giovedì 28 novembre 2013

1 Dicembre 2013 – I Domenica di Avvento – Ciclo A

«Vegliate dunque, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà… tenetevi pronti perché, nell’ora che non immaginate, viene il Figlio dell’uomo» (Mt 24,37-44).
Con questa domenica iniziamo il tempo liturgico dell’Avvento. Gesù nel vangelo ci mette in guardia. “Aprite gli occhi, non vivete nella superficialità, come al tempo di Noè, in cui mangiavano, bevevano, si sposavano e facevano figli, ma non si accorgevano di nulla”. Vivevano nella falsità, si ingannavano l’un l’altro, ma il loro unico interesse era di disinteressarsi di tutto, non volevano aprire gli occhi, perché aprirli significava cambiare.
Se infatti noi “vediamo” una cosa, allora non siamo più gli stessi: sappiamo che c'è, e ci “scoccia” saperlo; ci “brucia” così tanto che, diciamo, era meglio non saperlo. È vero: aprire gli occhi è doloroso. Molti preferiscono vivere nell’illusione piuttosto che scoprire la realtà. Preferiscono ingannarsi. E questo ci dimostra a sufficienza quanta falsità regni nella vita di certe persone. In questo modo quando Dio verrà, molti non se ne accorgeranno. Molti, inghiottiti dalla vita, diranno: “Ma che sfortunato sono stato! Che destino terribile!”. E invece no! Dovevamo accorgercene prima. Avevamo tutto il tempo, lo sapevamo. Ma abbiamo preferito dormire, abbiamo vegetato, ci siamo lasciati vivere.
La gente mangia tutto, beve tutto, senza porsi mai nessuna domanda; la gente crede a tutto e digerisce tutto. “State attenti, aprite gli occhi, non vivete nella superficialità; non fatevi ingannare”, insiste dunque Gesù. E ce lo dice proprio in Avvento, all’inizio del nuovo anno liturgico, nel tempo che da oggi ci accompagnerà fino al 25 dicembre.
Sì, perché il 25 dicembre celebreremo il Natale, la venuta di Dio sulla terra (ad-ventus).
Ma Dio non viene il 25 di dicembre, Dio viene e ci incontra ogni giorno se noi lo lasciamo entrare, se permettiamo alla sua luce, al suo Sole, di illuminare la nostra vita, di riscaldarla, di svelarcela.
Quindi non prendiamoci in giro e non raccontiamoci frottole: Cristo può nascere mille volte a Betlemme, ma se non nasce dentro di noi è come se non fosse mai nato”, diceva il mistico tedesco Silesius.
In queste quattro settimane, noi accenderemo una candela a settimana (tradizione molto antica): quattro domeniche, quattro candele d’Avvento. Per dire: è un cammino di luce dove noi ogni giorno cerchiamo di accendere una luce nella nostra vita, dove noi ogni giorno cerchiamo di far entrare la luce del Sole, di Dio, perché ci possa rischiarare e illuminare.
Queste quattro candele hanno un senso, però, solo se rappresentano il segno reale di ciò che accade nella nostra vita. Altrimenti sono solo quattro ceri che bruciano e basta. Hanno senso se esprimono la luce che lentamente entra nella nostra vita e che rischiara il buio che ci opprime; se sono la luce che illumina le nostre paure e le vince; se sono la luce del Sole, di Dio, che ci dice: “Non abbiate paura, nessun buio vi può vincere. Non lasciatevi prendere dall’insoddisfazione, dallo sconforto, dal pessimismo, dallo scoraggiamento”.
Il richiamo costante e continuo dell’avvento è pertanto quello di vigilare, di essere svegli, di non addormentarci. “Esci dal sonno; vieni alla luce; svegliati; renditi conto che in certi giorni e in certe zone della tua anima vivi nel buio”.
Per uscire però dal sonno, dobbiamo prima accorgerci di dormire; per accendere una luce, dobbiamo prima accorgerci che c’è il buio. Ed è proprio per questo che l’avvento è difficile: perché aprirsi al Dio-che-viene, vuol dire mettere in crisi certe nostre posizioni conquistate faticosamente e alle quali ci aggrappiamo in tutti i modi.
Molti di noi in questo periodo non fanno in realtà niente; aspettano il 25 di dicembre come qualsiasi altro giorno, e basta. Dicono: “Ho tante altre cose, troppe cose, da fare!”. Ma non è vero: è vero invece il contrario: facciamo tante cose pur di evitare spazi di luce; così, in realtà, tutto rimane invariato, non cambia nulla: ma con il nostro comportamento, con l’indifferenza, con il dubbio, con il cinismo, con la banalizzazione, con il pessimismo, noi rifiutiamo la Luce-che-viene-per-noi: tutti i modi sono buoni per evitare il nostro coinvolgimento, per non consentire alla luce di entrarci dentro.
La parola “Eden”, il mitico giardino di Adamo ed Eva, significa “godimento, delizie”: per chi vive la propria verità (sono figlio di Dio), per chi dà spazio alla propria anima, per chi libera la luce che porta in sé, anche la vita attuale diventa un vero giardino di delizie e di godimento. Al contrario per quelli che perdono contatto con la propria identità profonda, non può che esserci insoddisfazione, noia, rabbia, depressione, risentimento, angoscia.
Quante persone, infatti, dopo aver perso ogni contatto con il Dio che è dentro di loro, vivono di espedienti, di complessi di inferiorità, di ansie continue: pretendono di essere chissà chi, vogliono sentirsi grandi, superiori agli altri, vogliono potere, prestigio; sentendosi svuotati, si riempiono di zavorra; e finiscono col sostituire il loro esistere per l’eterno, con il possedere il presente, il transitorio, il deperibile, il caduco. Se capissero che sono figli di Dio, che ai suoi occhi sono già grandissimi così come sono, che per Lui sono più preziosi di qualunque cosa al mondo, che Lui li conosce singolarmente e li ama proprio perché sono così, sicuramente non avrebbero nient’altro da desiderare, non avrebbero più nulla da dimostrare a nessuno!
Purtroppo, invece, chi ha perso il contatto con la Luce, con il calore dell’amore di Dio, è costretto a combattere contro se stesso, contro i suoi complessi d’inferiorità: si sente nessuno, vuoto, inutile; si distrugge confrontandosi con quelli che sono migliori di lui, si affanna per emularli, per darsi un contegno, per sentirsi importante, visto che per lui l’essere se stesso è semplicemente terribile: non si accetta, non si vuole, è disposto a svendere ogni briciolo di dignità pur di raggiungere dei traguardi, che comunque poi scoprirà fallimentari. Se sapesse invece che è figlio di Dio, che l’Altissimo ha posto dimora in lui fin dalla sua nascita, che nel suo cuore egli ospita il Re dei re, allora di certo si renderebbe conto chi egli sia veramente. Si accorgerebbe che - aldilà della sua vita, dei suoi errori, dei suoi fallimenti, di quello che non riesce a fare o ad essere – lui è sempre e comunque “qualcuno”: una creatura importante, preziosa, unica, irripetibile; perché lui – come ognuno di noi - è stato creato “grotta” di Dio, per custodire l’amore; “Maria” di Dio, per generare l’amore; “Giuseppe” di Dio, per difendere l’amore, “angelo” di Dio, per cantare l’amore.
Allora Avvento significa vegliare per non perdere la nostra vera identità di figli della Luce. Significa riconquistarla, se l’abbiamo persa. Avvento è rivestirci della nostra dignità di figli di Dio. Avvento è prendere coscienza di Chi ci inabita da sempre; è imparare a conoscere la nostra anima che anima la nostra vita. Avvento è cambiamento, luminosità, trasformazione, metamorfosi; perché come il bruco onnivoro, possiamo anche noi diventare leggiadre farfalle che si librano in alto nella luce del Sole eterno. Amen.

