«Vegliate dunque, perché non
sapete in quale giorno il Signore vostro verrà… tenetevi pronti perché, nell’ora
che non immaginate, viene il Figlio dell’uomo» (Mt 24,37-44).
Con
questa domenica iniziamo il tempo liturgico dell’Avvento. Gesù nel vangelo ci
mette in guardia. “Aprite gli occhi, non vivete nella superficialità, come al
tempo di Noè, in cui mangiavano, bevevano, si sposavano e facevano figli, ma
non si accorgevano di nulla”. Vivevano nella falsità, si ingannavano l’un l’altro,
ma il loro unico interesse era di disinteressarsi di tutto, non volevano aprire gli
occhi, perché aprirli significava cambiare.
Se
infatti noi “vediamo” una cosa, allora non siamo più gli stessi: sappiamo che c'è, e ci “scoccia” saperlo; ci “brucia” così tanto che, diciamo, era
meglio non saperlo. È vero: aprire gli occhi è doloroso. Molti preferiscono vivere nell’illusione
piuttosto che scoprire la realtà. Preferiscono ingannarsi. E questo ci dimostra
a sufficienza quanta falsità regni nella vita di certe persone. In questo
modo quando Dio verrà, molti non se ne accorgeranno. Molti, inghiottiti dalla
vita, diranno: “Ma che sfortunato sono stato! Che destino terribile!”. E
invece no! Dovevamo accorgercene prima. Avevamo tutto il tempo, lo sapevamo. Ma abbiamo preferito dormire, abbiamo
vegetato, ci siamo lasciati vivere.
La
gente mangia tutto, beve tutto, senza porsi mai nessuna domanda; la gente crede
a tutto e digerisce tutto. “State attenti, aprite gli occhi, non vivete nella
superficialità; non fatevi ingannare”, insiste dunque Gesù. E ce lo dice proprio
in Avvento, all’inizio del nuovo anno liturgico, nel tempo che da oggi
ci accompagnerà fino al 25 dicembre.
Sì, perché il 25 dicembre celebreremo il
Natale, la venuta di Dio sulla terra (ad-ventus).
Ma Dio
non viene il 25 di dicembre, Dio viene e ci incontra ogni giorno se noi lo
lasciamo entrare, se permettiamo alla sua luce, al suo Sole, di illuminare la
nostra vita, di riscaldarla, di svelarcela.
Quindi
non prendiamoci in giro e non raccontiamoci frottole: Cristo può nascere mille
volte a Betlemme, ma se non nasce dentro di noi è come se non fosse mai nato”, diceva
il mistico tedesco Silesius.
In
queste quattro settimane, noi accenderemo una candela a settimana (tradizione
molto antica): quattro domeniche, quattro candele d’Avvento. Per dire: è un
cammino di luce dove noi ogni giorno cerchiamo di accendere una luce nella nostra
vita, dove noi ogni giorno cerchiamo di far entrare la luce del Sole, di Dio, perché
ci possa rischiarare e illuminare.
Queste
quattro candele hanno un senso, però, solo se rappresentano il segno reale di
ciò che accade nella nostra vita. Altrimenti sono solo quattro ceri che
bruciano e basta. Hanno senso se esprimono la luce che lentamente entra nella nostra
vita e che rischiara il buio che ci opprime; se sono la luce che illumina le nostre
paure e le vince; se sono la luce del Sole, di Dio, che ci dice: “Non abbiate
paura, nessun buio vi può vincere. Non lasciatevi prendere dall’insoddisfazione,
dallo sconforto, dal pessimismo, dallo scoraggiamento”.
Il
richiamo costante e continuo dell’avvento è pertanto quello di vigilare, di
essere svegli, di non addormentarci. “Esci dal sonno; vieni alla luce;
svegliati; renditi conto che in certi giorni e in certe zone della tua anima
vivi nel buio”.
Per uscire
però dal sonno, dobbiamo prima accorgerci di dormire; per accendere una luce, dobbiamo
prima accorgerci che c’è il buio. Ed è proprio per questo che l’avvento è
difficile: perché aprirsi al Dio-che-viene,
vuol dire mettere in crisi certe nostre posizioni conquistate faticosamente e
alle quali ci aggrappiamo in tutti i modi.
Molti
di noi in questo periodo non fanno in realtà niente; aspettano il 25 di
dicembre come qualsiasi altro giorno, e basta. Dicono: “Ho tante altre cose,
troppe cose, da fare!”. Ma non è vero: è vero invece il contrario: facciamo tante
cose pur di evitare spazi di luce; così, in realtà, tutto rimane invariato, non
cambia nulla: ma con il nostro comportamento, con l’indifferenza, con il
dubbio, con il cinismo, con la banalizzazione, con il pessimismo, noi rifiutiamo
la Luce-che-viene-per-noi: tutti i modi
sono buoni per evitare il nostro coinvolgimento, per non consentire alla luce
di entrarci dentro.
La
parola “Eden”, il mitico giardino di Adamo ed Eva, significa “godimento, delizie”: per chi vive la propria verità (sono figlio di Dio), per
chi dà spazio alla propria anima, per chi libera la luce che porta in sé, anche
la vita attuale diventa un vero giardino di delizie e di godimento. Al
contrario per quelli che perdono contatto con la propria identità profonda, non
può che esserci insoddisfazione, noia, rabbia, depressione, risentimento,
angoscia.
Quante
persone, infatti, dopo aver perso ogni contatto con il Dio che è dentro di loro,
vivono di espedienti, di complessi di inferiorità, di ansie continue: pretendono
di essere chissà chi, vogliono sentirsi grandi, superiori agli altri, vogliono potere,
prestigio; sentendosi svuotati, si riempiono di zavorra; e finiscono col sostituire
il loro esistere per l’eterno, con il possedere il presente, il transitorio, il
deperibile, il caduco. Se capissero che sono figli di Dio, che ai suoi occhi sono
già grandissimi così come sono, che per Lui sono più preziosi di qualunque cosa
al mondo, che Lui li conosce singolarmente e li ama proprio perché sono così, sicuramente
non avrebbero nient’altro da desiderare, non avrebbero più nulla da dimostrare
a nessuno!
Purtroppo,
invece, chi ha perso il contatto con la Luce, con il calore dell’amore di Dio, è
costretto a combattere contro se stesso, contro i suoi complessi d’inferiorità:
si sente nessuno, vuoto, inutile; si distrugge confrontandosi con quelli che sono migliori di
lui, si affanna per emularli, per darsi un contegno, per sentirsi importante,
visto che per lui l’essere se stesso è semplicemente terribile: non si accetta,
non si vuole, è disposto a svendere ogni briciolo di dignità pur di raggiungere
dei traguardi, che comunque poi scoprirà fallimentari. Se sapesse invece che è figlio
di Dio, che l’Altissimo ha posto dimora in lui fin dalla sua nascita, che nel suo
cuore egli ospita il Re dei re, allora di certo si renderebbe conto chi egli
sia veramente. Si accorgerebbe che - aldilà della sua vita, dei suoi errori,
dei suoi fallimenti, di quello che non riesce a fare o ad essere – lui è sempre
e comunque “qualcuno”: una creatura importante, preziosa, unica, irripetibile; perché
lui – come ognuno di noi - è stato creato “grotta” di Dio, per custodire l’amore; “Maria” di Dio, per generare l’amore; “Giuseppe” di Dio, per
difendere l’amore, “angelo” di Dio, per
cantare l’amore.
Allora
Avvento significa vegliare per non perdere la nostra vera identità di figli
della Luce. Significa riconquistarla, se l’abbiamo persa. Avvento è rivestirci
della nostra dignità di figli di Dio. Avvento è prendere coscienza di Chi ci inabita
da sempre; è imparare a conoscere la nostra anima
che anima la nostra vita. Avvento è
cambiamento, luminosità, trasformazione, metamorfosi; perché come il bruco onnivoro, possiamo anche noi diventare
leggiadre farfalle che si librano in
alto nella luce del Sole eterno. Amen.
