«Quando sei invitato a nozze da
qualcuno, non metterti al primo posto, perché non ci sia un altro invitato più
degno di te… Invece va’ a metterti all’ultimo posto, perché quando viene colui
che ti ha invitato ti dica: “Amico, vieni più avanti!”. Allora ne avrai onore
davanti a tutti i commensali. Perché chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si
umilia sarà esaltato» (Lc 14,1.7-14).
Per l’insegnamento
di oggi Gesù trae lo spunto dalla vita vissuta, dal comportamento normale della
gente: nello specifico, da come si comportano in genere gli invitati ad un
pranzo di nozze. Non appena si apre la sala del banchetto, si assiste ad un
balzo collettivo in avanti per la conquista dei primi posti, quelli più in
vista, quelli più vicini agli sposi, quelli normalmente riservati alle persone che
contano: ovviamente, lo scopo è quello di mettersi in evidenza, di dimostrare
agli altri commensali la propria superiorità, la propria familiarità con gli
sposi; una volta occupato questo posto prestigioso, poi, si guardano bene dal
cederlo; salvo poi – in presenza di qualche invitato veramente importante - su invito del padrone di casa, subire l’umiliazione
di dover arretrare agli ultimi posti, tra lo scherno e la commiserazione dei
presenti.
Quante
volte sarà capitato anche a noi di notare una cosa del genere! Un comportamento
quasi irrazionale, un bisogno irresistibile, vitale, quello dell’apparire, quello
del dimostrare agli altri il proprio prestigio: una mentalità che fin
dall’infanzia ci viene inculcata dalla società consumistica e arrivista in cui
viviamo. La nostra società in particolare è una società illusoria, menzognera: fin
da piccoli ci spinge a inseguire sogni impossibili, irrealizzabili, a rivestirci
di panni che non sono nostri, a raggiungere posizioni per noi sproporzionate, nelle
quali non potremo mai essere noi stessi.
Gesù
nota questa tendenza umana, e la stigmatizza: del resto, se vogliamo a tutti i
costi posizionarci ai primi posti senza averne i requisiti, per pura ambizione,
dimostriamo di non essere obiettivi con noi stessi, di non apprezzare la
posizione che ci compete naturalmente; dimostriamo di vivere una realtà, una
dimensione, che non è la nostra; dimostriamo di non amare la nostra vita vera, di
non capire quello che effettivamente siamo e rappresentiamo nella società. Dimostriamo
insomma una grande immaturità, che è sistematicamente causa di una profonda
infelicità.
Vale
allora la pena di spendere una vita intera alla ricerca continua di false illusioni?
Struggersi in un costante logorio interiore, nella rabbia e nell’invidia per quanti
sono più fortunati, più in alto di noi? Ricordiamoci che nella vita ognuno ha ricevuto
dei precisi “talenti”, e ciascuno è tenuto a farli fruttare sapientemente, con
ogni cura possibile; ma sarebbe stupido quel tale che, avendone avuti due
soltanto, pretendesse risultati pari o maggiori di coloro che ne hanno ricevuti
cento. Sarebbe doppiamente un perdente: per non aver apprezzato il suo massimo risultato
personale, e per la frustrazione e la delusione continua di non poter
raggiungere un traguardo per lui comunque irraggiungibile.
Ognuno
rivela il suo carattere con i fatti. Per capire chi abbiamo di fronte, per
capire chi egli sia, cosa consideri importante, e soprattutto cosa pensi e cosa
conservi dentro, è sufficiente guardarlo come parla, cosa dice, come si muove,
come si relaziona, come si comporta.
Legare
la nostra felicità semplicemente al sentirci superiori agli altri, al saperci
più ricchi, al vederci più ammirati, è solo inutile narcisismo. È solo
apparire, è pura immagine. Inseguiamo un fantasioso surrogato di noi stessi, perché
in realtà, dentro di noi, ci sentiamo delle nullità.
Il
dramma, purtroppo, è che nessun travestimento, nessun apparire, nessuna
immagine esteriore, per quanto grandiosa, può farci felici. Non lo può per
definizione. Perché la felicità nasce solo dalla nostra vita concreta, dalla
sensazione meravigliosa di essere vivi, dal godere di questa nostra vitalità, dal
percepire i sentimenti, le emozioni che vivono dentro il nostro cuore. Al
contrario, più l'immagine che inseguiamo è grande e ambiziosa, più la vitalità
e i nostri sentimenti interiori ci appaiono sfocati, scontornati, eliminati,
distrutti. E la nostra vita si ridurrà prima o poi ad un completo fallimento.
Allora
che fare? Come dobbiamo reagire? Semplice: dobbiamo imparare a raggiungere già
in questa vita il “Regno dei cieli” evangelico. È in questo che dobbiamo
convogliare tutte le nostre energie. Ma in che cosa consiste esattamente questo
“regno dei cieli”? Qual è il segreto di quella gioia autentica, di quella felicità
senza fine, di quell’amore senza
confini, per indicarci i quali Gesù si è incarnato, ha vissuto su questa
terra ed è morto sulla croce?
Nulla
di impossibile, nulla di incomprensibile, nulla che non sia alla nostra portata.
Regno
dei cieli, oltre che sentire le sensazioni più intime, le vibrazioni più
personali del nostro cuore che riflette l’amore di Dio, è provare anche la
paura, l'angoscia, la tristezza: perché esse ci rendono umili e vicini a tutti
gli uomini nostri fratelli. Regno dei cieli è sentire e soffrire per
l'ingiustizia e per la falsità della gente. Regno dei cieli è percepire l'amore
che danza dentro di noi e che trasmettiamo in quanti incontriamo. Regno dei
cieli è avere gli occhi pieni di luce perché dentro abbiamo la Luce. Regno dei
cieli sono gli occhi pieni di passione di chi ci ama, occhi che ci penetrano e
che raggiungono l'anima. Regno dei cieli è dispensare amore, affetto e presenza
ai più bisognosi. Regno dei cieli è non perdere mai la nostra dignità anche
quando ci capita di sbagliare. Regno dei cieli è poter guardare il prossimo senza
giudicare, poter toccare senza prendere, poter ammirare senza voler possedere.
Regno dei cieli è sentirsi vivi, così vivi da sentire completamente piena e
traboccante la nostra vita; così vivi da poter anche morire soddisfatti, perché
abbiamo vissuto abbastanza, seminando in questo mondo sincerità, speranza e amore.
Regno dei cieli è poter ammirare l’innocenza di un bambino, l'eccitazione nei suoi
occhi quando vede la mamma, o quando salta di gioia godendo del suo amore.
Regno dei cieli è sentirsi noi tra le braccia del Padre, ed essere certi che lì,
tutto sommato, non c’è proprio nulla da temere. Regno dei cieli è smettere di
preoccuparci per cose inutili e anche per quelle utili. Regno dei cieli è
sentirci parte importante ed essenziale di questo mondo; sentirci come si sente un
figlio, parte integrante di una vera famiglia, voluto, benedetto, aspettato, da
un padre e da una madre.
Tutto
questo è normalità. Quando nasciamo, tutto questo lo conosciamo già. È invece
crescendo che la società ci insegna ad abbandonare questo “regno dei cieli”. La
maggior parte della gente crede che tutto ciò sia solo una grande “balla”, frottole
per bambini, illusioni per preti e squilibrati.
Lo
sapeva anche Gesù: tant’è che solo in pochi credettero al suo Regno dei cieli. Però
quei pochi che gli credettero e lo sperimentarono, lasciarono tutto quello che
avevano per seguirlo, e non furono mai più gli stessi. Gli altri, quelli che
non gli credettero, lo uccisero perché era un “eretico”, uno che diceva falsità,
che illudeva la povera gente.
«Chi si esalta sarà umiliato e
chi si umilia sarà esaltato».
È proprio così.
Per
chi cerca sempre e solo di salire in alto, per sentirsi superiore agli altri, “umiliarsi”
è una esperienza terribile, improponibile. Umiliarsi (che poi significa entrare
in contatto con la propria “umanità”) è davvero tragico per tutti, ci fa
davvero male. Perché, una volta che ci togliamo la nostra bella maschera, non
troviamo più nulla di noi stessi: di quel grande personaggio che pensavamo di
essere non troviamo più traccia. La maschera in qualche modo ci dava sicurezza.
Non eravamo noi, ma per gli altri eravamo sicuramente “qualcuno”. Ora, senza camuffamenti, ci rendiamo conto che, nella
nostra goffaggine, non siamo nessuno. O al più, peggiori di tanti altri.
È un
momento difficile, duro, ma è un passaggio obbligato per ritrovare la nostra
vita autentica, la strada verso noi stessi. È la conversione: cesseremo cioè di vivere una vita non nostra, a
beneficio della gente, ostentando un qualcuno
che non siamo; inizieremo umilmente a ricostruirci una nuova esistenza partendo
dal nostro interno, da ciò che siamo veramente dentro, dalla nostra coscienza;
ricomporremo pezzo dopo pezzo la nostra identità, ripartendo dal basso, dagli
ultimi posti.
Del
resto - il Vangelo lo sottolinea espressamente - se non ci mettiamo all'ultimo
posto, se non iniziamo dalle fondamenta nascoste, dall’umiltà più convinta, non
potremo mai costruire nulla, e non potremo neppure accogliere, ospitare,
invitare chi a sua volta è anche lui “ultimo”.
Ecco:
questo significa seguire il richiamo del “regno dei cieli”. Un “regno dei cieli”
che è comunque un problema serio. Se infatti ci guardiamo allo specchio della
nostra anima, se siamo onesti con noi stessi, noi che pensiamo di essere già veri cristiani, cosa vediamo in fondo, in fondo? Le
nostre debolezze: che cioè anche a noi, discepoli convinti, piace stare ai
primi posti; che ci piace trattare soprattutto con le persone belle,
affascinanti, amabili, mentre cerchiamo di evitare quelle meno gradevoli, i
poveri, i miseri; che ci piace aver a che fare con chi ha una posizione
prestigiosa; che ci sentiamo onorati della loro amicizia e compagnia; che con
tutto l’amore che predichiamo, se potessimo, elimineremmo volentieri quelle
persone che ci stanno di traverso, o almeno faremmo loro, con grande piacere,
un po' di male. Non ci vediamo forse così? No!? Se diciamo di no, non siamo sinceri
con noi stessi: e sappiamo di mentire!