venerdì 22 novembre 2013

24 Novembre 2013 – Cristo Re dell’universo

«In quel tempo, dopo che ebbero crocifisso Gesù, il popolo stava a vedere…» (Lc 23,35-43).
Il vangelo di oggi - festa di Cristo Re, Signore incontrastato dell’universo - ci propone, contrariamente a quanto il titolo lascia supporre, non un’atmosfera di grandioso trionfalismo, di fasti regali, ma la scena straziante del Calvario, che di glorioso non ha proprio nulla: Gesù, sulla croce, sta vivendo gli ultimi tragici istanti della sua vita umana. Fermiamoci su questa scena.
Attorno, c'è molta gente: guarda, ma non dice nulla; il popolo non reagisce, non si ribella, non si indigna, non chiede spiegazioni, non si muove. Eppure sta assistendo ad una evidente ingiustizia; ha davanti a sé il figlio di Dio, una delle situazioni più crudeli della storia, e non si scompone. Come se non stesse succedendo nulla di anormale. Regna l'indifferenza più totale.
A molta gente basta avere un po' da mangiare, qualche divertimento, “tirare avanti”, senza essere disturbata. Non vuole essere coinvolta; non vuole avere problemi: non si espone e non prende posizione. Ma in questo modo già ha preso una posizione.
Quando di fronte a qualcosa di grave, di cui siamo testimoni, diciamo: “Io mi faccio gli affari miei e non do fastidio a nessuno”, noi prendiamo una posizione che non è giustificabile di fronte alla nostra coscienza, che non ci può assolutamente deresponsabilizzare. Non solo chi ha ucciso Gesù ne è il responsabile ma anche chi potendo fare qualcosa, anche solo alzando la voce, anche solo ribellandosi, anche solo opponendosi in qualche modo, non lo ha fatto.
Quando non ci indigniamo di fronte a ciò che succede, vuol dire che lo accettiamo. Quando non prendiamo posizione di fronte a ciò che sta accadendo, vuol dire che lo favoriamo. Quando ciò che vediamo non ci fa riflettere, non ci fa piangere e cambiare, vuol dire che favoriamo il male. Quando ci sarà chiesto conto di milioni di persone che muoiono di fame, per la voracità di chi già sta bene, come risponderemo noi: “Io non ho rubato a nessuno?”. Non serve: vuol dire che ci andava bene così! Quando di fronte alla moda, alla linea “unica” di pensiero, di fronte alla nostra cultura imperante, carica di banalità, di ignoranza, di stupidità, noi non solo non ci opponiamo, ma anzi ci adattiamo supinamente, cosa risponderemo: “Beh, facevano tutti così”? Non abbiamo una testa nostra? Siamo comunque colpevoli! Non opporsi, non fare nulla, adagiarsi sull’andazzo comune, non ci esime dalle nostre responsabilità!
Ci sono anche i capi del popolo e i soldati. I capi sbeffeggiano Gesù, si prendono gioco di lui e lo disprezzano. I capi sono quelli che sfruttano a loro vantaggio ogni situazione. Con abili manovre politiche, con una buona comunicazione, riescono ad ottenere sempre ciò che vogliono.
I soldati hanno le armi e la forza. Rappresentano quelle persone che sono convinte di essere libere, di essere forti, di essere “qualcuno” (hanno le armi) e, invece, non si accorgono di essere schiave del sistema; si ritengono libere e fortunate perché possono permettersi “certe cose” e non si accorgono di essere invece delle marionette senza midollo, in mano a poche lobbies che gestiscono in tutto la loro vita.
Poi ci sono i due malfattori. Uno dei due è arrabbiato con la vita, con Dio e con tutti, come se tutti fossero colpevoli della sua sorte. Ciò che gli accade invece è l’esatta conseguenza della sua vita. Se ne rende conto in cuor suo, e per questo scarica addosso a Gesù tutto l'odio e la rabbia per la sua vita. “Salva te stesso e noi”. Parole ironiche, sarcastiche. Ci rappresenta. Quante volte ci troviamo in quella stessa situazione! Quello che lui dice a Gesù è quello che noi dovremmo dire a noi stessi. Siamo noi che dobbiamo salvarci; siamo noi che dobbiamo cambiare; siamo noi che non si rendiamo conto di essere i condannati, gli imprigionati, i condizionati, gli schiavi. E non ce ne accorgiamo.
Dovremmo dire: “Non sei tu che devi salvarti, ma noi!”. Crediamo di vedere uno crocifisso e invece vediamo un uomo libero. Crediamo di essere liberi e invece siamo crocefissi dalle nostre paure, dai nostri condizionamenti. Crediamo di vedere e, invece, siamo ciechi. Crediamo di vivere e non ci accorgiamo di essere morti dentro.
C'è però anche un malfattore che capisce e accoglie Gesù. Anche in quella situazione di totale impotenza è possibile fare qualcosa: dire di sì a Dio e accoglierlo.
Il malfattore riconosce il suo errore e chiede perdono. Tutti guardano con sfida a Gesù; solo lui guarda umilmente a sé, alle sue colpe. Salvezza è guardare a sé; condanna è guardare agli altri; salvezza è riconoscere il proprio errore, la propria non-luce, la propria cecità; salvezza è aprire gli occhi. Questo è quello che ciascuno di noi può dire a Gesù: “Ho vissuto sempre così, ma da oggi voglio cambiare. Oggi sono io che ti accolgo e ti faccio entrare in casa mia. Oggi ti dico di sì. Oggi cambio direzione. Oggi inizio”.
Se finora abbiamo vissuto nel disinteresse, oggi cambiamo. Se finora abbiamo vissuto delegando, da oggi cambiamo. Se finora abbiamo incolpato gli altri della nostra infelicità, da oggi cambiamo. Se finora abbiamo imprecato e bestemmiato contro Dio per ciò che ci succede, da oggi cambiamo. Se finora abbiamo vissuto nella paura e nella difensiva, da oggi cambiamo. Perché questo è il paradiso: e da oggi possiamo cambiare. Se finora è andata così, oggi possiamo cambiare. Non è mai troppo tardi per iniziare. Mai!
Quelle parole: “Salva te stesso e noi”, sono terribili. È come dire a Dio: “Mi servi per il tuo potere!”. Ma per cosa serve Dio? Per niente di quello che vorremmo noi! Se pensiamo che Dio serva a far soldi, a dare lustro alla nostra immagine di brave persone, ad essere rispettati, a risolvere i nostri problemi di relazione, a coprire le nostre insicurezze, a tappare i nostri buchi, Dio per tutto questo non serve proprio a nulla. Rimarremo in ogni caso delusi da Lui. Se pensiamo di chiamare in causa Dio per tutto ciò che non funziona nella nostra vita o nel mondo, per tutte le disgrazie che succedono, rimarremo sempre molto delusi. Perché non è per questo che Dio ci serve. Dobbiamo stare molto attenti a non “usare” Dio! Dio è la forza delle nostre gambe: ma siamo noi che dobbiamo camminare! Dio è l'amore del nostro cuore: ma sta a noi protenderci, per incontrare e abbracciare. Dio è la voce che dalla coscienza sale alle nostre labbra: ma sta a noi parlare, confessare, dire la verità. Dio è lo sguardo dei nostri occhi: ma sta a noi aprirli, guardare e renderci conto sul da farsi. Non chiediamo mai a Lui di fare ciò che spetta a noi. Non deleghiamo mai a Dio i nostri compiti. Dio è forza ma non fa azioni di forza. Dio è luce ma non ci sbatte davanti la verità. Dio è potenza ma non violenta nessuno. Dio è amore ma non “costringe” nessuno ad amare.
Il quadro dei due malfattori è una scena molto profonda. Sono due malfattori, due uomini giustiziati giustamente (almeno secondo le leggi di quel tempo). Quello che subiscono non è ingiusto, come al contrario lo è per Gesù: sono due malfattori, hanno ucciso. Sono uomini che hanno sbagliato a vivere, che hanno fallito, che hanno mancato il bersaglio della loro vita (“peccato” in ebraico vuol dire proprio “mancare il bersaglio”). Sanno di aver sbagliato. Ma uno dei due lo ammette e può ricevere il perdono, l'altro no.
Non si può ricevere nessun perdono se non si accetta di aver sbagliato. Nessuno ci può perdonare se non accettiamo la nostra ferita o il nostro errore. Giuda era morso dal senso di colpa per ciò che aveva fatto, ma non l'aveva accettato. E si è ucciso. Così chi non sa accettare il proprio errore e non si sa perdonare si uccide, non si concede nessun'altra possibilità di vita.
Di fronte ai nostri errori abbiamo due possibilità: o ci ostiniamo a non vedere, o accettiamo la realtà che ci fa male. Possiamo raccontarci qualunque favola sulla nostra vita: che ce l’abbiamo messa tutta, che di più non potevamo fare. Ma la nostra coscienza, nel profondo, sa perfettamente se ci siamo accontentati o no, se ci siamo adattati o no, se abbiamo avuto paura di vivere, di osare e di rischiare o no. E siccome a lei non possiamo mentire, lei sente la colpa.
Noi possiamo imbrogliare chiunque, possiamo darla a bere a tutti, ma non alla nostra coscienza che conosce ogni cosa e sa cos'abbiamo realmente fatto. Accettare il perdono è accettare l’idea di esserle stati infedeli, è vederci deboli, vulnerabili, fallibili. E non vorremmo mai vederci così. Non vorremmo mai ammettere che noi, proprio noi, abbiamo agito così. Ma finché non lo ammetteremo, continueremo a rimanere legati al nostro senso di colpa nascosto e non potremo ricevere mai nessun perdono.
Il nostro profondo, la nostra coscienza, il Dio in noi, conosce ogni cosa di noi. A Lui non possiamo mentire. Anche se noi ce le nascondiamo, lui le sa. Anche se noi ce le dimentichiamo lui le sa tutte. Il nostro profondo sa e conosce tutte le nostre colpe, sa e conosce tutto di noi. Ammettere, quindi, riconoscere, “sentire” il male che abbiamo fatto, è l'unica strada per il perdono, per ritornare a vivere, è l’unica via per la salvezza. Amen.
 