«In quel tempo, dopo che ebbero
crocifisso Gesù, il popolo stava a vedere…» (Lc 23,35-43).
Il
vangelo di oggi - festa di Cristo Re, Signore incontrastato dell’universo - ci
propone, contrariamente a quanto il titolo lascia supporre, non un’atmosfera di
grandioso trionfalismo, di fasti regali, ma la scena straziante del Calvario,
che di glorioso non ha proprio nulla: Gesù, sulla croce, sta vivendo gli ultimi
tragici istanti della sua vita umana. Fermiamoci su questa scena.
Attorno,
c'è molta gente: guarda, ma non dice nulla; il popolo non reagisce, non si
ribella, non si indigna, non chiede spiegazioni, non si muove. Eppure sta
assistendo ad una evidente ingiustizia; ha davanti a sé il figlio di Dio, una
delle situazioni più crudeli della storia, e non si scompone. Come se non stesse
succedendo nulla di anormale. Regna l'indifferenza più totale.
A molta
gente basta avere un po' da mangiare, qualche divertimento, “tirare avanti”, senza
essere disturbata. Non vuole essere coinvolta; non vuole avere problemi: non si
espone e non prende posizione. Ma in questo modo già ha preso una posizione.
Quando
di fronte a qualcosa di grave, di cui siamo testimoni, diciamo: “Io mi faccio
gli affari miei e non do fastidio a nessuno”, noi prendiamo una posizione che non
è giustificabile di fronte alla nostra coscienza, che non ci può assolutamente deresponsabilizzare.
Non solo chi ha ucciso Gesù ne è il responsabile ma anche chi potendo fare
qualcosa, anche solo alzando la voce, anche solo ribellandosi, anche solo
opponendosi in qualche modo, non lo ha fatto.
Quando
non ci indigniamo di fronte a ciò che succede, vuol dire che lo accettiamo.
Quando non prendiamo posizione di fronte a ciò che sta accadendo, vuol dire che
lo favoriamo. Quando ciò che vediamo non ci fa riflettere, non ci fa piangere e
cambiare, vuol dire che favoriamo il male. Quando ci sarà chiesto conto di
milioni di persone che muoiono di fame, per la voracità di chi già sta bene, come
risponderemo noi: “Io non ho rubato a nessuno?”. Non serve: vuol dire che ci
andava bene così! Quando di fronte alla moda, alla linea “unica” di pensiero, di
fronte alla nostra cultura imperante, carica di banalità, di ignoranza, di
stupidità, noi non solo non ci opponiamo, ma anzi ci adattiamo supinamente,
cosa risponderemo: “Beh, facevano tutti così”? Non abbiamo una testa nostra? Siamo
comunque colpevoli! Non opporsi, non fare nulla, adagiarsi sull’andazzo comune,
non ci esime dalle nostre responsabilità!
Ci
sono anche i capi del popolo e i soldati. I capi sbeffeggiano Gesù, si prendono
gioco di lui e lo disprezzano. I capi sono quelli che sfruttano a loro
vantaggio ogni situazione. Con abili manovre politiche, con una buona
comunicazione, riescono ad ottenere sempre ciò che vogliono.
I
soldati hanno le armi e la forza. Rappresentano quelle persone che sono
convinte di essere libere, di essere forti, di essere “qualcuno” (hanno le
armi) e, invece, non si accorgono di essere schiave del sistema; si ritengono
libere e fortunate perché possono permettersi “certe cose” e non si accorgono
di essere invece delle marionette senza midollo, in mano a poche lobbies che
gestiscono in tutto la loro vita.
Poi ci
sono i due malfattori. Uno dei due è arrabbiato con la vita, con Dio e con
tutti, come se tutti fossero colpevoli della sua sorte. Ciò che gli accade invece
è l’esatta conseguenza della sua vita. Se ne rende conto in cuor suo, e per
questo scarica addosso a Gesù tutto l'odio e la rabbia per la sua vita. “Salva
te stesso e noi”. Parole ironiche, sarcastiche. Ci rappresenta. Quante volte ci
troviamo in quella stessa situazione! Quello che lui dice a Gesù è quello che noi
dovremmo dire a noi stessi. Siamo noi che dobbiamo salvarci; siamo noi che dobbiamo
cambiare; siamo noi che non si rendiamo conto di essere i condannati, gli imprigionati,
i condizionati, gli schiavi. E non ce ne accorgiamo.
Dovremmo
dire: “Non sei tu che devi salvarti, ma noi!”. Crediamo di vedere uno
crocifisso e invece vediamo un uomo libero. Crediamo di essere liberi e invece
siamo crocefissi dalle nostre paure, dai nostri condizionamenti. Crediamo di
vedere e, invece, siamo ciechi. Crediamo di vivere e non ci accorgiamo di
essere morti dentro.
C'è però
anche un malfattore che capisce e accoglie Gesù. Anche in quella situazione di totale
impotenza è possibile fare qualcosa: dire di sì a Dio e accoglierlo.
Il
malfattore riconosce il suo errore e chiede perdono. Tutti guardano con sfida a
Gesù; solo lui guarda umilmente a sé, alle sue colpe. Salvezza è guardare a sé;
condanna è guardare agli altri; salvezza è riconoscere il proprio errore, la
propria non-luce, la propria cecità; salvezza è aprire gli occhi. Questo è
quello che ciascuno di noi può dire a Gesù: “Ho vissuto sempre così, ma da oggi
voglio cambiare. Oggi sono io che ti accolgo e ti faccio entrare in casa mia.
Oggi ti dico di sì. Oggi cambio direzione. Oggi inizio”.
Se
finora abbiamo vissuto nel disinteresse, oggi cambiamo. Se finora abbiamo
vissuto delegando, da oggi cambiamo. Se finora abbiamo incolpato gli altri
della nostra infelicità, da oggi cambiamo. Se finora abbiamo imprecato e
bestemmiato contro Dio per ciò che ci succede, da oggi cambiamo. Se finora abbiamo
vissuto nella paura e nella difensiva, da oggi cambiamo. Perché questo è il
paradiso: e da oggi possiamo cambiare. Se finora è andata così, oggi possiamo cambiare.
Non è mai troppo tardi per iniziare. Mai!
Quelle
parole: “Salva te stesso e noi”, sono terribili. È come dire a Dio: “Mi servi
per il tuo potere!”. Ma per cosa serve Dio? Per niente di quello che vorremmo
noi! Se pensiamo che Dio serva a far soldi, a dare lustro alla nostra immagine
di brave persone, ad essere rispettati, a risolvere i nostri problemi di
relazione, a coprire le nostre insicurezze, a tappare i nostri buchi, Dio per
tutto questo non serve proprio a nulla. Rimarremo in ogni caso delusi da Lui.
Se pensiamo di chiamare in causa Dio per tutto ciò che non funziona nella nostra
vita o nel mondo, per tutte le disgrazie che succedono, rimarremo sempre molto
delusi. Perché non è per questo che Dio ci serve. Dobbiamo stare molto attenti
a non “usare” Dio! Dio è la forza delle nostre gambe: ma siamo noi che dobbiamo
camminare! Dio è l'amore del nostro cuore: ma sta a noi protenderci, per incontrare
e abbracciare. Dio è la voce che dalla coscienza sale alle nostre labbra: ma
sta a noi parlare, confessare, dire la verità. Dio è lo sguardo dei nostri
occhi: ma sta a noi aprirli, guardare e renderci conto sul da farsi. Non chiediamo
mai a Lui di fare ciò che spetta a noi. Non deleghiamo mai a Dio i nostri compiti.
Dio è forza ma non fa azioni di forza. Dio è luce ma non ci sbatte davanti la
verità. Dio è potenza ma non violenta nessuno. Dio è amore ma non “costringe”
nessuno ad amare.
