggio 2014 – III Domenica di Pasqua

«Mentre conversavano e discutevano insieme, Gesù in persona si avvicinò e camminava con loro. Ma i loro occhi erano impediti a riconoscerlo». (Lc 24, 13-35).
Il vangelo di oggi racconta la delusione dei due discepoli che, abbandonata Gerusalemme, si dirigono verso Emmaus. Camminano e parlano fra loro. È naturale che i loro discorsi siano incentrati sulle ultime ore di vita del loro maestro, la cui tragica fine è ancora impressa dolorosamente nella loro mente. Avevano creduto in Gesù, avevano posto il lui grandi speranze; veramente quest'uomo li aveva "presi", entusiasmati, contagiati. Ma adesso tutto è finito e la loro delusione è grande, enorme, insopportabile, senza fine.
Sembra vederli quei poveretti, quando al tramonto camminano assorti nei loro sconfortanti ricordi: eppure quante volte ci ritroviamo anche noi nello stesso identico stato d’animo: “Questo proprio non mi doveva succedere! Non me l'aspettavo! Non ci voleva! Ed ora cosa faccio?”. E siamo delusi, abbattuti: “Pensavo che le cose andassero diversamente, e invece...”. E siamo infuriati: “perché la vita ce l’ha tanto con me? Che ho mai fatto a Dio di tanto male?”. Quante volte siamo delusi anche noi da come va la nostra vita! Nutrivamo tante speranze, avevamo delle attese, delle aspettative sui nostri rapporti, sul nostro matrimonio, sulle amicizie, sul nostro futuro… e invece, poi, contro ogni logica, tutto è andato storto!
Sì, siamo giustamente e profondamente delusi: e non ci accorgiamo che, sempre nella nostra vita, quando siamo in difficoltà, Gesù si mette al nostro fianco, cammina con noi, percorre la nostra stessa strada. Come succede ai due discepoli di Emmaus, non ci rendiamo conto della sua presenza, non lo riconosciamo. Eppure quella di vederlo è un’esperienza meravigliosa che tutti possiamo vivere, nessuno escluso: è sufficiente avere fede.
Purtroppo però noi ci siamo fatti di Dio un’idea tutta nostra: quando cioè deve intervenire, egli lo fa in maniera forte, straordinaria, si presenta in modo eccezionale, con una presenza sovrumana, con metodi strabilianti: solo così noi lo potremmo riconoscere; solo così potremmo accettare i suoi discorsi, i suoi consigli. Se vuole avvicinarsi a noi, lo deve fare in certi modi, a certe condizioni: siamo noi a dettare le condizioni, a stabilire come, dove, quando. Nella vita abbiamo cose ben più importanti per la testa, che immaginare un Dio che improvvisamente decide di calarsi nella nostra vita, nelle nostre giornate, camminare al nostro fianco, rimanendo in incognito. Non siamo inclini agli indovinelli!
Eppure dovremmo sapere che proprio quando non lo vediamo, proprio quando la nostra vita è uno schifo, arida, quando abbiamo veramente bisogno di Lui, quando lo chiamiamo a gran voce ma lui non si fa vivo, non è Lui che non viene da noi, ma siamo noi che, schiavi dei nostri schemi mentali, non riusciamo a vederlo. E nonostante ciò, Egli ripasserà ancora, correrà da noi ogniqualvolta ci troviamo in difficoltà:ma se noi continuiamo a guardare sempre con il paraocchi, continueremo sempre a non vederlo: questa purtroppo è la nostra grande sventura.
Sì, perché Dio nella sua pazienza, nel suo immenso amore, continua a starci sempre accanto, anche quando noi non lo vediamo, lo ignoriamo. Dio ci parla, ci guida, ci indirizza anche se non ci accorgiamo che è veramente Lui.
Continuiamo testardamente ad andare per la nostra strada, in senso contrario a quello in cui dovremmo andare. Siamo al buio, senza Luce, senza Dio: continuiamo a fare ciò che non dovremmo fare, proseguiamo a casaccio per la nostra cattiva strada, rincorsi dalla paura, dall’angoscia, dal risentimento.
Gli apostoli avevano abbandonato tutto per Gesù: casa, lavoro, famiglia, moglie, figli; in una parola tutte le loro certezze: possiamo quindi capire bene la delusione immensa che hanno provato alla sua morte.
Per loro è stata veramente la “fine del mondo”. Ma, incredibilmente, è proprio in questo “fallimento”, è all'interno di questa amara delusione, che incontrano Gesù.
Quando ci succede qualcosa di grave e il mondo sembra crollare intorno a noi, in realtà è la fine di un nostro mondo, non “del” mondo. Quando ci sentiamo dei falliti, abbiamo mancato solo un nostro obiettivo, un nostro modo di vederci, un modo di pensare, di vivere, ma non siamo “noi” i falliti. È nel bel mezzo delle nostre delusioni, dei nostri fallimenti, che possiamo scorgere Dio al nostro fianco; è proprio allora che possiamo incontrarlo a tu per tu, ascoltarlo, parlargli apertamente. È qui, una volta abbattuti i muri del nostro orgoglio, della nostra caparbietà, delle nostre apparenti sicurezze, che lui può entrare in noi e noi in Lui. È questa l’occasione in cui possiamo fare una esperienza vera e profonda di Dio: è proprio nel nostro fallimento più totale, quando cioè nessuno più ci stima, quando il lavoro, la vita, la famiglia, non ci danno più alcuna soddisfazione, quando ci accorgiamo di aver perduto la nostra facciata, il nostro buon nome, la nostra onorabilità, quando ci scopriamo colpiti da una malattia che non perdona: è esattamente allora che possiamo sentire in pieno la forza e il conforto del suo amore. È allora che Dio si avvicina a noi: e non perché abbiamo qualcosa di “bello” da offrirgli, ma semplicemente perché lui cerca noi, in tutta la nostra nudità, in tutte le nostre debolezze e miserie. Allora abbiamo la certezza che Lui ci ama semplicemente perché siamo noi, così come siamo; ci chiama con il nostro nome: noi e nessun altro. Allora lo “sentiamo” per davvero; allora conosciamo veramente chi è Dio.
Ogni volta che cadiamo, ogni volta che falliamo, dobbiamo chiederci: “Cosa mi sta dicendo ora Dio? Cosa devo imparare?” E dobbiamo ascoltarlo, perché lui solo ci guida alla salvezza, solo a lui noi interessiamo così come siamo, anche se siamo caduti così in basso. E lui, quando si avvicina, ci fa parlare, ci fa esprimere tutta la nostra amarezza, le nostre delusioni, la nostra tristezza, il nostro malessere, tutti i disagi che abbiamo dentro.
Noi abbiamo bisogno di "tirare fuori" il nostro male, il nostro dolore, tutto ciò che ci opprime. Il dolore è come un veleno: se non lo sputiamo fuori ci uccide. Abbiamo bisogno di "tirare fuori" le nostre gioie, le nostre speranze, la nostra vita, perché prenda forma, perché circoli, perché viva, perché si espanda. Abbiamo bisogno di raccontare le nostre esperienze, il nostro profondo perché raccontandolo lo facciamo esistere.
Chi ha vissuto queste esperienze lo sa: quando i nostri cuori si sono aperti nella preghiera, quando si sono rivelati umilmente in tutta la loro debolezza, quando abbiamo abbassato tutte le nostre maschere, è allora che abbiamo sentito davvero Dio. Chi non vuole aprirsi quando lui si avvicina, decide di non incontrare il Dio della vita. E non capisce che senza la luce di Dio nulla ha un senso: perché è lui che ci indica il filo conduttore che lega tutto ciò che ci succede: è così che possiamo guardare la nostra vita con gli occhi di Gesù, con gli occhi della fede. E la nostra vita acquista allora un senso profondo. Anche le cose apparentemente più negative, come la malattia, le disgrazie più sconvolgenti, acquistano un significato. Non è mai un caso se succedono e viviamo certe cose: e quando ci accorgiamo che tutto accade per un senso, per un motivo, è allora che diventiamo responsabili della nostra vita e di quella degli altri; è allora che non possiamo più vivere con gli occhi chiusi; è allora che sentiamo la nostra vita veramente nelle nostre mani e soprattutto nelle nostre scelte.
Gesù si affianca ai discepoli e li ascolta. Non fa altro. Loro però non lo riconoscono perché sono troppo presi dai loro problemi, dal loro dolore, dalla loro delusione e dalla loro sofferenza. Avviene esattamente anche a noi quando siamo troppo dentro ad una cosa: non vediamo altro che questa. Solamente dopo aver "buttato fuori" tutta la nostra sofferenza potremo "vedere" le cose diversamente. Solo allora potremo vedere Gesù.
E allora quando ci rivolgiamo a Lui, preghiamolo non perché sia Lui a risolvere i nostri problemi, ma perché aiuti noi a vederli e a risolverli. E dobbiamo essere pronti ad accettare la sua risposta. Qualunque risposta.
Il vangelo di oggi, poi, ci dice che tutto questo (Gesù che ci accompagna, Gesù che vuole che ci confidiamo con lui, Gesù che ci spiega che tutto ha un senso positivo nella vita, compresi i fallimenti e le sconfitte) lo possiamo trovare realmente nell’Eucaristia: allo “spezzare del pane” sull’altare, anche i nostri occhi si apriranno, e sentiremo il nostro cuore aprirsi e “ardere” di gioia.
Anche i discepoli lo riconoscono in questo momento; e anche noi, in questo momento, capiremo che Lui è sempre, continuamente, al nostro fianco; capiremo che Lui c’è sempre, quando lo vediamo e anche quando non lo vediamo, quando lo sentiamo e anche quando non lo sentiamo. È una certezza intima, quella che sentiremo, che ci consolerà, ci ricaricherà, ci darà la forza di superare ogni asperità del nostro cammino. In quel momento di grande intimità con Lui, sentiremo il nostro cuore ardere di un fuoco che illumina, che riscalda, che brucia, che spiana ogni difficoltà: e ci sentiremo pronti, nel nostro andare, ad essere anche noi fuoco di luce e di calore per quanti incontriamo. Sì, perché quando abbiamo Dio dentro di noi, non abbiamo più bisogno di trovarlo fuori; quando Dio è dentro di noi, ovunque andiamo, lo porteremo sempre con noi e potremo condividerlo nell’amore e nella carità con quanti incontriamo. Amen.