giovedì 14 novembre 2013

17 Novembre 2013 – XXXIII Domenica del Tempo Ordinario

Tre considerazioni mi son subito sorte alla lettura del vangelo di oggi: probabilmente non c’entrano nulla con il corretto messaggio del testo, ma voglio comunque condividerle, sperando che diventino motivo di meditazione anche per altri.
La prima: «alcuni parlavano del tempio, che era ornato di belle pietre e di doni votivi…» (Lc 21,5). Sono parole che non si adattano solo al Tempio; forse sono ancor più riferibili ai “frequentatori del Tempio”, a tutti noi cristiani; basta guardarci attorno! Quanti (forse io per primo) si atteggiano per quelli che non sono; quante volte amiamo esibire in pubblico le nostre “gemme” spirituali, le nostre pratiche religiose, le nostre “buone” opere: la nostra messa, i nostri rosari, le nostre “lodi”, le nostre elemosine, ostentando in esse una fede e una carità che in realtà non abbiamo; quante volte ci accontentiamo di una pietà ridotta a semplici orpelli esteriori, a corone, a immagini e medaglie sacre in bella mostra, a preziosi crocifissi e madonne d’oro al collo, piuttosto che consumare in umiltà e sincerità, nel segreto del nostro cuore, il nostro intimo rapporto con Dio! Per molti, l’essere cristiani “praticanti”, purtroppo, si esaurisce qui: ma, dice Gesù, tutto quello che vedete, tutto quello che è esteriore, tutto quello che è esibizione e amor proprio, tutto verrà distrutto; tutto si rivelerà un nulla, senza nessun valore.
La seconda: «Badate di non lasciarvi ingannare. Molti verranno nel mio nome. Non andate dietro a loro!». Dobbiamo veramente stare molto attenti: oggi purtroppo siamo costretti a convivere con tantissimi pseudo profeti (conferenzieri, studiosi, preti, frati, teologi moderni, medium, guaritori, ciarlatani ecc.); con gente che pur di consolidare il proprio prestigio, pur di avere un “ritorno” mondano, applausi, gloria mediatica, è pronta, vendendosi l’anima, a promuovere la sapienza venefica di satana, piuttosto che il messaggio salvifico di Cristo. Gente dall’apparenza melliflua, affabile, disponibile, cordiale, che si presenta come testimone e dispensatrice dell’amore di Dio, ma che in realtà è diabolica, mirando esclusivamente all’auto affermazione.
Terza considerazione: «Sarete traditi perfino dai genitori, dai fratelli, dai parenti e dagli amici…; sarete odiati da tutti a causa del mio nome. Ma nemmeno un capello del vostro capo andrà perduto». Capiterà che saremo traditi e abbandonati da tutti, ma noi non saremo mai soli. Dio continuerà sempre a starci vicino, pronto a venire in nostro aiuto, anche se noi lo rinneghiamo, anche se non lo vogliamo. Può succedere qualunque terremoto, qualunque disgrazia: quello che ci deve tranquillizzare è la certezza di avere ogni momento Gesù al nostro fianco. Con Lui vicino non potrà mai succederci nulla di “male”.
Allora, perché preoccuparci tanto? Perché vivere continuamente nell’ansia, nell’angoscia?
L’angoscia, lo sappiamo, è un male mortale: è la sensazione di poter cadere ogni istante nel baratro del male, senza che nessuno possa aiutarci. È un terrore costante che ci priva di qualunque certezza; è quel sentimento che ci mette di fronte alla nostra impotenza, ai nostri limiti, che ci fa temere un crollo improvviso e totale di ciò che ci circonda.
È un sentimento oggi molto diffuso: noi tutti, in qualche modo, viviamo nell’angoscia: siamo angosciati per il nostro domani, per la possibilità di perdere il lavoro, per non riuscire ad arrivare a fine mese. Siamo tutti ossessionati dalle malattie, dalle disgrazie, dalla possibilità di nuove guerre mondiali, di esplosioni atomiche, dal mostro del terrorismo islamico, dalla possibilità di inondazioni o di calamità naturali. E come se non bastasse, in fondo in fondo, quello che più ci angoscia, più ci terrorizza è l’idea della morte: la drammatica e tragica fine della nostra vita, di quando cioè saremo costretti nostro malgrado ad abbandonare, a perdere, a separarci da tutto ciò che siamo, da tutto ciò che abbiamo.
Cosa dobbiamo fare, allora, per combattere questa sensazione velenosa? Quale via dobbiamo seguire per ridurre questa sensazione che ci paralizza, che ci rende invalidi?
Per prima cosa dobbiamo portare luce nel nostro buio, non dobbiamo aver paura di scoprirci, di mettere tutto il nostro intimo alla luce del Sole divino. Perché più abbiamo cose da nascondere, più le teniamo segrete, più ci sentiamo in colpa per quanto avremmo dovuto fare e non abbiamo fatto, o abbiamo fatto e non avremmo dovuto fare.
Gesù nel vangelo dice: «Non v'è nulla di nascosto che non debba essere svelato e di segreto che non debba essere manifestato. Quello che vi dico nelle tenebre ditelo nella luce e quello che ascoltate all'orecchio predicatelo sui tetti» (Mt 10,26ss).
Molte persone sono angosciate dal doversi guardare dentro, dalla paura di scoprire nel loro animo, emozioni di odio, di rabbia, di vergogna; temono di essere sopraffatti da sensi di colpa e di inferiorità, da umiliazioni, da ferite. Ma non è così.
Più abbiamo zone buie dentro di noi, più nascondiamo in noi ombre e mostri, più vivremo nell'angoscia; più faremo luce e verità dentro di noi, meno vivremo angosciati.
Una volta poi superato questo ostacolo, dobbiamo vivere nel presente, nella realtà. Se iniziamo a pensare a quello che potrebbe succedere, a come potrebbero andare le cose, al fatto che c'è sempre il peggio che incombe, al disastro che ci potrebbe succedere, allora è davvero la fine.
La maggior parte delle persone non sono angosciate da ciò che succede ma da ciò che potrebbe succedere. Ciò che potrebbe succedere però non è ancora successo, quindi non esiste. Dobbiamo pertanto vivere con i piedi per terra, stare a contatto della realtà, convinti che il più forte antidoto all'angoscia è la fiducia. Sì, perché la fiducia è il percepire, il sentire che Lui è con noi, che ci accompagna, che non ci abbandona mai. La fede vera, la fiducia in Dio, sono l’esatto opposto dell'angoscia: Lui c'è, Lui ci accompagna, Lui vuole il nostro bene, Lui ci sostiene, Lui ci dà e ci darà sempre forza e coraggio. E questo ci deve bastare.
Ma per giungere a ciò, dobbiamo soprattutto pregare. Pregare sul serio.
Del resto, cos'ha fatto Gesù nei suoi momenti di profonda angoscia? Era nel Getsemani e la prospettiva che aveva davanti era terribile: ebbene, Lui ha pregato con tutto se stesso, e si è liberato, affidandola al Padre, di tutta la sua angoscia, della sua paura; ha avuto bisogno di sentirlo vicino, di sentire che Lui c'era anche in quel momento terribile. E quando l'ha sentito vicino, ha trovato la forza per andare avanti a testa alta. Facciamo anche noi così. Amen.
 