Il
quadro dei due malfattori è una scena molto profonda. Sono due malfattori, due
uomini giustiziati giustamente (almeno secondo le leggi di quel tempo). Quello
che subiscono non è ingiusto, come al contrario lo è per Gesù: sono due
malfattori, hanno ucciso. Sono uomini che hanno sbagliato a vivere, che hanno
fallito, che hanno mancato il bersaglio della loro vita (“peccato” in ebraico vuol
dire proprio “mancare il bersaglio”). Sanno di aver sbagliato. Ma uno dei due
lo ammette e può ricevere il perdono, l'altro no.
Non si
può ricevere nessun perdono se non si accetta di aver sbagliato. Nessuno ci può
perdonare se non accettiamo la nostra ferita o il nostro errore. Giuda era
morso dal senso di colpa per ciò che aveva fatto, ma non l'aveva accettato. E
si è ucciso. Così chi non sa accettare il proprio errore e non si sa perdonare
si uccide, non si concede nessun'altra possibilità di vita.
Di
fronte ai nostri errori abbiamo due possibilità: o ci ostiniamo a non vedere, o
accettiamo la realtà che ci fa male. Possiamo raccontarci qualunque favola
sulla nostra vita: che ce l’abbiamo messa tutta, che di più non potevamo fare.
Ma la nostra coscienza, nel profondo, sa perfettamente se ci siamo accontentati
o no, se ci siamo adattati o no, se abbiamo avuto paura di vivere, di osare e
di rischiare o no. E siccome a lei non possiamo mentire, lei sente la colpa.
Noi
possiamo imbrogliare chiunque, possiamo darla a bere a tutti, ma non alla
nostra coscienza che conosce ogni cosa e sa cos'abbiamo realmente fatto.
Accettare il perdono è accettare l’idea di esserle stati infedeli, è vederci
deboli, vulnerabili, fallibili. E non vorremmo mai vederci così. Non vorremmo
mai ammettere che noi, proprio noi, abbiamo agito così. Ma finché non lo ammetteremo,
continueremo a rimanere legati al nostro senso di colpa nascosto e non potremo
ricevere mai nessun perdono.
Il
nostro profondo, la nostra coscienza, il Dio in noi, conosce ogni cosa di noi.
A Lui non possiamo mentire. Anche se noi ce le nascondiamo, lui le sa. Anche se
noi ce le dimentichiamo lui le sa tutte. Il nostro profondo sa e conosce tutte
le nostre colpe, sa e conosce tutto di noi. Ammettere, quindi, riconoscere, “sentire”
il male che abbiamo fatto, è l'unica strada per il perdono, per ritornare a
vivere, è l’unica via per la salvezza. Amen.
Tre considerazioni
mi son subito sorte alla lettura del vangelo di oggi: probabilmente non c’entrano
nulla con il corretto messaggio del testo, ma voglio comunque condividerle, sperando
che diventino motivo di meditazione anche per altri.
La
prima: «alcuni parlavano del tempio, che
era ornato di belle pietre e di doni votivi…» (Lc 21,5). Sono parole che non si
adattano solo al Tempio; forse sono ancor più riferibili ai “frequentatori del
Tempio”, a tutti noi cristiani; basta guardarci attorno! Quanti (forse io per
primo) si atteggiano per quelli che non sono; quante volte amiamo esibire in
pubblico le nostre “gemme” spirituali, le nostre pratiche religiose, le nostre “buone”
opere: la nostra messa, i nostri rosari, le nostre “lodi”, le nostre elemosine,
ostentando in esse una fede e una carità che in realtà non abbiamo; quante
volte ci accontentiamo di una pietà ridotta a semplici orpelli esteriori, a corone,
a immagini e medaglie sacre in bella mostra, a preziosi crocifissi e madonne
d’oro al collo, piuttosto che consumare in umiltà e sincerità, nel segreto del nostro
cuore, il nostro intimo rapporto con Dio! Per molti, l’essere cristiani “praticanti”,
purtroppo, si esaurisce qui: ma, dice Gesù, tutto quello che vedete, tutto
quello che è esteriore, tutto quello che è esibizione e amor proprio, tutto verrà
distrutto; tutto si rivelerà un nulla, senza nessun valore.
La
seconda: «Badate di non lasciarvi
ingannare. Molti verranno nel mio nome. Non andate dietro a loro!». Dobbiamo
veramente stare molto attenti: oggi purtroppo siamo costretti a convivere con
tantissimi pseudo profeti (conferenzieri, studiosi, preti, frati, teologi
moderni, medium, guaritori, ciarlatani ecc.); con gente che pur di consolidare il
proprio prestigio, pur di avere un “ritorno” mondano, applausi, gloria
mediatica, è pronta, vendendosi l’anima, a promuovere la sapienza venefica di
satana, piuttosto che il messaggio salvifico di Cristo. Gente dall’apparenza melliflua,
affabile, disponibile, cordiale, che si presenta come testimone e dispensatrice
dell’amore di Dio, ma che in realtà è diabolica, mirando esclusivamente all’auto
affermazione.
Terza
considerazione: «Sarete traditi perfino
dai genitori, dai fratelli, dai parenti e dagli amici…; sarete odiati da tutti
a causa del mio nome. Ma nemmeno un capello del vostro capo andrà perduto».
Capiterà che saremo traditi e abbandonati da tutti, ma noi non saremo mai soli.
Dio continuerà sempre a starci vicino, pronto a venire in nostro aiuto, anche
se noi lo rinneghiamo, anche se non lo vogliamo. Può succedere qualunque
terremoto, qualunque disgrazia: quello che ci deve tranquillizzare è la
certezza di avere ogni momento Gesù al nostro fianco. Con Lui vicino non potrà
mai succederci nulla di “male”.
Allora,
perché preoccuparci tanto? Perché vivere continuamente nell’ansia,
nell’angoscia?
L’angoscia,
lo sappiamo, è un male mortale: è la sensazione di poter cadere ogni istante nel
baratro del male, senza che nessuno possa aiutarci. È un terrore costante che ci
priva di qualunque certezza; è quel sentimento che ci mette di fronte alla
nostra impotenza, ai nostri limiti, che ci fa temere un crollo improvviso e
totale di ciò che ci circonda.
È un
sentimento oggi molto diffuso: noi tutti, in qualche modo, viviamo nell’angoscia:
siamo angosciati per il nostro domani, per la possibilità di perdere il lavoro,
per non riuscire ad arrivare a fine mese. Siamo tutti ossessionati dalle
malattie, dalle disgrazie, dalla possibilità di nuove guerre mondiali, di
esplosioni atomiche, dal mostro del terrorismo islamico, dalla possibilità di
inondazioni o di calamità naturali. E come se non bastasse, in fondo in fondo,
quello che più ci angoscia, più ci terrorizza è l’idea della morte: la
drammatica e tragica fine della nostra vita, di quando cioè saremo costretti
nostro malgrado ad abbandonare, a perdere, a separarci da tutto ciò che siamo,
da tutto ciò che abbiamo.
Cosa dobbiamo
fare, allora, per combattere questa sensazione velenosa? Quale via dobbiamo
seguire per ridurre questa sensazione che ci paralizza, che ci rende invalidi?
Per
prima cosa dobbiamo portare luce nel nostro buio, non dobbiamo aver paura di
scoprirci, di mettere tutto il nostro intimo alla luce del Sole divino. Perché
più abbiamo cose da nascondere, più le teniamo segrete, più ci sentiamo in
colpa per quanto avremmo dovuto fare e non abbiamo fatto, o abbiamo fatto e non
avremmo dovuto fare.
Gesù
nel vangelo dice: «Non v'è nulla di
nascosto che non debba essere svelato e di segreto che non debba essere manifestato.
Quello che vi dico nelle tenebre ditelo nella luce e quello che ascoltate
all'orecchio predicatelo sui tetti» (Mt 10,26ss).
Molte
persone sono angosciate dal doversi guardare dentro, dalla paura di scoprire nel
loro animo, emozioni di odio, di rabbia, di vergogna; temono di essere
sopraffatti da sensi di colpa e di inferiorità, da umiliazioni, da ferite. Ma
non è così.
