«In verità io vi dico: nessun
profeta è bene accetto nella sua patria... Egli, passando in mezzo a loro, si
mise in cammino» (Lc 4,21-30).
La
pagina del vangelo di oggi è il seguito di quella di domenica scorsa. Siamo
nella sinagoga di Cafarnao. Gesù ha appena ultimato la lettura e la spiegazione
del passo di Isaia: “Lo Spirito del Signore è sopra di me”. Nel silenzio
profondo che ne segue, tutti si meravigliano, rimangono stupiti: “Ma come, non
è il figlio di Giuseppe? Eppure dice proprio delle belle parole; parla bene; ci
piace proprio”. Sembrano tutti accoglienti, ben disposti: ma è solo un
comportamento di superficie. Ben presto, infatti, messi di fronte alle parole
chiare ed esplicite di Gesù, si lasciano andare alla rabbia, vengono sopraffatti
dall’ira e da tutta una serie di pregiudizi; improvvisamente innalzano nei suoi
confronti delle barriere, reagiscono con violenza, lo cacciano dalla sinagoga e
dalla città, e tentano addirittura di ucciderlo; ma è Gesù che, passando in
mezzo a loro, spontaneamente se ne va, riprende la sua strada. È lui che se ne va: anche se lo fa contro voglia; la chiusura dei suoi compaesani è determinante, è come eliminarlo dalla loro comunità, cacciarlo; escluso
perché scomodo, perché va contro la loro mentalità chiusa e rancorosa. Le sue
parole costituiscono per loro un problema. Che altro poteva fare Gesù? La sua è un’amara
constatazione: «In verità io vi dico: nessun profeta è bene accetto nella sua
patria». È triste, ma è proprio così.
Quelli
che lo respingono sono infatti i suoi concittadini, gente conosciuta; sono quelli che
puntualmente si riuniscono tutti i sabati in preghiera nella sinagoga: persone che però hanno sì la
religione nel cuore, ma non hanno Dio. Pregano dentro la “casa di Dio”, ma sono senza Dio;
innalzano preghiere, ma non pregano. Hanno Gesù, ma non ne capiscono il valore e lo buttano fuori dalla loro vita.
Una
constatazione quella di Gesù che, fratelli, deve farci pensare seriamente. Un “ante litteram”
di ciò che succede anche oggi, di ciò che ci vede disinvolti protagonisti ai nostri
giorni.
Anche
noi andiamo in chiesa, ma troppo spesso dimostriamo di essere senza Dio. Andiamo in
chiesa ma siamo contro Dio; non condividiamo la sua Parola. Né più né meno di
come è successo allora, a Nazareth.
Anche
noi vorremmo un Gesù diverso; vorremmo cambiarlo; lo vorremmo secondo le nostre
idee, i nostri schemi, i nostri parametri: e quando vediamo che Gesù non è così,
lo rifiutiamo. Rifiutiamo in pratica colui che può salvarci, che può guarirci;
rifiutiamo stoltamente colui che costituisce tutta la nostra vita.
Quante
volte vorremmo le persone diverse da quel che sono: vero? Le vorremmo come noi; secondo
le nostre esigenze, fatte tutte su misura per noi, in un certo modo; vorremmo che tutto il mondo
fosse esattamente come noi lo immaginiamo. Ma le persone, al contrario, sono quelle che sono, sono come
sono; questa è la realtà. Volerla diversa, rifiutarla, significa voler evadere
dal presente, dalla vita di ogni giorno, dalla realtà.
Quante
volte, fratelli, noi rifiutiamo a priori situazioni, sollecitazioni, incontri,
esperienze che giudichiamo ostili, difficili, non comprensibili. Solo se
avessimo un po' di pazienza in più, un po' di apertura mentale in più, questi input potrebbero
essere la nostra salvezza.
Gesù
viene rifiutato dall'uomo, dal pregiudizio umano, da chi vuole modellarlo
secondo le proprie idee, da chi lo vuole adattare alle proprie esigenze. Noi
infatti, nel nostro egotismo, abbiamo già in testa come dovrebbe essere il nostro Dio; sappiamo già come
dovrebbe comportarsi con noi, quali cose dire, quali miracoli fare. E poiché ciò non può essere,
lo escludiamo dalla nostra vita. Lo accogliamo fino a quando corrisponde alle nostre
idee; ma appena ci accorgiamo che è diverso, che non scenderà mai a compromessi
con noi, con il nostro ego, con la nostra ottusità, automaticamente lo
escludiamo. E non solo con Dio: noi ci comportiamo allo stesso modo anche con
chi ci sta vicino, con i nostri confratelli, con i parenti, con gli amici: non
rientrano nei nostri schemi? Li eliminiamo: “Fuori”, “Via”!
Ma che
amore può avere per gli altri chi si costruisce un Dio a modo suo? Che razza di
amore può nutrire chi accetta il prossimo solo quando gli va bene? Che amore è
quello di chi pretende di regolamentare la vita degli altri a modo suo?
È in
questo modo, fratelli, che escludiamo il Dio-Verità dalla nostra vita: è così
che obblighiamo Gesù a lasciarci, ad andarsene; non lo fa di sua iniziativa, siamo
noi che lo buttiamo fuori.
Il
pregiudizio dei compaesani nei confronti di Gesù, è la stessa arma che usiamo anche noi continuamente
contro i nostri fratelli, contro i nostri colleghi: “Ma chi ti credi di essere?
guarda che ti conosco bene; abbassa la cresta”. Dove non possiamo emergere per meriti personali,
ci arriviamo calunniando gli altri: “Lo sai di chi è amico? Lo sai che frequenta
gente di malaffare, che è un poco di buono, un mangione, un beone, un
parassita?”. Vecchia tecnica: facendo terra bruciata intorno a noi, automaticamente saremo i soli ad emergere; per innalzare noi stessi, abbassiamo gli altri.
Purtroppo
le persone che criticano tutti, che hanno da ridire su tutti, che non si fidano
di nessuno, dimostrano di essere dei meschini, di avere un animo piccino e vuoto:
alla fine, quello che dicono degli altri, corrisponde esattamente alla loro
immagine, a quel che provano nel loro cuore avvizzito. È vero: quando sparliamo degli altri, senza saperlo, descriviamo solo noi stessi. Quanto staremmo meglio noi, invece, quanto male gratuito,
quante sofferenze eviteremmo, soltanto se fossimo più aperti, più sensibili, meno
acidi nel criticare, più umili nell’ascoltare gli altri e più cauti nel
sentenziare!
Ma “queste
cose non ci appartengono”, pensiamo convintamente: “noi siamo credenti, mica siamo pagani, non ci abbassiamo a tanto!”. Fratelli mie: Gesù non fu
ucciso dagli atei, dai pagani o dai miscredenti; fu ucciso dai credenti
più credenti di tutti; così credenti, così
pii, così zelanti, che nel loro cuore non avevano più spazio per niente e per
nessuno. Gesù per le vie della Palestina annunciava la Buona Nuova (il Vangelo):
fu ucciso non perché non era buona,
ma perché era nuova. Gesù mandava in
frantumi gli schemi, i pregiudizi e le visuali dei “sapienti” dell’epoca, stravolgeva
la loro idea tradizionale di Dio, della Legge, del prossimo. Annunciava un Dio
diverso, e i “fedelissimi” della Legge non gliela perdonarono; annunciava un
Dio amico anche delle donne, e i maschilisti del tempo gliela fecero pagare; annunciava
insomma un Dio della vita: e non era in contraddizione tra ciò che diceva e ciò
che faceva; annunciava un Dio della giustizia, un Dio che condanna le falsità e
le ipocrisie nascoste:e i nobili e i ricchi si sentirono chiamati in causa in
prima persona. Annunciava un Dio che rompeva con una tradizione fatta di
sterili regole: e i rispettosi delle regole si sentirono spiazzati nel loro
orgoglio di fedeli conservatori della Legge.
Per
questo Gesù non venne accolto a casa sua: e dunque, vistosi rifiutato, se ne
va. A Gesù non interessava essere riconosciuto come messia, quel messia che la sua
gente aspettava. Ciò che prima di tutto gli stava a cuore era essere se stesso,
mantenersi fedele al Suo Dio, al Padre, e alla Sua verità: questo era per Lui il
Messia.
Gesù è
rimasto sempre e profondamente se stesso. Gesù non ha mai tradito il suo nome,
la sua vocazione, la sua chiamata e la sua missione. Per questo Egli è un uomo
compiuto. E quando sulla croce dirà: “Tutto
è compiuto”, intende dire che tutto ciò che doveva fare, tutto ciò che
poteva fare, Egli l'ha fatto: ha vissuto la sua vita, compiendo fedelmente la
missione per cui Dio lo aveva mandato in questo mondo.