giovedì 7 novembre 2013

10 Novembre 2013 – XXXII Domenica del Tempo Ordinario

«Si avvicinarono a Gesù alcuni sadducèi – i quali dicono che non c’è risurrezione – e gli posero questa domanda: “Maestro, Mosè ci ha prescritto: Se muore il fratello di qualcuno che ha moglie, ma è senza figli, suo fratello prenda la moglie e dia una discendenza al proprio fratello”...» (Lc 20,27-38).
Questa volta a fare i provocatori di turno sono i Sadducei, uomini dediti più alla politica che alle problematiche religiose. Nonostante fossero i rappresentanti dell’aristocrazia sacerdotale del Sinedrio, tra le altre cose negavano la dottrina della risurrezione dei corpi, elemento basilare della cultura giudaica.
La loro chiara intenzione è quella di deridere Gesù, di metterlo alla prova, di prenderlo in giro; ma poi, come al solito, sarà Gesù che metterà in difficoltà questi “saputoni”, grazie proprio alla stupidità, banalità e inconsistenza della loro richiesta  .
Il caso che pongono è infatti assurdo, inverosimile, perfino grottesco: “visto che la legge mosaica dice: Se una vedova è senza figli maschi, può essere sposata dal cognato per avere una discendenza(Dt 25, 5), di chi sarà moglie, con quale marito si congiungerà, dopo la risurrezione dei morti, una donna che in vita è stata moglie senza figli di sette fratelli?” È evidente che qui essi esasperano il caso, proprio per mettere in ridicolo Gesù.
Ma Gesù che fa? Li ignora, ovviamente; non dà una risposta diretta, ma approfitta dell'occasione per darci due insegnamenti forti.
Il primo insegnamento: per parlare e discutere di ciò che succederà nell’al di là, dopo la morte, non possiamo utilizzare le stesse categorie mentali con cui ci esprimiamo in questo mondo. Tutte le nostre previsioni non sono altro che ipotesi, allusioni, parabole, immagini. I Sadducei non fanno altro che questo: trasferire immagini note, tratte da questa vita terrena, adattandole al mondo che verrà. Del resto ogni religione fa esattamente così quando intende descrivere la vita dopo la morte: immagini di fuoco, latte e miele che scorrono, pascoli erbosi, luce sfavillante, verdi prati, non sono altro che idee tratte dal patrimonio comune della nostra esistenza attuale. Voler descrivere quello che succederà nella vita futura è impossibile, perché ancora non abbiamo alcuna esperienza in proposito: è come se un bimbo ancora nel grembo materno, volesse descrivere il volto della mamma, la fredda lucentezza di un’aurora, la calda evanescenza di un tramonto marino.
Noi non sappiamo come sarà l'aldilà. Abbiamo dei presentimenti, delle intuizioni, dei segnali, delle tracce: immagini come il “tunnel del grande passaggio”; il fuoco dell'inferno; gli angeli con le ali; i diavoli con le corna; Adamo, Eva, il giardino dell'Eden; i tormenti del fuoco; il paradiso, il purgatorio e l’inferno e quant'altro, non sono che dei tentativi, delle previsioni che veicoliamo dalla nostra fede, dai testi sacri, dalla letteratura cristiana; immagini che ci producono delle emozioni, che ci rappresentano situazioni “celestiali”, è vero, ma che non ci dicono assolutamente nulla di come sarà realmente l’aldilà.
Forse un’idea più realistica la possiamo trarre dall’amore: quando siamo veramente innamorati, ci sembra infatti di vivere l'eterno, l'infinito; quando qualcuno ci ama ci sentiamo immortali, eterni, senza fine, immersi in una situazione di totale appagamento, da cui nessuno potrà mai staccarci. Ecco, l’incontro con l’amore di Dio, nella risurrezione dopo la morte, sarà sicuramente così; anzi, sarà così, ma sarà anche tutt’altra cosa; sarà una cosa ancora più avvincente, ancora più estasiante; vivremo una situazione indescrivibile, inimmaginabile, perché priva in assoluto di alcun termine di paragone.
La curiosità di sapere ad ogni costo come sarà la fine dei tempi, come sarà la vita oltre la morte, quale sarà il destino delle anime, è spesso di origine morbosa: ci rifugiamo nel futuro perché non sappiamo vivere bene il presente. Siamo insicuri, scontenti, in ansia costante. Basterebbe invece non dimenticare mai una cosa sola: che noi siamo figli di Dio, che siamo figli della Resurrezione, i prediletti, gli amati, i riscattati da Cristo.
Se veramente siamo certi di questo, di che altro dobbiamo preoccuparci? Dove sono ancora le nostre angosce? Mettiamoci nelle mani di Dio e, non temendo il futuro, vivremo bene anche il presente.
“Dio non è il Signore dei morti, ma dei vivi; tutti devono vivere per lui e in lui”. È il secondo insegnamento di oggi: quindi neppure la morte può spezzare questa realtà, questo legame d’amicizia, di amore, di speranza; Dio stesso non si sottrarrà mai a questo rapporto, perché lui è il Fedele. Avere fede nella resurrezione, significa appoggiarsi a questa fedeltà, alla Sua fedeltà; perché Dio è colui che non abbandona. Ogni giorno possiamo sperimentare che Lui è il Fedele: anche se sbagliamo, anche se ci allontaniamo da Lui, anche se in certi giorni non accettiamo quanto Lui ci propone, anche se spesso gli siamo infedeli e lo tradiamo, Lui rimane fedele. Lui è una roccia, Lui è il granito; Lui è la mano che non si stacca mai da noi, che non se ne va, che ci tiene forte, che non ci lascia.
Non sapremo ancora con esattezza cosa voglia dire resurrezione, ma sappiamo che Lui è Vita, è Amicizia, è Amore; è Colui che non abbandona mai chi lo ama.
Sappiamo questo, e questo ci deve bastare.
Affidiamoci a Lui, sicuri che non ci lascerà cadere nel buio. Se la nostra vita rimane appoggiata, ancorata su di Lui, allora anche noi dureremo per sempre, perché Dio è per sempre. Fidiamoci e non temiamo. Ma se Dio è rimasto estraneo, sconosciuto, lontano dalla nostra vita, allora sì che avremo tanta paura: “una paura da morire!”.
Quando invece uno si fida ciecamente, tutto diventa facile e meraviglioso: non c'è più niente da temere perché un angelo è con noi e ci conduce, ci protegge, ci sostiene, ci dice dove andare e dove non andare. Potersi fidare di qualcuno e abbandonarsi è straordinario. Ci si sente al sicuro, protetti, non c'è più niente di cui aver paura. In certi giorni magari non “vediamo” Dio che ci conduce, ma sentiamo comunque che Lui ci porta. E l’importante non è tanto dove andiamo, ma che lui c’è.
Prima di andare nell’aldilà avremo tanta paura, ma poi sarà una grande festa. Ciò che incontreremo sarà molto diverso rispetto a quello che ci aspettiamo, a quello che possiamo anche solo lontanamente pensare. È inutile pensarci; è inutile volersi fare delle idee; è inutile voler sapere a tutti i costi. Tutto sarà compiuto, tutto sarà in pienezza.
La morte è la fine di questa vita, ma è anche inizio di un'altra vita. Si tratta di cambiare casa. Molte persone credono che l'inferno o il paradiso sia un po' come un terno al lotto: non possiamo farci nulla e speriamo che ci vada bene! Ma l'inferno e il paradiso ce lo costruiamo noi. L'inferno o il paradiso ce lo scegliamo noi; è nelle nostre mani. E quando andremo di là, Dio non farà nient'altro che confermare le nostre scelte di quaggiù, quello cioè che noi abbiamo voluto.
Scegliamo la vita! Scegliamo il paradiso! Scegliamo l'amore! Dio non vuole che distruggiamo la nostra vita. Dio non vuole che nessun uomo si annienti o si annulli, che nessun uomo perda se stesso. Mai. Dio non è il Dio della morte. Dio è il Dio della vita e vuole che tutti viviamo e che viviamo in pienezza, che viviamo sviluppandoci, crescendo, e che raggiungiamo la massima vitalità possibile. Amen.