Certo,
non è bello scoprirsi così! Ma questa è purtroppo la nostra natura umana! È la
base su cui dobbiamo innalzare il nostro “regno dei cieli”. Guai a chi non si
vede così. Guai a chi crede di essere superiore a queste miserie, a chi crede
che tutto questo non gli appartenga. Vederci così fragili, al contrario, ci fa
bene. Ci fa bene perché ci rende umili, ci ricorda la nostra debolezza umana: ci
ricorda che, quando vediamo qualcuno che cade, non lo dobbiamo giudicare; perché
sappiamo che ciò che è capitato a lui, può capitare in peggio anche a noi.
E
concludo: solo se ascolteremo attentamente la nostra anima e conosceremo a
fondo il nostro cuore, saremo in grado di ascoltare e conoscere il cuore degli
altri. Solo se saremo sinceri con noi stessi, se non ci mentiremo, potremo essere
sinceri e onesti con gli altri. Chi non si accetta così com’è, chi non sa stare
umilmente al proprio posto, non accetterà mai nessuno altro alla pari! Perché chi
si ritiene “primo”, guarderà gli altri sempre e solo come “secondi”. Amen.
«Gesù passava insegnando per
città e villaggi, mentre era in cammino verso Gerusalemme… “Sforzatevi di
entrare per la porta stretta, perché molti, io vi dico, cercheranno di entrare,
ma non ci riusciranno”» (Lc 13,22-30).
Gesù continua
il suo cammino verso Gerusalemme. Una annotazione, questa del camminare di
Gesù, che ci viene sottolineata, non a caso, con una certa insistenza. Ciò che
ci deve far meditare non è tanto il fatto materiale del muoversi, quanto il
riferimento ad una necessaria e irrinunciabile progressione spirituale
dell'anima. Se spiritualmente non siamo in cammino, se non ci muoviamo, siamo
fermi. Se siamo fermi, non andiamo da nessuna parte. Le persone “vive”,
camminano, si muovono, cambiano, divengono, si trasformano, scelgono. Le
persone “morte” rimangono fisse, stabili, si irrigidiscono, si intestardiscono,
si impuntano.
Ci
siamo mai chiesto perché il Signore dice ai suoi: “Seguimi”? Perché il “seguire”
comporta necessariamente un avanzamento progressivo. Non si può seguire il
Signore e rimanere fermi, rimanere gli stessi, fossilizzarsi sulle stesse idee,
sugli stessi schemi mentali, sugli stessi punti di vista.
Chi si
giustifica dicendo: “Hanno sempre fatto tutti così!”, vuol dire che nella sua
vita non si è mai posto alcuna domanda, non ha mai cercato soluzioni diverse, più
appropriate, più attinenti al suo personale stato di vita, più convenienti al
suo particolare percorso di sequela.
Vuoto
immobilismo: è questo il motivo per cui la gente è triste e insoddisfatta:
perché è ripiegata su se stessa, non ha idee, ripete continuamente senza alcun
entusiasmo, passivamente, le stesse cose; non si sforza di rinnovarsi, di
andare al massimo, di trarre il meglio da se stessa; non costruisce il suo
percorso: il suo massimo impegno è quello di adeguarsi alla mediocrità altrui.
Ma così facendo rinuncia ad essere se stessa, si lascia trascinare supinamente dal
pensiero della massa, senza alcun discernimento critico, senza alcun apporto individuale.
Vogliamo
fare una verifica sulla nostra situazione personale a questo riguardo? Vogliamo
sapere se siamo veri discepoli del Signore, in continua tensione? È molto
semplice: è sufficiente controllare se le nostre preghiere, la nostra fede, il
nostro credere, il nostro comportamento nei confronti di Dio e del prossimo,
sono gli stessi della nostra infanzia: se è così, vuol dire che il nostro
cammino cristiano è rimasto allo stadio infantile; non siamo cresciuti, siamo rimasti
fermi ai primi passi; vuol dire che gran parte della nostra vita è passata inutilmente.
Se a quarant'anni la nostra coscienza ci rimprovera ancora: “Bugie... parolacce...
preghiere dimenticate... mormorazioni”, vuol dire che siamo ancora ai nostri otto
anni, alla prima comunione! Dal punto di vista spirituale siamo rimasti immobili,
immaturi; non siamo cresciuti per nulla.
Seguire
il Signore vuol dire non trovarsi mai allo stesso punto del giorno prima; vuol
dire immettersi in un processo di cambiamento continuo, di continua
trasformazione, di continua conversione. L’anima è vitale. E la caratteristica essenziale
della vita, è quella di crescere, cambiare, evolvere, andare avanti, camminare.
Mentre
Gesù dunque percorre la sua strada, un uomo gli pone una domanda: «Sono pochi quelli che si salvano?». Una
domanda chiaramente superficiale, da curioso, di uno che parla tanto per dire
qualcosa, per far notare la sua presenza; una domanda sul tipo di quelle poste
nelle interviste da tanti cronisti di oggi, fatte con l’intenzione di ricavarne
magari uno “scoop” da dare in pasto allo “spettegolare” quotidiano. Ma Gesù non
gli risponde, non gli interessa soddisfare questo tipo di curiosità. Non è
questo il punto! A Lui preme piuttosto sottolineare l’impegno che ciascuno deve
mettere per raggiungere la propria salvezza: «Sforzatevi di entrare per la porta stretta, perché molti non ci
riusciranno...; allora comincerete a bussare... e vi risponderà...
allontanatevi da me...». L’importante non è sapere quanti sono quelli che
si salvano, bensì se noi abbiamo le prerogative per essere tra quelli!
Pensiamo
quindi a noi stessi; concentriamoci piuttosto sulla nostra di salvezza. Più parliamo
a vuoto, più spettegoliamo sulla vita degli altri, meno riusciremo a concentrarci
sul come vivere correttamente la nostra di vita. Il problema non è se gli altri
si salveranno o no: il problema vero siamo noi, è la nostra possibile salvezza.
Un
problema serio. Anche perché la situazione che Gesù ci presenta qui è molto
dura, forte, decisa. Non vengono ammessi sconti, non vengono fatte preferenze.
Il Dio che ci viene presentato oggi è decisamente l’opposto del Padre buono,
del Padre che ama alla follia, del buon samaritano, del Padre che aspetta il
ritorno del figlio prodigo, del Padre che ci cerca, che ci perdona ogni cosa,
che accoglie tutti a braccia aperte. C'è quasi da aver paura di questo Dio
“intransigente”. Quando quelli rimasti “fuori” gli dicono: «Signore aprici!», Egli non ha dubbi o ripensamenti: «Non vi conosco, non so di dove siete… Allontanatevi
da me voi tutti operatori di iniquità!». Capito bene? «Operatori di iniquità!». Ma come è possibile? Noi che siamo
convinti di essere perfettamente in regola! Noi, i “grandi”, i “saputoni”, gli
esperti di chiesa, di fede, di vangelo; noi, gli autentici cattolici “adulti”,
impegnati nel sociale e nelle catechesi; ebbene, proprio noi, “fuori!”, “esclusi!”.
Altro che premio e accoglienza gloriosa: noi, i “discepoli puri e duri”, siamo
destinati al “pianto e stridore di denti”. Quelli invece che noi deridiamo,
quelli che disprezziamo, quelli che giudichiamo insignificanti, una nullità,
delle “mezze tacche”, sono loro ad essere accolti nell’Amore e nella gloria di
Dio. Beh, dev'esserci per forza qualche spiegazione che è sfuggita al nostro ottuso egocentrismo!
Diciamo
pure che qui l’autore, dovendo esprimere un concetto molto importante, un
concetto che tutti dovevano capire alla perfezione, si è servito di immagini particolarmente
dure, di forte impatto emotivo, tipiche dello stile e della cultura del tempo.
Immagini comunque che non devono farci erroneamente pensare ad un Dio
prepotente e crudele, incline alla condanna facile; un Dio irremovibile, che
decide in maniera drastica: “O fate come dico io, oppure la condanna è
assicurata!”. Nossignori: Dio non è vendicativo. Non è che se talvolta ci
comportiamo male, se non seguiamo alla lettera le sue regole, Lui, per
vendetta, ce la faccia pagare. Quello che vuol sottolineare qui il testo è che la
condanna non dipende da Dio, ma è semplicemente il risultato di certe nostre premesse,
una conseguenza logica del nostro comportamento; c’è insomma un rapporto di
causa-effetto: nel senso che siamo noi gli unici artefici della nostra sorte
finale; tutto quello che facciamo ha delle conseguenze: ecco perché dobbiamo
stare attenti; ecco perché dobbiamo evitare di fare scelte di “non scegliere”, di
condurre un certo vivere senza farsi domande, un vegetare soltanto, un appiattirsi
acriticamente alla massa; perché alla fine, tutto ciò ha come diretta
conseguenza un giudizio negativo.
Le
facce della medaglia sono sempre due: da un lato c’è Dio che è grande,
misericordia infinita, pronto ad accogliere ogni creatura; un Dio innamorato che
tende le sue mani verso di noi. Dall’altro ci siamo noi, ci sono le nostre
mani; anche noi dobbiamo tendere le nostre di mani verso di Lui. Se noi non lo
facciamo, per quanto Lui si protenda, non potrà mai esserci un incontro, non ci
sarà mai quella “presa” che ci salva. Se manchiamo questa “presa” la colpa non
è di Dio: è solo nostra, dei nostri movimenti disordinati. Non è di Dio che
dobbiamo aver paura. È di noi stessi: è di noi che non dobbiamo fidarci, del
nostro agire fuori regola, dei ritardi delle nostre risposte, delle nostre
mancate reazioni, della nostra eccessiva sicurezza, della nostra irrazionale incoscienza.
Solo noi siamo gli unici responsabili di noi stessi, della nostra salvezza.
Nessun altro. Ecco perché dobbiamo “camminare”, dobbiamo “crescere”.
La
dinamica di questo cammino viene qui spiegata attraverso l’immagine della
porta.
La
porta, in tutte le culture, indica un passaggio dal fuori al dentro,
dall'esterno all'interno. Indica un cambiamento di situazione, un passaggio dal
mondo profano a quello sacro, una netta evoluzione spirituale. La porta aperta
evoca accoglienza, calore, libertà, accesso; la porta chiusa evoca rifiuto,
esclusione, imprigionamento.