Gesù
non ha permesso al pregiudizio di limitarlo: anzi, quando poteva, lo attaccava
direttamente sotto qualunque forma gli si presentasse; quando non poteva farci
nulla, se ne andava altrove. Perché non c'è peggior sordo di chi non vuol sentire.
Non gli
importava molto cosa la gente dicesse o pensasse di lui. Non gli importava di essere
gradito, ammirato, accettato. Era un uomo libero. Per questo poteva permettersi
di dire le cose come stavano; per questo sostava con i poveri e con i ricchi,
per questo era libero di incontrare e abbracciare chiunque, perfino le donne, di
ascoltarle, di toccarle.
Non
c'era pregiudizio nella sua mente e neanche nel suo cuore. Non gli interessava conoscere
cosa la gente pensasse di lui; non gli interessava sapere cosa l'opinione
pubblica pensasse di quelle persone che incontrava: se doveva o voleva
incontrarle, le incontrava, senza curarsi del parere di nessuno. Gesù, a
differenza di noi, in tutta la sua vita terrena fu sempre un uomo autentico, fu
sempre se stesso. Solo chi è libero da qualunque pregiudizio può vivere completamente
e serenamente la propria vita: in caso contrario, non vive la propria vita ma quella
degli altri; vive una vita non sua, un doppione, una fotocopia; una esperienza
alienante, deludente e deprimente. Chi è fedele a se stesso non sarà mai
tradito dalla vita; il male peggiore, infatti, sta proprio nel rinunciare a se
stessi, alla propria anima, alla propria chiamata. Questo è il grande peccato
dell'uomo, e questo è il peccato che egli deve superare e vincere ad ogni costo.
“Passando in mezzo a loro se ne
andò”. Sicuramente
le cattiverie, le insinuazioni dei suoi concittadini, hanno fatto male a Gesù:
bassezze del genere non possono che ferire. Ma lui è passato a testa alta in
mezzo a tanto lordume; niente non lo ha “smontato”, niente lo ha bloccato. Certo
ha sofferto, sì, il suo cuore ne è rimasto amareggiato, ma Lui ha proseguito per
la sua strada. Gesù è rimasto se stesso, è rimasto il Figlio di Dio, ha
continuato imperterrito la sua missione. Impariamo da Lui, fratelli: non lasciamoci
condizionare dal male, non permettiamo alle malelingue di sviarci dai nostri
buoni propositi. Affidiamoci a Lui, e vedrete che nessuno mai potrà fermarci.
Amen.
«Poiché molti hanno cercato di
raccontare con ordine gli avvenimenti che si sono compiuti in mezzo a noi, come
ce li hanno trasmessi coloro che ne furono testimoni oculari fin da principio e
divennero ministri della Parola, così anch’io ho deciso di fare ricerche
accurate su ogni circostanza, fin dagli inizi, e di scriverne un resoconto
ordinato per te, illustre N.N., in modo che tu possa renderti conto della
solidità degli insegnamenti che hai ricevuto». Lc 1,1-4; 4,14-21.
Sono
le parole di apertura del Vangelo di Luca. Le ho volutamente adattate, rivolgendole
a te, sconosciuto visitatore di passaggio, pregandoti di fermarti qualche istante
per leggere queste brevi considerazioni.
Fermati e ascolta: forse Dio ora vuol parlare proprio a te.
Quante volte è capitato nella nostra vita: se ci succede di ascoltare, anche casualmente, un abile oratore,
uno che ci colpisce immediatamente per la correttezza nel parlare, per la profondità e la condivisibilità degli argomenti trattati, il nostro primo impulso
è di conoscerlo, di informarci da dove viene, di conoscere la sua storia, le sue origini, quali
sono i suoi amici, le sue esperienze, i suoi studi, l’ambiente in cui vive, in una parola ci interessiamo alla
sua vita.
Ebbene:
noi che ci definiamo persone religiose, che ci professiamo cristiani, noi che
ascoltiamo anche frequentemente in chiesa la sua Parola, che la troviamo giusta, consolante, piena di amore e speranza, non siamo per niente interessati
a conoscere la persona di Gesù, ad approfondire la sua vita, i suoi insegnamenti. La sua figura non ci
interessa, non ci appassiona, non ci crea alcun imbarazzo ignorare tutto, o quasi, di
lui.
Eppure
noi diciamo di avere “fede”: si, certo, noi abbiamo fede, ma fede in chi? Su
che cosa? Su cosa appoggia la nostra fede? Possibile che Dio sia l’ultima delle
nostre preoccupazioni? Allora, fratelli, siamo onesti con noi stessi; non
riempiamoci la bocca di surrogati, tanto per far bella figura. Riconosciamo a
noi stessi di non avere le idee chiare, quando le abbiamo, su fede in Dio, sul
soprannaturale, sulla vita eterna, su come dobbiamo comportarci col prossimo, su
come dobbiamo pregare e chi pregare. La nostra fede non è per niente solida, fratelli: non
poggia su un terreno sicuro; al massimo si basa sul sentito dire, su qualche
ricordo nebuloso della nostra infanzia, su delle usanze che abbiamo continuato
a mantenere anche da adulti, senza magari chiedercene mai la ragione di fondo.
Beh,
lo capiamo da noi: questo non è avere fede, non è vivere la propria fede. Non è
essere cristiani. Chi cerca di amare Gesù, lo vuole ovviamente conoscere: lo
vuole approfondire, vuole entrare nella sua vita, vuole rapportarsi con lui,
vuole in qualche modo “sperimentarlo”; vuole entrare nel suo mondo, guardare le
cose dal suo punto di vista: anche solo per provare! L'amore è conoscenza,
fratelli, e la conoscenza è amore.
Una
delle nostre grandi lacune, che è la stessa anche di molti preti, è che rischiamo
di fare molta morale ma poco vangelo. Siamo molto esigenti con gli altri e
molto poco con noi. Non conosciamo e non facciamo conoscere abbastanza il Dio
di Gesù. Cerchiamo di insegnare ai nostri figli, agli amici, a chi ci sta a
cuore, cosa devono o non devono fare; cosa devono fare per vivere bene,
serenamente: ma ci guardiamo bene dal mostrare con l’esempio la figura di Gesù.
In compenso facciamo tanta “politica” su Gesù: utilizziamo la sua parola, il
suo vangelo, i suoi insegnamenti solo per determinati scopi. Ma non facciamo
vedere a nessuno quanto grande sia il suo cuore, quanto la sua anima divina sia
presente tra noi, quanto la sua umanità sia sconfinata, e come metta continuamente
a nostra disposizione il suo amore senza limiti.
Purtroppo
il perché di questo disinteresse è dentro di noi: è evidente che noi per primi non
siamo innamorati di Lui. E, lo ripeto, non possiamo conoscere e far conoscere agli
altri qualcuno del quale noi stessi conosciamo troppo poco, di cui non siamo
innamorati. Non possiamo peraltro impegnarci, dare la vita a chi nel profondo
del cuore, ci è indifferente. Non possiamo fidarci di uno che consideriamo un
nemico, un controllore, un “rompi”, un ostacolo alla nostra felicità. E Gesù,
d’altro canto, non ci può guarire se noi non lo vogliamo, se non ci abbandoniamo
a Lui, se non crediamo in Lui, se non sentiamo che Lui è la Vita vera,
profonda, intensa.
È
questa un po’ la nostra situazione, fratelli! Immaginiamo di essere in regola
solo perché di domenica continuiamo a frequentare la messa. Oppure ci sentiamo
spiritualmente e religiosamente impegnati solo perché ci interessiamo a livello
sociale di iniziative umanitarie, perché ci sentiamo sensibili alle
problematiche mondiali, o perché simpatizziamo per i vari santoni oggi tanto di
moda; per quei “guru” commerciali, emeriti ciarlatani, che mediaticamente propongono
le loro fasulle teorie, magari condite da un eccentrico ascetismo
orientaleggiante. Seguiamo purtroppo le mode. E abbiamo sempre più paura di
guardarci dentro.
E
invece dovremmo chiederci il perché di tutto questo. Dovremmo farlo con onestà,
senza barare con noi stessi.
Certo,
non è che il comportamento dei cristiani di oggi ci sia di particolare aiuto: siamo
infatti circondati da tanti credenti, pastori, ministri, laici impegnati, che
sono spiritualmente atrofizzati, senza entusiasmi, senza iniziative. Persone
che si limitano solo allo stretto indispensabile, senza riuscire a trasmettere
nulla. Persone che non si aggiornano, che non si affinano nello studio e nella
preghiera, che non sono spinte dall’entusiasmo di vivere e condividere con i
fratelli il messaggio di Cristo. Persone che non combattono più per i loro
ideali. Persone, in una parola, che non hanno più fede.