 

giovedì 24 aprile 2014

27 Aprile 2014 – II Domenica di Pasqua

La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!» (Gv 20,19-31) .
Il vangelo di oggi ci parla di due apparizioni di Gesù, avvenute con modalità identiche ma in tempi diversi e soprattutto con finalità diverse: la prima era destinata a consolare e rinfrancare i discepoli di allora, la seconda a sollevare e incoraggiare noi, i discepoli futuri: i primi, radunati insieme nel giorno del Signore, hanno avuto la fortuna di incontrarlo visivamente, tangibilmente, ricavando da tale incontro quella gioia profonda, quell’entusiasmo che li hanno spinti poi a seguire coraggiosamente il suo invito, divulgando nel mondo la sua Parola e fondando la Chiesa; noi, radunati nell’Eucaristia domenicale - pur non vedendolo materialmente, ma incontrandolo e ammirandolo con gli occhi della fede - possiamo sperimentare la stessa gioia, lo stesso coraggio, la stessa forza per proseguire nella Chiesa la loro stessa opera evangelizzatrice: “Beati quelli che pur non avendo visto, crederanno”.
In altre parole il racconto del vangelo ci offre l’immagine perfetta di quello che succede a noi ogni domenica, quando ci riuniamo in chiesa per celebrare l’Eucaristia: noi riviviamo, come i discepoli di allora, la stessa “esperienza” del Risorto: egli è presente in mezzo a noi; non lo “vediamo” materialmente, è vero, ma lo possiamo toccare, lo “sentiamo”, lo possiamo assumere in noi, percepiamo nitidamente e concretamente il calore consolatore del suo amore, sentiamo in noi quella stessa forza rinnovatrice di allora, forza di cui abbiamo tanto bisogno. Se non fossimo tanto distratti, sentiremmo esplodere la sua voce dentro di noi: “Pace a voi!”. Sono le stesse parole rivolte ai discepoli radunati nel cenacolo, parole con cui tutti i presbiteri, di ogni tempo e di ogni luogo, salutano i fedeli riuniti in chiesa nella celebrazione eucaristica.

Santa Eucaristia! Importanza e bellezza dell’Eucaristia! Noi settimanalmente possiamo ripetere la stessa esperienza vissuta dagli apostoli! È il nostro appuntamento settimanale con Gesù, nel “suo” giorno, il “primo della settimana”, il “dies Domini”, il giorno del Signore.
È l’occasione sublime in cui possiamo parlargli francamente a tu per tu, confidargli le nostre paure, svelargli i nostri segreti, aprirgli le nostre “chiusure” ermetiche, appianare tutti i nostri contorti “distinguo”. Sì, perché l’Eucaristia è forza e perdono.
Prima di tutto è “forza”: perché noi tutti quando andiamo in chiesa, soffocati dalle nostre paure, dalle nostre chiusure, incontriamo il Risorto, incontriamo la Forza, la Vita, la Luce, l’Energia, l’Amore misericordioso. E che ci succede? I battiti irresistibili del suo cuore, sovrastano l’aridità del nostro, cancellano, annientano le nostre insicurezze, le nostre tiepidezze, le nostre ansie, le nostre paure, le nostre infedeltà. Solo lì, in quel preciso momento, possiamo ritrovare la voglia di vivere e di ripartire; la voglia di aprirci, di cambiare; la voglia di essere migliori.
Nell'Eucarestia, davanti a Lui, noi ritroviamo l'energia per affrontare e superare tutto quello che ci sembra impossibile. È lì, alla presenza del Risorto dentro di noi che, al pari degli apostoli, sentiamo che nulla può farci più paura, nulla può più fermarci.
L’Eucaristia è poi “perdono”: Gesù nella sua vita terrena ha sempre perdonato tutti; ha avuto per tutti parole di consolazione e di incoraggiamento: peccatori, prostitute, gentaglia di ogni genere, gente di malaffare. Ebbene: noi tutti, quando ci presentiamo alla sua Cena, rappresentiamo un po’ tutti questi personaggi, sia all’esterno, nei nostri comportamenti, che all’interno, nei nostri pensieri. Ci presentiamo a Lui, confidando nella sua misericordia. Prima di sperare però il suo perdono, dobbiamo imparare anche noi a perdonare i nostri fratelli, e soprattutto imparare a perdonarci. Sì perché noi spesso non riusciamo a perdonare gli altri proprio perché non sappiamo perdonare noi stessi; siamo irrigiditi, paralizzati, bloccati dal male che abbiamo commesso: invece di tirarlo fuori, di guardarlo bene in faccia, di esternarlo chiedendo perdono, preferiamo tenerlo chiuso, sepolto nella nostra anima, lo ignoriamo, fingiamo che non esista: ma lui esiste, è lì, nel nostro cuore; ci corrode l’anima, ci incattivisce; anche se non lo vogliamo, nei momenti più impensati , egli riemerge in tutta la sua forza. Solo quando sapremo perdonarci, solo quando riusciremo a liberarci della nostra zavorra, solo quando sapremo distaccarci da esso, il nostro dolore, la nostra vergogna, il nostro pentimento ci faranno ritrovare l’Amore e, riversando in Lui le nostre miserie, potremo a nostra volta rivolgere ai nostri fratelli il sentimento del vero perdono.
Ogni volta che noi andiamo a messa, dobbiamo permettere alla nostra anima di percorrere questa conversione interiore: perché, anche se è difficile ammetterlo, la prostituta siamo noi; i peccatori siamo noi; i “pubblicani” siamo noi; i farisei siamo noi. E andiamo lì, davanti a Gesù, per ricevere il suo perdono: e l'Eucarestia ci fa vivere, ci fa felici, ci fa liberi, spingendoci a portare amore (perdono) dove non c'è.
Possiamo quindi dire che l'Eucarestia è l'incontro con le nostre ferite. E solo dopo averle “toccate”, come fece Tommaso con le ferite di Gesù (mani, piedi e costato), potremo anche noi esclamare: “Mio Signore e mio Dio!”; potremo cioè esprimere a Gesù la nostra più intima e sincera proclamazione d’amore. Con queste parole noi affermiamo la nostra personale esperienza di Gesù Risorto, il nostro incontro diretto con Lui: con gli occhi della fede, lo abbiamo visto, toccato, sperimentato personalmente. E a questo punto non abbiamo più bisogno che gli altri ci vengano a dire le loro di esperienze; noi abbiamo vissuto la nostra.
In realtà a nessuno può bastare le esperienze altrui. Dio è un'esperienza diretta, personale: ognuno lo deve “toccare”, vedere, incontrare. Altrimenti ci costruiamo delle teorie, ci facciamo delle idee, seguiamo delle intuizioni altrui, dei pensieri “fantastici”, ma non abbiamo nessuna esperienza diretta con Lui. Saremmo come coloro che dicono di sapere tutto sul vino, ma non hanno mai sperimentato quanto sia inebriante degustarne un buon bicchiere; o come chi afferma di conoscere tutto sull’amore, per averlo letto o studiato sui libri: ma ignorano cosa vuol dire sentirsi amati, innamorati: è tutt’altra cosa. Con le parole “calore”, “vino, nessuno si è mai riscaldato o ubriacato! È l'esperienza delle cose che produce la vera conoscenza, quella del cuore. Esperienza (da “ex-perior”) vuol dire infatti provare, sentire, toccare, sperimentare.
Ecco perché le nostre liturgie eucaristiche non ci devono “parlare” di Dio; ce lo devono far sentire, toccare, sperimentare. E noi dobbiamo aver il coraggio di lasciarci coinvolgere, di lasciarci “toccare”, perché se ciò non avviene, le nostre belle liturgie non servono a niente: i canti, la partecipazione dell’assemblea, i gesti, le letture, tutto è liturgia “efficace”, soltanto se ci mettono in contatto con Dio. Ripeto: se le nostre celebrazioni eucaristiche, rigorosamente conformi alle norme liturgiche, non ci fanno sentire Dio, non ce lo fanno toccare, non ce lo portano nel nostro cuore e nella nostra vita, non servono a niente, sono assolutamente inutili: sono insomma piacevoli evasioni dal quotidiano, sono momenti di ammirazione per il bello in se stesso; ma non sono l’incontro personale con il Dio della Vita; non ci procurano quelle emozioni intime con cui Lui ci “parla dentro”, con cui Lui entra in vibrazione con la nostra anima e la nostra sete di Infinito; emozioni che ci fanno fare i conti con le nostre realtà, le nostre risorse, le nostre potenzialità.
E concludo: nell’Eucaristia le nostre ferite, le nostre miserie, ci portano a Dio; e Dio, a sua volta ci porta alle nostre “ferite”, ci fa mettere il dito sulle nostre di piaghe. Perché solo “toccandole”, avendone la cognizione esatta, potremo curarle, potremo liberarcene.
Del resto, chi non ha ferite? Come si può pensare di vivere senza essere feriti? Allora chi non ha bisogno dell’Eucaristia? Chi, sapendo di essere ferito, non sente il bisogno di andare da Colui che può guarirci? La Comunione della domenica fatta in grazia di Dio, è il suo balsamo, la sua crema, il suo unguento, l’unico medicamento valido per le nostre ferite. È in questo modo che Lui ci assicura accoglienza, protezione, accettazione, fiducia, amore.
Allora, andare a messa non è più un dovere, un atto abitudinario da fare, ma un bisogno di ricongiungerci con noi stessi, con gli altri, con la Vita, con l’Amore. Se comprendiamo questo, andare a messa la domenica sarà fonte di grande gioia per l’incontro con Dio che andremo a fare, sarà un bisogno impellente, improrogabile, del nostro cuore e della nostra anima. Amen.