Cosa
vuol dire allora quest'immagine? Che nella vita è indispensabile oltrepassare questo
passaggio obbligato, per non rimanere tagliati fuori: dobbiamo cioè fare di
tutto per varcare la soglia di questa porta. Per questo dobbiamo fare necessariamente
delle scelte, entrare in certe situazioni, affrontare certe paure. E dobbiamo
farlo per tempo, perché ci sarà un momento in cui sarà troppo tardi, un momento
in cui non potremo più fare nulla. Allora non Dio, ma sarà la nostra stessa vita
a dirci: “Dovevi pensarci prima! Adesso è troppo tardi, sei irriconoscibile,
impresentabile!”. E anche in questo caso non è una punizione della vita in quanto
tale, non è un accanimento del “destino”: è semplicemente la conseguenza delle
nostre libere scelte, del nostro agire.
“Sforzarsi”,
in greco agon°zomai, significa letteralmente “lottare,
combattere, gareggiare”. Indica cioè una difficoltà. Nessuno dice infatti che queste
iniziative siano facili; ma è giocoforza affrontarle, dobbiamo passarci dentro,
perché per varcare quella porta dobbiamo risolverle. Talvolta fanno anche paura;
forse ci faranno anche piangere, creeranno tensioni, vere lacerazioni interiori.
Ma se le ignoriamo, se le lasciamo lì, se facciamo finta di niente, verrà un
giorno in cui sarà troppo tardi, in cui non potremo farci più niente. Nessuno
ha mai detto che crescere spiritualmente sia semplice: ma dobbiamo comunque entrare
“dentro” in quel cammino, dobbiamo oltrepassare quella strettoia determinante.
Molti
diranno: “Quanti paroloni inutili in questo commento! A che servono? Io sono già
cristiano: io prego; io vado in chiesa quasi tutte le domeniche; io non ho mai
fatto male a nessuno; io mi sono sempre comportato bene; sono sensibile e amo
la natura; non rubo a nessuno, faccio le mie elemosine, non sono disonesto”. Giusto:
ma è evidente che tutto questo non basta: ricordate il vangelo di oggi? «Abbiamo mangiato e bevuto in tua presenza e
tu hai insegnato nelle nostre piazze...». Che vuol dire: “Come mai proprio
noi siamo rimasti fuori? Eravamo là con te, abbiamo ascoltato le prediche dei
tuoi preti, abbiamo mangiato il Pane tutti insieme!”. Evidentemente questo solo
non basta. Vuol dire che, nonostante ciò, siamo rimasti “fuori” della nostra
anima; non siamo cioè “entrati dentro” di noi; e da fuori non abbiamo udito la
voce di Colui che ci aspettava all’interno, nella nostra coscienza, non abbiamo percepito i suoi
richiami, la sua voce paterna, l’offerta della sua amicizia: ci siamo
accontentati dell’esteriorità, dell’apparire, lasciandolo nella più completa
solitudine. Non abbiamo voluto attraversare quella porta che ci introduceva
alla fonte vera della Vita, quella porta che ci metteva a stretto contatto con
Dio. Non abbiamo ascoltato la sua voce e non abbiamo agito di conseguenza.
Se
continueremo a seguire la mentalità del mondo, purtroppo continueremo ad
ignorare la nostra crescita spirituale; e continuando a vivere fuori di noi,
fuori dalla “nostra” casa, finiremo col perdere anche la “casa” stessa! È una
eventualità che non va sottovalutata!
In
conclusione, che ci piaccia o no, che sia doloroso o no, il punto importante è
uno solo: c'è questa benedetta porta da passare, da entrarci dentro. O ci
decidiamo a farlo in fretta, o rimarremo per sempre esclusi, fuori da una porta
per noi irrimediabilmente chiusa. Tocca soltanto a noi scegliere! Amen!
«Sono venuto a portare il fuoco
sulla terra; e come vorrei che fosse già acceso!... Pensate che io sia venuto a
portare la pace sulla terra? No, vi dico, ma la divisione. (Lc 12, 49-57).
Il
vangelo di Luca pone oggi in bocca a Gesù delle espressioni particolarmente
dure. È un linguaggio drastico, estremo, denso di previsioni drammatiche: i
concetti di “fuoco”, di “divisione”, di “tutti contro tutti!” decisamente non
sembrano appartenere al suo stile. Cosa significa tutto questo? Gesù, come al
solito, è chiaro: chi lo vuol seguire deve sottoporsi a scelte radicali,
risolutive, contrastanti: scelte che comportano una vita completamente “nuova”,
diversa da quella di prima; la sua sequela richiede la morte dell'uomo vecchio, quello incentrato su se
stessi, e la nascita dell’uomo nuovo,
quello che ci fa vivere da figli di Dio.
Un cambiamento
che, prima per i discepoli e poi a seguire per tutta la Chiesa, è stato sempre motivo
di una profonda discriminazione da parte del mondo. I cristiani di ogni tempo sono
sempre stati considerati all’opposizione,
“dall’altra parte”, incompresi, osteggiati... Anche oggi, coloro che fanno
scelte radicali per il vangelo, continuano ad essere apertamente derisi; il
mondo, con la sua logica edonistica, si diverte a dimostrare in tutti i modi l’insensatezza
delle loro scelte, anche se talvolta sono eroiche: le svilisce, le disprezza,
le ridicolizza. Un comportamento, questo del mondo, che non ci deve né meravigliare
né abbattere: Gesù l’aveva previsto; e le parole del vangelo di oggi anticipano
proprio questa situazione di ostracismo e di divisione.
Scegliere
di vivere coerentemente il vangelo non è mai stata, e non lo sarà mai, una
decisione facile, capita e condivisa dai più; lo abbiamo già visto: quando Gesù
stesso ha cominciato a parlare chiaro, quando ha cominciato a fare sul serio, tutti
sono scappati; le folle, così numerose nello sfamarsi gratuitamente, improvvisamente
si sono diradate. Non dobbiamo quindi meravigliarci se anche noi, quando
facciamo sul serio, quando seguiamo letteralmente i suoi insegnamenti, facciamo
terra bruciata intorno a noi: diventiamo automaticamente “pietra d’inciampo”,
segno di “contraddizione”; in una società dell'immagine e del consumismo come
quella in cui viviamo, il vangelo con i suoi precetti non può che essere ostico,
difficile da seguire, in quanto spezza sul nascere ogni logica di profitto, di
successo personale, di carrierismo; è insomma decisamente “scandaloso”!
Le
parole di Gesù sono esplicite, solari: “non sono venuto a portare la pace, ma
la divisione”. Egli non è venuto a portare il quieto vivere, il sonno tranquillo
delle coscienze; non è venuto a giustificare una storia umana che continua a
rotolarsi nelle ingiustizie e nelle perversità di sempre; Egli è venuto a
portare piuttosto “guerra”, “divisione”, un “distacco” obbligato dal male; ha
portato un “conflitto” interiore; una chiara presa di coscienza di tutto ciò che
non va bene, di ciò che ferisce l'uomo, la sua anima, il suo cuore; una “scelta”
necessaria tra ciò che dobbiamo mettere al primo posto (Dio) e ciò che, per
quanto importante, deve comunque rimanere secondario (tutti gli altri valori).
Le
persecuzioni subite dai profeti (come Geremia), ci insegnano solo questo; questo
ci insegna la lettera agli Ebrei, quando dice: “Pensate attentamente a Cristo
che ha sopportato da parte dei peccatori una così grande ostilità contro la sua
persona, proprio perché voi non vi stanchiate perdendovi d'animo. Non avete
ancora resistito fino al sangue nella vostra lotta contro il peccato…”. È
chiaro? “Resistere fino al sangue”, fino al martirio: questo praticavano i
primi cristiani, altro che stancarsi e accantonare tutto, come succede a noi!
La
Parola di oggi, insomma, ci pone di fronte ad una prospettiva decisamente lontana
dal nostro stile di vita: noi, con tutta la nostra cultura, non siamo ancora in
grado di stabilire ciò che è in assoluto bene o male; ciò che è giusto o
ingiusto: oppure lo sappiamo anche ma, per quieto vivere, ci comportiamo come
se non lo sapessimo, non ci esprimiamo. Preferiamo stare dietro le quinte. Abbiamo
timore di quello che potrebbe pensare la gente! Lasciamo volentieri che sia chiunque
altro, ma non noi, a parlare con impegno e convinzione a questo nostro tempo, di
“salvezza ultima”, di “testimonianza religiosa”, di “fede in Dio e nella Chiesa”,
di “principi morali inalienabili”. Ci nascondiamo: un po’ come vediamo fare
certi preti, certi frati, certi religiosi che si “mimetizzano” tra la folla, vergognandosi
di indossare una veste, “una divisa”, che li distingue dagli altri, li
identifica, costringendoli a mantenere di fronte a tutti un comportamento
“superiore”, “convinto”, da “consacrati”, luminosamente “coerente” con la fede
che predicano. Meglio l’anonimato, molto meno impegnativo…
Ma non
è questo che Gesù vuole da noi: perché noi, come tutti gli uomini, siamo i
“chiamati”. Ciascuno di noi, singolarmente, deve impegnarsi: ciascuno di noi, in
prima persona, senza paura, deve trasformarsi in “scandalo” della Verità: proprio
perché la verità non piace al mondo, riesce inopportuna, indigesta. Ci sono
verità, lo sappiamo, delle quali la nostra società contemporanea si
scandalizza: e per questo le contrasta, le combatte. E allora? Non tacciamole
queste verità, affrontiamole, parliamone, ripetiamole all’infinito, continuamente,
in forme diverse, umilmente ma fermamente, con la semplicità e la convinzione
che Lui, Verità assoluta, ci suggerisce. Diciamole in pubblico e in privato.
Diciamole tutti, indistintamente: sacerdoti, educatori, professori di
religione, catechisti, teologi, vescovi, padri di famiglia. Scandalizziamo sul
serio la nostra distratta società con le verità fondamentali della nostra fede
e della morale cattolica! E in questo modo la verità ci farà liberi.
In un
ambiente sociale, in cui la verità è causa di schiavitù e di servitù, perché
ignora o disprezza sia la sua stessa natura, che quanti la professano, noi
cristiani dobbiamo essere convinti che è la verità, particolarmente la verità
della nostra fede, che ci affranca, che ci rende assolutamente liberi.
L'uomo
non è libero di essere “ciò che vuole”, ma è libero di essere la verità del suo
essere. La libertà non è un assoluto: fa riferimento alla verità, che di per se
stessa ci attrae e ci affascina. Laddove c'è verità c'è libertà, e dove non c'è
verità, c'è inevitabilmente qualche forma di schiavitù. Cerchiamo la verità?