Ebbene,
fratelli, per quanto ci riguarda non temiamo di conoscere Cristo, non continuiamo
a rimanere nell'ignoranza: se abbiamo il coraggio e la forza di metterci sotto
la sua luce, diventeremo sicuramente illuminati. Non accontentiamoci di quello
che si dice in giro, di quello che i media ci trasmettono: ma, come Luca, cerchiamo
la Verità, verifichiamola, studiamola, applichiamola a noi stessi, alla nostra
vita, umilmente, con i piedi per terra e con gli occhi fissi sul Suo volto.
Ascoltiamo,
oggi, la voce di Gesù che ci legge il rotolo di Isaia: «Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con
l’unzione e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio». A seguito
del nostro Battesimo, siamo tutti degli “unti” del Signore. Attualizziamo le parole della Scrittura. Tutto quello che Gesù ci insegna
nel Suo Vangelo, non è un qualcosa di anacronistico, una bella storia di ieri;
ma è un viatico per oggi, un qualcosa di molto importante che ci riguarda tutti
da vicino.
Quando
ci avviciniamo al Vangelo, noi leggiamo la nostra vita: l’“oggi” della nostra
vita. Quello che troviamo scritto lì, è proprio quello che ci serve oggi. Se
veramente sentiamo quelle parole dentro di noi, vuol dire che parlano a noi di noi.
Magari le abbiamo già udite centinaia di volte, ma forse non le abbiamo mai “sentite”.
Non abbiamo capito il loro messaggio: “Ai
poveri il lieto annuncio, ai prigionieri la liberazione, ai ciechi la vista, la
libertà agli oppressi”. Sì, fratelli: Cristo è venuto proprio per noi;
perché poveri, prigionieri, ciechi, oppressi, oggi lo siamo tutti noi. Lo siamo
noi e lo sono tutti i nostri prossimi.
«Lo Spirito del Signore è sopra
di me, per questo mi ha mandato»:
Dio ha mandato anche noi: per cui le sue parole devono essere le “nostre”
parole; Dio parla di noi, a noi. E lo fa oggi; anche se a noi, guarda caso, dà
fastidio che Lui ci scelga proprio oggi; perché abbiamo già tanto da fare,
abbiamo tanti altri impegni più importanti: i figli, la famiglia, il lavoro, la
casa, la macchina, i nostri divertimenti, il nostro riposo; non possiamo sconvolgere
così su due piedi tutte le nostre certezze. Vogliamo una vita serena, noi; una
vita tranquilla, senza scossoni, senza imprevisti.
C’è un
fatto però, cari fratelli: che se tutto quello che ascoltiamo dal Vangelo non
accade oggi, se non lo caliamo oggi nella nostra vita, quelle parole di Vita ci
scivolano via, rimangono lettera morta; allora il vangelo continuerà ad essere
per noi soltanto un bel libretto, un’operetta scritta bene, affascinante, un piccolo
best-seller. Ma solo quello; per noi Gesù è morto e basta; Gesù non è più vivo,
non è più la nostra forza, il nostro coraggio; non può più dare senso alla nostra
vita.
Se gli
insegnamenti del Vangelo non ci toccano, non entrano dentro il nostro cuore,
non ci coinvolgono, non ci commuovono, allora non servono a nulla: tutto diventa
inutile, come inutile sarà la nostra vita.
Non
continuiamo a perdere il nostro tempo pensando a cosa sarebbe meglio fare, a
come lo dovremmo fare: facciamolo e basta. Facciamolo oggi. Dobbiamo dire
qualcosa a qualcuno? Diciamola oggi! Dobbiamo scusarci? Facciamolo oggi. Dobbiamo
intraprendere un nuovo cammino? Partiamo immediatamente. Oggi, subito: domani
sarà tutto più difficile di oggi; “oggi” e non domani, perché “domani” è la
voce della nostra paura; rimandare a “domani” vuol dire non farlo “mai” più!. Allora
prendiamo subito in mano il timone della nostra vita, e illuminati dalla luce
del Vangelo, decidiamo immediatamente la rotta da seguire. Amen.
«In quel tempo, vi fu una festa
di nozze a Cana di Galilea e c’era la madre di Gesù. Fu invitato alle nozze
anche Gesù con i suoi discepoli» (Gv 2,1-12).
Quello
di nozze, banchetti, feste, è un tema piuttosto ricorrente nel vangelo. Il Dio
di Gesù è il Dio della gioia, delle feste, della felicità, dei sani piaceri della
vita. Non si può comprendere il Dio della croce se non si comprende prima
questo Dio. Dio vuole la felicità e il piacere per ogni uomo. Dio ci vuole
felici, ricordiamocelo! Ma perché mai l’hanno ridotto un Dio burbero, serio, triste,
imbronciato, che pretende da noi solo sacrifici e offerte? Dio non è nella
noia, nel trattenersi, nel chiudersi, nel non provarci per non peccare, nelle
formalità esteriori. È il Dio della vita, delle persone appassionate, di chi
osa e vive intensamente. Di chi si dà da fare. Di chi sbaglia: l’importante è
accorgersene e rimediare.
Gesù
dunque è invitato alle nozze con Maria sua madre e i suoi discepoli. Viene da
pensare: è Gesù l’invitato, o è lui che invita tutta l’umanità alle nozze del
“vino nuovo”, alle nuove nozze dell’uomo con Dio? In quest’ottica il «non hanno più vino» che segue, acquista
un nuovo senso: gli uomini vorrebbero festeggiare le nozze, ma non possono. Non
sono più capaci di amore, di amare, di vivere. Non c'è più gusto nella loro
vita, non c'è più sapore nelle loro giornate. Quando si vedono in giro certe
facce, certi volti segnati solo dalla tensione e dalle rughe della chiusura, dobbiamo
amaramente constatare: “Qui non c'è più vino”. Quando leggiamo certi libri o
articoli su Dio, o ascoltiamo certe prediche, certi discorsi religiosi piatti,
formali, moralistici, che non hanno slancio, non hanno passione, convinzione,
fede, energia, dobbiamo amaramente constatare: “Qui non c'è più vino”. Quando vediamo
le nostre parrocchie impegnate solo nella burocratizzazione della loro azione
pastorale, attenta a non andare mai oltre i limiti orari fissati, a porre l’attenzione
solo sulle cose da non fare, limitando qualunque entusiasmo, qualunque
iniziativa, qualunque slancio creativo; quando trasmette solo frustrazione,
delusione e ansia; ebbene, dobbiamo amaramente constatare: “Qui non c'è più
vino”. Quando vediamo certe coppie che si trascinano nel loro matrimonio solo
per routine, con pesantezza, con screzi, litigi e ripicche continue, dobbiamo
amaramente constatare: “Qui non c'è più vino”. Quando le persone consacrate, i
preti, i frati, le suore, non provano più nessun impulso interiore, nessuna
commozione, non si stupiscono più, sono diventati cinici su tutto, allora dobbiamo
constatare amaramente: “Qui non c'è più vino”. Quando le persone si trascinano
stancamente, senza entusiasmo, senza voglia di vivere, senza sussulti, allora dobbiamo
amaramente constatare: “Qui non c'è più vino”.
E
allora, «Fate quello che vi dirà», ci
sussurra nostra Madre.
Nella
vita, fratelli, dobbiamo fidarci, dobbiamo af-fidarci a qualcuno e fare tutto
quello che ci dirà, anche se non lo capiamo, anche se lo troviamo strano.
Quando individuiamo una persona saggia, vera, trasparente, spirituale e sentiamo
di poterci fidare di lei, impariamo a fidarci totalmente di lei, anche se non
capiamo cosa ci dirà o perché ce lo dirà: “Fate quello che vi dirà”. A volte
non capiamo cosa la vita ci dica; anzi capiamo benissimo cosa ci propone ma ci
sembra stupido, irrazionale, illogico: “Fate quello che vi dirà”. A volte ci
porta lì dove non vogliamo andare e siccome non capiamo il perché ci diciamo
che non ha senso andarci: “Fate quello che vi dirà”. A volte ci diciamo che
certe cose sono difficili, ostiche, dure, che certe montagne non ha senso
affrontarle,quando ce ne possiamo stare in pianura: “Fate quello che vi dirà”.
A volte sentiamo che ci spinge o ci porta lì dove non vorremmo andare, che ci
invita ad esporci anche quando non sarebbe il caso: “Fate quello che vi dirà”.
A volte ci fa vivere esperienze dolorose, di sofferenza, di solitudine, di
rifiuto, di non-senso: “Fate quello che vi dirà”. Perché, fratelli, la salvezza
sta nel fidarsi di Dio, in quanto Lui, la Vita, non sbaglia mai.