mercoledì 16 aprile 2014

20 Aprile 2014 – Solennità di Pasqua

«Il primo giorno della settimana, Maria di Màgdala si recò al sepolcro di mattino, quando era ancora buio, e vide che la pietra era stata tolta dal sepolcro» (Gv 20,1-9).
Il vangelo di Pasqua ci presenta tre figure in movimento: Pietro, Giovanni e Maria Maddalena. Tutti e tre vanno al sepolcro, luogo di morte; ma per “vedere” Gesù, devono compiere questo tragitto e superare l'ostacolo della pietra. È un particolare che deve farci riflettere.
Nel “sepolcro” noi pensiamo di trovare la morte, la fine, la rottura di un’esistenza, il buio; invece... troviamo vita, bellezza, gioia di vivere. Il nostro incontro con Cristo inizia proprio da lì. Ma per poterlo incontrare, per poterlo “vedere”, dobbiamo fare i conti con un percorso e con quanto ci preclude ogni visuale: l’accesso a Gesù nel sepolcro è chiuso, ostruito da una pietra: una pietra pesante, un macigno, la cui rimozione ci sembra assolutamente impossibile; per cui, meglio ignorarla. Ma c’è: sì, perché la “pietra” in questione è l'incapacità di provare dentro di noi sentimenti veri, profondi, gioiosi; è la paura di mostrarci per quello che siamo, facendoci piuttosto esibire maschere e facciate diverse; “pietra” è la paura della vulnerabilità, del piangere; “pietra” è quel dolore silenzioso che ci urla dentro, quel segreto che nascondiamo in noi; è il dolore e la sofferenza per chi ci ha lasciato; pietra è il freddo, la solitudine che ci sentiamo dentro, che ci congela l’anima, impedendoci di tirar fuori il nostro amore; pietra è il terrore di morire, la paura delle malattie, l’angoscia di rimanere soli, il rimpianto per gli anni che passano inesorabilmente. Tutti abbiamo una pietra del genere con cui fare i conti: ma dobbiamo essere convinti che rimuovendola, troveremo qualcosa di completamente nuovo, di diverso: la pietra è il nostro motivo di morte che va superato, va spazzato via. Se lo ignoriamo, se lo evitiamo, non potremo mai incontrarci con Lui, non potremo mai trovare la Vita.
Nel nostro cammino, poi, dobbiamo come Giovanni, “inchinarci” per vedere l’interno del sepolcro; dobbiamo cioè inginocchiarci, dobbiamo accettare umilmente la nostra debolezza, il nostro continuo cadere. Dobbiamo cambiare: e dobbiamo volerlo! perché se non lo vogliamo, non cambierà mai nulla, tutto rimarrà nelle tenebre. Il sepolcro rimarrà la nostra dimora stabile: ci sarà impossibile vedere lo splendore della “risurrezione”, il cambiamento radicale della nostra esistenza.
Pietro e Giovanni corrono: anche questo è importante, decisivo: non basta trascinarci pesantemente, controvoglia; non basta adattarsi a quello che fanno tutti. Siamo noi, io tu gli altri, che dobbiamo incontrarlo: nella nostra diversità, pur essendo tutti speciali, dobbiamo spingere al massimo; se ci rassegniamo, se ci immobilizziamo, se traccheggiamo, non approdiamo a nulla, se non cominciamo a correre, ci precludiamo ogni risultato. Rimanere nel “sepolcro”, rimanere nelle nostre zone buie, significa rifiutare volutamente ogni invito, ogni tentativo della Vita di farci uscire.
Ci comportiamo un po’ come il bambino che sta per nascere: “Lasciami qui, non voglio! Se esco muoio, sto bene così come sto: perché mettere fine ad una vita tanto beata?”. Ma il bimbo non muore, anzi, al contrario, nasce alla vita! La stessa identica cosa succede alla morte: “Oddio, che paura! Non voglio morire! Cosa mi aspetta di là?” E anche questa volta si nasce a vita nuova, si entra in un’altra esistenza: al cui ingresso ci saranno due mani aperte, misericordiose, piene di amore, che ci accoglieranno, ci abbracceranno. Nel fondo della morte c'è sempre la vita.
Ci sono altre piccole cose che ci insegnano a Pasqua questa grande verità: per esempio, l’usanza di regalare ai bambini un uovo (adesso è di cioccolata perché è più buono, ma quand’ero bambino si usavano “le uova” bollite e colorate). Perché? Perché Pasqua, come l’uovo, è appunto il simbolo della vita, di qualcosa che nasce, di qualcosa di nuovo, di inaspettato, di imprevisto che viene alla luce. È il simbolo della nostra trasformazione, della nostra rinascita, del nostro passaggio decisivo da credenti in embrione, a discepoli maturi e convinti. Ma “risorgere” non è cosa facile. Anche l’uovo, come la pietra del sepolcro pasquale, offre una resistenza all’apertura: c’è uno scudo, una corazza, una barriera da superare perché qualcosa di nuovo possa sorgere. Allora augurarci “Buona Pasqua” vuol dire augurarci che questa trasformazione avvenga: che nella nostra vita possa nascere finalmente qualcosa di totalmente nuovo, di lungamente atteso, di meraviglioso.
La resurrezione deve essere per noi un salto esistenziale decisivo: il Gesù risorto non è tornato a vivere la vita di prima (il Gesù storico è morto per sempre); il Gesù risorto è passato ad una nuova dimensione, completamente diversa: ora Egli vive nella sua dimensione divina, celeste, eterna. In quanto Dio glorioso, egli continua comunque a vivere in mezzo noi; continua a vivere in ciascuno di noi, nell’uomo di ogni tempo. È una verità, questa, che ci lascia abbastanza indifferenti: siamo decisamente molto poco “spirituali”; per credere in Lui sul serio, vorremmo “vederlo”, toccarlo, sentirlo, percepirlo. Come san Tommaso. Come gli apostoli: che, dimenticata ogni paura, ogni esitazione, hanno poi affrontato ogni ostacolo, qualunque pericolo, perché lo sentivano vivo e presente dentro di loro e con loro. Ma sappiamo bene cosa ha detto Gesù in proposito: “…beati quelli che non vedranno e crederanno!”
La risurrezione, oltre che “conversione”, oltre che nascita ad una vita nuova, deve diventare allora, anche per noi, una missione, una risposta al suo invito di “testimoniarlo” nel mondo: “Sì, Signore, andiamo noi!”.
E, nonostante il nostro vezzo di scansare volentieri qualunque responsabilità, dobbiamo fare al meglio la nostra parte. L'umanità ha bisogno di noi; ha bisogno che noi, con la nostra vita da “risorti”, insegniamo agli uomini a vivere ad un livello di valori superiore.
L'umanità oggi è in grado di distruggersi: sembra che gli uomini, nella loro dissennatezza, mirino proprio a questo. Non c’è tempo da perdere: prima che accada, il “mondo” deve cambiare: la nostra società distratta, alienata, ripiegata su se stessa, deve “rinascere in spirito e verità”; deve assolutamente fare questo salto; ma per farlo ha bisogno di noi.
Nella nostra “risurrezione” abbiamo incontrato Cristo: non deludiamolo. Crediamoci! Non servono una cultura eccelsa, una lunga preparazione: gli apostoli erano come noi, gente semplice, ignorante. Ma è l’incontro con Gesù che li ha cambiati, come deve cambiare anche noi. Nel testimoniare Gesù, c’è una sostanziale differenza tra i sapienti, i dotti, e gli umili credenti: i primi, coloro che lo hanno studiato, trasmettono idee, teorie su di Lui; ma chi lo ha “incontrato”, chi lo “vive”, chi crede in Lui, trasmette la Vita, trasmette l’Amore.
Andate in tutto il mondo... io sono con voi” continua a ripeterci il Risorto. Che aspettiamo?
Noi possiamo e dobbiamo: basta esserne convinti. Virgilio infatti diceva: “Possono, perché credono di potere”. È proprio così! Mostriamo il volto di Dio al mondo intero: in modo che tutti i nostri fratelli possano finalmente esclamare in cuor loro, come Giobbe, “Dio, io ti conoscevo solo per sentito dire; ma ora i miei occhi ti vedono”. Amen.