Viviamo la verità? Amiamo la verità? Custodiamo la verità? Difendiamo la
verità? Allora possiamo dire di essere autenticamente liberi: anche se siamo
rinchiusi tra le quattro mura di una prigione o se siamo considerati “materiale
inutile” dalla società in cui viviamo. O forse abbiamo paura della verità,
della sua forza soggiogante? In un mondo dominato dal relativismo, le verità
assolute fanno paura, è vero. Ma noi non dobbiamo correre il rischio di fare di
questo relativismo un principio assoluto. Perché aver paura della verità, è
aver paura di essere se stessi, è aver paura di essere coerenti, è lasciarsi
dominare dalla legge della maggioranza, è perdere la propria dignità umana, la
propria personalità. La verità ci farà liberi. Non dubitiamone. È l'esperienza
degli uomini grandi.
Il
Vangelo nasce dunque sotto il segno della contraddizione: e sotto il segno
della contraddizione cresce e si diffonde. È questo il dramma dell'alleanza fra
Dio e il suo popolo, dramma che continua a riproporsi nella storia: Dio si
racconta, si svela, si avvicina all'uomo, si offre di aiutarlo; ma l'uomo sistematicamente
gli risponde “no, grazie”.
Siamo
discepoli di un Dio che crea divisione, di un Dio che non ci lascia tranquilli,
indifferenti, adagiati nelle nostre certezze, trincerati dietro le nostre
tiepide devozioni, soddisfatti di appartenere ai nostri gruppi esclusivi di
spiritualità; siamo discepoli di un Dio che ci scuote, che ci infiamma, che ci brucia
dentro, che ci spinge fuori, nel mondo.
Chiediamoci
allora: veramente sentiamo dentro di noi questo Dio che brucia il nostro cuore,
la nostra anima? Ci brucia sul serio, al punto da non poter fare a meno di
annunciarlo, di parlare di Lui a tutti quelli che avviciniamo? Lo difendiamo nelle
discussioni con quanti lo negano? Di conseguenza: siamo mai stati derisi per le
nostre convinzioni? No? Allora i casi sono due: o viviamo segregati in un limbo
virtuale, tagliati fuori, avulsi dalla realtà, oppure viviamo molto poco da
autentici cristiani: la nostra testimonianza è talmente insignificante e priva
di mordente che nessuno si accorge di noi. Viviamo da “tiepidi”; ma proprio per
questo nostro essere “né caldi né freddi” rischiamo di essere “vomitati” da
Dio, come scrive l’Apocalisse.
Noi siamo
discepoli di Cristo: non dimentichiamolo mai! E come tali siamo chiamati da Lui
per essere dei rivoluzionari, degli incendiari: gente che scuote, che infiamma tutto
il mondo; gente che predica e professa apertamente l’Amore di Dio per le sue
creature. Amen.
«Vendete ciò che possedete e
datelo in elemosina; fatevi borse che non invecchiano, un tesoro sicuro nei
cieli, dove ladro non arriva e tarlo non consuma. Perché, dov’è il vostro
tesoro, là sarà anche il vostro cuore. Siate pronti, con le vesti strette ai
fianchi e le lampade accese; siate simili a quelli che aspettano il loro
padrone quando torna dalle nozze, in modo che, quando arriva e bussa, gli
aprano subito» (Lc 12,35-40).
Ci
sono cose che nessuno può portarci via: la serenità di una vita spesa bene, un
ideale per cui combattiamo, soffriamo, resistiamo; la commozione provata nei
momenti più importanti e toccanti della vita, come la nascita di un figlio; la risposta
d’amore che scorgiamo negli occhi delle persone che amiamo; i colori della
natura, il profumo dell'erba appena tagliata, il suono del vento, il canto
degli uccelli; la gioia del nostro cuore, quando ci sentiamo vivi, vita in
mezzo alla Vita. Questo nessuno ce lo potrà mai portare via. Tutto questo rimarrà
sempre in noi. Ma ci sono anche tante cose inutili, zavorra che ci rallenta nel
cammino. Cose superflue, a ben vedere nocive, deleterie, cose che abbiamo
stoltamente raccolto lungo il corso della nostra vita. Ebbene, liberiamocene,
buttiamole via: stiamo soprattutto attenti a non attaccarci ad esse; non facciamo
di esse il nostro “tesoro”, il nostro riferimento, l'oggetto dei nostri
pensieri quotidiani.
Riempiamo
le nostre “borse” di cose vere, procuriamoci beni che non passano, che durano,
che non invecchiano, ai quali la ruggine, i ladri e le tarme non possono arrivare.
Il
denaro può esserci rubato. Le ricchezze possiamo perderle. L'auto può essere distrutta
in un attimo. Gli oggetti più belli e preziosi si possono rompere. Le persone più
care possono morire improvvisamente. Tutto ciò che è “materiale” passa. Solo i
tesori dell'anima, del cuore, quelli spirituali, celesti, nessuno ce li potrà
mai sottrarre. Impariamo a tenere tutto nella nostra anima e non avremo più
bisogno di possedere altro. Impariamo ad arricchire la nostra anima, e non
avremo più bisogno di ricchezze. Tutto ciò che è temporale, aleatorio, prima o poi
lo perderemo. Tutto ciò che non appartiene a questa vita provvisoria (Dio, l’anima),
deve costituire la nostra vita piena, adesso e in futuro.
Perché
dov’è il nostro “tesoro”, là c’è anche il nostro cuore.
Noi
cristiani, proprio perché ci chiamano con questo nome, siamo convinti che Dio
sia il centro della nostra vita: come pure l'amore, la famiglia, la vita dei
nostri cari, i valori morali e sociali, la ricerca costante del bene. Ma è
veramente così? Facciamo una piccola prova. Analizziamo bene ciò che durante il
giorno assorbe di più la nostra attenzione: perché è quello che costituisce il nostro
“tesoro”. Se il nostro esame sarà onesto, ci renderemo conto che non Dio è il
nostro polo di attrazione, ma tanto altro: i soldi? i beni materiali? le ricchezze?
il sesso? la voglia di emergere? il pregiudizio sugli altri? l'odio? la
vendetta? Ecco: noi siamo esattamente ciò che interessa la nostra mente. Se la nostra
mente è pervasa sempre da pensieri negativi, da paura, da una critica
distruttiva; se vediamo intorno a noi solo dei nemici da combattere, un mondo disgustoso
da dominare; se ignoriamo tutto e tutti e affoghiamo i nostri giorni nei
piaceri, nei godimenti della vita, nell’egoismo, nella sopraffazione, vuol dire
che noi siamo diventati tutto questo. Vuol dire che siamo diventati così,
perché dov'è il nostro “tesoro” (i pensieri, i nostri interessi) lì è anche il nostro
cuore (noi stessi). Altro che pensare a Dio!
Non possiamo
quindi continuare così: dobbiamo pensare seriamente a cambiare, a disciplinarci,
a sostituire quello che è il “nucleo” della nostra vita, il centro dei nostri
pensieri.
“Siate
pronti, con la cintura ai fianchi e le lucerne accese…”. Il tempo a nostra
disposizione è limitato. Non facciamo l’errore di pensare che il presente sia eterno.
Le parole di Gesù hanno un senso ben preciso: “Siate svegli, non dormite, siate
consapevoli, state attenti a non prendere sonno”, perché il sonno della ragione
genera mostri, perché il sonno dell'anima genera solo morte.
Purtroppo
nell’uomo vi sono due tendenze contrastanti: quella del soprassedere, del
rimandare, dell’adattarsi, del fermarsi, e quella al contrario dell’andare
sempre avanti, del progredire, dell’evolversi, del perfezionarsi. Quante volte
capita anche a noi di pensare: “Va bene così; sono abbastanza religioso, amo il
prossimo più di tanti altri, faccio le mie elemosine, vado in chiesa la
domenica; insomma, penso di essere un buon cristiano e quindi mi fermo qui; che
mi serve crescere ancora, continuare a sacrificarmi: in fin dei conti non sono
un prete, un frate, una monaca”. Nulla di più sbagliato: la strada da
percorrere è in costante salita, pericolosamente sdrucciolevole; fermarsi,
significa scivolare giù. Il tempo della vita è sempre mutevole, un costante
divenire: il domani non sarà mai uguale all’oggi. Solo ciò che è morto rimane
immobile, smette di andare avanti, di crescere, di svilupparsi. Tutte le nostre
crisi esistenziali sono causate proprio dallo scontro tra queste due inclinazioni.
In pratica una ci dice: “Basta, sta qui; fermati, lascia fare; è difficile; è
doloroso; dopo tutto anche così non stai affatto male!”. L'altra, invece, ci
sprona: “Non fermarti qui, la vita ti chiama ad una nuova tappa, ad una nuova avventura,
devi affrontare anche questo nuovo ostacolo, va avanti, devi progredire”. Ed è
quanto praticamente ci insegna il vangelo di oggi. Non dobbiamo dormire sugli
allori: nella vita o si va avanti o si torna indietro; o si progredisce o si
regredisce. Non esiste una posizione di compromesso.
Quelli
che pensano di essere svegli, quando invece dormono, avranno un risveglio molto
duro. Sarà una sberla in faccia, un pugno allo stomaco: dovranno fare i conti
con una nuova impostazione della vita; dovranno affrontare quella che si chiama
“conversione”, cioè il cambiare strada, cambiare vita; si renderanno conto che quella
che pensavano fosse vita era invece un letargo, una sterile sopravvivenza, un
brancolare nel buio; era solo illusione e falsità.
A
proposito del dover prendere in mano la propria vita, c'è una storiella che racconta
di un padre che al mattino bussa alla porta del figlio: “Antonio, svegliati,
devi andare a scuola”; e Antonio: “Non voglio alzarmi papà; non voglio andare a
scuola”. “E perché mai?” esclama il padre. “Per tre motivi”, risponde Antonio. “Prima
di tutto, è una noia; secondo, i ragazzi mi prendono in giro; terzo, odio la
scuola”. E il padre di rimando: “Bene, adesso ti dico io tre ragioni per cui
devi invece andare a scuola: primo, perché è tuo dovere; secondo, perché hai
quarantacinque anni, e terzo perché sei il preside”.
Una
storiella che farebbe sorridere, se non riflettesse in pieno la voglia che
tutti abbiamo di scrollarci di dosso le nostre responsabilità, la realtà della
nostra vita, i nostri doveri: una tentazione comune fin troppo frequente.