 

mercoledì 30 ottobre 2013

3 Novembre 2013 – XXXI Domenica del Tempo Ordinario

«Gesù entrò nella città di Gerico e la stava attraversando, quand’ecco un uomo, di nome Zaccheo, capo dei pubblicani e ricco, cercava di vedere chi era Gesù, ma non gli riusciva a causa della folla, perché era piccolo di statura» (Lc 19,1-10).
Gesù sta andando verso Gerusalemme. Gerico si trova ad una trentina di chilometri da Gerusalemme, lungo una grande via di comunicazione. Proprio per la sua posizione la città costituiva un punto strategico per l'amministrazione romana; era quindi piuttosto facile imbattersi in funzionari imperiali, uomini dell'esercito ed esattori delle tasse. Era una località molto frequentata e affollata.
Ed è qui che Zaccheo incontra Gesù: o è Gesù che “incontra” Zaccheo?
Ma poi chi è questo Zaccheo? È un pubblicano: i pubblicani erano quelli che avevano avuto in esclusiva dai Romani l’appalto per la riscossione dei tributi, delle tasse: un lavoro ingrato, maledetto e odiato dagli ebrei, dal quale però i pubblicani traevano grossi guadagni personali.
Il termine pubblicano era infatti sinonimo di “immorale”; dare del “pubblicano” a qualcuno era come dargli del falso, del ladro, del traditore. E Zaccheo non solo è un pubblicano ma è il capo dei pubblicani: è il più ladro dei ladri. E tutti lo sanno! È insomma un poco di buono, un infedele, un venduto a Roma, un collaborazionista, un peccatore. Uno che aveva accumulato ingenti ricchezze, defraudando la povera gente.
Il nome Zaccheo però vuol dire “giusto, puro”. Certo nessuno lo vedeva così; ma Gesù sì. Anche se uno al di fuori sembra a tutti un poco di buono, un figlio di “buona donna”, anche se sembra un pervertito o quant'altro, Dio vede la sua piccola parte pura e giusta, la sua bontà, la sua “verginità”. Per Lui il valore e la dignità di noi uomini, di sue creature, per quanto ci accada nella vita, non viene mai meno.
Zaccheo dunque “cerca di vedere”. Ora, “cercare di vedere” lascia intuire un desiderio: c'è un'insoddisfazione dentro di lui, c'è un tormento, una inquietudine, una irrequietezza; egli cerca di trovare qualcos'altro; quello che ha, per quanto sia, non gli basta più. Zaccheo ha tutto, ma quel tutto non gli basta, perché la felicità non sta nelle cose ma nei valori. Le cose sono solo uno strumento per raggiungere i valori; sono i valori morali che danno piena serenità e appagamento.
Per questo Zaccheo è insoddisfatto e per questo “cerca di vedere” qualcos'altro. Per questo decide di fare qualcosa di diverso nella sua vita: abbandonerà il banco delle imposte per andare a “vedere” Gesù. Ed è meraviglioso perché Zaccheo, così facendo, dimostra di aver capito che solo Colui che vuole incontrare può dargli pace e serenità.
Zaccheo è piccolo: “piccolo” non tanto di statura , ma della percezione interiore che egli ha di se stesso. Anche se in realtà è “più”, anche se è “superiore” agli altri, egli si sente comunque “inferiore”, si sente incapace, completamente privo di una ricchezza “diversa”, si sente come menomato. Il suo vero problema è quello di sentirsi addosso tutto il peso della sua inferiorità spirituale.
Finora cos'ha fatto? Poiché si sentiva il più piccolo (inconsciamente) ha voluto diventare il più grande (capo dei pubblicani). Pensava che una volta diventato il più ricco, il più potente, sarebbe stato anche il più ammirato, il più amato: ma non è stato così!
Allora reagisce ancora, e trova dentro di sé la forza per riscattarsi, per ribellarsi da una situazione che ormai lo soffocava.
Mettiamoci nei suoi panni: tutti lo conosco, tutti sanno chi è. È uno degli uomini più famosi, più conosciuti, più temuti della città: e che fa? sale su di un sicomoro, cosa molto poco elegante per uno come lui, e lo fa semplicemente per veder passare un “predicatore”. Ci vuole coraggio! Sa che tutti lo vedranno (e infatti tutti lo vedono), che lo derideranno, lo segneranno a dito, ma lui ha il coraggio di farlo comunque, vincendo il timore di essere “chiacchierato” dalla gente. Nella vita è necessario infatti vincere la paura del giudizio degli altri per trovare la propria strada sicura.
E Gesù che fa? Gesù non gli fa nessuna predica, non lo vuole convertire né cambiare.
Gesù semplicemente lo chiama, per nome. Per tutti gli altri egli era “il capo dei pubblicani”, “il ricco”, ma per Gesù è soltanto Zaccheo. Chiamare per nome una persona vuol dire dargli dignità, dargli un volto. In pratica Gesù gli dice: “Io credo in te Zaccheo; io vedo che in te c'è qualcosa di buono. Per gli altri sei solo un farabutto, ma io vedo che tu sei un uomo come tutti gli altri. E tutti gli uomini, nella profondità del loro cuore, hanno sempre un angolo nascosto con un po’ d'amore”. E gli fa una proposta, secca, veloce, efficace: “Scendi subito” (Gesù è sempre diretto e lapidario, con chi gli chiede qualcosa: “alzati; taci; esci; mettiti nel mezzo; vai dai sacerdoti; apriti; vieni fuori”; ecc..).
Per guarire ci sono delle azioni precise da fare: sono proprio quelle che non vogliamo fare, e per questo serve un ordine preciso, perentorio. Zaccheo si crede chissà chi, si atteggia “a sapientone” e normalmente si mette sul piedistallo con tutti: “Smettila e scendi giù – gli dice Gesù - sei un uomo come tutti gli altri”. E se non obbedirà, Zaccheo non potrà guarire; ciò che si deve fare, va fatto. Punto. Altrimenti non si può proseguire.
Gesù infatti sembra continuare dicendo: “Se tu continui a startene lassù, a ritenerti intoccabile e più degli altri, sai cosa ti accadrà? Ti accadrà che non avrai amici, né compagni e nessuno vorrà entrare in casa tua. Perché quando ci crediamo perfetti o più bravi dagli altri, ci isoliamo e moriamo di solitudine. Vuoi vivere così, Zaccheo?”
Ma egli ha già capito tutto: la sua vita non è vita; e per questo scende. Ha scelto finalmente la via dell’amore.
Ma l'amore è condivisione. L'amore è volere che tutti vivano, che tutti possano diventare il meglio di sé, che possano esprimersi, che possano fiorire, che possano essere al massimo di sé. L'amore non è dare ma darsi. E Zaccheo si dà, dando ciò che ha.
Tutti possono amare, anche se non hanno nulla o se sono poveri. Per l'amore basta avere un cuore. Ci si converte all’amore non perché l'ha detto Madre Teresa di Calcutta o San Francesco d'Assisi, o perché qualcuno ci dice che così va bene e che è importante. Ci si converte perché ci si rende conto che continuare a vivere senza dare e ricevere amore, non è vivere, si muore.
Conversione vuol dire “vivere meglio”; Zaccheo, non a caso, è “pieno di gioia”; e finalmente quel Qualcuno che egli voleva incontrare, facendo breccia nel suo cuore, senza giudicarlo per come appare all’esterno, lo incontra nel suo intimo: “oggi devo fermarmi a casa tua”.
A questo punto la conclusione è ovvia: Zaccheo si sente amato incondizionatamente e gli viene spontaneo fare altrettanto. Gesù non pone condizioni; Gesù non dice: “Ti amo, vengo a casa tua, ma tu devi...”. E Zaccheo farà lo stesso, spontaneamente: chi glielo fa fare infatti di dare la metà dei suoi beni ai poveri? Nessuno! E chi glielo fa fare di restituire, non il dovuto, ma quattro volte tanto il rubato? Nessuno, perché questi sono i gesti dell'amore.
Gesù ha amato Zaccheo gratuitamente e Zaccheo a questo punto ama gratuitamente i fratelli. L'amore è gratuità. È l'amore che ci salva, che ci cambia la vita: noi tutti ce ne siamo resi conto quel giorno in cui, in qualche modo, abbiamo sentito qualcuno che ci ha detto o fatto sentire: “Non voglio nulla da te, non sono qui per chiederti qualcosa in cambio. Sono qui perché tu sei importante per me e ti aiuterò, se tu lo vorrai, ad essere il meglio di te”.
Zaccheo senza Gesù sarebbe rimasto semplicemente il capo dei pubblicani. Gesù gli mostrò che poteva essere un uomo migliore, felice e soddisfatto di sé.
E concludo: l'amore non è dare, ma darsi. È dire al fratello: “Ti dono quello che sono, perché tu sia il meglio e il massimo di te. E quando te ne andrai via da me, essendo migliore di me, allora saprò che ti avrò veramente amato”. Amen.