Più abbiamo
zone buie dentro di noi, più nascondiamo in noi ombre e mostri, più vivremo
nell'angoscia; più faremo luce e verità dentro di noi, meno vivremo angosciati.
Una
volta poi superato questo ostacolo, dobbiamo vivere nel presente, nella realtà.
Se iniziamo a pensare a quello che potrebbe succedere, a come potrebbero andare
le cose, al fatto che c'è sempre il peggio che incombe, al disastro che ci
potrebbe succedere, allora è davvero la fine.
La
maggior parte delle persone non sono angosciate da ciò che succede ma da ciò
che potrebbe succedere. Ciò che potrebbe succedere però non è ancora successo,
quindi non esiste. Dobbiamo pertanto vivere con i piedi per terra, stare a contatto
della realtà, convinti che il più forte antidoto all'angoscia è la fiducia. Sì,
perché la fiducia è il percepire, il sentire che Lui è con noi, che ci
accompagna, che non ci abbandona mai. La fede vera, la fiducia in Dio, sono l’esatto
opposto dell'angoscia: Lui c'è, Lui ci accompagna, Lui vuole il nostro bene,
Lui ci sostiene, Lui ci dà e ci darà sempre forza e coraggio. E questo ci deve bastare.
Ma per
giungere a ciò, dobbiamo soprattutto pregare. Pregare sul serio.
Del
resto, cos'ha fatto Gesù nei suoi momenti di profonda angoscia? Era nel
Getsemani e la prospettiva che aveva davanti era terribile: ebbene, Lui ha
pregato con tutto se stesso, e si è liberato, affidandola al Padre, di tutta la
sua angoscia, della sua paura; ha avuto bisogno di sentirlo vicino, di sentire che
Lui c'era anche in quel momento terribile. E quando l'ha sentito vicino, ha
trovato la forza per andare avanti a testa alta. Facciamo anche noi così. Amen.
«Si avvicinarono a Gesù alcuni
sadducèi – i quali dicono che non c’è risurrezione – e gli posero
questa domanda: “Maestro, Mosè ci ha prescritto: Se muore il fratello di
qualcuno che ha moglie, ma è senza figli, suo fratello prenda la moglie e dia
una discendenza al proprio fratello”...» (Lc 20,27-38).
Questa
volta a fare i provocatori di turno sono i Sadducei, uomini dediti più alla politica che
alle problematiche religiose. Nonostante fossero i rappresentanti
dell’aristocrazia sacerdotale del Sinedrio, tra le altre cose negavano la
dottrina della risurrezione dei corpi, elemento basilare della cultura
giudaica.
La
loro chiara intenzione è quella di deridere Gesù, di metterlo alla prova, di prenderlo in giro; ma poi, come al solito, sarà Gesù che metterà in difficoltà questi
“saputoni”, grazie proprio alla stupidità, banalità e inconsistenza della loro richiesta .
Il
caso che pongono è infatti assurdo, inverosimile, perfino grottesco: “visto che la
legge mosaica dice: Se una vedova è senza figli maschi, può essere sposata dal
cognato per avere una discendenza” (Dt 25, 5), di chi sarà moglie, con quale
marito si congiungerà, dopo la risurrezione dei morti, una donna che in vita è
stata moglie senza figli di sette fratelli?” È evidente che qui essi esasperano il caso, proprio
per mettere in ridicolo Gesù.
Ma Gesù
che fa? Li ignora, ovviamente; non dà una risposta diretta, ma approfitta dell'occasione per
darci due insegnamenti forti.
Il
primo insegnamento: per parlare e discutere di ciò che succederà nell’al di là,
dopo la morte, non possiamo utilizzare le stesse categorie mentali con cui ci
esprimiamo in questo mondo. Tutte le nostre previsioni non sono altro che ipotesi,
allusioni, parabole, immagini. I Sadducei non fanno altro che questo: trasferire
immagini note, tratte da questa vita terrena, adattandole al mondo che verrà. Del resto ogni
religione fa esattamente così quando intende descrivere la vita dopo la morte: immagini
di fuoco, latte e miele che scorrono, pascoli erbosi, luce sfavillante, verdi
prati, non sono altro che idee tratte dal patrimonio comune della nostra esistenza attuale. Voler descrivere
quello che succederà nella vita futura è impossibile, perché ancora non abbiamo
alcuna esperienza in proposito: è come se un bimbo ancora nel grembo materno, volesse
descrivere il volto della mamma, la fredda lucentezza di un’aurora, la calda
evanescenza di un tramonto marino.
Noi
non sappiamo come sarà l'aldilà. Abbiamo dei presentimenti, delle intuizioni,
dei segnali, delle tracce: immagini come il “tunnel del grande passaggio”; il
fuoco dell'inferno; gli angeli con le ali; i diavoli con le corna; Adamo, Eva,
il giardino dell'Eden; i tormenti del fuoco; il paradiso, il purgatorio e l’inferno
e quant'altro, non sono che dei tentativi, delle previsioni che veicoliamo
dalla nostra fede, dai testi sacri, dalla letteratura cristiana; immagini che
ci producono delle emozioni, che ci rappresentano situazioni “celestiali”, è vero, ma che
non ci dicono assolutamente nulla di come sarà realmente l’aldilà.
Forse
un’idea più realistica la possiamo trarre dall’amore: quando siamo veramente innamorati,
ci sembra infatti di vivere l'eterno, l'infinito; quando qualcuno ci ama ci
sentiamo immortali, eterni, senza fine, immersi in una situazione di totale
appagamento, da cui nessuno potrà mai staccarci. Ecco, l’incontro con l’amore
di Dio, nella risurrezione dopo la morte, sarà sicuramente così; anzi, sarà così,
ma sarà anche tutt’altra cosa; sarà una cosa ancora più avvincente, ancora più
estasiante; vivremo una situazione indescrivibile, inimmaginabile, perché priva
in assoluto di alcun termine di paragone.
La
curiosità di sapere ad ogni costo come sarà la fine dei tempi, come sarà la
vita oltre la morte, quale sarà il destino delle anime, è spesso di origine morbosa:
ci rifugiamo nel futuro perché non sappiamo vivere bene il presente. Siamo insicuri,
scontenti, in ansia costante. Basterebbe invece non dimenticare mai una cosa
sola: che noi siamo figli di Dio, che siamo figli della Resurrezione, i
prediletti, gli amati, i riscattati da Cristo.
Se veramente
siamo certi di questo, di che altro dobbiamo preoccuparci? Dove sono ancora le
nostre angosce? Mettiamoci nelle mani di Dio e, non temendo il futuro, vivremo bene
anche il presente.
“Dio
non è il Signore dei morti, ma dei vivi; tutti devono vivere per lui e in lui”.
È il secondo insegnamento di oggi: quindi neppure la morte può spezzare questa
realtà, questo legame d’amicizia, di amore, di speranza; Dio stesso non si
sottrarrà mai a questo rapporto, perché lui è il Fedele. Avere fede nella
resurrezione, significa appoggiarsi a questa fedeltà, alla Sua fedeltà; perché Dio
è colui che non abbandona. Ogni giorno possiamo sperimentare che Lui è il
Fedele: anche se sbagliamo, anche se ci allontaniamo da Lui, anche se in certi
giorni non accettiamo quanto Lui ci propone, anche se spesso gli siamo infedeli
e lo tradiamo, Lui rimane fedele. Lui è una roccia, Lui è il granito; Lui è la
mano che non si stacca mai da noi, che non se ne va, che ci tiene forte, che
non ci lascia.
Non
sapremo ancora con esattezza cosa voglia dire resurrezione, ma sappiamo che Lui
è Vita, è Amicizia, è Amore; è Colui che non abbandona mai chi lo ama.
Sappiamo
questo, e questo ci deve bastare.