Dunque,
svegliamoci, fratelli; apriamo gli occhi, prendiamo coscienza di chi siamo, da dove
veniamo, dove siamo diretti, come viviamo; affrontiamo la realtà che ci
circonda. Molte persone purtroppo continuano a trastullarsi con i loro
giocattoli (soldi, auto, vestiti, fama, il sentirsi importanti). Dicono che
hanno intenzione di crescere, di avere un serio desiderio di Dio, di volere,
insomma, uscire definitivamente dall'asilo nido in cui si trovano; ma poi nei
fatti non dimostrano alcuna affidabilità, non sono credibili. Vogliono procurarsi
invece sempre nuovi “giocattoli”: “Voglio un'altra moglie; voglio altri soldi; voglio
divertirmi, voglio solo comodità e benessere; non voglio soffrire, non voglio
cose mortificanti e impegnative!”. È una malattia molto frequente. Le persone
non accettano di sottoporsi a cure radicali e risolutive: preferiscono un palliativo,
un sollievo temporaneo, provvisorio. Meglio qualche compressa, qualche
soluzione facile facile, già “pronta all'uso”.
Se
durante la nostra vita, invece di vegliare, abbiamo preferito dormire, è questa
l’ora di svegliarci sul serio. Certo, svegliarci da un sonno comatoso e
invalidante, è sempre doloroso: perché improvvisamente tutte le nostre
illusioni svaniscono, tutto ciò in cui credevamo, quello che pensavamo fosse vita
e verità, quello che era il nostro riferimento, il nostro appoggio, tutto si
dissolve nel nulla. In quell’istante ci accorgiamo di non avere più nulla di
concreto; non abbiamo più strade conosciute, ci troviamo completamente spogli
di tutto, nudi con noi stessi. Unica consolazione è pensare al grave pericolo
scampato: potevamo continuare a vivere la nostra non vita, potevamo
impastoiarci sempre più nelle nostre illusioni; invece ci siamo svegliati
appena in tempo dallo stato di catalessi in cui vivevamo; ed è stata la nostra
salvezza.
Ora,
completamente svegli, dobbiamo vedere le cose per come sono, nella loro realtà;
perché tutto ciò che esiste è realtà, tutto ha un valore di cui siamo chiamati
a rispondere: desideri, sentimenti, pregiudizi, ricordi, traumi, complessi,
idee giuste e sbagliate; guerra e amore; vita e morte; potere e impotenza. Dobbiamo
cioè responsabilizzarci, essere finalmente “consapevoli” di noi stessi, poter
chiamare tutte le cose per nome, guardandole in faccia; significa classificare,
individuare la vera natura di tutto ciò che c'è in noi e fuori di noi: “Tu sei
violenza: questo è il tuo nome. Tu sei trauma: questo è il tuo nome. Tu sei
paura, terrore, soffocamento: questo è il tuo nome. Tu sei fallimento,
abbandono, tradimento: questo è il tuo nome. Tu sei energia, forza,
possibilità: questo è il tuo nome”. Chiamare ogni cosa per nome, come faceva
l'uomo all'inizio della creazione, è la forza della vita. Perché chiamare per
nome, significa far esistere una cosa, renderla reale, dirle: “Mi piaccia o no,
tu ci sei”.
Allora
con i termini “vegliare, consapevolezza, lucerna accesa”, il Vangelo oggi ci
raccomanda di vedere bene tutto ciò che c'è da vedere, di stare all’erta, di non
nasconderci nulla, di chiamare tutto per nome, con il suo nome.
La
nostra deve essere un’attesa vigile: non sappiamo quando verremo chiamati all’appello.
Sicuramente quando meno ce l'aspettiamo. E allora perché aspettare senza far
nulla? Perché sprecare il tempo dell’attesa?
È
vero, noi siamo per le comodità. Minimo sforzo, massimo rendimento. Vorremmo poter
programmare la nostra fede, sapere in anticipo quanto tempo ancora ci rimane,
per poter gestire la nostra vita spirituale con tutto comodo, con calma; per poter
camminare senza affanno, avendo davanti a noi, si una salita, ma molto lieve, con
gli ostacoli, il percorso, il traguardo, sempre bene in vista. Ma non è così! Noi
non sapremo mai come sarà il nostro viaggio, il modo in cui finirà, quale la
data esatta della sua fine. È un dono di Dio e Dio non è controllabile.
Tutti
noi siamo semplici “amministratori” della nostra vita; il tempo non è nostro, ne
abbiamo solo una piccola quantità da gestire. E di come lo avremo impiegato, saremo
chiamati a darne conto a Lui. Inutile illuderci. Se dicessimo in cuor nostro: “Beh,
sicuramente il padrone non arriverà oggi!”, e ci dessimo alla pazza gioia, a
mangiare, a bere e a ubriacarci, saremmo degli emeriti stolti. Come potremmo
giustificarci se il padrone arrivasse proprio allora? Sarebbe comunque troppo
tardi per piangere sulla nostra infedeltà, sulla nostra stoltezza!
Allora,
lo ripeto, non perdiamo altro tempo, fratelli. Siamo vigili. Trattiamo ogni
cosa, ogni essere, ogni creatura, con tutto l'amore e il rispetto di cui siamo
capaci. Iniziamo soprattutto da noi stessi, dal nostro mondo interiore, dalle
persone che ci circondano, dai più vicini, da quelli che in qualche modo “ci
abitano”. Stiamo attenti a non addormentarci; non viviamo di sogni, non dissipiamo
il nostro tempo, “fregandocene” di tutto e di
tutti. Stiamone certi, il padrone verrà. Non è un monito, una minaccia.
È la constatazione di una realtà. Un ricordarci, se mai ce ne fosse bisogno,
che prima o poi anche noi dovremo rendere conto di quanto abbiamo avuto in
consegna. Amen.
«E Gesù
disse loro: Fate attenzione e tenetevi lontani da ogni cupidigia perché, anche
se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende da ciò che egli possiede» (Lc
12,13-21).
Gesù
sta parlando a una grande quantità di persone: una “folla” precisa il vangelo.
Forse centinaia, migliaia di persone. Sta parlando di cose molto serie,
importanti, dell’essenza del vivere: dice che chi lo seguirà, non deve pensare
di ottenere onori, gloria, considerazione, riconoscenza; sarà invece “rinnegato,
portato davanti ai tribunali; tuttavia non deve temere di nulla, perché Dio ha
cura di lui, pensa personalmente a lui; a Dio nulla sfugge di quello che lo
riguarda; perfino i suoi capelli sono contati!
Sono
considerazioni profonde: ma improvvisamente un tale lo interrompe e gli pone un
problema personale, specifico, che riguarda solo lui, di nessun interesse per
gli altri. Un problema di divisione ereditaria. Poveri noi! Ma questo tizio, stava
veramente ascoltando Gesù, oppure pensava solo ai fatti propri? Certo, doveva essere
parecchio concentrato, ripiegato su se stesso, se di fronte a migliaia di
persone e nel bel mezzo di un discorso tanto profondo, se ne esce con una questione
così banale, così terra terra! Evidentemente gli insegnamenti di Gesù non lo
toccavano per niente: ciò che lo assorbiva totalmente erano i suoi problemi, le
sue proprietà, i suoi utili, il suo futuro economico: pensava al raccolto
eccezionale, ai magazzini troppo piccoli, insufficienti a custodirlo; alla
necessità di doverli ampliare, per poter espandere i suoi commerci,
incrementare i suoi utili, e darsi finalmente alla bella vita; ma c’era un
problema: suo fratello non gli cedeva quella parte di eredità comune,
necessaria all’ampliamento.
Egli quindi,
incurante degli altri, cerca di “appropriarsi” di Gesù: “Mio fratello sta
commettendo un'ingiustizia, come puoi non darmi ragione?”. Ma Gesù gli legge
dentro: “Amico, tu vuoi giustizia non per il valore della giustizia, ma perché
sei attaccato ai soldi, perché sei avido, perché invidi chi ne ha più di te,
perché li brami. Allora non chiamarmi in causa, non usarmi per i tuoi scopi,
non sequestrarmi per i tuoi interessi. Ammesso anche che tu abbia la tua parte
di eredità, che i tuoi magazzini diventino ancor più capienti, che il tuo
raccolto superi qualunque rosea aspettativa, sono tutte cose che non ti servono
a nulla se il tuo cuore non è libero; non ti servono a nulla, perché tu vivi solo
per i soldi, vivi solo per accumulare, vivi schiavo dell’avere”.
Attenzione:
Gesù non dice “Tu hai ragione e tuo fratello ha torto”. Dice: “Tu, tuo fratello
e tutti quelli che pensano come te solo ad arricchirsi, perderanno la vita; perderanno
la parte più feconda, più creativa, più vera della vita; perdono cioè l'anima”.
Gesù
va oltre la distinzione giusto/sbagliato che gli era stata proposta, e praticamente
dice: “Tutti quelli che vivono così, moriranno così”. Non è possibile infatti
che uno completamente preso dalla smania della crescita esteriore, della sua
immagine, del suo potere, della sua fama, delle sue ricchezze, possa trovare
interesse anche per il suo interno, per la sua anima, per le sue relazioni con
Dio.
La
parabola con cui Gesù spiega il concetto, sembra addirittura una maledizione divina:
“Visto che tu hai accumulato tanto, io ti tolgo tutto!”. Sembra quasi che Dio
se la rida di noi, si prenda gioco di noi, ma il significato della parabola non
è questo. È una triste considerazione, una anticipazione di quanto accadrà a
tutti quelli che durante la loro vita non pensano di “arricchirsi” anche e
soprattutto di Dio, a tutti quelli che non hanno nessun interesse per la
propria anima, che svendono la propria esistenza soltanto per le ricchezze, per
i “magazzini”, per l'avere, per il riempirsi di cose materiali: “Chi vive così,
finirà così!” dice Gesù. Le illusioni passeggere devono fare i conti con il
futuro, con la realtà che non conosciamo, con le certezze che non vogliamo prendere
in considerazione.
Ci è
stata regalata una pianta bellissima. Ma ce la siamo dimenticata, non le abbiamo
dato acqua per troppo tempo ed è morta. Poi però ci lamentiamo, pretendiamo,
rivendichiamo “giustizia”; ma cosa possiamo pretendere? Con chi prendercela se
non con noi stessi?