giovedì 10 aprile 2014

13 Aprile 2014 – Domenica delle Palme

«Mentre egli entrava in Gerusalemme, tutta la città fu presa da agitazione e diceva: «Chi è costui?». E la folla rispondeva: «Questi è il profeta Gesù, da Nazaret di Galilea» (Mt 21,1-11).
Gerusalemme è la città che rifiuta Gesù; i suoi abitanti, quelli che gli preparano la croce.
Gesù non vuole entrare in Gerusalemme in un modo qualunque, ma predispone tutta una serie di preparativi che devono dare al suo ingresso un profondo significato simbolico, conforme in tutto a quanto previsto nelle Scritture: Ecco, a te viene il tuo re, mite, seduto su un’asina e su un puledro, figlio di una bestia da soma” (Zc 9,9). Egli entra in Gerusalemme non come un re che vuole impadronirsi del potere, che viene a giudicare e punire, ma come un re che intende servire.
Con questa azione simbolica Gesù vuole attribuire al suo ministero finale un valore paradossalmente regale. Colui che morirà in croce è colui che è entrato “regalmente”, trionfalmente nella città; una regalità che proietta la sua luce sulla croce; una regalità quindi non conforme agli schemi umani, ma alla logica di Dio: egli infatti non entra su carri trascinati da cavalli, come fanno i re e i trionfatori mondani, poiché la sua regalità non è basata sulla violenza, ma sulla giustizia e sulla pace.
La reazione coinvolgente della folla lascia intravedere qualcosa dei fermenti messianici che serpeggiavano nel popolo all’epoca del dominio romano. I loro gesti richiamano peraltro quanto si faceva normalmente per le processioni nella festa delle Capanne e quanto viene evocato dal Salmo 118: “Ordinate il corteo con rami frondosi fino ai lati dell’altare”. Le loro acclamazioni “Osanna al figlio di David” dimostrano che essi riconoscono in Gesù questo Re, che viene a salvare il suo popolo.
In sostanza a Gerusalemme viene offerta l’ultima possibilità per ravvedersi: ma questo non viene capito. La folla enorme e festante che accompagna Gesù infatti non è costituita dagli abitanti di Gerusalemme, ma dai pellegrini, che arrivano in città numerosi per l’imminente festa di Pasqua.
Gli abitanti dunque ancora una volta non gli vanno incontro: mantengono lo stesso atteggiamento di indifferenza, tenuto all’annuncio della sua nascita. Per essi Gesù continua a rimanere uno sconosciuto. Sono anche questa volta gli umili, i devoti, gli osservanti, i pellegrini, che in vista della città, stendono sulla strada i loro mantelli e i rami recisi dagli alberi. È in questo modo, semplice e popolare, che il re umile e mansueto viene intronizzato. Ma solo chi è altrettanto umile, misericordioso, mansueto, può cogliere in lui la sua vera immagine di Dio misericordioso: sotto la sua povertà può scorgere la ricchezza, sotto la vergogna l'onore, sotto la morte la vita immortale.
Siamo dunque alla fine del cammino di Gesù su questa terra. Ha faticato molto per far capire a tutti, con la sua vita, la sua testimonianza, il vero volto di Dio; ma la gente dimostra ancora di non aver capito nulla. A noi oggi viene spontaneo dire: “Certo che a quel tempo erano proprio duri di comprendonio!” Ma noi, tanto critici, siamo proprio certi che ci saremmo comportati diversamente? Non siamo forse noi quelli che, quando ci fa comodo, pensiamo a Dio soltanto come ad uno che ci aggiusta la vita? Accendiamo la candela e l'esame ci va bene; un po' di acqua benedetta, e la salute è assicurata. In pratica cioè stiamo anche noi osannando “il figlio di Davide”, e non il Figlio di Dio. In altre parole stiamo adorando un altro Dio, un Dio che ci fa comodo, un Dio che non è quello di Gesù Cristo.
Il Dio che è venuto a rivelarci Gesù è un Dio che non usa la forza, il potere, la prepotenza; non è venuto per sottometterci al suo volere, ma usa nei nostri confronti la debolezza dell'Amore, ci lascia sempre liberi di scegliere Lui o chiunque altro: come il padre misericordioso, ci lascia andare, liberi di fare la nostra vita lontano da lui, ma tiene sempre lo sguardo fisso sulla strada, sperando di vederci tornare per poterci riabbracciare, senza chiederci niente, pronto a fare festa per noi.
Il nostro Dio non si contorna di gente colta e altolocata, ma sceglie gli ultimi, i più bisognosi, perché sono quelli più oppressi, più schiacciati dal potere, che poi sono anche quelli più disponibili ad accogliere la sua Parola di salvezza.
Per questo motivo, a coronamento di una vita vissuta in questo modo, egli sceglie di entrare in Gerusalemme cavalcando un'asina: e la gente continua a non capire, perché un comportamento del genere è decisamente fuori dalla mentalità comune, da ogni aspettativa; come lo è anche per la nostra. Non siamo forse noi quelli che si guardano bene dal scegliere di stare dalla parte di chi non ha voce, del disabile, dell'anziano, dello straniero, rispondendo ai loro bisogni e non imponendo un aiuto a modo nostro? Non siamo forse noi quelli che, invece di vivere sobriamente accontentandoci di quello che abbiamo, cerchiamo di accumulare sempre di più, ci circondiamo di oggetti inutili, di chincaglierie che riempiono le mensole delle nostre case, adoriamo il Dio denaro, invece di condividere gioiosamente il poco con i poveri della terra? È una questione di mentalità!
Se ci riconosciamo in questa tipologia di persone, allora chiediamoci: “Cosa posso fare per cambiare il mio modo di pensare, adottando quello di Gesù?” Beh, penso che la prima cosa da fare sia proprio quella di conoscere a fondo il suo pensiero, di capirlo, di assimilarlo, di metabolizzarlo: e questo lo possiamo fare attraverso l’ascolto e la meditazione della sua Parola: magari riservando settimanalmente qualche momento di silenzio per riflettere sul brano di vangelo della domenica.
In questo modo, giorno dopo giorno, mese dopo mese, anno dopo anno, noi impareremo a conoscere Gesù sempre meglio; impareremo a vederlo come lui è veramente; ci scopriremo sempre più somiglianti a lui, pronti a vivere anche noi la nostra “passione”, ad amare l’altro fino in fondo, fino al punto di dare la nostra vita perché “l'altro abbia la Vita”. Amen.