Affidiamoci
a Lui, sicuri che non ci lascerà cadere nel buio. Se la nostra vita rimane appoggiata,
ancorata su di Lui, allora anche noi dureremo per sempre, perché Dio è per
sempre. Fidiamoci e non temiamo. Ma se Dio è rimasto estraneo, sconosciuto, lontano
dalla nostra vita, allora sì che avremo tanta paura: “una paura da morire!”.
Quando
invece uno si fida ciecamente, tutto diventa facile e meraviglioso: non c'è più
niente da temere perché un angelo è con noi e ci conduce, ci protegge, ci
sostiene, ci dice dove andare e dove non andare. Potersi fidare di qualcuno e
abbandonarsi è straordinario. Ci si sente al sicuro, protetti, non c'è più
niente di cui aver paura. In certi giorni magari non “vediamo” Dio che ci
conduce, ma sentiamo comunque che Lui ci porta. E l’importante non è tanto dove
andiamo, ma che lui c’è.
Prima
di andare nell’aldilà avremo tanta paura, ma poi sarà una grande festa. Ciò che
incontreremo sarà molto diverso rispetto a quello che ci aspettiamo, a quello
che possiamo anche solo lontanamente pensare. È inutile pensarci; è inutile volersi
fare delle idee; è inutile voler sapere a tutti i costi. Tutto sarà compiuto,
tutto sarà in pienezza.
La
morte è la fine di questa vita, ma è anche inizio di un'altra vita. Si tratta
di cambiare casa. Molte persone credono che l'inferno o il paradiso sia un po'
come un terno al lotto: non possiamo farci nulla e speriamo che ci vada bene!
Ma l'inferno e il paradiso ce lo costruiamo noi. L'inferno o il paradiso ce lo
scegliamo noi; è nelle nostre mani. E quando andremo di là, Dio non farà
nient'altro che confermare le nostre scelte di quaggiù, quello cioè che noi abbiamo
voluto.
Scegliamo
la vita! Scegliamo il paradiso! Scegliamo l'amore! Dio non vuole che distruggiamo
la nostra vita. Dio non vuole che nessun uomo si annienti o si annulli, che
nessun uomo perda se stesso. Mai. Dio non è il Dio della morte. Dio è il Dio
della vita e vuole che tutti viviamo e che viviamo in pienezza, che viviamo
sviluppandoci, crescendo, e che raggiungiamo la massima vitalità possibile. Amen.
«Gesù entrò nella città di
Gerico e la stava attraversando, quand’ecco un uomo, di nome Zaccheo, capo dei
pubblicani e ricco, cercava di vedere chi era Gesù, ma non gli riusciva a causa
della folla, perché era piccolo di statura» (Lc 19,1-10).
Gesù
sta andando verso Gerusalemme. Gerico si trova ad una trentina di chilometri da
Gerusalemme, lungo una grande via di comunicazione. Proprio per la sua
posizione la città costituiva un punto strategico per l'amministrazione romana;
era quindi piuttosto facile imbattersi in funzionari imperiali, uomini
dell'esercito ed esattori delle tasse. Era una località molto frequentata e
affollata.
Ed è qui
che Zaccheo incontra Gesù: o è Gesù che “incontra” Zaccheo?
Ma poi chi è questo Zaccheo?
È un pubblicano: i pubblicani erano quelli che avevano avuto in esclusiva dai
Romani l’appalto per la riscossione dei tributi, delle tasse: un lavoro ingrato,
maledetto e odiato dagli ebrei, dal quale però i pubblicani traevano grossi guadagni
personali.
Il
termine pubblicano era infatti sinonimo di “immorale”; dare del “pubblicano” a
qualcuno era come dargli del falso, del ladro, del traditore. E Zaccheo non
solo è un pubblicano ma è il capo dei pubblicani: è il più ladro dei ladri. E
tutti lo sanno! È insomma un poco di buono, un infedele, un venduto a Roma, un
collaborazionista, un peccatore. Uno che aveva accumulato ingenti ricchezze, defraudando
la povera gente.
Il
nome Zaccheo però vuol dire “giusto, puro”. Certo nessuno lo vedeva così; ma Gesù
sì. Anche se uno al di fuori sembra a tutti un poco di buono, un figlio di “buona
donna”, anche se sembra un pervertito o quant'altro, Dio vede la sua piccola parte
pura e giusta, la sua bontà, la sua “verginità”. Per Lui il valore e la dignità
di noi uomini, di sue creature, per quanto ci accada nella vita, non viene mai
meno.
Zaccheo
dunque “cerca di vedere”. Ora, “cercare di vedere” lascia intuire un desiderio:
c'è un'insoddisfazione dentro di lui, c'è un tormento, una inquietudine, una
irrequietezza; egli cerca di trovare qualcos'altro; quello che ha, per quanto
sia, non gli basta più. Zaccheo ha tutto, ma quel tutto non gli basta, perché
la felicità non sta nelle cose ma nei valori. Le cose sono solo uno strumento
per raggiungere i valori; sono i valori morali che danno piena serenità e
appagamento.
Per
questo Zaccheo è insoddisfatto e per questo “cerca di vedere” qualcos'altro.
Per questo decide di fare qualcosa di diverso nella sua vita: abbandonerà il
banco delle imposte per andare a “vedere” Gesù. Ed è meraviglioso perché
Zaccheo, così facendo, dimostra di aver capito che solo Colui che vuole
incontrare può dargli pace e serenità.
Zaccheo
è piccolo: “piccolo” non tanto di statura , ma della percezione interiore che
egli ha di se stesso. Anche se in realtà è “più”, anche se è “superiore” agli
altri, egli si sente comunque “inferiore”, si sente incapace, completamente privo
di una ricchezza “diversa”, si sente come menomato. Il suo vero problema è quello
di sentirsi addosso tutto il peso della sua inferiorità spirituale.
Finora
cos'ha fatto? Poiché si sentiva il più piccolo (inconsciamente) ha voluto
diventare il più grande (capo dei pubblicani). Pensava che una volta diventato
il più ricco, il più potente, sarebbe stato anche il più ammirato, il più amato:
ma non è stato così!
Allora
reagisce ancora, e trova dentro di sé la forza per riscattarsi, per ribellarsi
da una situazione che ormai lo soffocava.
Mettiamoci
nei suoi panni: tutti lo conosco, tutti sanno chi è. È uno degli uomini più
famosi, più conosciuti, più temuti della città: e che fa? sale su di un
sicomoro, cosa molto poco elegante per uno come lui, e lo fa semplicemente per
veder passare un “predicatore”. Ci vuole coraggio! Sa che tutti lo vedranno (e
infatti tutti lo vedono), che lo derideranno, lo segneranno a dito, ma lui ha
il coraggio di farlo comunque, vincendo il timore di essere “chiacchierato” dalla
gente. Nella vita è necessario infatti vincere la paura del giudizio degli
altri per trovare la propria strada sicura.
E Gesù
che fa? Gesù non gli fa nessuna predica, non lo vuole convertire né cambiare.
Gesù semplicemente
lo chiama, per nome. Per tutti gli altri egli era “il capo dei pubblicani”, “il
ricco”, ma per Gesù è soltanto Zaccheo. Chiamare per nome una persona vuol dire
dargli dignità, dargli un volto. In pratica Gesù gli dice: “Io credo in te
Zaccheo; io vedo che in te c'è qualcosa di buono. Per gli altri sei solo un
farabutto, ma io vedo che tu sei un uomo come tutti gli altri. E tutti gli
uomini, nella profondità del loro cuore, hanno sempre un angolo nascosto con un
po’ d'amore”. E gli fa una proposta, secca, veloce, efficace: “Scendi subito” (Gesù
è sempre diretto e lapidario, con chi gli chiede qualcosa: “alzati; taci; esci;
mettiti nel mezzo; vai dai sacerdoti; apriti; vieni fuori”; ecc..).