L'uomo
della parabola, interessato solo al possedere, come tutti i ricchi del vangelo,
non ha un nome. È anonimo, perché ha perso la sua vera identità, la sua
personalità. Non ha più un nome perché tutta la sua attenzione è concentrata
fuori da sé, all’esterno, lontano da ciò che di più importante egli possiede,
l'anima; il suo interesse esclusivo è rivolto all’effimero, alle ricchezze, a
tutto ciò che ancora non possiede, e che forse non potrà mai possedere, ma che
egli vuole comunque a tutti i costi. E in questa affannosa ricerca finisce col
perdere l'unica cosa preziosa che già possiede: se stesso. Gesù l’ha detto
chiaramente: “A che serve all’uomo guadagnare il mondo intero se poi perde la
propria anima?”. Già, a che ci servono le ricchezze, le montagne di denaro, se
perdiamo la nostra libertà interiore, la nostra indipendenza, la nostra
creatività, la nostra serenità in famiglia, la pace, la presenza rassicurante di
chi amiamo, la graduale crescita dei nostri figli, la forza trainante della
vera amicizia? Si vive, come quell’uomo, in una situazione tragicamente fittizia:
il suo rapporto con lo spazio e il tempo è del tutto sfasato. Parla e pensa sempre
al futuro: “Che farò, farò così, demolirò, costruirò, vi raccoglierò”. Non si
pone il problema “tempo”; per lui non esiste il presente, vive fuori dalla
storia. Non si rende conto che prima o poi tutto finirà, che tutto passerà, che
tutto ha un inizio e una fine. Nessuno di noi è eterno, nessuno di noi vive sempre.
Ogni cosa ha un suo spazio temporale: inizia, si svolge, finisce. Ciò che abbiamo
perso, lo abbiamo perso per sempre. Ciò che è passato, è passato e non torna mai
più. Ciò che non abbiamo gustato allora, non lo potremo gustare mai più. Anche quell'uomo
si illudeva: “Eh sì, verrà un giorno in cui finalmente mi riposerò, mangerò, mi
darò alla pazza gioia”. Quante persone, anche tra i nostri amici, hanno sempre
“rimandato” le occasioni per “vivere” serenamente, in libertà, con se stessi e
con i loro cari: c’era il lavoro, l’affermarsi, la carriera, la promozione ad
un livello superiore…; aspettavano tempi migliori, aspettavano una maggior
disponibilità economica, la liquidazione, la pensione, aspettavano che i figli
crescessero, aspettavano, aspettavano…; poi in un attimo, tutto si è rivelato solo
una illusione! Una malattia imprevista, dalla sera alla mattina, ha azzerato ogni
loro programma, ha infranto ogni loro sogno.
Ricordo
di un giornalista e commentatore televisivo che, alle soglie della pensione, colpito
da un tumore incurabile, diceva: “Il cancro ci ricorda che siamo legati ad un
guinzaglio corto, molto corto. Volete far ridere Dio? Parlategli dei vostri
progetti accantonati per il futuro”.
Noi,
per natura, siamo portati ad attaccarci a
tutto ciò che non abbiamo: “Devo diventare come lui, devo raggiungere questo,
devo arrivare a quello...” e così lottiamo, combattiamo, spendiamo tutto il
nostro tempo per ottenere queste cose: ma una volta raggiunte, ci accorgiamo che
non ci bastano più, che non sappiamo più che farcene, in quanto già attratti da
altre più grandi; c'è sempre un nuovo traguardo più ambizioso da raggiungere.
Non ci
rendiamo conto della realtà: che cioè in noi abbiamo già tutto quello che
possiamo desiderare, abbiamo già “il nostro tesoro” più grande; l’abbiamo al
nostro interno, siamo noi stessi, la nostra anima. Niente all’esterno può farci
sentire più importanti, se non sentiamo l’importanza di noi stessi; nulla può
farci sentire sicuri se non siamo sicuri di noi stessi; nessun Dio può farci
sentire più vivi se non riusciamo a vivere quella “vita” che già ci ha dato.
Questa è la differenza tra chi “tesorizza” per il mondo (ammassa ricchezze e tesori
esteriori) e chi “tesorizza” per Dio (rinforza la presenza di Dio in Lui, nella
propria anima).
Ebbene:
questo vangelo ci interroga in particolare sul nostro rapporto con il denaro,
con le ricchezze. Quante volte sentiamo dire: “I soldi sono del diavolo!” Eppure
quanti di noi vivono solo per i soldi! Il denaro in sé non è né buono né
cattivo: ci offre la percezione della realtà. Come uno si rapporta con il
denaro, così egli è. Ciò che facciamo con il denaro, riflette esattamente i
valori con i quali viviamo. Il denaro non è la realtà: ma da come lo usiamo, ci
diranno chi siamo realmente. È vero, il denaro cancella in qualche modo l'angoscia
della nostra fragilità umana, il pensiero della morte: con i soldi pensiamo di non
invecchiare: cure cosmetiche, lifting, gioielli, vestiti; il denaro ci dà fama,
ci protegge dalla paura di essere dimenticati, di cadere nell’anonimato, nella
massa; ci dà insomma l’illusione di essere immortali. Se è vero che il denaro ci
toglie dall'angoscia immediata della fine, è altrettanto vero che ci priva della
possibilità di una vita aperta, sensata, vera, vissuta serenamente nella piena fiducia
in Dio. Talvolta siamo noi ad usare i soldi per vivere, ma più spesso sono i
soldi che abusano di noi e della nostra vita; possiamo dominarli, ma il più
delle volte siamo noi ad essere loro schiavi: è infatti il nostro rapporto con loro
che decreta il nostro grado di libertà interiore.
Tutto
quello che possediamo, infatti, non aumenta di un centesimo quelli che siamo.
“Abbà,
cosa pensi del denaro?”, chiede un giovane monaco al suo anziano abate. “Guarda
dalla finestra” - gli risponde questi - “cosa vedi?”. “Vedo tanta gente, uomini
e donne che camminano, bambini che giocano”. “Ora guarda allo specchio. Cosa
vedi?”. “Cosa vuoi che veda? Vedo me stesso, naturalmente!”. Al che il maestro
di rimando: “Bene, ora pensa: sia la finestra che lo specchio sono entrambi fatti
di vetro. Basta però l’aggiunta di un sottilissimo strato d'argento sul vetro, perché
chiunque guarda non veda nient’altro che se stesso. Morale: il di più permette solo la visione di noi
stessi, impedendo totalmente quella degli altri”.
Ecco, è
anche su questo che Gesù oggi vuole attirare la nostra attenzione. Amen.
«Gesù si trovava in un luogo a
pregare; quando ebbe finito, uno dei suoi discepoli gli disse: Signore,
insegnaci a pregare, come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli. Ed
egli disse loro: Quando pregate, dite, Padre…» (Lc 11,1-13).
«Padre…». Un giorno un bambino chiede a
sua madre: “Mamma com’è Dio?”. La madre lo prende in braccio, lo stringe forte
al suo cuore e gli dice: “Cosa senti?”. “Sento che mi vuoi bene”. E la mamma:
“Ecco, questo è Dio!”. Ed è vero. Dio è nostro Padre e ci ama così. Se quando
ci rivolgiamo a Dio, non proviamo l’intima sensazione di un amore infinito e avvolgente,
un senso profondo di pace, di tranquillità, di sicurezza, di misericordia, di
perdono, di libertà, di accoglienza, vuol dire che ancora non conosciamo Dio;
vuol dire che non lo sentiamo ancora come “nostro” Padre; vuol dire che viviamo
ancora nell'ignoranza più totale di Dio.
«Sia santificato il tuo nome». Molte persone di fronte a
questa preghiera pensano subito alle bestemmie, al parlar male di Dio,
all'usare in malo modo il nome di Dio. Ma noi bestemmiamo (non santifichiamo)
Dio in maniera ancor più grave, quando viviamo al di sotto delle nostre
possibilità; bestemmiamo Dio, quando ci lasciamo vivere ai margini dell’amore;
quando ignoriamo Dio; quando - per paura, per ignoranza, per egoismo - smarriamo
la strada che ci conduce all’Amore; quando non sappiamo accorgerci della Sua
presenza amorosa al nostro fianco. Certe vite sono un’autentica bestemmia a Dio
perché sono aride, non si costruiscono, si lasciano andare; perché rinnegano
con la loro inesistenza la Vita, perché sono inutili, futili, superficiali,
banali. Allora possiamo anche confessare parolacce e bestemmie, ma dobbiamo soprattutto
chiedere perdono e convertirci, quando la nostra vita è rinnegamento della
grandezza, dell’entusiasmo, dell’amore, della meraviglia e dello stupore di
fronte al bello, che Dio ha immesso in noi; quando cioè la nostra vita è
completamente indifferente a questi valori. Ogni volta che viviamo al di sotto
della nostra grandezza e dignità di figli di Dio, noi non solo non lo “santifichiamo”
per averci creato “grandi”, a sua immagine e somiglianza; ma lo abbassiamo stupidamente
alla nostra visione gretta e ristretta della vita. Dio è infinitamente più
grande; Dio è oltre, Dio è un'esperienza personale che non finiremo mai di
scoprire, di capire, di conoscere, di sperimentare. Questo è il mistero di Dio:
di fronte a Lui non ci resta che inchinarci umilmente e fare silenzio, perché
Lui è Santo, Altro, Oltre...
«Venga il tuo regno»: si realizzi, accada, si
compia in me ciò che tu vuoi. Il regno di Dio è la possibilità che abbiamo di
instaurare in noi la viva presenza di Dio. Noi possiamo trasformare questa
possibilità in realtà: sta a noi fare in modo che ciò si attualizzi, si realizzi,
accada; che cioè Lui sia in noi, sia evidente a tutti; che tutti lo possano
vedere nella nostra vita, attraverso le nostre scelte, le nostre azioni, i nostri
impegni sociali, i nostri progetti. Altrimenti, pur essendo una possibilità
reale, vicina, alla nostra portata, il regno di Dio continuerà a rimanere per
noi un bel progetto, un sogno vagheggiato, una realtà incompiuta, accantonata. Quando
ci impegneremo veramente perché la nostra vita diventi autentica, vera, allora il
regno accadrà in noi; quando il nostro amore diventerà meno possessivo e
condizionante, quando diventeremo più aperti e meno giudicanti, allora il regno
si realizzerà in noi; quando lotteremo per l'ingiustizia nel nostro ambiente di
lavoro, nella società, nella famiglia, quando alzeremo la voce di fronte alle
ipocrisie, quando con il nostro silenzio e la nostra indifferenza non permetteremo
agli altri di umiliarci e di umiliare i nostri sentimenti, la nostra fede, i
nostri principi, allora il regno si realizzerà in noi; quando ci esporremo,
quando non indietreggeremo di fronte alle sfide, alle provocazioni, ai
conflitti, al male invadente, quando metteremo in gioco la nostra vita per la
solidarietà, la comunione fraterna, la verità, allora il regno accadrà in noi. Ecco:
ogni volta che preghiamo “venga il tuo
regno” noi chiediamo a Dio di renderci suoi “strumenti” attivi, in modo che
tutto ciò che Lui vuole per il mondo si realizzi attraverso di noi.