venerdì 4 aprile 2014

6 Aprile 2014 – V Domenica di Quaresima

«Le sorelle mandarono dunque a dire a Gesù: “Signore, ecco, colui che tu ami è malato”. All’udire questo, Gesù disse: «Questa malattia non porterà alla morte, ma è per la gloria di Dio, affinché per mezzo di essa il Figlio di Dio venga glorificato» (Gv 11,1-45).
Quello che ci colpisce, ad una prima lettura del vangelo di oggi, è il comportamento decisamente incoerente di Gesù nei confronti di un suo carissimo amico: venuto infatti a conoscenza della malattia di Lazzaro, Egli si preoccupa di tranquillizzare tutti – “questa malattia non porterà alla morte” - ma poi in realtà avviene il contrario: Lazzaro muore; inoltre, dopo aver saputo che l’amico stava male, invece di correre da lui, continua per altri due giorni a predicare là dove si trovava: se veramente Lazzaro gli interessava, perché ha perso del tempo prezioso? Non avrebbe fatto meglio a correre subito da lui, raggiungendolo immediatamente? Nei suoi discorsi, Egli parla continuamente di resurrezione dai morti, di immortalità, di vita eterna: tutti argomenti che implicano gioia, fiducia, serenità; ma allora perché di fronte all’amico morto, lui scoppia in un pianto dirotto, come se resurrezione e vita eterna, al dunque, non contassero nulla? Infine, perché ha aspettato che Lazzaro morisse, che venisse sepolto, per resuscitarlo? Non era più semplice e immediato “guarirlo” fintantoché era vivo, risparmiando ai parenti il dolore straziante della morte, e a tanta gente il disagio di presenziare alla sepoltura del cadavere?
Ebbene: la spiegazione la troviamo in queste altre parole di Gesù: “[questi fatti sono successi] per la gloria di Dio, affinché per mezzo di essa il Figlio di Dio venga glorificato”. Che vuol dire? Che Lui ha volutamente aspettato che gli eventi precipitassero, perché così poteva dimostrare di essere veramente l’inviato del Padre. È una spiegazione teologica: in altre parole Gesù vuol dimostrare a tutti che la Vita (lui stesso) è più forte della morte. L’amore (lui è l’Amore) è più forte della morte e chi lo ama, anche se muore, non muore.
È chiaro che questo vangelo va letto alla luce della resurrezione di Gesù; esso vede infatti, nel ritorno in vita di Lazzaro, un preannuncio di quello che poi succederà a Gesù, anche se la risurrezione di quest’ultimo avverrà su un piano esistenziale totalmente diverso, comporterà conseguenze diametralmente opposte: infatti, mentre il Lazzaro “risorto” torna a vivere la sua vita di prima, ancorché “nuova”, potendo acquisire nuove esperienze, nuovi sentimenti, nuovi legami, nuova spiritualità, Gesù invece non riprenderà le sue sembianze umane, ma continuerà il suo esistere in un altro mondo, in un'altra forma; riprenderà cioè esclusivamente la sua esistenza divina.
Quando dunque Gesù giunge a Betania – come il vangelo si preoccupa di sottolineare - la salma di Lazzaro già “manda odore, poiché è di quattro giorni”. Presso gli Ebrei il funerale e la sepoltura avvenivano nello stesso giorno della morte; si credeva però che lo spirito rimanesse nel corpo fina a quando il cadavere era ancora riconoscibile. Il quarto giorno, quando il processo di decomposizione era ormai avanzato, lo spirito abbandonava il corpo del defunto e scendeva per sempre nella dimora dei morti, lo sheol, nel quale rimaneva in attesa della resurrezione.
Cosa vuol dire allora che uno di “quattro giorni” - cioè certamente e definitivamente morto - ritorna in vita? Vuol dire: “Anche quando uno è ormai morto, con l’anima che ha lasciato definitivamente il corpo... anche quando ogni barlume di speranza è perduta... anche quando ormai tutto sembra impossibile... Gesù, il Dio della Vita, dimostra di essere più forte, più potente di ogni morte”. In altre parole la risurrezione di Lazzaro ci dice che per Gesù non c'è “morte o sepolcro” dal quale Egli non possa farci uscire (“Esci fuori!”); che non esiste legame mortale (“piedi e mani avvolte da bende”) dal quale poterci sciogliere; che non esiste maschera o camuffamento (“Volto coperto da un sudario”) che non possa toglierci.
Ci sono poi, nell’ultima parte del vangelo di oggi, altre sfumature da cogliere, altre frasi di rara bellezza da meditare. Per esempio:
Dove l'avete posto?”; cioè, che ne avete fatto di lui? Dove l'avete messo? Traduco in vita pratica: che ne abbiamo fatto della nostra voglia di vivere, del nostro impegno, del nostro entusiasmo? Che ne abbiamo fatto dei sorrisi che regalavamo? Che ne abbiamo fatto dei nostri sogni? Che ne abbiamo fatto di ciò che eravamo? Che ne abbiamo fatto della nostra voglia di aiutare gli altri? Che ne abbiamo fatto delle doti che avevamo? Dove li abbiamo sepolti? Perché siamo morti? Sì, perché quando seppelliamo ciò che siamo, noi moriamo. Avevamo dei doni, dei talenti, ma per paura, per conformismo, per non crearci “rogne”, li nascondiamo: e allora moriamo, preferiamo la morte. Dio invece è Vita: in Lui e con Lui viviamo al massimo di noi stessi. Se sopravviviamo, se trasciniamo stancamente e inutilmente i nostri giorni, vanifichiamo il dono di Dio. Dio ci ha fatto un dono meraviglioso: la vita. Viviamola come suo dono; viviamola come un dono che Lui continua a regalarci ogni volta che noi cadiamo e ci allontaniamo da lui.
“Togliete la pietra”. Quante volte abbiamo “coperto” le nostre vere intenzioni, quante volte abbiamo messo una pietra sopra la nostra coscienza! Non vogliamo vederci “dentro”: non vogliamo che il nostro intimo, la nostra anima, abbandonata e stagnante, riveli all’esterno il suo olezzo nauseabondo. Ma togliamo dunque la pietra! Tiriamo fuori i nostri segreti! Tiriamo fuori la vergogna, gli scheletri dall’armadio! Tiriamo fuori l'odio, la sofferenza! Come possiamo pensare di vivere se continuiamo a custodire dentro di noi la morte? Non ci può essere “vita” per chi vive nella morte. Apriamoci, spalanchiamo il nostro cuore. Facciamo entrare Dio: Lui è perdono; Lui non si vergogna di noi. Lui ci ama veramente. Non temiamo: perché con Lui tutto può essere riportato alla luce, tutto può essere riportato in vita.
Scioglietelo e lasciatelo andare”. Rimanere legati, uccide; sciogliamo allora tutti i lacci che ci costringono, tutti i nodi che ci limitano. Lasciamoci andare a Lui! Lasciamo “libero” l’altro: perché questo è amore. Ognuno ha la sua strada e la sua missione. L'amore è permettere a ciascuno di compiere il suo viaggio. Se il nostro cammino coincide con il suo, bene. Se non è così, pazienza, ma noi dobbiamo lasciarlo andare. Se abbiamo fatto del bene a qualcuno, lasciamolo andare: non pretendiamo che ci dimostri riconoscenza per tutta la vita: ci ha già detto “grazie”; non rinfacciamogli ad ogni occasione quel poco di bene che gli abbiamo fatto. Lasciamolo libero!
Vieni fuori”. Vogliamo smetterla di nasconderci? Ci sentiamo rinchiusi in una prigione? Veniamone fuori! Siamo in una situazione, in una relazione, che ci fa morire? Veniamone fuori! Siamo convinti di non valere, di non farcela? Veniamone fuori! abbiamo sempre paura di fare brutta figura, di sbagliare e ce ne stiamo sempre in disparte, in un angolo? Veniamone fuori! Abbiamo paura di osare perché poi tutti ci vedono? Veniamo fuori! Abbiamo delle doti, delle capacità, ma temiamo l'opposizione degli altri? Veniamo fuori! Smettiamola di giustificarci: “Io sono umile; io non ho le capacità; io non sono adatto”; diciamoci piuttosto la verità: “Io ho paura”; non abbiamo il coraggio di venire fuori. Dio infatti vuole che noi emergiamo, che ci realizziamo, che brilliamo. Dimostriamo a tutti, proprio attraverso i doni immeritati che Lui riserva di continuo alla nostra persona, che Dio è Amore. Assolutamente da provare. Amen.