Per
guarire ci sono delle azioni precise da fare: sono proprio quelle che non
vogliamo fare, e per questo serve un ordine preciso, perentorio. Zaccheo si
crede chissà chi, si atteggia “a sapientone” e normalmente si mette sul
piedistallo con tutti: “Smettila e scendi giù – gli dice Gesù - sei un uomo
come tutti gli altri”. E se non obbedirà, Zaccheo non potrà guarire; ciò che si
deve fare, va fatto. Punto. Altrimenti non si può proseguire.
Gesù
infatti sembra continuare dicendo: “Se tu continui a startene lassù, a
ritenerti intoccabile e più degli altri, sai cosa ti accadrà? Ti accadrà che
non avrai amici, né compagni e nessuno vorrà entrare in casa tua. Perché quando
ci crediamo perfetti o più bravi dagli altri, ci isoliamo e moriamo di
solitudine. Vuoi vivere così, Zaccheo?”
Ma egli
ha già capito tutto: la sua vita non è vita; e per questo scende. Ha scelto
finalmente la via dell’amore.
Ma l'amore
è condivisione. L'amore è volere che tutti vivano, che tutti possano diventare
il meglio di sé, che possano esprimersi, che possano fiorire, che possano
essere al massimo di sé. L'amore non è dare ma darsi. E Zaccheo si dà, dando
ciò che ha.
Tutti
possono amare, anche se non hanno nulla o se sono poveri. Per l'amore basta
avere un cuore. Ci si converte all’amore non perché l'ha detto Madre Teresa di
Calcutta o San Francesco d'Assisi, o perché qualcuno ci dice che così va bene e
che è importante. Ci si converte perché ci si rende conto che continuare a vivere
senza dare e ricevere amore, non è vivere, si muore.
Conversione
vuol dire “vivere meglio”; Zaccheo, non a caso, è “pieno di gioia”; e finalmente
quel Qualcuno che egli voleva incontrare, facendo breccia nel suo cuore, senza giudicarlo
per come appare all’esterno, lo incontra nel suo intimo: “oggi devo fermarmi a
casa tua”.
A
questo punto la conclusione è ovvia: Zaccheo si sente amato incondizionatamente
e gli viene spontaneo fare altrettanto. Gesù non pone condizioni; Gesù non
dice: “Ti amo, vengo a casa tua, ma tu devi...”. E Zaccheo farà lo stesso,
spontaneamente: chi glielo fa fare infatti di dare la metà dei suoi beni ai
poveri? Nessuno! E chi glielo fa fare di restituire, non il dovuto, ma quattro
volte tanto il rubato? Nessuno, perché questi sono i gesti dell'amore.
Gesù
ha amato Zaccheo gratuitamente e Zaccheo a questo punto ama gratuitamente i
fratelli. L'amore è gratuità. È l'amore che ci salva, che ci cambia la vita: noi
tutti ce ne siamo resi conto quel giorno in cui, in qualche modo, abbiamo
sentito qualcuno che ci ha detto o fatto sentire: “Non voglio nulla da te, non
sono qui per chiederti qualcosa in cambio. Sono qui perché tu sei importante
per me e ti aiuterò, se tu lo vorrai, ad essere il meglio di te”.
Zaccheo
senza Gesù sarebbe rimasto semplicemente il capo dei pubblicani. Gesù gli
mostrò che poteva essere un uomo migliore, felice e soddisfatto di sé.
E
concludo: l'amore non è dare, ma darsi. È dire al fratello: “Ti dono quello che
sono, perché tu sia il meglio e il massimo di te. E quando te ne andrai via da
me, essendo migliore di me, allora saprò che ti avrò veramente amato”. Amen.
«Due uomini salirono al tempio
a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano. Il fariseo, stando in piedi,
pregava così tra sé: “O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri
uomini, ladri, ingiusti, adulteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno
due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo” (Lc
18,9-14).
La
parabola di oggi ci propone due personaggi, il fariseo e il pubblicano; due
uomini “diversi”, che si accingono a pregare in due modi altrettanto diversi.
Il
fariseo si ritiene giusto. Già la parola “fariseo” non promette nulla di buono:
fariseo significa, infatti, “separato”; farisei erano coloro che si dedicavano
all'osservanza meticolosa della legge, e proprio per questa loro scrupolosità,
si sentivano separati, diversi, superiori a tutti gli altri. Erano stimati dalla
gente proprio per la loro puntigliosa religiosità; essi questo lo sapevano e se ne
compiacevano. “Ma non erano quelli che perseguitavano Gesù? Non sono stati
proprio loro che hanno tentato in tutti i modi di metterlo a tacere, arrivando
poi ad ucciderlo?”. Una domanda pertinente, che ci dimostra come molto spesso
siano proprio i giusti, i religiosi, gli osservanti, ad essere i peggiori nemici
di Dio. Una constatazione che deve farci riflettere.
Poi
c'è l’altro personaggio, il pubblicano. I pubblicani erano amici dei Romani; erano
considerati dei traditori collaborazionisti, e quindi odiati cordialmente dagli
ebrei.
Entrambi
questi due tizi, salgono dunque al Tempio per pregare: la preghiera ufficiale si teneva due
volte al giorno, alle nove e alle quindici. Ed è proprio nella preghiera, che i
due rivelano la loro profonda diversità: la preghiera del fariseo è lunga,
piena di particolari, autoreferenziale, compiaciuta; al contrario di quella del
pubblicano che è brevissima, umile e contrita.
Il
fariseo sta dritto in piedi e “prega tra sé”. In greco questa forma verbale
significa più esattamente “egli prega se stesso”. Molti infatti pregano se stessi,
adorano se stessi; per loro la preghiera è l’occasione per mettersi in buona
luce davanti a Dio e agli uomini, per dimostrare, compiaciuti, tutti i loro
meriti.
Il
fariseo sta in piedi e prega in silenzio. La cosa era normale per un ebreo, ma
Luca lo interpreta come un segno di superbia. Nella sua preghiera egli
ringrazia Dio per averlo fatto diverso dai miserabili, dalla comune gentaglia:
la sua preghiera altro non è che un panegirico di se stesso. Dapprima
mette bene in luce ciò che lui non è: non è un uomo ingiusto, un disonesto, non
è un ladro, un adultero, non è insomma un “pubblicano”; poi, non soddisfatto,
passa a sottolineare i suoi meriti, ciò che lui fa: digiuna due volte alla
settimana (quindi più di quanto prescrivesse la Legge, che limitava il digiuno a
pochi giorni all'anno), paga regolarmente le decime, cioè la decima parte del
raccolto e di quanto possedeva (frumento, olio, vino) che veniva devoluta al
tempio e per i poveri. Tutto in Lui è perfetto, ineccepibile: la sua vita, la
sua preghiera, il modo di rapportarsi con Dio. Nessuno può rimproverargli nulla.
Quello che dice è tutto vero. Il fariseo sembra veramente bravo.
Quanta
gente di questo tipo conosciamo anche noi: sono “i giusti”. Di loro e della loro vita esteriore non
possiamo proprio dire nulla. Non troviamo in loro nessun difetto: pregano, sono
ottimi padri o madri, grandi lavoratori, apertamente non fanno del male a
nessuno; ma nel loro intimo sono aridi, la loro è una vita senz'anima, una
vita senza vita, senza slanci d'amore.
Il
pubblicano, invece, se ne sta a distanza, curvo fino a terra. Il “pubblicano”
era la personificazione della più profonda miseria morale: imbrogliava Dio, imbrogliava
i poveri, i miseri, i deboli. Era coinvolto in un traffico di denaro “sporco”,
dal quale, una volta entrati dentro, è difficilissimo uscirne. Faceva un
mestiere maledetto e proibito agli ebrei. Per cui quando dice di essere un
povero peccatore, dice fino in fondo la verità, non si nasconde dietro a scuse
o bugie. E il suo atteggiamento di battersi il petto lo conferma.
Entrambi
sono dunque sinceri, ma Gesù afferma senza esitare che uno se ne va
giustificato, cioè cambiato, reso giusto, e l'altro no. Perché?