«Dacci ogni giorno il pane
quotidiano».
Come il cibo naturale ci fa vivere, ci nutre, ci irrobustisce, oppure ci
intossica, così tutte le cose di cui “ogni giorno ci nutriamo” ci fanno, ci costruiscono,
ci completano, ci formano, oppure ci “de-formano”. Così “mangiare” esperienze
positive, momenti di preghiera, stare con persone positive, vivere in ambienti
mentalmente aperti e affettivamente ricchi, perdonare, cambiare in meglio, andare
a messa ogni domenica, partecipare a liturgie ricche di vita, piene di Dio, tutto
questo è il “cibo” che, giorno dopo giorno, ci costruisce e ci forma, ci
alimenta, delinea la nostra fisionomia. “Mangiare” esperienze negative,
rimanere in ambienti di chiusura totale, di scelte meschine e ignoranti, di
odio, di rancore, di soffocamento; non perdonare, vivere stressati, non darsi
occasioni di silenzio, di pace, di gioco, d'amore; essere sempre rigidi,
controllati e prevenuti; vivere maledicendo la vita, sono le cose che ci “costruiscono”
negativi, che ci “de-formano”, che progressivamente ci distruggono. Non è la
singola domenica che ci fa cristiani ma domenica dopo domenica, un giorno dopo l’altro.
Se continuiamo a privarci dell’unico cibo che ci da sostanza, del cibo vero che
è Dio e tutto ciò che lo riguarda (il canto, la comunità in preghiera, il
vangelo, il clima fraterno, la partecipazione al banchetto eucaristico, il
coinvolgimento) rinsecchiamo, diventiamo sterili e vuoti. Noi diventiamo ciò
che facciamo. Noi diventiamo ciò che mangiamo, ciò di cui ci nutriamo;
diventiamo le persone e gli ambienti che frequentiamo; diventiamo le cose che
facciamo, le esperienze che scegliamo. Tutti siamo condizionabili, tutti sono
condizionati; ma sta a noi decidere da chi e da che cosa farci condizionare.
Tutti devono mangiare, tutti mangiano, ma sta solo a noi decidere cosa
mangiare. Sta a noi decidere da cosa farci nutrire. Per cui una grande e
responsabile scelta, nella nostra vita, è quella di “conservare” coscientemente
il “cibo” che ci fa bene, che ci costruisce, che ci da forza; ed eliminare
quello “guasto”, quello che ci fa star male. Se un cibo ci fa male - è ovvio – noi
non lo mangiamo: eppure ogni giorno continuiamo incoscientemente a cibarci di
robaccia, di cibi avariati, di cibi vecchi, scaduti, malsani. Attenzione:
perché noi, come ho detto, diventeremo esattamente quello di cui ci nutriamo
ogni giorno: teniamolo a mente e non incolpiamo nessuno della nostra situazione.
«Perdonaci i nostri peccati,
perché anche noi perdoniamo ad ogni nostro debitore». Il perdono deve essere il nostro
pane quotidiano (perdono e pane in ebraico hanno le stesse consonanti);
ciò di cui ogni giorno dobbiamo nutrirci, alimentarci, perché le nostre energie
siano libere e vitali e non incatenate nel risentimento e nell'odio. Pertanto ogni
giorno dobbiamo affrontare la nostra collera, la nostra rabbia, i nostri
sentimenti di odio e tutto ciò che ferisce noi e gli altri. Ogni giorno dobbiamo
alzarci sapendo che il pane sostanzioso, quello che ci nutre per tutta la
giornata, sarà il perdono. Dobbiamo perdonare prima di tutto noi stessi per gli
errori che abbiamo fatto, anche per quelli inconsapevoli; dobbiamo perdonare le
persone che ci fanno del male, che esprimono giudizi sommari e falsi sul nostro
comportamento, sul nostro modo di fare, su come parliamo, su come viviamo; le
persone che parlano a vanvera, che non sanno ma calunniano, che malignano su
tutto. Più che reagire, non sappiamo mai dove una reazione vada a parare, dobbiamo
perdonare.
Il
verbo “perdonare” in ebraico significa letteralmente “ricoprire una ferita”. Ecco,
ogni giorno noi dobbiamo ricoprire le ferite nostre e dei nostri fratelli: è
così che vivremo serenamente. Il perdono è il “vestito” che dobbiamo indossare
tutti i giorni per andare nel mondo; il perdono è la nostra unica possibilità
di essere spiritualmente fecondi, propositivi, utili; di essere in una parola
“generatori” di felicità.
Questa
in sintesi è la preghiera che Gesù ci insegna nel Vangelo di oggi. In che modo poi,
e con quali disposizioni dobbiamo pregare, ce lo chiarisce subito dopo, per
mezzo di due parabole.
La
prima ci racconta di un uomo che, nel bel mezzo della notte, riceve la visita inaspettata
di un ospite. Ovviamente, colto di sorpresa, il poveruomo non ha nulla da offrirgli:
cosa molto imbarazzante per un orientale che considera l'ospitalità un onore,
un bene preziosissimo. Si affretta allora, e va a sua volta a bussare dal
vicino, già a letto anche lui: e lo fa pur sapendo di procurargli un grande fastidio:
deve infatti alzarsi, aprirgli la porta già sprangata, rischiando che il
trambusto procurato svegli anche tutti quelli che già dormono. Nonostante tutto
però, egli non rinuncia, lo importuna comunque, perché in questo suo amico
ripone una piena e incondizionata fiducia. Ecco: Gesù ci invita a rivolgerci a
Dio proprio così, come ad un vero amico, anche in modo inopportuno, anche in
modo sfacciato. A Dio possiamo chiedere tutto, sempre, in qualunque momento; possiamo
raccontargli tutto; a Dio possiamo aprirci e mostrarci nella nostra totale miseria,
possiamo far vedere come siamo, cosa pensiamo; tutto, completamente tutto: anche
ciò che è brutto, ciò che è indecoroso, ciò che è meschino, vergognoso; anche i
nostri pensieri più intimi, più nascosti, più cattivi, più ripugnanti, più
aggressivi. Egli, come un vero amico consolatore, ci ascolterà, ci accoglierà. Non
dobbiamo avere timori o riguardi: nella nostra preghiera a Dio, c'è spazio per
tutto.
La
seconda parabola ci spiega poi cosa significa avere Dio per padre. Ogni padre conosce
(dovrebbe!) cosa è il meglio per i propri figli. Nessun padre, al figlio che
chiede, gli darà mai una pietra al posto del pane, un serpente al posto di un pesce,
uno scorpione al posto di un uovo: è ovvio, è naturale. Allo stesso modo Dio,
che è nostro Padre, non ci darà mai nulla che possa farci male, nulla che possa
nuocerci. Questo è molto importante da capire: perché essere convinti di questo,
vuol dire entrare nella giusta “valutazione” della nostra vita; vuol dire
capire e accettare che tutto ciò che ci succede ha un senso, un suo significato,
un valore, anche se a prima vista noi non lo capiamo; o non lo vediamo; o addirittura
lo rifiutiamo perché lo consideriamo un male. Al contrario in tutto ciò che ci
succede, Dio ci parla, ci insegna, ci ammaestra: vuol farci entrare nella sua “logica
divina”. Quando chiediamo, Lui risponde sempre alle nostre domande: anche se lo
fa in maniera diversa da come noi vorremmo. Quando lo cerchiamo, Lui c’è; è
sempre pronto a farsi trovare, anche se spesso non ci accorgiamo di lui. Quando
bussiamo, Lui ci spalanca immediatamente porte e strade, anche se non sempre coincidono
con quelle che vogliamo noi. Una cosa ci deve sempre confortare e rassicurare: che
Lui non ci farà mai del male, non ci ferirà mai: anche quando non lo capiamo, noi
dobbiamo fidarci ciecamente di Lui; perché noi, in realtà, non sappiamo nulla, non
vediamo oltre il nostro io, non sappiamo cosa sia veramente buono per noi, soprattutto
non sappiamo cosa ci riserverà il nostro domani: sarà un domani radioso? Oppure
sarà un domani irto di prove e di contrarietà? Abbandoniamoci allora a lui, e lasciamo
fare a Lui, a Dio. Un mio amico monaco era solito ripetere: “Io so che Dio mi è
padre... questo mi basta”. Amen.
«Gesù entrò in un villaggio e
una donna, di nome Marta, lo ospitò. Ella aveva una sorella, di nome Maria, la
quale, seduta ai piedi del Signore, ascoltava la sua parola. Marta invece era
distolta per i molti servizi» (Lc 10,38-42).
Continuando
il suo viaggio verso Gerusalemme, Gesù ad un certo punto decide di fermarsi a
casa di due donne sue amiche: Marta e Maria (sorelle di Lazzaro). Per noi si
tratta di un normalissimo gesto di cortesia e di amicizia; ma così non era ai
tempi di Gesù, che in questo modo ha infranto ancora una volta usanze, schemi e
convenienze dell’epoca. Poco male: Gesù aveva già dimostrato di infischiarsene
altamente di tutte quelle regole assurde, di quelle stupide prescrizioni legali
e non, da tutti tenute in grande considerazione.
Il suo
è un atto “sovversivo”, un atto provocatorio, col quale intende rovesciare una
mentalità, un modo di pensare e di agire, assolutamente inutile e mortificante.
Gesù non è stato l'uomo di pace che intendiamo noi: noi siamo cresciuti con
l'immagine di un Gesù “buono e dolce”, di uno che non litiga mai, che appiana
ogni contrasto, che non entra mai in alcun conflitto. Ma il vangelo ci dimostra
che non era così. Gesù era un punto di rottura, un “rivoluzionario”, un uomo
che volutamente rompeva con la falsità dell’epoca. Non dobbiamo mai dimenticare
che non è stato ucciso perché il suo messaggio non era “buono”, ma perché era un
messaggio “nuovo”.
Storicamente
dunque le cose devono essere andate così: Gesù arriva nel villaggio di Betania:
è molto stanco, nel corpo e nello spirito, e decide quindi di fermarsi a casa delle
due donne.