«Vi erano là sei giare di
pietra per la purificazione dei Giudei». L'acqua di queste giare serviva per purificarsi,
per lavarsi. Sono i vecchi riti, le vecchie abitudini, le vecchie consuetudini
e norme: hanno il gusto dell'acqua stantia, putrida, che è diventata
inutilizzabile. Con quest'acqua non si può celebrare nessuna festa. Perché
proprio« sei»? Il numero sei (inferiore
del sette che significa la “perfezione”), indica i nostri limiti, la nostra
imperfezione: ci manca cioè “un qualcosa” di essenziale, di vitale; non siamo
completi. Siamo «di pietra»: una
specifica che indica non solo il materiale delle giare ma anche la nostra vita;
una vita dura, insensibile, rigida, pietrificata. Una vita che si è annacquata,
fossilizzata, sclerotizzata nei soliti rituali, nelle solite abitudini: ci manca
un respiro più ampio, diverso, un “oltre”. È come trascorrere giornate prive di
gusto, di sapore: si vive, ma senza senso, senza soddisfazione.
“La
giara di pietra” è il segno dell'irrigidimento della nostra devozione, delle nostre
regole religiose; è il segno di certi nostri riti religiosi, stantii e
ripetitivi, che non trasmettono più nulla, che non hanno più nessuna vitalità,
più nessuno slancio, che non possono metterci in comunicazione con il Dio della
Vita. Continuiamo a ripeterli solo perché lo abbiamo sempre fatto, perché l’abitudine
ci tranquillizza, è ciò che conosciamo, ciò che ci appartiene, ciò che non ci provoca
sussulti, non ci fa paura.
E non ci
accorgiamo neppure noi, come gli sposi del vangelo, che il vino è finito! Non
ci accorgiamo che siamo noi ad essere “esauriti”, vuoti, inservibili per noi e
per gli altri.
Ma
dove viviamo? Perché non pensarci prima? Purtroppo la routine, la quotidianità,
se non stiamo attenti, pialla tutto, appiattisce ogni cosa, anche i sentimenti,
anche l'amore. Se non c'è uno slancio più grande, se non c'è il desiderio di
qualcosa di oltre, se non c'è la ricerca per riempirci continuamente, per
uscire dalla monotonia, dalla ripetitività delle cose, allora davvero moriamo. Moriamo
lentamente, ma inesorabilmente, ogni giorno quando rinunciamo a fare qualcosa
di nuovo, di diverso. Moriamo lentamente, ma inesorabilmente, quando per paura
rinunciamo ad uscire dagli schemi e siamo sempre uguali. Moriamo lentamente, ma
inesorabilmente, quando rinunciamo a dirci tutto il bene che ci vogliamo, tutto
l'amore e la fortuna che abbiamo nel conoscerci. Moriamo lentamente ma
inesorabilmente quando non ci ricarichiamo, quando non frequentiamo nessun
incontro di più ampio respiro, con orizzonti più grandi, in modo da toccare la
ricchezza e la vitalità del nostro vivere e di quello che siamo. Moriamo lentamente
e inesorabilmente quando per pigrizia rinunciamo a quello che ci piacerebbe, a
quello che desideriamo perché ci costa un po' di fatica o un po' di faccia. Moriamo
lentamente, ma inesorabilmente, davanti alla tv, al bar con le solite quattro chiacchiere
inutili da osteria; con gli “amici” nella ripetitività delle solite cose da
affrontare e da fare. Moriamo lentamente ma inesorabilmente quando non ci fermiamo
a guardarci negli occhi; quando non ci guardiamo allo specchio e continuiamo a
mentirci, a dirci castronerie e “balle” (come se potessimo mentire a noi
stessi!); quando ci nascondiamo dietro alle nostre facciate, alla nostra
razionalità, intelligenza, cultura, sapere, solo per “incantare gli altri”.
Appariamo perfino bravi, acuti, profondi: ma stiamo solo sfuggendo a noi stessi,
a ciò che abbiamo dentro, al Dio della Vita che vorrebbe riempirci di vita. Moriamo
lentamente ma inesorabilmente quando deleghiamo le nostre responsabilità agli
altri, a questo mondo materialista, indifferente e apatico; a questa società ormai
depravata. Moriamo lentamente ma inesorabilmente quando non ci abbracciamo più,
quando non ci accarezziamo più, quando la tenerezza non alberga più nei nostri
occhi, nelle nostre mani e nel nostro corpo, perché l'unica cosa che ci
interessa è prendere, afferrare, conquistare, dominare. Moriamo lentamente ma
inesorabilmente quando non vogliamo più metterci in discussione, quando rinunciamo
ad imparare, a cambiare, ad evolvere: allora la crescita si blocca. La vita si
blocca. E questo succede quando andiamo a messa perché ci siamo sempre andati;
quando preghiamo perché lo abbiamo sempre fatto; quando crediamo, come abbiamo sempre
creduto. Tutto diventa freddo, tutto diventa “solito”, normale, piatto. Arriviamo
a temere il calore, le vibrazioni, i sussulti dell'esistenza e della Vita.
E
prima o poi, una certa mattina, nell’alzarci, non ci riconosceremo più: non ci
sarà più vino, non ci sarà più amore, non ci sarà più vitalità. Non ci sarà più
niente di niente, saremo vuoti, esauriti, finiti. Ecco, fratelli, scuotiamoci,
usciamo dal nostro torpore: questa è l’urgenza vera, questa è la nostra possibilità
di salvezza.
Gesù disse
loro di nuovo: «Ora attingete e portatene
al maestro di tavola. Ed essi gliene portarono». “Attingete”, perché Dio ha
già compiuto il miracolo: si tratta solo di attingere. Dio, creandoci, ha già
compiuto il miracolo; ci ha già fatto grandi: si tratta solo di attingere, di
crederci, di abbeverarci alle sue sorgenti profonde. Il miracolo si è già
compiuto, sta dentro ciascuno di noi, basta solo raggiungerlo, basta solo
tirarlo fuori, farlo emergere.
Chi è
capace di cambiare, di modificarsi, di evolversi, si salverà. Chi non è capace,
morirà, sommerso dal suo far niente. Si condannerà da solo.
Ecco, fratelli,
è questo l’insegnamento che in estrema sintesi dobbiamo cogliere dal vangelo di
oggi: se vogliamo salvarci, dobbiamo necessariamente “mutare”; dobbiamo cioè
trasformarci da acqua in vino; dobbiamo migliorare, imparare dai nostri errori
e crescere, crescere. Perché crescere significa soprattutto spalancare il
nostro cuore e la nostra mente alla luce e al calore dell’Amore. Amen.
«Il popolo era in attesa e
tutti, riguardo a Giovanni, si domandavano in cuor loro se non fosse lui il
Cristo, Giovanni rispose a tutti dicendo: «Io vi battezzo con acqua; ma viene
colui che è più forte di me, a cui non sono degno di slegare i lacci dei
sandali. Egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco» (Lc 3,15-16.21-22).
Giovanni
Battista è l’ultimo dei grandi profeti veterotestamentari: la sua predicazione
è molto attuale ed efficace e la gente lo segue con attenzione. In molti si
chiedono addirittura se non sia lui il Messia, il Cristo, l'Aspettato da sempre:
lo sentono parlare in maniera autorevole, decisa e provocatoria: “Convertitevi
perché la fine è vicina!”; di fronte a tanta determinazione, a tanta sicurezza nel
condannare senza paura ingiustizie e falsità, la gente corre da lui in massa per
farsi battezzare. L’immagine di Dio che egli trasmette è certamente quella di
un Dio che ama; ma è anche e soprattutto l’immagine di un Dio severo, di un giudice
imparziale, inflessibile, a cui non sfugge nulla, che nulla dimentica, che conosce
e vede ogni cosa; un Dio, quindi, che a tempo debito provvede a castigare in
maniera inappellabile tutte le falsità, gli inganni, i peccati degli uomini. Dio
– ci fa capire Giovanni ribadendo la Scrittura - è un padre paziente, ma la sua
pazienza ha un limite. Dobbiamo pertanto, prima che sia troppo tardi, correre
ai ripari, inchinarci e sottometterci a Lui, perché il Dio della paura esige solo la perfezione, non fa sconti, ma opera
con giustizia, rigore,intransigenza: ricompensa i giusti con il premio del
paradiso, e castiga i malvagi con la condanna all'inferno, allontanandoli dalla
sua presenza. È un Dio che non prevede la spensieratezza, la gioia gratuita, il
divertimento, ma incita ad un impegno continuo, massimo e progressivo; con Lui bisogna
essere sempre in presa diretta, guardando continuamente in alto, bravi,
perfetti, in regola.