venerdì 28 marzo 2014

30 Marzo 2014 – IV Domenica di Quaresima – “Laetare”

«Condussero dai farisei quello che era stato cieco: era un sabato, il giorno in cui Gesù aveva fatto del fango e gli aveva aperto gli occhi» (Gv 9,1-41).
Un vangelo magistrale, quello di oggi: un vangelo che pone in primo piano molti personaggi: i discepoli, i farisei, i genitori del cieco, gli amici che lo conoscevano, e infine Gesù; un vangelo in cui Giovanni si diverte a dipingere con grande ricchezza di particolari, l’ottusità dei farisei e soprattutto la loro disonestà mentale; un vangelo di luce e tenebre, di chi vede e di chi non vede.
Tutto ruota intorno alla simpatica figura del mendicante, cieco dalla nascita: un tipo tosto, che con la sua logica disarmante tiene testa ai capi del popolo, ai farisei saputoni, agli interpreti ufficiali della legge di Mosè. Tutti i protagonisti si interessano ad ogni cosa, vogliono conoscere ogni particolare dell’accaduto; ma nessuno, tranne Gesù, si preoccupa dell’uomo, delle sue difficoltà, della sua vita, dei suoi problemi, delle sue esigenze: a nessuno insomma interessa la persona del cieco: tutti lo guardano - tutti lo guardavano da sempre - ma nessuno lo “vede”, nessuno si è mai “accorto” di lui; sono tutti preoccupati di loro stessi.
Innanzitutto ci sono i discepoli: “Chi ha peccato? Lui o i suoi genitori”. Gli ebrei dicevano: “Se uno è malato, lui o i suoi predecessori devono aver peccato”. Punto. “Sbagliano i tuoi antenati? Paghi tu!”. Questo è il principio, non si scappa. Quindi il problema dei discepoli è: “Chi è il colpevole della cecità di quest’uomo? Dov'è l'errore? Chi ha sbagliato?”. Essi vogliono un colpevole, una causa prima, un responsabile: non vogliono in ogni caso essere coinvolti personalmente nella vicissitudini dell’uomo: “È colpa sua, noi non c'entriamo, non ci riguarda, non dobbiamo fare niente per lui”.
È una mentalità molto diffusa; anche oggi: è sufficiente vedere come ci poniamo di fronte ai fatti di cronaca: corruzione, distrazione di capitali, montagne di rifiuti abbandonati per strada, delinquenza diffusa, genitori che uccidono i figli, figli che uccidono i genitori, immigrati che creano problemi sociali, criminalità minorile in aumento esponenziale. L'unica preoccupazione è quella di scaricare le colpe su qualcuno, di trovare un colpevole a ogni costo. Così, poi, tutti ci sentiamo più a posto, più tranquilli, con la nostra coscienza in pace. Trovato il “nostro” colpevole, ci buttiamo in fretta tutto alle spalle. Ma è giusto fare così?
Ci sono poi gli amici, i conoscenti del cieco. Alcuni dicono: “Sì, è lui quello che era cieco”; altri, “no”; altri, “gli assomiglia”. Sono quelle persone per le quali noi non possiamo cambiare. Dicono di amarci, ma in realtà non accettano la possibilità che noi diventiamo migliori, di essere “altri”, soprattutto se questo cambiamento altera in qualche modo il nostro rapporto con loro. “Ma come: era cieco ed ora ci vede? Impossibile: com'è successo?” Per loro nessun cambiamento è possibile: ci hanno etichettato in un certo modo, hanno già deciso a priori chi siamo o non siamo, cosa possiamo fare o non fare, cosa poter dire, cosa poter rispondere.
Ci sono i genitori. A quel tempo la scomunica della sinagoga era una morte sociale. Essere scomunicati equivaleva a morire socialmente. Chiamati dunque a testimoniare, quei genitori hanno paura, cercano di non compromettersi, di non sbilanciarsi: “È abbastanza grande, può dire tutto di sé lui stesso! Che c’entriamo noi? È un problema suo!”. Un comportamento frequente anche oggi: e purtroppo, per un figlio, non c'è peggior tradimento che sentirsi abbandonato, per paura del giudizio della gente, dai suoi stessi genitori, le persone a lui più care, più vicine, di cui lui si fida ciecamente; chi lo deve difendere e proteggere, lo abbandona, lo tradisce. Oppure, peggio ancora, lo denigra, lo svergogna, lo rifiuta. È una situazione fin troppo usuale: il figlio si sente solo, perso, abbandonato, disperato, ma soprattutto tradito. Sente che il genitore pensa più a se stesso (paura di sfigurare, di non esser all’altezza, ecc.) che a lui, e ciò innesca comportamenti spesso tragici.
Poi ancora ci sono i farisei. I farisei qui sono semplicemente ridicoli, fanno una misera figura. Di fronte all'evidenza negano: “Non può essere come dice lui; noi conosciamo la verità; noi siamo figli di Mosè: quell'uomo, che di sabato ha sputato per terra e impastato la saliva con la polvere, andando contro la legge, è un peccatore; non può operare per conto di Dio. Vuole per caso insegnare a noi?”. I farisei si barricano dietro alla legge, alle regole perché hanno paura di ammettere che le cose sono diverse da come le vedono loro; che sono cambiate; per cui sono terrorizzati dalla prospettiva che essi stessi devono cambiare atteggiamento, devono cambiare cuore; sono maturati altri tempi. Ma per loro è inammissibile: piuttosto di cambiare, negano la realtà. Sono troppo preoccupati di salvare la loro immagine, di essere considerati i discepoli autentici di Mosè; più che la verità, preferiscono difendere il proprio ruolo esteriore.