A
questo punto Marta, colta di sorpresa, si agita e si preoccupa subito per preparargli
da mangiare, per accoglierlo, per mettere in ordine la casa, in modo che tutto sia
in ordine, all’altezza dell’ospite. La sua è pertanto un’accoglienza pratica,
“esteriore”.
Maria,
invece, accoglie Gesù interiormente, lo accoglie spiritualmente: lo ascolta,
ascolta il suo cuore, le sue difficoltà, la sua stanchezza, le sue paure. Un
comportamento diverso, quello delle due sorelle: materiale, attivo quello di
Marta, spirituale, contemplativo quello di Maria. E Gesù è proprio da questi due
diversi comportamenti nei suoi confronti, che trae lo spunto per il suo
insegnamento.
Marta
non è cattiva; anzi, al contrario, è lei che accoglie Gesù e gli offre una
ospitalità confortevole. Anche Lei, come la sorella, vuol veramente bene a
Gesù: il vangelo dice che lo accoglie “nella sua casa”; vale a dire che anche
Lei lo accoglie nel suo cuore, dentro di Lei, nei suoi sentimenti, nella sua
parte più intima e personale (casa). Ma allora in che cosa sbaglia? Perché è
lei che decide, di sua iniziativa, ciò di cui Gesù ha più bisogno in quel
momento. Nella sua semplicità ha pensato di anteporre i bisogni pratici, le
necessità materiali dell’ospite, piuttosto che intrattenerlo con i saluti, con
i convenevoli, con lo scambio di effusioni e di confidenze. Ha pensato che
fosse più urgente cucinare la cena, preparargli la camera, rassettare la casa ecc.;
tutte cose indispensabili, ma che non devono essere anteposte alla gioia di
stare un po’ con l’amico; cose che oltretutto vanno fatte con discrezione, con
naturalezza, senza farle pesare all’ospite, per non metterlo in ovvio imbarazzo.
Gesù infatti, quando arriva in casa delle sorelle, di che cosa ha più bisogno?
Non certo di mangiare, di bere, di una casa pulita. Ha bisogno invece di essere
accolto, abbracciato, rassicurato, ascoltato. Ha bisogno di parlare, di
confidarsi.
Marta questo
non l’ha capito. E rimprovera addirittura la sorella perché non le da una mano.
Marta purtroppo è una di quelle persone, tanto comuni anche oggi, che sono
sempre in movimento, che risolvono tutto loro, che si distruggono nel lavoro: ora,
di fronte ad una così, che si disfa letteralmente nei lavori di casa, che lavora
per noi, che ci prepara da mangiare, che lava e stira, che ci fa trovare tutto
in ordine, come facciamo a chiederle ancora qualcos’altro per noi? Quante volte
infatti abbiamo sentito da queste persone lamentele del tipo: “Che volete ancora
di più? Ho dato tutta la mia vita per voi! Ci ho rimesso la salute! Ho vissuto solo
per voi! Ho lavorato anche sedici ore al giorno per farvi stare comodi!”. Hanno
sicuramente ragione, ma sono persone che così dicendo vogliono soprattutto farci
sentire in colpa, vogliono farci pesare tutto quello che fanno per noi. È un
modo inconscio per eludere qualunque tipo di colloquio, per non farsi
coinvolgere su un livello più confidenziale, più intimo, più personale: “Mi
pare di aver fatto abbastanza per voi: non chiedetemi altro, non chiedetemi anche
di accogliervi, di farvi le moine, di ascoltarvi, di esaudire i vostri capricci”.
Marta quindi
si sentiva al sicuro, era certa di essere nel giusto: “Mi sto distruggendo per
te, caro Gesù; sono io che provvedo a te, non ho tempo per le chiacchiere di
mia sorella!”. È vero: Marta fa tanto, ma non fa quello che realmente serve a
Gesù. Anzi, a ben vedere, è lei e non Gesù, che ha un grande bisogno di essere
riconosciuta, accettata, coccolata. Ma questo suo bisogno non le è chiaro, non
lo conosce abbastanza, non lo esprime; e così, indispettita, si lancia in accuse
contro la sorella e Gesù. È risentita Marta; il suo cuore ribolle dalla rabbia
per come stanno andando le cose; vorrebbe che Gesù le dicesse: “Ma che brava
che sei! Che cena squisita! Che bella casa! Quanto hai fatto per me: grazie di
cuore!”. Ma non succede…
Quante
volte capita anche a noi di non essere chiari con noi stessi e con il prossimo!.
Quante volte diciamo una cosa e ne pensiamo un’altra; vorremmo una cosa, ma non
abbiamo il coraggio di chiederla apertamente. Così, per esempio, quando diciamo:
“Non mi telefoni mai!”, in realtà vorremmo dire: “Avrei piacere di sentirti;
avrei piacere di parlare con te, vorrei che fossi tu a cercarmi qualche volta!”.
Invece di dire: “Non sei mai a casa!”, vorremmo essere più chiari e dire: “Vorrei
che tu ed io stessimo più insieme! Ho bisogno del tuo aiuto. Ho bisogno che tu
ti sieda qui, che mi ascolti, che mi dia un po’ del tuo tempo. Ho bisogno di
te; ho bisogno che tu stia con me; ho bisogno di sentire il tuo amore; ho
bisogno di sentirmi dire che valgo, che sono importante per te”. È chiaro che
troppo spesso ci comportiamo così per paura: perché essere più chiari, più
espliciti, ci farebbe sentire anche più deboli, più vulnerabili. E allora
facciamo come Marta: accusiamo. Spesso è infatti più facile accusare che
manifestare i nostri sentimenti, i nostri bisogni interiori, le nostre
aspirazioni; è molto più semplice attaccare, colpire gli altri, che mostrarci noi
vulnerabili e bisognosi.
Marta
non ha dubbi: Gesù in casa sua deve trovarsi sicuramente bene: è lei che gli ha
messo a disposizione il massimo confort possibile, per cui si aspetta di
sentirsi almeno dire: “Che brava donna!”. Ma questo, cara Marta, è il tuo di
bisogno, non quello di Gesù. Sei tu che hai deciso tutto di tua iniziativa. Perché
non hai chiesto invece a Gesù cosa gli avrebbe fatto piacere? Era così
semplice! Invece no, ti sei indaffarata come una matta per fare di testa tua,
per poi offenderti, sentirti vittima, delusa, tagliata fuori. Ti senti offesa, trascurata,
perché Gesù preferisce intrattenersi con tua sorella piuttosto che con te; ma
tu non hai fatto nulla per aprirgli il tuo cuore.
Ecco
perché, fratelli, dobbiamo imparare a riconoscere i nostri bisogni; a
riconoscere sempre le nostre aspettative, ad esprimerle, senza proiettarle
sugli altri, pretendere che siano gli altri a capirle, irritandoci se ciò non succede.
È evidente che Marta e Maria non si parlano, non si dicono nulla. Perché Marta
non è diretta, esplicita, con sua sorella? Perché non le chiede apertamente di
darle una mano? Perché invece mugugna sotto sotto? Perché cerca di portare Gesù
dalla sua parte contro di lei?
Quante
persone sono incapaci di affrontare le persone con le quali hanno dei malintesi!
Vanno dal vicino, dal collega, dall’amico: ne parlano con tutti, meno che con
gli interessati. Ma che c'entrano gli altri? Abbiamo una questione con Caio? Andiamo
da Caio. Abbiamo un conto in sospeso con Tizio? Andiamo da Tizio. Andare da un
altro non serve a nulla, se non a farci compatire. Così la moglie si sfoga con
le amiche di quanto il marito sia insensibile, chiuso, egoista, uno che pensa
solo a quello. E il marito dal canto suo si sfoga con gli amici su quanto lei sia
paranoica, una che pensa sempre e solo all'ordine in casa, una a cui non si può
mai dire niente. Parliamone tra noi, invece! Diciamoci ciò che non va! Cercare consensi
dagli altri significa volersi sentir dire che siamo noi dalla parte del giusto,
della ragione; che è l'altro ad avere torto. Bella soddisfazione: non è certo
questo che ci risolve la questione.
Maria,
al contrario di Marta, coglie subito il bisogno di Gesù e lo ascolta. Non è lei
che decide ciò di cui Egli ha bisogno. Quando arriva, non dice una sola parola,
lo ascolta semplicemente, si fa vuoto, spazio, perché Gesù entri e si senta
pienamente accolto.
Quando
dobbiamo incontrare qualcuno, non assilliamoci a priori: “Che gli dirò?
Riuscirò a sostenere un discorso? E se mi chiede qualcosa cui non so
rispondere? Riuscirò a capirlo? Sarò efficace?”. Impariamo ad ascoltare. Il
resto viene da sé. Non pretendiamo di cambiare le persone secondo i nostri
gusti.
Facciamo
come Maria: creiamo accoglienza, svuotiamoci di noi stessi, del nostro ego
onnipresente, creiamo spazio perché possano entrare, portare se stessi, mostrarsi
per quello che sono. Offriamo loro quella stessa ospitalità che tutti noi vorremmo
ricevere.
Il
vangelo dice che Maria stava ai piedi di Gesù. Stare a contatto con i piedi,
con la terra (humus), indica prima di tutto un atteggiamento di umiltà
(humilitas). Ed è così, come Maria, che dobbiamo accogliere i nostri fratelli;
dobbiamo far capire che siamo lì completamente per loro. Essi lo sentono, lo
percepiscono: e in quel nostro spazio d'amore essi potranno esprimere le loro
paure, le loro angosce, le loro aspettative, i loro bisogni, i loro amori, le loro
contraddizioni, le loro ambiguità, i loro lati d'ombra, i loro sogni
impossibili; lì avranno uno spazio dove piangere e dove ridere; uno spazio dove
disperarsi ed essere abbracciati; uno spazio dove sentirsi al sicuro, protetti,
dove rifugiarsi. Perché incontrare noi, per loro, deve essere come per Gesù incontrare
Maria: incontrare cioè l'amore vero, l’amore autentico.
Invece
di costruire case e palazzi, costruiamo invece “amore”, e tutto il mondo diventerà sicuramente
migliore. Perché soprattutto di amore noi abbiamo bisogno. Poi verrà anche Marta,
con il lavoro, la casa, il cibo, le cose da fare, i problemi, le pulizie, il riordinare
e quant'altro. Ma prima di tutto c’è la carità, l’amore, c’è Maria: questa è
l'unica cosa di cui il mondo ha veramente bisogno. Questo è l'essenziale, è ciò
che non può esserci tolto; altrimenti soffriremo e moriremo tutti dentro,
accartocciati nella nostra aridità. Amen.