Farsi battezzare
nel Giordano, decidere di purificare la propria vita e la propria anima con
l’immersione nell’acqua, è quindi per chi lo segue l’unica soluzione per
liberarsi da ogni scoria umana, per ricominciare a vivere e lavorare seriamente
alla realizzazione di quel progetto che Lui ha previsto per ogni creatura.
Ebbene,
anche Gesù segue il Battista; sono addirittura cugini: per lui Giovanni è un esempio,
il punto di riferimento, il maestro, uno dei più grandi profeti; e come tutti,
anche Gesù è lì al Giordano per il battesimo, confuso tra la folla, in umile
attesa del suo turno, simile in questo ai tantissimi che vogliono ottenere il
perdono per i loro peccati; ma al momento della sua discesa nelle acque del fiume,
tutto cambia, improvvisamente succede un fatto nuovo, impensabile,
straordinario, decisivo: quello che doveva essere un semplice evento “battesimale”,
assume un significato assolutamente inedito, sia per la vita terrena di Gesù,
che per la vita di tutte le creature: Gesù, per la prima volta, si rende conto
di quanto egli valga agli occhi del Padre, di fronte al suo Dio. Si rende subito
conto che il “suo” Dio, che è poi il
Dio del suo vangelo, è diametralmente l’opposto al Dio intransigente e severo di
Giovanni. Lo capisce immediatamente, in maniera inequivocabile: “No, Padre, tu
non sei così! Non c'è motivo di aver paura di te. Tu non sei come mi hanno
insegnato fino ad oggi; io che ora ti sto sperimentando, toccando, incontrando,
ti conosco veramente per quello che sei”.
È così
che un semplice “battesimo d’acqua”, acquista in Gesù un significato “altro”, diventa
un evento rassicurante, una solenne investitura, una certezza che lo sosterrà
in ogni istante difficile della sua missione terrena.
Oggi
infatti, più che al battesimo di Gesù
(egli non aveva alcun peccato da farsi “lavare”!) noi assistiamo alla sua “chiamata” ufficiale, all’esplicito invito
“paterno” di dare avvio alla sua missione. Ciò che Luca vuol qui descrivere, pertanto,
va ben oltre il significato di un avvenimento materiale, di routine; il suo è invece
un tentativo di esprimere una realtà nuova, inesprimibile: la trasformazione intima
di Gesù; un cambiamento interiore innegabile, che repentinamente si è reso visibile,
riscontrabile da tutti. Gesù da quel preciso istante è un altro uomo. La sua
stretta unione col Padre, prima personalissima e nascosta, diventa ora “riconoscibile”
da tutti, diventa di dominio pubblico, attraverso la successione di “segni” che
tutti hanno avuto modo di percepire:
«Cieli aperti», sottolinea Luca: il mondo del
cielo (Dio) e quello della terra (Cristo) sono in stretta, indissolubile comunione,
in costante collegamento; e sono aperti
per rendere possibile qualunque comunicazione.
«Discese sopra di lui lo
Spirito Santo in forma corporea, come una colomba»: non che ci fosse una colomba
in carne ed ossa; è un simbolismo per dire che veramente qualcosa di
soprannaturale è entrato in Gesù. Qualcosa che seppur invisibile, tutti sono in
grado di verificarne la presenza. È lo Spirito del Padre: Gesù l’ha veramente
sentito entrare in sé, ha percepito un cambio repentino, deciso, una rassicurante
osmosi reciproca di sentimenti d’Amore. Anche all'inizio della storia del
mondo, nel primo capitolo della Genesi, lo Spirito aleggia sulle acque; adesso però
(in forma di colomba) aleggia su Gesù; lì la prima creazione non ha funzionato:
l’uomo vecchio ha rovinato tutto; qui succede il contrario. Gesù è il nuovo
inizio della storia, segna l’inizio dell’economia salvifica; è l’uomo nuovo che
ricostruirà la primitiva armonia dell’umanità col Padre creatore. Lo Spirito
divino, l’Amore del Padre in simbiosi con quello del Figlio, ne è il garante. E
- come già successo nella Bibbia nei confronti di re, di giudici, di profeti, di
sacerdoti - lo Spirito di Dio scende sul prescelto, e indica a Gesù la
particolarità della missione che lo attende; una missione unica, personale,
indelegabile; una missione universale, divenuta urgente, improcrastinabile.
«Venne una voce dal cielo»: non si tratta di una voce
esterna, rumorosa (in quel momento Gesù è in preghiera); ma è una voce silenziosa,
interiore; ciò che Gesù sente, lo sente dentro di sé; sono parole rassicuranti,
che lo mettono di fronte a se stesso: “Io, Gesù, sono figlio di Dio; Lui è mio
Padre; gli piaccio (si compiace); io sono il Cristo; è mio Padre che mi ha voluto
così: sono il suo prediletto, il suo “messia” l’unto dal suo Spirito. Egli mi
ha inviato qui su questa terra, per compiere una missione ben precisa; ora è arrivato il momento: ora non posso più tardare; ora devo muovermi; Lui è con me!”
Il
centro focale del “battesimo” di Gesù non è quindi, come ho detto, la “purificazione”
da un peccato originale di cui era esente; ma è vivere questa “esperienza”
inedita della Voce del Padre che, mediante concetti e parole già espresse nella
Scrittura, gli fa capire e meditare: “Tu sei l’amato, tu ai miei occhi sei
grande, tu sei mio figlio prediletto, non ti lascerò; tu sei importante per me,
non ti abbandonerò, non mi sfuggirai dalla mia mano, nessuno ti rapirà da me;
tutto ciò che esiste l'ho creato per te; non lo devi conquistare, è già tuo; mi
appassiono a te, sei nei miei pensieri, non cadrai mai al di fuori dal mio
sostegno; non mi devi dimostrare nulla, io ti amo già per il solo fatto che sei
mio figlio; per quanto tu vada lontano io rimarrò sempre tuo padre e tua madre,
e tu sarai sempre mio figlio; tu sei per me come nessun altro; sei unico per me:
ti voglio bene, ti voglio bene, ti voglio bene…”.
È proprio
l’assorbimento intimo da parte di Gesù di tali concetti “messianici”, il suo
riconoscersi in essi, che determina oggi l’evento “battesimale” nella vita di
Gesù: un punto di non ritorno, una rottura definitiva col passato, un passaggio
obbligatorio da superare, durante il quale Egli prende chiaramente coscienza di
chi è e di cosa è chiamato a vivere e ad annunciare.
Che cosa
poi in concreto Gesù abbia vissuto o provato in quel preciso momento, non lo
sappiamo; ma ciò che possiamo dire con tutta certezza è che Lui non sarà mai
più lo stesso; da quell’istante Egli vive la certezza dell’amore paterno: sente
di essere amato e benvoluto dal Padre, al punto da non aver più bisogno di compiacere
nessun altro; da non doversi preoccupare più di nulla, da essere libero di fare
le proprie scelte e di seguire la propria strada, anche se contraria a tutte le
altre.
Una
vera e propria “chiamata” dunque. Sembra quasi che anche Gesù sia passato
attraverso quelle stesse sensazioni che per noi creature umane trasformano una semplice
chiamata in “chiamata di Dio”. Fatti
ovviamente i dovuti “distinguo”. Tutti noi infatti, chi più chi meno
distintamente, siamo o siamo stati oggetto di una speciale chiamata di Dio:
forse non ce ne rendiamo conto del quando e del dove, visto che non si tratta
di una chiamata tramite cellulare e neppure per “sms”. Ma per tutti, una tale
occasione, è unica, particolarissima, intensa, di grande intimità; un’esperienza
che continua nel tempo a rivoluzionarci il cuore e l’anima, un’esperienza da
cui non se ne esce mai come prima. È un incontro/scontro con qualcuno che ci
sconvolge letteralmente la vita, che ci rende completamente diversi. È una irruzione
(ir-rompo) di Dio, talmente imperiosa
e forte, da romperci dentro, da spaccarci, da sconquassarci, da destabilizzarci.
“Essere chiamati da Dio” significa percepire
un qualcosa che ci toglie il respiro, che ci spezza in due, che ci attraversa, che
ci lascia esanimi; uno stato d’animo che ci terrorizza tanto è grandioso e
bello. Per inciso: è proprio per questo motivo che una volta i monaci, i consacrati,
nell’abbracciare la vita religiosa, cambiavano il loro nome. Era un modo per indicare
una verità molto più profonda e personale: “da quando ho detto sì alla tua
chiamata, Dio, non sono più io; sono un'altra persona, ho un altro nome”.