Il
fariseo inizia molto bene la preghiera: inizia con una lode a Dio. La funzione
dell'uomo è infatti quella di ringraziare Dio. San Paolo dice: “Rendete grazie
a Dio in ogni cosa per mezzo di Gesù Cristo”. Se noi potessimo rendere grazie
per ogni cosa, noi faremmo della nostra vita una “liturgia”, una preghiera
continua, un'eucarestia. Poi però il fariseo, nel mettersi a confronto con gli
altri, sbaglia tutto, cade completamente in basso.
Di
fronte agli altri, noi possiamo rifugiarci nell’apparire, nel mentire, nel far
passare qualunque menzogna per verità; possiamo distorcere la realtà sulla
nostra preparazione, sulla nostra professionalità, sui nostri ruoli; possiamo
mascherarci e crearci tutte le immagini che vogliamo. In fondo, chi lo sa? Chi ci
vede dentro? Ma di fronte a Dio questi teatrini non servono, questi trucchi non
valgono, cadono tutti e rimaniamo soli davanti alla nostra pseudo “verità”,
nudi e spogli.
La
vera preghiera è invece quella che parte dalla profonda verità di noi stessi. Quella
verità che, senza menzogne, senza false apparenze, ci pone di fronte a Dio. Gli
altri vedono il nostro contenitore esteriore, ciò che noi vogliamo far vedere:
vedono la nostra scorza, l'esterno, il di fuori. Ci vedono pregare, andare in
chiesa, fare carità, fare volontariato; cosa potrebbero mai dire? Diranno: “Ma
che brava persona! Che bravo cristiano! Che uomo esemplare”. Ma gli altri non possono
vederci dentro, noi lo sappiamo, e possiamo pertanto nascondere a tutti e
soprattutto a noi stessi, ciò che abbiamo di negativo, ciò che è imperfetto,
ciò che è doloroso, i nostri limiti, le nostre zone d'ombra, i nostri lati
oscuri. Possiamo nasconderli così bene anche a noi stessi che addirittura ce ne
dimentichiamo, pensiamo di non averli più: li mettiamo in cantina, in soffitta.
Non li vediamo più e quindi, pensiamo che non ci siano più. Non li vediamo e quindi
pensiamo di essere migliori, “più” degli altri: più bravi, più giusti, più umani,
più religiosi. Ma Dio ci vede come siamo, ci conosce dentro, alla perfezione. E
Lui non possiamo ingannarlo.
Nella
sua preghiera il pubblicano, al contrario del fariseo, non si nasconde la
verità: “Abbi pietà di me peccatore”. Questa è la realtà e gli dispiace
sinceramente. Per questo egli chiede misericordia, pace, riconciliazione per i
suoi lati negativi, per le sue zone oscure, per le ferite, per il male procurato
agli altri, per i suoi peccati e per i suoi errori. Il pubblicano riconosce che
la sua situazione è compromessa, non mente a se stesso, non si inganna.
Solo
quando uno si riconosce completamente povero davanti a Dio, solo allora può
ricevere la ricchezza, che è Dio stesso. Il pubblicano sa di aver bisogno di
Dio; ha bisogno che Dio corra da lui con le braccia spalancate, che lo accolga,
che lo stringa al cuore, che gli restituisca dignità, che lo salvi dalla “fossa”
della cattiveria. Lui sa di essere ammalato e sa di aver bisogno del medico che
è Dio. E per questo torna a casa giustificato, cioè, amato, liberato e
pacificato.
C'è
una preghiera gradita a Dio e una preghiera insopportabile per Dio.
Il
fariseo non risulta gradito a Dio perché giustifica la sua disonestà interiore nascondendosi
dietro a quelle poche cose esteriori che fa. Il fariseo non è onesto con se
stesso, si mente, si racconta un sacco di balle non perché ciò che dice di fare
non sia vero, ma perché vede solo una parte di sé, quella esteriore, quella
meno importante. Gli ripugna ammettere l’evidenza, di riconoscere cioè che anche
lui, come e forse più del pubblicano, è un poveraccio, un peccatore.
Chi di
noi è tanto perfetto, immacolato, da considerarsi tale anche con se stesso, di
fronte allo specchio della propria coscienza? Se rispondiamo “Io”, beh, allora dobbiamo
guardarci meglio, fratelli miei, dobbiamo scrutarci minuziosamente! Perché, dove
li mettiamo i nostri piccoli segreti, le nostre piccole falsità, le nostre
debolezze, le nostre ipocrisie? Non è forse vero che siamo attirati dal
proibito, che ce ne compiacciamo, anche se poi non lo facciamo? Non è forse vero
che in certi giorni Dio ci sta proprio antipatico e che arriviamo anche ad odiarlo?
Non è forse vero che abbiamo desideri e impulsi cattivi, a volte anche
perversi? Non è forse vero che facciamo pensieri di ogni tipo, anche i più
trasgressivi e i meno nobili? Non è forse vero che in certi momenti, di fronte
a certe disgrazie, ci disperiamo, e malediciamo Dio in cuor nostro, convinti di
essere vittime della sua “cattiveria”, della sua “ingiustizia”? Non è forse vero
che certe nostre reazioni ci fanno paura? Non è forse vero che abbiamo a volte
tradito la fiducia degli altri, ferendoli volontariamente? Non è forse vero che
ci piace sentirci più bravi, più intelligenti, più belli, più simpatici degli altri?
Non è forse vero che spesso ci aggiustiamo le cose in modo che abbiano un
tornaconto soprattutto per noi?
Ebbene:
chi di noi è assolutamente immune da tutto questo, “scagli pure per primo la
pietra”. E, guarda caso, c'è sempre qualcuno che la scaglia, sempre! C'è sempre qualcuno che, non
vedendo le magagne che stagnano dentro il suo cuore, a causa del buio pesto che
vi regna, si permette di giudicare gli altri, di credersi qualcuno, di non
essere come loro. Molte persone hanno rimosso così bene qualunque imperfezione
dalla loro coscienza, da sentirsi completamente “puliti”, immacolati: ecco
perché pregano “a voce alta”, “in piedi”, convinti di essere ottimi cristiani; quando
invece non sono che dei miseri farisei.
La
preghiera non deve essere “pia”, formale, esteriore; deve essere intimamente vera,
sincera, onesta: pregare è aprire tutte le stanze della nostra vita, della nostra
anima; è spalancare ogni finestra e lasciare che Dio spanda la sua luce sui
nostri angoli oscuri, su ciò che volutamente ignoriamo, su ciò che grida, che
urla dentro di noi, ma che noi mettiamo a tacere perché ci ripugna anche solo ascoltarlo;
su tutto ciò che ci fa male, che è doloroso; su tutto ciò che non vorremmo
confessare ma che Lui è sempre pronto a perdonare; su tutto ciò che ci nascondiamo
per paura, ma che Lui non teme; su tutto ciò che abbiamo nascosto in cantina a
marcire ma che Lui vuole liberare e far rifiorire. Perché Dio non teme nulla. Noi
abbiamo paura, ma Lui no! Lui ha vinto il mondo. Lui non teme nulla e ci ama in
tutto il nostro squallore. Lui può andare dovunque noi ci rifiutiamo di andare:
“pregare” allora significa lasciarci condurre da Lui; pregare è permettergli di
entrare proprio là, dove noi ci vergogniamo, dove noi ci facciamo schifo, dove noi
ci nascondiamo.
Dobbiamo
convincerci di una grande verità: non siamo per niente quelli che, nel nostro
orgoglio, amiamo esibire agli altri: quella è un’immagine che non ci
appartiene, una maschera posticcia, creata apposta per soddisfare le nostre
manie di grandezza. Non abbiamo per nulla, dentro di noi, quella luce, quel
calore, quei carismi, che tanto amabilmente ostentiamo all’esterno; siamo
piuttosto tormentati, angosciati dall’oscurità destabilizzante che regna dentro
di noi.