 

giovedì 24 ottobre 2013

27 Ottobre 2013 – XXX Domenica del Tempo Ordinario

«Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano. Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: “O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adulteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo” (Lc 18,9-14).
La parabola di oggi ci propone due personaggi, il fariseo e il pubblicano; due uomini “diversi”, che si accingono a pregare in due modi altrettanto diversi.
Il fariseo si ritiene giusto. Già la parola “fariseo” non promette nulla di buono: fariseo significa, infatti, “separato”; farisei erano coloro che si dedicavano all'osservanza meticolosa della legge, e proprio per questa loro scrupolosità, si sentivano separati, diversi, superiori a tutti gli altri. Erano stimati dalla gente proprio per la loro puntigliosa religiosità; essi questo lo sapevano e se ne compiacevano. “Ma non erano quelli che perseguitavano Gesù? Non sono stati proprio loro che hanno tentato in tutti i modi di metterlo a tacere, arrivando poi ad ucciderlo?”. Una domanda pertinente, che ci dimostra come molto spesso siano proprio i giusti, i religiosi, gli osservanti, ad essere i peggiori nemici di Dio. Una constatazione che deve farci riflettere.
Poi c'è l’altro personaggio, il pubblicano. I pubblicani erano amici dei Romani; erano considerati dei traditori collaborazionisti, e quindi odiati cordialmente dagli ebrei.
Entrambi questi due tizi, salgono dunque al Tempio per pregare: la preghiera ufficiale si teneva due volte al giorno, alle nove e alle quindici. Ed è proprio nella preghiera, che i due rivelano la loro profonda diversità: la preghiera del fariseo è lunga, piena di particolari, autoreferenziale, compiaciuta; al contrario di quella del pubblicano che è brevissima, umile e contrita.
Il fariseo sta dritto in piedi e “prega tra sé”. In greco questa forma verbale significa più esattamente “egli prega se stesso”. Molti infatti pregano se stessi, adorano se stessi; per loro la preghiera è l’occasione per mettersi in buona luce davanti a Dio e agli uomini, per dimostrare, compiaciuti, tutti i loro meriti.
Il fariseo sta in piedi e prega in silenzio. La cosa era normale per un ebreo, ma Luca lo interpreta come un segno di superbia. Nella sua preghiera egli ringrazia Dio per averlo fatto diverso dai miserabili, dalla comune gentaglia: la sua preghiera altro non è che un panegirico di se stesso. Dapprima mette bene in luce ciò che lui non è: non è un uomo ingiusto, un disonesto, non è un ladro, un adultero, non è insomma un “pubblicano”; poi, non soddisfatto, passa a sottolineare i suoi meriti, ciò che lui fa: digiuna due volte alla settimana (quindi più di quanto prescrivesse la Legge, che limitava il digiuno a pochi giorni all'anno), paga regolarmente le decime, cioè la decima parte del raccolto e di quanto possedeva (frumento, olio, vino) che veniva devoluta al tempio e per i poveri. Tutto in Lui è perfetto, ineccepibile: la sua vita, la sua preghiera, il modo di rapportarsi con Dio. Nessuno può rimproverargli nulla. Quello che dice è tutto vero. Il fariseo sembra veramente bravo.
Quanta gente di questo tipo conosciamo anche noi: sono “i giusti”. Di loro e della loro vita esteriore non possiamo proprio dire nulla. Non troviamo in loro nessun difetto: pregano, sono ottimi padri o madri, grandi lavoratori, apertamente non fanno del male a nessuno; ma nel loro intimo sono aridi, la loro è una vita senz'anima, una vita senza vita, senza slanci d'amore.
Il pubblicano, invece, se ne sta a distanza, curvo fino a terra. Il “pubblicano” era la personificazione della più profonda miseria morale: imbrogliava Dio, imbrogliava i poveri, i miseri, i deboli. Era coinvolto in un traffico di denaro “sporco”, dal quale, una volta entrati dentro, è difficilissimo uscirne. Faceva un mestiere maledetto e proibito agli ebrei. Per cui quando dice di essere un povero peccatore, dice fino in fondo la verità, non si nasconde dietro a scuse o bugie. E il suo atteggiamento di battersi il petto lo conferma.
Entrambi sono dunque sinceri, ma Gesù afferma senza esitare che uno se ne va giustificato, cioè cambiato, reso giusto, e l'altro no. Perché?
Il fariseo inizia molto bene la preghiera: inizia con una lode a Dio. La funzione dell'uomo è infatti quella di ringraziare Dio. San Paolo dice: “Rendete grazie a Dio in ogni cosa per mezzo di Gesù Cristo”. Se noi potessimo rendere grazie per ogni cosa, noi faremmo della nostra vita una “liturgia”, una preghiera continua, un'eucarestia. Poi però il fariseo, nel mettersi a confronto con gli altri, sbaglia tutto, cade completamente in basso.
Di fronte agli altri, noi possiamo rifugiarci nell’apparire, nel mentire, nel far passare qualunque menzogna per verità; possiamo distorcere la realtà sulla nostra preparazione, sulla nostra professionalità, sui nostri ruoli; possiamo mascherarci e crearci tutte le immagini che vogliamo. In fondo, chi lo sa? Chi ci vede dentro? Ma di fronte a Dio questi teatrini non servono, questi trucchi non valgono, cadono tutti e rimaniamo soli davanti alla nostra pseudo “verità”, nudi e spogli.
La vera preghiera è invece quella che parte dalla profonda verità di noi stessi. Quella verità che, senza menzogne, senza false apparenze, ci pone di fronte a Dio. Gli altri vedono il nostro contenitore esteriore, ciò che noi vogliamo far vedere: vedono la nostra scorza, l'esterno, il di fuori. Ci vedono pregare, andare in chiesa, fare carità, fare volontariato; cosa potrebbero mai dire? Diranno: “Ma che brava persona! Che bravo cristiano! Che uomo esemplare”. Ma gli altri non possono vederci dentro, noi lo sappiamo, e possiamo pertanto nascondere a tutti e soprattutto a noi stessi, ciò che abbiamo di negativo, ciò che è imperfetto, ciò che è doloroso, i nostri limiti, le nostre zone d'ombra, i nostri lati oscuri. Possiamo nasconderli così bene anche a noi stessi che addirittura ce ne dimentichiamo, pensiamo di non averli più: li mettiamo in cantina, in soffitta. Non li vediamo più e quindi, pensiamo che non ci siano più. Non li vediamo e quindi pensiamo di essere migliori, “più” degli altri: più bravi, più giusti, più umani, più religiosi. Ma Dio ci vede come siamo, ci conosce dentro, alla perfezione. E Lui non possiamo ingannarlo.