Ecco, fratelli;
se anche noi vogliamo dare seguito alla “chiamata di Dio”, viverla con
l’entusiasmo che merita, dobbiamo prima “calarci”, discendere nel nostro Giordano: dobbiamo battezzarci, immergerci cioè nella nostra umanità, fatta di errori,
limiti, condizionamenti, paure, gelosie, invidie, rabbie, ostinazioni,
perversioni; dobbiamo fare i conti con tutto questo marciume; dobbiamo renderci
conto del non fatto, dell'incompiuto, delle occasioni perse, degli errori
ripetitivi; dobbiamo in una parola entrare in contatto con tutta la nostra
miseria, con il nostro niente di fatto, con tutte le situazioni peccaminose e
mortali che rendono asfittica la nostra vita. E soprattutto dobbiamo correre ai
ripari: subito, immediatamente. Dobbiamo lavare, lavare e lavare. Dobbiamo
tagliare, ripulire, distruggere; dobbiamo ristrutturare completamente la nostra
casa, ricreare un habitat degno dell’Amore, del Divino. Perché solo così
potremo offrire piena ospitalità allo Spirito di Dio: lo Spirito d’Amore che
solo ci può consigliare, confortare, amare, proteggere.
Guai a
noi, fratelli, se rifiutassimo di “immergerci”; guai a noi se fossimo convinti
di essere delle “brave e giuste persone”, e quindi di non aver bisogno di alcun
Giordano; guai a noi, lo ripeto, perché così non arriveremo mai a incontrare e
a conoscere l'amore di Dio; non potremo mai sperimentare quell’abbraccio di amore
gratuito che Dio riserva a quanti si sottopongono al “lavaggio sacramentale”
delle loro colpe. Non possiamo pretenderlo questo amore; non ne abbiamo alcun
diritto; è un amore che si ottiene soltanto dando prova d’amore. Dio non è in
obbligo con noi, anzi con nessuno. Pretendere di barattare il suo amore con le nostre
presunte “opere buone”, equivale solo a dimostrare, una volta di più, la nostra
presunzione, la nostra superbia, la nostra arroganza. L’amore, fratelli, non si
“contrappone”, non è “conflittuale”, non “pretende” nulla: è solo a
servizio, previene, accompagna, si offre, spontaneamente e gratuitamente,
come “risposta” alla “chiamata/amore”
di Dio!
Ascoltiamola
dunque nel silenzio della nostra anima questa chiamata, fratelli: ascoltiamo la
Voce dell'Amore che instancabilmente ci sussurra: “Io ti amo. A me vai bene
così, coraggio, datti da fare!”. È questa la voce che ci salva; è questa la
voce che ci fa rinascere: perché anche così impresentabili come siamo, ci fa sentire
comunque amati. E se sappiamo di essere amati, che aspettiamo? Viviamo, purifichiamo,
laviamo, cambiamo, rispondiamo, amiamo!
In
questa epifania battesimale di Dio, possano tutti sperimentare queste consolanti
sensazioni: entrino in noi, nel nostro cuore, diventino vita, tocchino il
profondo della nostra anima; risuonino nelle nostre zone d'ombra, nelle zone buie,
ferite, abbandonate, rifiutate; diventino, per noi tutti, una musica celestiale
confortevole. E infine fidiamoci, fratelli, di questa Voce; rispondiamo sinceramente e fiduciosamente a questa
“chiamata”, e incamminiamoci liberi, felici e sicuri per le vie del mondo, là
dove Egli ci aspetta. Amen.
«Alcuni Magi vennero da oriente
a Gerusalemme e dicevano: «Dov’è colui che è nato, il re dei Giudei? Abbiamo
visto spuntare la sua stella e siamo venuti ad adorarlo» (Mt 2,1-12). Il
brano del vangelo di oggi è tratto da Matteo e appartiene a quella serie di racconti
riportati da Luca e Matteo sui primi anni di vita di Gesù, denominata appunto “Vangeli
dell’infanzia”. Uno giustamente potrebbe chiedersi che cosa rappresentino questi “vangeli dell’infanzia”,
se cioè siano un’antologia di fatterelli, di storielle per sprovveduti, di favolette
per bambini. Niente di tutto questo. In realtà si tratta di veri e propri
trattati teologici, con un pò di storia, ma soprattutto con tanta teologia. Non intendono,
cioè, documentare eventi storici, fare una scrupolosa cronistoria di come Gesù abbia vissuto i suoi primi anni, anche se oggi la quasi totalità dei critici è
concorde nel riconoscere a queste pagine una certa verità storica. Luca e Matteo si
preoccupano piuttosto di spiegare che cosa significhi per l’umanità intera la
nascita di Gesù come uomo, il perché della sua venuta su questa terra, i messaggi che ha voluto trasmettere all'uomo attraverso i piccoli avvenimenti della vita terrena del Dio-bambino. E lo
fanno a modo loro. In questo senso potremmo infatti cogliere il messaggio della pagina del vangelo di oggi definendolo come “la caduta
delle illusioni”.
I
singolari personaggi chiamati in causa come involontari artefici di questo rivoluzionario cambio di valori, sono i “Magi”: una
presenza imbarazzante, inammissibile, figure considerate sempre in negativo, con disprezzo, dalla
Bibbia; basti pensare alla condanna della magia nel Levitico (19,26), ai maghi dell’Esodo diretti
antagonisti di Mosè, al famoso Simon mago degli Atti ecc. Il significato del
termine “maghi”, in greco, non è peraltro molto accattivante: significa “imbroglioni,
ciarlatani, coloro che predicono menzogne”.
Perché
allora Matteo, unico tra tutti gli evangelisti, introduce questi “ceffi” al cospetto
del Dio Bambino? Come mai da “maghi” diventano “Magi”? Come mai da truffatori e
impostori vengono qui trasformati in persone rispettabilissime, studiosi,
cercatori della verità, Re di popoli, con i nomi altisonanti di Gaspare,
Melchiorre e Baldassarre?
È
chiaro che la loro storia è proposta qui soprattutto per l'universalità del suo significato simbolico.
Il loro apparire segna infatti l’inesorabile tramonto di quella antichissima illusione, che
fino ad allora costituiva la certezza e il vanto del popolo ebraico: Dio non è più una loro esclusiva. La prova? Ci viene dal
significato stesso dei doni che i Magi portano a Gesù. Doni che non sono
assolutamente casuali.
Il
primo è l’oro: un dono regale, un dono di grande rilievo, riservato ad un eminente
personaggio (1Re 9,11.28), in quanto
espressione di potenza e di regalità. Un dono degno di Dio. Ma in
questo caso, e qui sta la novità assoluta, coloro che offrono questo
metallo prezioso al Re Gesù, riconoscendolo quindi come Sovrano dei popoli, non
sono gli ebrei, i giudei, coloro che avrebbero dovuto accoglierlo, riconoscerlo
come Messia, acclamarlo; sono al contrario dei pagani, anzi dei maghi, degli
odiati, eretici sapientoni, gente della peggior specie: e sono proprio loro che, venuti da lontano,
lo riconoscono e lo adorano come re dell’universo. Si avvera cioè quello che Gesù stesso avrà
modo di confermare: “Ora io vi dico che
molti verranno dall’oriente e dall’occidente e sederanno a mensa con Abramo,
Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli” (Mt 8,11). Questa è la caduta della
prima illusione: Dio non è più il re esclusivo degli ebrei, ma di tutti quelli
che lo riconoscono e lo accolgono.
Il
secondo dono è l’incenso. L’incenso era l’elemento specifico dell’uso
liturgico, utilizzato soprattutto nei momenti più importanti e nelle offerte di
ringraziamento (Lv 2,1-2; 1Sam 2,28).
Ma cosa succede questa volta? Non sono più i puri sacerdoti del tempio, quella
casta di ebrei purosangue che unici, nel culto, potevano rivolgersi alla
divinità; ora, ad offrire incenso, sono dei pagani, dei maghi infedeli. È la
fine della seconda illusione: è finito cioè il tempo del popolo “eletto”, Dio
non è più privilegio esclusivo di Israele, popolo sacerdotale per eccellenza:
Dio è di tutti gli uomini, di tutta l'umanità.
Il
terzo dono è la mirra. La mirra è una resina che ha una fragranza molto intensa,
un profumo penetrante; è il segno dell’amore coniugale, il profumo con cui l’innamorata
conquista il suo amato: “Ho profumato il mio giaciglio di mirra” leggiamo in Pr 7,17. Ma anche in questo caso, chi è che offre al suo innamorato la
mirra, segno di intimità, di amore? Non è più Israele il popolo eletto, la
sposa fedele di Jahweh, ma sono dei pagani, dei lontani da Dio, gente che
appartiene a popoli condannati dagli stessi ebrei. E cade la terza illusione: viene
meno la certezza di un Dio-sposo, si spezza l'indissolubilità di quel vincolo di
fedeltà coniugale tra Dio e il suo popolo: Dio cioè non ama più soltanto Israele,
il popolo eletto; Dio ama tutti i popoli, di ogni razza e nazione.