Dobbiamo
armarci di tanta umiltà: solo così potremo far spazio all’amore di Dio.
Un giovane
onesto, giusto, virtuoso e irreprensibile, si presenta un giorno nel deserto da
un santo eremita, e lo prega di accoglierlo come discepolo. L’eremita gli chiede:
“Hai mai rubato?”. Il ragazzo risponde: “Assolutamente mai”. E il vecchio
anacoreta: “Allora va' e ruba, e quando avrai imparato a farlo, torna da me”.
Un invito a rubare? No, fratelli. Semplicemente un invito a indossare l’abito
dell’umiltà, a distruggere le nostre illusioni, le nostre convinzioni di perfezione, di essere
bravi, virtuosi, impeccabili. Perché noi, a ben guardare la realtà, altro non siamo che quel
fariseo e quel pubblicano. Amen.
«Dio non farà forse giustizia
ai suoi eletti, che gridano giorno e notte verso di lui? Li farà forse
aspettare a lungo? Io vi dico che farà loro giustizia prontamente. Ma il Figlio
dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?» (Lc 18,1-8).
La
parabola di oggi ci presenta un giudice disonesto: “bella novità”, diremo noi:
“sarà stato come uno dei tanti di cui anche noi oggi sentiamo tanto parlare”. Solo
però che a quell’epoca il compito specifico dei giudici era quello di tutelare
e difendere le persone più deboli, quelle che non potevano “farsi giustizia” da
sole: le vedove, i bambini e i poveri. In realtà però
nella stessa Bibbia troviamo esplicite condanne contro le ingiustizie commesse proprio con la
complicità e l’appoggio dei giudici. Quindi... niente di nuovo sotto il sole. Ma andiamo avanti.
È un
giudice, questo del vangelo, che non teme nessuno, se ne infischia altamente di quello che la gente
può dire in giro. Non ha una coscienza morale che gli procuri sensi di colpa per
quello che fa. Compie il male e, per lui, non c'è nessun problema.
C'è poi
una vedova, una persona onesta, povera, senza lavoro né protezione; una che non
aveva i soldi per “comprarsi” la sentenza. Ma era una “tosta”, decisa, testarda:
una che non intendeva assolutamente rinunciare al riconoscimento dei propri
diritti. Per cui tutti i giorni, puntualmente, si presentava dal giudice per
sollecitare la sua pratica.
Siamo dunque
di fronte ad una situazione apparentemente impossibile: il giudice è un
opportunista, uno che si fa i fatti suoi, che si muove solo “a pagamento”. La
donna soldi da dargli non ne ha. A questo punto cos’altro le rimane da fare se
non arrendersi?
La
maggior parte della gente infatti, di fronte ad una situazione del genere,
lascia perdere. Ed è vero, perché nella vita ci sono cose che sono veramente
insuperabili. Ma non è detto però che non si possano comunque affrontare.
Noi
diciamo troppo spesso: “Non ce la faccio!”. “Ma ci abbiamo almeno provato?”.
Perché spesso abbandoniamo l’impresa ancora prima di provarci, dopo il primo
tentativo andato male. È più facile per noi dire che una cosa è “impossibile” quando
è solo difficile oppure come non la vogliamo noi.
Ci rassegniamo,
o facciamo le vittime. Ma questo vangelo ci dice: “Provaci, non far finta;
provaci per davvero; non guardare alla difficoltà, fidati di te, delle tue
forze e soprattutto del fatto che Io sono con te; non so se ce la farai ma
lotta con tutto te stesso, come ha fatto quella donna”. Non fingiamo: proviamoci,
insistiamo, con tutte le nostre forze, usando tutte le strategie possibili.
La
strategia della donna non è molto ortodossa ma funziona: rompere le scatole!
Il
verbo greco Ãpwpizein letteralmente vuol dire “fare un occhio nero”, colpire, mettere alle
corde una persona; in senso figurato significa invece seccare, importunare, far fuori uno, farlo diventare “nero”. Per il
giudice la vedova è proprio una “rogna”, una scocciatrice.
Beh, non
è che dobbiamo proprio fare così alla lettera (ce ne sono già tante di persone
così in giro!); ma se ci teniamo ad una cosa, se una cosa per noi è importante,
allora dobbiamo usare tutte le strategie possibili.
Cosa
facciamo invece quando una nostra ingiusta situazione non viene neppure presa
in considerazione? Cosa facciamo quando qualcuno ci dice un no? Facciamo un
tentativo, due, tre, e poi smettiamo; ci sentiamo vittime che non possono fare
niente. Invece questa parabola ci indica un comportamento diverso: “Insisti,
rompi le scatole, sii insistente, assillante”. In-sistere vuol dire “stare in
quella cosa”: non arrenderci. Ci teniamo e non ci muoviamo da qui.
Insistere,
aver tenacia, non arrendersi, è la dimostrazione di quanto noi crediamo in una
cosa, di quanto ne siamo coinvolti, di quanto quella cosa sia importante per
noi. Lottare significa impiegare tutte le nostre energie per ciò che è
importante. Lottare è credere che Dio ci dà una mano. Lottare è avere fiducia
che con Lui troveremo una soluzione; vuol dire, in breve, “credere”, aver fede!
Fede
non è dire: “Dio, fa' come voglio io”. Questo è delirio di onnipotenza, è imporre
a Dio la nostra volontà! Fede è invece essere certi che con il suo aiuto c'è sempre
una possibilità, un modo alternativo per affrontare e risolvere la situazione.
Lottare,
infine, vuol dire anche: “Mi amo!”. Se mi amo, lotto per me. Lotto perché io
sono importante e mi sento tale. Ogni volta che rinunciamo ad un nostro
diritto, che rinunciamo ad esprimerci, a farci sentire, stiamo lentamente
uccidendo noi stessi. Perché gli altri dovrebbero rispettarci se poi neppure
noi lo facciamo? Se ci amiamo, se teniamo a noi, dobbiamo lottare per noi
stessi.
La
situazione della vedova sembrava già persa in partenza. Eppure lei ha una cosa
che fa la differenza: la fede. Lei è la parte ferita, la parte lesa, la parte vulnerabile,
quella che sente le emozioni. Ma questa donna, pur non sapendo come, né quando,
“sente” dentro di sé la fiducia che qualcosa deve cambiare e agisce in
conseguenza.
La
vedova ci rappresenta, è una parte di noi. Ma dentro di noi c'è anche il
giudice. È quella voce che ci dice: “Zitto; mettiti in un angolo!; non pensare
sempre a te!; c'è chi sta peggio di te!; devi adattarti, devi subire, devi portare
pazienza”. Ma con questo sistema ci dichiariamo disponibili a subire qualunque
imposizione, qualunque soperchieria. Le atrocità della vita accadono per due
motivi: uno perché c'è chi le compie; due perché c'è chi, pur sapendolo, non
dice nulla, non si oppone.
Nel
vangelo la vedova interviene invece con forza: “Non me ne sto zitta proprio per
niente! Rivendico i miei diritti; rivendico il mio diritto di parola; rivendico
la mia dignità; rivendico il rispetto per la mia persona. Per niente al mondo
tu, o giudice, mi chiuderai la bocca; io voglio che la mia situazione, le mie
emozioni, i miei diritti, siano considerati e rispettati”.
La
cosa peggiore che noi possiamo fare a noi stessi è di metterci il bavaglio,
condannarci al silenzio forzato, essere rinunciatari. Non è umiltà, è abulia. Non
uccidiamoci, ma amiamoci. Dio ci ha creati perché fossimo sue creature, perché
esistessimo, perché realizzassimo in noi l’opera del suo amore: diamoci e
diamogli spazio, diamoci e diamogli voce. Dimostriamo a tutti che ci sentiamo
realmente creature di Dio, consapevoli della nostra dignità, del nostro essere persone
all’altezza di quel progetto divino al quale Lui ci ha chiamati. Amen.