Ecco, i farisei rappresentano tutti quelli che negano la verità: è sufficiente che si discosti dalle loro convinzioni, e per principio non la vogliono vedere, non la accettano, la nascondono, la combattono. Dovrebbero prendere coscienza del negativo che c'è in loro, dovrebbero rivedere i loro giudizi, le loro rabbie, le loro paure, i loro attaccamenti; ma preferiscono nascondere, insabbiare, distorcere tutto. Perché, in pratica, “vedere” comporta necessariamente “cambiare”: meglio quindi non vedere, ignorare a tutti i costi.
Infine, per fortuna c'è anche Gesù. Gesù non deve difendere nulla: egli è libero. Libero come colui che accetta di poter fare brutta figura, di poter essere deriso, rifiutato, umiliato, malmenato, percosso, pur di difendere la verità, la propria coscienza. Gesù non si deve preoccupare degli altri, non gli interessa cosa diranno, e neppure deve salvare la faccia. Poiché non deve preoccuparsi di sé, si preoccupa dell'altro. Gesù è colui che ci “vede”, ci scorge, nota noi e i nostri problemi, perché non ha nessun interesse personale da difendere. Chi invece è occupato dai suoi problemi, non può occuparsi degli altri.
Ebbene: capita che spesso ci ritroviamo in tutte queste “persone”: i loro pregi e difetti sono i nostri. Sono i nostri “io” interiori. Apriamo allora per bene i nostri occhi: scrutiamo attentamente il nostro intimo; ma soprattutto “vediamo” e di conseguenza traiamo le nostre regole di vita. Non facciamo l’errore di fossilizzarci sui nostri lati negativi: su ciò che avremmo dovuto fare e non abbiamo fatto, su come avremmo dovuto essere e non siamo, sulle troppe difficoltà che incontriamo nella ricerca di ottenere risultati soddisfacenti. Perché se concentriamo la nostra attenzione soltanto sui fallimenti, sulle sconfitte, l’immagine di noi che ne ricaviamo sarà decisamente negativa e fallimentare. Concentriamoci invece su quello che facciamo, anche se è poco; lavoriamo sempre sul positivo, su quello che possiamo costruire: così quando guardiamo il nostro prossimo, mettiamo in luce le sue doti, le cose belle, le sue capacità: in questo modo si sentirà valorizzato, amato, importante: si sentirà incoraggiato a fare sempre meglio. Ricordate le nostre pagelle di scuola? Tutti 7 e 8, e magari solo un 5. Qual'era il commento immancabile di nostro padre? “Perché quel 5? Sei proprio un somaro!”. Invece di spronarci, apprezzarci e incoraggiarci per gli altri bei voti, ci faceva sentire in colpa, disprezzati, falliti: una cosa che ci distruggeva, ci buttava a terra.
Al contrario è l'amore, il “vedere” positivo, la fiducia riposta nelle persone, che le fa cambiare; non il giudizio, non le accuse, non la considerazione del solo negativo.
Il vero peccato – ci dice il vangelo -non è il “non vedere”: è il non “voler” vedere, l’ostinarsi nel rimanere ciechi a tutti i costi. È un avvertimento che va preso molto sul serio: non dobbiamo addolcirlo, minimizzarlo, ammorbidirlo; è una frase tremenda: «Se foste ciechi, non avreste alcun peccato; ma siccome dite: “Noi vediamo”, il vostro peccato rimane». Che significa? Che il peccato di tantissima gente è quello di essere convinta di “vedere”, di sapere cioè cosa sia la verità (magari la insegna anche agli altri); gente che si propone come esempio da seguire, gente che crede di sapere chi è Dio, e cosa fare per seguirlo; gente convinta di essere dei bravi genitori, bravi cristiani, bravi preti, ecc. Gente convinta di non aver alcun bisogno di capire, di ascoltare, di mettersi in discussione: perché essi sono i depositari della verità.
Brutta cosa! Gesù a tutti questi illusi continua a ripetere: “Siete dei ciechi. Il vostro dramma è di vivere nell’oscurità, nel buio totale; e nonostante ciò vi promuovete come guide esperte per gli altri”. Impossibile: “può un cieco guidare un altro cieco?”. Eppure quanti uomini, con una trave nell'occhio, passano la vita divertendosi ad osservare soltanto “la pagliuzza nell'occhio degli altri?”.
Chiariamoci le idee: luce, illuminazione, risveglio, occhi aperti, occhi che vedono bene, significa una sola cosa: “conversione”; significa cioè diventare i figli della luce, quelli che “vedono”, che si rendono conto sul da farsi, che non dormono sulle proprie cadute, ma si rialzano e ripartono. Gli altri invece, i figli delle tenebre, preferiscono vivere nell’oscurità, nel peccato, nella notte dell'ignoranza. Quindi: il grande peccato, l'unico, è rifiutarsi di “vedere”: voler rimanere “ciechi” per principio, ad ogni costo, per paura.
La grande domanda che Gesù ci rivolge, allora, non è tanto: “vuoi vedere?” ma: “Sei disposto ad accettare ciò che vedrai”?. In altre parole: “Vuoi conoscermi veramente, sinceramente? Vuoi accettare la responsabilità di seguirmi? Sei disposto a cambiare l’idea falsa che ti eri fatto di me, il Cristo, della Chiesa? Sei disposto a rinunciare seriamente alle tue idee personali, alle tue convinzioni errate, alla tua fede addomesticata, alla tua vita irregolare?”. Se amiamo la vita, la luce, l’infinito, la bellezza, la gioia, l’amore, la nostra risposta sarà sicuramente “si”. Cessiamo allora di essere ciechi, di amare le tenebre. “Dio”, in sanscrito, vuol dire appunto “luce”: viviamo in Dio, e godremo dello splendore della Luce, nel caldo luminoso del suo Amore. E saremo felici. Amen.
 