L’arrivo
dei Magi, dunque, sancisce la fine delle più forti, delle più grandi illusioni
di Israele: illusioni legate alla certezza di essere l’unico, il “prescelto”,
il solo popolo “di Dio”. Una constatazione veramente sconvolgente per una cultura improntata ad un rigido monoteismo. La fine di
una mentalità religiosa elitaria.
Beh,
fratelli, penso che anche per noi, uno dei momenti più difficili da
superare nella nostra vita, coincida proprio con la caduta delle nostre illusioni più
radicate. La realtà e la verità purtroppo sono sempre difficili da accettare,
da accogliere, da sentire e da vivere. Lo è per tutti. Sembra un gioco di
parole, ma l’illusione, quando cade,
crea sempre grande delusione. Solo la
disillusione ci permette di vedere la
realtà per quello che è.
Quando
ci imbattiamo in un aspetto della vita che ci è difficile far nostro,
da accettare, inconsciamente noi, quasi per proteggerci, ci rifugiamo nella illusione; ci costruiamo cioè
una protezione fittizia che ci tranquillizzi, che ci difenda da quella realtà che noi riteniamo pericolosa e dolorosa. Chiudiamo gli occhi, non vogliamo vedere la
realtà: magari tutti gli altri la vedranno anche, ma noi no.
L’illusione
è la nostra sicurezza, ad essa ci attacchiamo visceralmente; per essa
accettiamo qualunque compromesso, facciamo di tutto perché non cada. È una fortezza,
un muro che ci protegge, un porto che ci tranquillizza.
È
quindi inevitabile che nel momento stesso in cui essa cade, qualcosa di profondo si
spezza dentro di noi. Rimaniamo ammutoliti, attoniti, senza fiato. Mai avremmo potuto anche
solo pensare che ciò potesse accadere. Perché il punto è proprio questo: ogni
illusione spezzata ci costringe a cambiare “credo”, a rivedere i cardini della
nostra fede, a riformulare, ricreare il nostro pantheon di certezze. Sono momenti che richiedono tanta fede; fede autentica, e non solo: autentica umiltà,
autentica volontà, autentico carattere: con le illusioni se ne vanno, oltre alle nostre
certezze, anche i nostri entusiasmi, i nostri presunti traguardi vittoriosi; quindi bisogna ripartire da zero.
Quando cade una nostra illusione, fratelli, pur se fittizia e irreale, non è mai
un momento liberante, un’occasione di vittoria, ma sempre una circostanza dolorosa,
difficile. Ci accorgiamo improvvisamente di aver vissuto, lungamente e
convintamente, in funzione di qualcosa di aleatorio, di irreale, di inesistente. Dobbiamo
riacquistare la vista, l’equilibrio, la vita: in altre parole dobbiamo rientrare in noi
stessi, dobbiamo “cambiare” rotta, dobbiamo “convertire” il nostro senso di
marcia; perché solo così la “verità ci
farà liberi” (Gv 8,32), solo così potremo guardare il domani con rinnovata
fiducia. Detto così è facile: invece, fratelli miei, com’è difficile il cammino
nella verità! Ci vuole tanto tempo e fatica per ricostruire ciò che in
un solo istante ci è crollato addosso. La delusione è sempre dietro l'angolo. Le basta poco per ghermirci, anche una piccola notizia. Come è
successo a Gerusalemme: dice Matteo che “rimane turbata” (2,3), terrorizzata, nel sentire dai Magi che il Messia è venuto, e lo ha fatto in
maniera diametralmente opposta da come lei se l'aspettava. Erode va fuori di
testa quando gli viene sottratta l’illusione di essere lui il vero e unico re. E
gli ebrei poi condanneranno a morte Gesù, proprio perché aveva mandato in frantumi le loro certezze religiose.
Guardiamo
allora con fiducia soltanto a Dio, fratelli: perché è Lui l’unica realtà immutabile, incrollabile; il
resto è solo illusione. Amiamo questa Realtà, attacchiamoci ad
essa, perché amare ciò che non esiste (l’illusione) non serve a nulla. Viviamo
in questa Realtà, perché vivere in ciò che non esiste, è non vivere. E se venisse a cadere una nostra illusione, ringraziamo Dio per averci scosso da quel fuoco
fatuo, portandoci più vicino a Lui, vero fuoco d’amore autentico. Amen.
« Il fanciullo Gesù rimase a
Gerusalemme, senza che i genitori se ne accorgessero... Dopo tre giorni lo
trovarono nel tempio, seduto in mezzo ai maestri, mentre li ascoltava e li
interrogava... “Figlio, perché ci hai fatto questo? Ecco, tuo padre e io,
angosciati, ti cercavamo”. Ed egli rispose loro: “Perché mi cercavate? Non
sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?” Scese dunque con loro
e venne a Nazaret e stava loro sottomesso… E Gesù cresceva in sapienza, età e
grazia davanti a Dio e agli uomini» (Lc 2,41-52).
La
prima domenica dopo Natale la Chiesa celebra la festa della Santa Famiglia.
Quando
parliamo di questa famiglia, come non pensarla tranquilla, armoniosa, serena, perfetta?
Immaginiamo che Giuseppe, Maria e Gesù, non abbiano mai avuto alcun imprevisto,
non abbiano mai dovuto fare i conti con le contrarietà, con i problemi
della vita. Invece il vangelo di oggi ci presenta una situazione terribile, quasi
drammatica, di grande ansia; un fatto imprevisto molto duro da gestire: la
scomparsa del loro piccolo Gesù.
Gesù
ha dodici anni: per gli ebrei è l'età in cui i bambini passano dall’infanzia all'età
adulta. Fino ad allora, infatti, i ragazzi sono considerati come una “cosa”; ma a
questa età diventano adulti con tutte le responsabilità e i diritti di tale
posizione. È un po’ come una seconda nascita: significa affrancarsi dalle
aspettative dei genitori che li amano, e imboccare la loro strada personale, la strada pensata da
Dio proprio per loro.
Penso che tutti saremo passati per questa esperienza, tutti avremo atteso
e vissuto questo passaggio con grande trepidazione ed entusiasmo. Ma c’è anche
chi lo vede come un grande rischio, un andare verso l’ignoto, e preferisce rimanere
così com’è, infantile, chiuso nel suo piccolo mondo ovattato, obbediente e
ossequioso, ma privo di ogni responsabilità e di generosi slanci. Ebbene
fratelli: non assecondiamo i nostri figli in una simile scelta, sicuramente
infausta, magari per paura di perderli dal nostro controllo: rimarrebbero
immaturi, non saprebbero mai relazionarsi in modo corretto né con la società né
con Dio. Facciamoli crescere i nostri figli, facciamoli maturare, diventare
uomini; non fagocitiamoli col nostro egoismo, non instupidiamoli con favolette
insulse, facciamo in modo che Dio sia il loro solo Dio: nessun altro! Né la madre,
né il padre.
Il
vangelo dice che “come tutti gli anni”,
secondo l'usanza, la famiglia va a Gerusalemme.
Già, l'usanza: ricordate
le usanze di quando eravamo ragazzi?
Alla domenica tutti a Messa, si pregava tutti insieme, uno vicino all’altro; poi
il pranzo della festa: era l’occasione più bella per stare insieme e godere
ciascuno della presenza dell’altro (durante la settimana i grandi lavoravano, i
ragazzi a scuola). Un bel giorno, però, ci siamo accorti di essere cresciuti,
di voler fare di testa nostra, e abbiamo cominciato a puntare i piedi: “Non
vengo più a messa con voi, non vengo più in vacanza con voi!”; e i genitori: “Ma
come!? Abbiamo sempre fatto così! Cos'è questa novità? Che sono questi
capricci?”. Era l’usanza, si era
sempre fatto così; era difficile per loro accettare un drastico cambiamento delle solite cose,
riconoscere che noi eravamo cresciuti, che avevamo soprattutto bisogno della
nostra indipendenza.
Anche
qui, il fatto che Gesù rimanga a Gerusalemme
senza che i genitori se ne accorgano e che lo trovino solo dopo tre giorni di estenuanti ricerche,
la dice lunga sul dramma vissuto da Giuseppe e Maria; non erano preparati a
vederlo nella prospettiva del suo domani; è successo anche a loro esattamente
quello che è accaduto, accade e accadrà, in tutte le famiglie di ogni tempo.