Nella sua preghiera il pubblicano, al contrario del fariseo, non si nasconde la verità: “Abbi pietà di me peccatore”. Questa è la realtà e gli dispiace sinceramente. Per questo egli chiede misericordia, pace, riconciliazione per i suoi lati negativi, per le sue zone oscure, per le ferite, per il male procurato agli altri, per i suoi peccati e per i suoi errori. Il pubblicano riconosce che la sua situazione è compromessa, non mente a se stesso, non si inganna.
Solo quando uno si riconosce completamente povero davanti a Dio, solo allora può ricevere la ricchezza, che è Dio stesso. Il pubblicano sa di aver bisogno di Dio; ha bisogno che Dio corra da lui con le braccia spalancate, che lo accolga, che lo stringa al cuore, che gli restituisca dignità, che lo salvi dalla “fossa” della cattiveria. Lui sa di essere ammalato e sa di aver bisogno del medico che è Dio. E per questo torna a casa giustificato, cioè, amato, liberato e pacificato.
C'è una preghiera gradita a Dio e una preghiera insopportabile per Dio.
Il fariseo non risulta gradito a Dio perché giustifica la sua disonestà interiore nascondendosi dietro a quelle poche cose esteriori che fa. Il fariseo non è onesto con se stesso, si mente, si racconta un sacco di balle non perché ciò che dice di fare non sia vero, ma perché vede solo una parte di sé, quella esteriore, quella meno importante. Gli ripugna ammettere l’evidenza, di riconoscere cioè che anche lui, come e forse più del pubblicano, è un poveraccio, un peccatore.
Chi di noi è tanto perfetto, immacolato, da considerarsi tale anche con se stesso, di fronte allo specchio della propria coscienza? Se rispondiamo “Io”, beh, allora dobbiamo guardarci meglio, fratelli miei, dobbiamo scrutarci minuziosamente! Perché, dove li mettiamo i nostri piccoli segreti, le nostre piccole falsità, le nostre debolezze, le nostre ipocrisie? Non è forse vero che siamo attirati dal proibito, che ce ne compiacciamo, anche se poi non lo facciamo? Non è forse vero che in certi giorni Dio ci sta proprio antipatico e che arriviamo anche ad odiarlo? Non è forse vero che abbiamo desideri e impulsi cattivi, a volte anche perversi? Non è forse vero che facciamo pensieri di ogni tipo, anche i più trasgressivi e i meno nobili? Non è forse vero che in certi momenti, di fronte a certe disgrazie, ci disperiamo, e malediciamo Dio in cuor nostro, convinti di essere vittime della sua “cattiveria”, della sua “ingiustizia”? Non è forse vero che certe nostre reazioni ci fanno paura? Non è forse vero che abbiamo a volte tradito la fiducia degli altri, ferendoli volontariamente? Non è forse vero che ci piace sentirci più bravi, più intelligenti, più belli, più simpatici degli altri? Non è forse vero che spesso ci aggiustiamo le cose in modo che abbiano un tornaconto soprattutto per noi?
Ebbene: chi di noi è assolutamente immune da tutto questo, “scagli pure per primo la pietra”. E, guarda caso, c'è sempre qualcuno che la scaglia, sempre! C'è sempre qualcuno che, non vedendo le magagne che stagnano dentro il suo cuore, a causa del buio pesto che vi regna, si permette di giudicare gli altri, di credersi qualcuno, di non essere come loro. Molte persone hanno rimosso così bene qualunque imperfezione dalla loro coscienza, da sentirsi completamente “puliti”, immacolati: ecco perché pregano “a voce alta”, “in piedi”, convinti di essere ottimi cristiani; quando invece non sono che dei miseri farisei.
La preghiera non deve essere “pia”, formale, esteriore; deve essere intimamente vera, sincera, onesta: pregare è aprire tutte le stanze della nostra vita, della nostra anima; è spalancare ogni finestra e lasciare che Dio spanda la sua luce sui nostri angoli oscuri, su ciò che volutamente ignoriamo, su ciò che grida, che urla dentro di noi, ma che noi mettiamo a tacere perché ci ripugna anche solo ascoltarlo; su tutto ciò che ci fa male, che è doloroso; su tutto ciò che non vorremmo confessare ma che Lui è sempre pronto a perdonare; su tutto ciò che ci nascondiamo per paura, ma che Lui non teme; su tutto ciò che abbiamo nascosto in cantina a marcire ma che Lui vuole liberare e far rifiorire. Perché Dio non teme nulla. Noi abbiamo paura, ma Lui no! Lui ha vinto il mondo. Lui non teme nulla e ci ama in tutto il nostro squallore. Lui può andare dovunque noi ci rifiutiamo di andare: “pregare” allora significa lasciarci condurre da Lui; pregare è permettergli di entrare proprio là, dove noi ci vergogniamo, dove noi ci facciamo schifo, dove noi ci nascondiamo.
Dobbiamo convincerci di una grande verità: non siamo per niente quelli che, nel nostro orgoglio, amiamo esibire agli altri: quella è un’immagine che non ci appartiene, una maschera posticcia, creata apposta per soddisfare le nostre manie di grandezza. Non abbiamo per nulla, dentro di noi, quella luce, quel calore, quei carismi, che tanto amabilmente ostentiamo all’esterno; siamo piuttosto tormentati, angosciati dall’oscurità destabilizzante che regna dentro di noi.
Dobbiamo armarci di tanta umiltà: solo così potremo far spazio all’amore di Dio.
Un giovane onesto, giusto, virtuoso e irreprensibile, si presenta un giorno nel deserto da un santo eremita, e lo prega di accoglierlo come discepolo. L’eremita gli chiede: “Hai mai rubato?”. Il ragazzo risponde: “Assolutamente mai”. E il vecchio anacoreta: “Allora va' e ruba, e quando avrai imparato a farlo, torna da me”. Un invito a rubare? No, fratelli. Semplicemente un invito a indossare l’abito dell’umiltà, a distruggere le nostre illusioni, le nostre convinzioni di perfezione, di essere bravi, virtuosi, impeccabili. Perché noi, a ben guardare la realtà, altro non siamo che quel fariseo e quel pubblicano. Amen.
 