venerdì 21 marzo 2014

23 Marzo 2014 – III Domenica di Quaresima

«Gesù dunque, affaticato per il viaggio, sedeva presso il pozzo. Era circa mezzogiorno. Giunge una donna samaritana ad attingere acqua…» (Gv 4,5-42).
Il vangelo di oggi propone alla nostra meditazione l’incontro e il colloquio stupendo tra Gesù e la donna samaritana, avvenuto appunto nella terra pagana di Samaria, durante il suo viaggio di ritorno in Galilea. Ora, per capire bene il comportamento di Gesù, che è giudeo, e quindi “nemico” storico dei samaritani, dobbiamo entrare nella logica e nella mentalità di quel tempo. Egli va infatti contro ogni regola: rivolge cioè la parola ad una samaritana, che era “diversa” per razza, nazionalità e religione (era impensabile e improponibile per i giudei!); oltretutto si ferma a parlare fuori casa con una donna, cosa che equivaleva a farle delle proposte indecenti. Un comportamento che scandalizza anche i suoi stessi discepoli!
Ma Gesù è un uomo libero, e non sono certo i pregiudizi e le maldicenze che lo condizionano nel suo rapportarsi con le persone: lui incontra chiunque ne abbia bisogno, a prescindere da tutto e da tutti: in tutta la sua vita non ha mai detto “Questo si perché è ricco, nobile, potente; questo no perché dicono che è un disonesto (Zaccheo), una donna di malaffare, (l'adultera), un ladro patentato (Matteo Levi); no. Gesù non ha mai fatto questo: egli è fuori da ogni schema: è decisamente agli antipodi di questa mentalità, è scomodo e inopportuno, e soprattutto non rispetta tutte quelle regole rigide, frutto della mentalità ristretta della gente del suo tempo.
Gesù dunque giunge a Sicar. Il viaggio è stato lungo, sotto il sole, ed ha sete: si siede quindi presso il famoso pozzo di Giacobbe, appena fuori della città, per abbeverarsi e trovare un po’ di ristoro.
In quel mentre sopraggiunge una donna, diretta al pozzo per attingere acqua: e qui avviene l'incontro straordinario tra queste due persone, entrambe profondamente assetate: Gesù dell’acqua del pozzo (“Dami da bere”) e la donna dell’acqua soprannaturale dell’amore (“Signore, dammi di quest'acqua”).
I preamboli si svolgono su due piani diversi: la donna che rimane colpita per l’atteggiamento insolito di Gesù, decisamente contrario alle usanze, e Gesù che in pratica le risponde “Tu non sai chi sono io e che genere di acqua straordinaria io posso darti”. La donna ovviamente non comprende, e rimane interdetta: “Ma come, questo giudeo spossato dal caldo e dall’arsura, sprovvisto di qualunque attrezzo per poter attingere l’acqua, lui che chiede a me di dargli dell’acqua per dissetarsi, improvvisamente si dice in grado di “dissetarmi” con un’acqua miracolosa! Mi sta prendendo in giro?”
Ma poi, via via che il dialogo procede, la donna capisce di trovarsi di fronte ad un uomo fuori dal comune: Gesù la porta progressivamente da un punto di vista basato sul materiale, sul pratico, sulla vita vissuta, ad un altro più nobile, basato sul mistero, sul soprannaturale, rappresentato dalla sua stessa persona divina.
Non a caso questo colloquio tra i due avviene in prossimità di un pozzo: il pozzo è infatti simbolo di profondità, costringe a scavare, ad andare dentro a noi stessi per tirare fuori ciò che c'è sotto, ciò che c'è di nascosto. Gesù infatti non fa sconti sulla nostra vita; non ci giudica, non ci condanna: ma vuole che andiamo dentro di noi e che tiriamo fuori dal profondo della nostra anima le cose per come stanno veramente.
D’altro canto la samaritana è una donna decisa: una donna che di suo vuole andare fino in fondo alle cose, tant’è che preferisce essere esclusa, rifiutata dalla società per il suo comportamento anormale, pur di trovare la soluzione al suo malessere interiore, alla sua sete. Lo stesso coraggio che la porta a peccare, adesso l'aiuta a dialogare con quel forestiero, e per giunta giudeo. E proprio in quel dialogo penetra finalmente la Luce: in quella donna - una prostituta senza prezzo, con una lunga lista di uomini alle spalle, alla quale apparentemente non importa assolutamente nulla di Dio, di religione, di preghiera, di adorazione - un raggio improvviso illumina la sua mente, facendole capire in maniera chiara ciò di cui il suo cuore ha veramente bisogno. Sì, perché nel suo cuore, pur impantanato nel peccato, lei è alla ricerca del perché, del come, di cosa sia esattamente ciò che la rende così inquieta! Delle domande senza risposta appesantiscono da tanto tempo la sua anima. Ed ecco, incontrando Gesù, parlando con Lui, la sua mente si spalanca, e Lei scopre finalmente se stessa.
A questo punto si rende conto di essere alla presenza di un uomo eccezionale, perché solo un Profeta, un inviato da Dio, poteva rispondere alle domande più intime del suo cuore: domande che nessun altro, oltre lei, poteva conoscere. Quell’uomo si rivela al suo cuore per quello che Lui è veramente: il Soccorritore, il Salvatore, il Messia, che Dio ha mandato su questa terra in nostro aiuto.
Gesù con lei non fa il moralista: semplicemente la mette di fronte alla sua vita, alla sua verità; la costringe a dirsi tutta la verità, anche se è dura e difficile: “Non ho marito; ho avuto tanti uomini, ma nessuno mi ha mai soddisfatto “dentro”; non mi è mai bastato nessuno, perché nessuno è mai riuscito a placare la mia sete”.
Ecco il primo insegnamento per noi: incontrare il Signore significa dirsi la verità, tutta la verità; significa non mentirsi, non illudersi, non raccontarsi “frottole”.
Succede anche a noi, a volte, di capire che dietro alle nostre convinzioni, al nostro modo di pensare e di agire, c'è qualcosa che non va bene, che ha bisogno di essere esaminato, tirato fuori, portato a galla, per essere corretto, rivisto. In genere però noi non ci spingiamo oltre, perché “è meglio non farsi troppi problemi”. Ma così sopravviviamo; così sfuggiamo alla verità, all'incontro con noi stessi; così sfuggiamo al nostro cuore e a tutto ciò che c'è dentro.
Facendo così viviamo una vita falsa, mascherata, una vita non nostra: esibiamo all’esterno una verità costruita, illudendoci che sia invece quella autentica! Fuggiamo da noi stessi pur di avere una “bella facciata” da mostrare agli altri. Ma vivere una vita non nostra non può che portare inevitabilmente all'insoddisfazione e all'infelicità.
La verità, la sincerità, la retta intenzione, è invece l'unica strada che conduce a Dio; dirsi la verità significa infatti calarci nel profondo di noi stessi, dove Dio vive in noi, e metterci faccia a faccia con lui. Se la donna samaritana infatti non si fosse detta la verità (“sì ho avuto sei uomini ma in realtà sono ancora affamata d'amore”) non avrebbe mai potuto incontrare l'Amore vero, il Signore, colui che sfama ogni sete.
È chiaro che se noi siamo interessati solo al presente, se dobbiamo “difendere” ad ogni costo la nostra posizione sociale, allora è molto difficile, se non impossibile, dirci certe verità. Se la nostra famiglia “deve” essere perfetta, non possiamo ammettere che ci siano dei gravi problemi in casa nostra: e se ci sono, li sminuiamo, li nascondiamo, li seppelliamo. Se dobbiamo difendere la nostra immagine di “brav’uomini” non possiamo certo far capire che siamo in crisi, non possiamo chiedere aiuto, non possiamo ammettere di fare degli errori, non possiamo vederci e farci vedere imperfetti.
Purtroppo, nella vita, le relazioni umane sono sempre imperfette e parziali: noi chiediamo agli altri una comprensione, un’amicizia, un amore, “infiniti”, assoluti, perché abbiamo fame e desiderio di Dio, amore “infinito”; la nostra domanda è sì di “infinito”, ma la risposta che otteniamo è sempre “finita”, limitata, imperfetta. Ci illudiamo che l'altro ci riempia del “tutto”, ma il “poco” che riceviamo ci lascia sempre delusi, scontenti. Il rischio che corriamo, se non ci rivolgiamo al Signore per ottenere il dono dell'acqua viva, è quello di “morire di sete”; ma se egli ci concede questo dono, allora capiamo improvvisamente quanto sia sublime, quanto sia meraviglioso “morire d'amore” per lui. La storia della samaritana è quindi la storia dell’umanità: è la storia di ciascuno di noi. Nel cuore dell’uomo manca infatti un qualcosa che continuamente egli si affanna a cercare: ricordate Agostino? “Il nostro cuore è inquieto, fino a quando non riposa in Te, Signore”. Nel nostro cuore, anche se lontano da Dio, anche se dimentico di Lui, c’è sempre un vuoto a forma di Dio: un vuoto che solo Lui può colmare. Un Dio che ci aspetta pazientemente al nostro “pozzo”: che ci osserva durante il corso della nostra vita; pur essendo nel più alto dei cieli egli continua a guardarci, a seguirci, ad aspettarci. E noi, per quanto insensibili, per quanto distratti, per quanto “uomini duri”, ad un certo punto ci accorgeremo di Lui, capiremo che Lui, nonostante tutto, è sempre stato qui, al nostro fianco; Egli vuole incontrarci personalmente, vuole aiutarci, soccorrerci, dissetarci, perdonarci; è venuto insomma a salvarci.
Non facciamolo “stancare”. Non lasciamolo solo, assetato di noi, seduto ad aspettarci accanto al “pozzo”. Egli, Dio infinito amore, ancora una volta come sulla croce, non si vergogna di manifestarci la sua sete di noi, di chiederci da bere; non si vergogna di essere stanco a causa della nostra “arsura”; non si vergogna di chiederci un po' di sollievo d’amore.
E allora preghiamo: Signore Gesù, se non ti pensassimo, seduto accanto a quel pozzo, stanco per la fatica e per il caldo, forse non avremmo il coraggio di credere in te. Se tu fossi vissuto fra noi sempre fresco e pimpante come i personaggi della pubblicità, con un perenne sorriso “a trentadue denti” stampato sul volto, forse non avremmo il coraggio di accostarci a te, di credere in te. Perché anche noi siamo spesso stanchi: dello studio, del lavoro, degli amici e dei nemici, di chi si comporta male e di chi si comporta bene ma ce lo fa pesare; siamo stanchi di quelli che non sono mai stanchi e di quelli che sono sempre stanchi. Di quelli che ci devono ubbidire, e di quelli che ci comandano. Siamo stanchi, anche se non lo vogliamo ammettere. Per questo, Signore Gesù, noi spesso veniamo vicino a te, vicino a quel tuo “pozzo” e, stanchi, ci sediamo accanto a te sotto il sole di mezzogiorno. E ci sentiamo finalmente rinfrancati, tranquilli, amati.
Signore Gesù, non sappiamo imitarti quando sei in piena forma; ma vicino a quel pozzo, ci sentiamo come te: dacci da bere allora la tua acqua. Amen.