giovedì 17 ottobre 2013

20 Ottobre 2013 – XXIX Domenica del Tempo Ordinario

«Dio non farà forse giustizia ai suoi eletti, che gridano giorno e notte verso di lui? Li farà forse aspettare a lungo? Io vi dico che farà loro giustizia prontamente. Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?» (Lc 18,1-8).
La parabola di oggi ci presenta un giudice disonesto: “bella novità”, diremo noi: “sarà stato come uno dei tanti di cui anche noi oggi sentiamo tanto parlare”. Solo però che a quell’epoca il compito specifico dei giudici era quello di tutelare e difendere le persone più deboli, quelle che non potevano “farsi giustizia” da sole: le vedove, i bambini e i poveri. In realtà però nella stessa Bibbia troviamo esplicite condanne contro le ingiustizie commesse proprio con la complicità e l’appoggio dei giudici. Quindi... niente di nuovo sotto il sole. Ma andiamo avanti.
È un giudice, questo del vangelo, che non teme nessuno, se ne infischia altamente di quello che la gente può dire in giro. Non ha una coscienza morale che gli procuri sensi di colpa per quello che fa. Compie il male e, per lui, non c'è nessun problema.
C'è poi una vedova, una persona onesta, povera, senza lavoro né protezione; una che non aveva i soldi per “comprarsi” la sentenza. Ma era una “tosta”, decisa, testarda: una che non intendeva assolutamente rinunciare al riconoscimento dei propri diritti. Per cui tutti i giorni, puntualmente, si presentava dal giudice per sollecitare la sua pratica.
Siamo dunque di fronte ad una situazione apparentemente impossibile: il giudice è un opportunista, uno che si fa i fatti suoi, che si muove solo “a pagamento”. La donna soldi da dargli non ne ha. A questo punto cos’altro le rimane da fare se non arrendersi?
La maggior parte della gente infatti, di fronte ad una situazione del genere, lascia perdere. Ed è vero, perché nella vita ci sono cose che sono veramente insuperabili. Ma non è detto però che non si possano comunque affrontare.
Noi diciamo troppo spesso: “Non ce la faccio!”. “Ma ci abbiamo almeno provato?”. Perché spesso abbandoniamo l’impresa ancora prima di provarci, dopo il primo tentativo andato male. È più facile per noi dire che una cosa è “impossibile” quando è solo difficile oppure come non la vogliamo noi.
Ci rassegniamo, o facciamo le vittime. Ma questo vangelo ci dice: “Provaci, non far finta; provaci per davvero; non guardare alla difficoltà, fidati di te, delle tue forze e soprattutto del fatto che Io sono con te; non so se ce la farai ma lotta con tutto te stesso, come ha fatto quella donna”. Non fingiamo: proviamoci, insistiamo, con tutte le nostre forze, usando tutte le strategie possibili.
La strategia della donna non è molto ortodossa ma funziona: rompere le scatole!
Il verbo greco Ãpwpizein letteralmente vuol dire “fare un occhio nero”, colpire, mettere alle corde una persona; in senso figurato significa invece seccare, importunare, far fuori uno, farlo diventare “nero”. Per il giudice la vedova è proprio una “rogna”, una scocciatrice.
Beh, non è che dobbiamo proprio fare così alla lettera (ce ne sono già tante di persone così in giro!); ma se ci teniamo ad una cosa, se una cosa per noi è importante, allora dobbiamo usare tutte le strategie possibili.
Cosa facciamo invece quando una nostra ingiusta situazione non viene neppure presa in considerazione? Cosa facciamo quando qualcuno ci dice un no? Facciamo un tentativo, due, tre, e poi smettiamo; ci sentiamo vittime che non possono fare niente. Invece questa parabola ci indica un comportamento diverso: “Insisti, rompi le scatole, sii insistente, assillante”. In-sistere vuol dire “stare in quella cosa”: non arrenderci. Ci teniamo e non ci muoviamo da qui.
Insistere, aver tenacia, non arrendersi, è la dimostrazione di quanto noi crediamo in una cosa, di quanto ne siamo coinvolti, di quanto quella cosa sia importante per noi. Lottare significa impiegare tutte le nostre energie per ciò che è importante. Lottare è credere che Dio ci dà una mano. Lottare è avere fiducia che con Lui troveremo una soluzione; vuol dire, in breve, “credere”, aver fede!
Fede non è dire: “Dio, fa' come voglio io”. Questo è delirio di onnipotenza, è imporre a Dio la nostra volontà! Fede è invece essere certi che con il suo aiuto c'è sempre una possibilità, un modo alternativo per affrontare e risolvere la situazione.
Lottare, infine, vuol dire anche: “Mi amo!”. Se mi amo, lotto per me. Lotto perché io sono importante e mi sento tale. Ogni volta che rinunciamo ad un nostro diritto, che rinunciamo ad esprimerci, a farci sentire, stiamo lentamente uccidendo noi stessi. Perché gli altri dovrebbero rispettarci se poi neppure noi lo facciamo? Se ci amiamo, se teniamo a noi, dobbiamo lottare per noi stessi.
La situazione della vedova sembrava già persa in partenza. Eppure lei ha una cosa che fa la differenza: la fede. Lei è la parte ferita, la parte lesa, la parte vulnerabile, quella che sente le emozioni. Ma questa donna, pur non sapendo come, né quando, “sente” dentro di sé la fiducia che qualcosa deve cambiare e agisce in conseguenza.
La vedova ci rappresenta, è una parte di noi. Ma dentro di noi c'è anche il giudice. È quella voce che ci dice: “Zitto; mettiti in un angolo!; non pensare sempre a te!; c'è chi sta peggio di te!; devi adattarti, devi subire, devi portare pazienza”. Ma con questo sistema ci dichiariamo disponibili a subire qualunque imposizione, qualunque soperchieria. Le atrocità della vita accadono per due motivi: uno perché c'è chi le compie; due perché c'è chi, pur sapendolo, non dice nulla, non si oppone.
Nel vangelo la vedova interviene invece con forza: “Non me ne sto zitta proprio per niente! Rivendico i miei diritti; rivendico il mio diritto di parola; rivendico la mia dignità; rivendico il rispetto per la mia persona. Per niente al mondo tu, o giudice, mi chiuderai la bocca; io voglio che la mia situazione, le mie emozioni, i miei diritti, siano considerati e rispettati”.
La cosa peggiore che noi possiamo fare a noi stessi è di metterci il bavaglio, condannarci al silenzio forzato, essere rinunciatari. Non è umiltà, è abulia. Non uccidiamoci, ma amiamoci. Dio ci ha creati perché fossimo sue creature, perché esistessimo, perché realizzassimo in noi l’opera del suo amore: diamoci e diamogli spazio, diamoci e diamogli voce. Dimostriamo a tutti che ci sentiamo realmente creature di Dio, consapevoli della nostra dignità, del nostro essere persone all’altezza di quel progetto divino al quale Lui ci ha chiamati. Amen.