Anche da
noi: i figli sono il centro della nostra vita. Vivono con noi; li cresciamo, li
educhiamo, diamo loro una istruzione, li introduciamo nel mistero della vita, insegniamo
loro cosa è buono e cosa non è buono, siamo il loro modello di vita, l’esempio da
imitare. Essi imparano da noi, ci stimano, ci amano perché siamo il padre e la
madre; ci stimano al di là di ciò che facciamo o non facciamo, per il solo
fatto che noi li abbiamo messi al mondo e siamo il loro riferimento. Comandiamo
ed essi ci obbediscono. Ma poi, senza che ce ne accorgiamo, di punto in bianco come
è successo con Gesù, si staccano da noi, li perdiamo. All'inizio la frattura è velata:
qualche risposta, qualche incomprensione, qualche capriccio, qualche domanda in
più, qualche risposta che ci mette in difficoltà. Sembra che tutto possa
ricomporsi, sembrano solo delle piccole crepe. E invece no! Noi i nostri figli
li stiamo perdendo e non ce ne vogliamo rendere conto.
È che noi
siamo rimasti anni luce indietro: siamo ancora fermi, sclerotizzati, su “oh, il
mio bambino” (ma, fratelli miei, il bimbo ha quindici anni!); “il mio cucciolo”
(ma è alto un metro e ottanta!); “il tesoruccio di mamma e papà” (ma lui si
sente più legato alla sua comitiva di amici).
Per tutti
i genitori, come anche per Maria e Giuseppe, i figli sono “loro”: li hanno fatti nascere, li hanno fatti crescere; hanno
faticato tanto, hanno speso per loro energie, tempo e denaro, ansie e notti insonni.
Sentirli quindi come una loro “proprietà”, è quasi un diritto. Soprattutto per la
madre, i figli sono coloro che l’amano di più: anche se tutto andasse storto,
anche se nessuno la amasse più, anche se la sua vita matrimoniale fallisse,
anche se tutta la sua esistenza diventasse un inferno, per lei l’amore dei
figli è sempre l’unico motivo valido per continuare a vivere e a lottare. Del
resto i figli l’amano perché non possono stare senza di lei: la madre per loro è
importante, è un punto essenziale di riferimento: è quindi naturale amarla. Una
realtà che la rende sicura di ricevere per sempre il loro amore.
Ma
attenzione: quante volte abbiamo sentito una madre esclamare: “ho un figlio
così dolce che me lo mangerei!”: ora,
finché si tratta di coccole e di baci va tutto bene; ma se questo “mangiarlo” lo dovesse fare sul piano
emotivo, se non lo lasciasse andare, se lo soffocasse, se gli stesse sempre con
il fiato sul collo, se lo iper-proteggesse, se si rifiutasse di accettare la
sua crescita, allora “se lo mangerebbe”
per davvero, allora rischierebbe di soffocarlo, rischierebbe di uccidergli
l'anima.
Un genitore,
una madre in particolare, deve invece sacrificare consapevolmente i propri figli, deve offrirli al tempio, deve “perderli”. Deve cioè accettare l’idea che
quei suoi figli non sono “suoi”; sono persone “altre” da sé; deve tagliare quel cordone ombelicale che ancora li lega,
e lasciarli andare. Deve accettare che quei figli sono figli di Dio, che hanno una
loro strada da seguire, che devono raggiungere la loro Gerusalemme, che devono
attuare il loro progetto di vita, quel piano che Dio ha pensato per loro, costi
quel che costi. Devono andare là. Opporsi a questo, è combattere Dio, andare contro
i suoi progetti. È duro capirlo, ma è necessario, è vitale.
Deve essere
stato duro anche per Maria e Giuseppe lasciare andare Gesù; era il loro unico
figlio, il prediletto, sul quale avevano puntato tutto, avevano riposto in lui tutte
le loro attese.
È così
difficile accettare che i figli siano grandi;
è così difficile lasciare che ci provino da soli, che possano sbagliare; è così
difficile smettere di tirarli fuori dai loro problemi, di preoccuparci sempre,
di continuare a proteggerli oltre il normale; è così difficile lasciare loro spazio;
è così difficile non appianare loro qualunque difficoltà! Vorremmo che i nostri
figli non soffrissero mai, non si sentissero mai soli, mai isolati; che non litigassero
mai con nessuno, che non fossero mai tristi, che non avessero mai problemi; e
facciamo di tutto perché questo si avveri, convinti di fare molto bene. Siamo animati da vero amore,
questo è innegabile, ma così facendo non è che facciamo loro del gran bene. Se
continuiamo a togliere tutti i sassolini davanti ai loro passi, cosa accadrà
quando dovranno superare i macigni, quando dovranno fare i conti con le vere contrarietà
della vita? Riusciranno a reggere il peso delle inevitabili delusioni? Cadranno
in depressione? Verranno travolti, sommersi?
Quando
finalmente trovano Gesù nel Tempio, Maria e Giuseppe gli dicono, decisi: “Perché ci hai fatto questo?”. Sono
concentrati sul loro dolore, sull’ansia, sulla disperazione provata nel momento
che hanno scoperto la sua assenza. È il dolore dei genitori che di fronte allo
scampato pericolo, trovandosi di fronte ad una scelta autonoma del figlio, si
sentono messi da parte, traditi: si accorgono in quel preciso momento di averlo
perduto: una constatazione molto dura.
Anche
perché Gesù risponde altrettanto deciso: “Non
sapevate che devo occuparmi delle cose del padre mio?”. In altre parole:
“Di che vi lamentate? Dovreste sapere bene anche voi che il mio vero padre è
Dio, e che la mia vera madre è la Vita”. Egli ha già fatto il grande salto; è già
passato dalla paternità e maternità terrena, a quella più importante del Dio
della Vita; deve seguire il mandato del Padre, la Vita, lo Spirito, la Voce della
Sua chiamata; e non già la loro di voce.
E qui
il vangelo fa scrupolosamente notare che essi non “compresero ciò che aveva detto loro”.
A ben
guardare, Maria e Giuseppe non capiscono tante cose nella loro vita: Giuseppe
non capisce cosa sta accadendo alla sua fidanzata che è incinta; poi deve
scappare in Egitto senza sapere il perché; vede nascere questo suo figlio tra
canti, tra angeli e Gloria e non sa spiegarsene la ragione; e ora al tempio, non
capisce la risposta di Gesù. Maria dal canto suo non capisce la sua gravidanza;
l'angelo le comunica un mistero enorme al quale dice “sì”, ma rimane turbata,
perplessa, piena di paure e di domande; alla nascita di Gesù anche lei cerca di
darsi una spiegazione in cuor suo di ciò che le sta accadendo; e anche lei,
come Giuseppe, non capisce a questo punto la reazione decisa del figlio; e più
avanti faticherà ancora molto per capire i gesti di suo figlio: sembra quasi non
capacitarsi di avere un figlio così decisamente diverso dagli altri.
La
storia di Maria e di Giuseppe è costellata quindi dal non capire, dal non
comprendere, dal mistero: anche se tutto quanto succedeva aveva un senso ben
preciso, se tutto era chiaramente legato da un filo conduttore, se tutto
rientrava in un evidente progetto soprannaturale. Non capivano, ma accettavano
e si uniformavano, umili e obbedienti, al volere di Dio.
Allora
a questo punto chiediamoci: perché noi vogliamo capire sempre tutto? Perché noi
vogliamo avere ad ogni costo tutte le risposte e le spiegazioni? Perché dobbiamo
avere tutto sotto controllo, razionalizzare tutto, avere chiaro tutto il
progetto fin dall'inizio e in tutti i suoi particolari? E se ci lasciassimo anche
noi semplicemente portare, condurre? E se ci fidassimo? Se smettessimo di voler
capire tutto, confidando un po’ di più in Dio?
Ebbene,
fratelli, fidiamoci dunque di Dio: sappiamo che Lui sa tutto, sappiamo che Lui
agisce sempre per il nostro bene; sappiamo che ogni cosa è inscritta nella sua provvidenza;
che noi stessi abbiamo un senso solo in Lui, in un Suo progetto. Non pretendiamo
di capire tutto nella vita: viviamo accettando quello che Lui ha previsto per
noi, per i nostri figli, per la nostra famiglia, per tutti i nostri cari; viviamo
sapendo di fare la Sua volontà. Accettiamo che i nostri figli si affranchino da
noi: perché in questo modo “perderli”, significherà “ritrovarli”.
“Tornò con loro a Nazareth”, dice il
vangelo. Gesù, dopo questa esperienza, rimane con i genitori. Ma niente sarà più
come prima. La famiglia si ricompone, ma tutti hanno imparato qualcosa di nuovo,
tutti sono maturati. Gesù ora ha capito chi è, cosa deve fare, cosa deve essere.
Ma non è ancora arrivato il suo tempo: egli aspetta la sua ora, all’ombra della
sua famiglia. Giuseppe e Maria hanno ora capito che quel loro figlio non è “loro”,
che non possono decidere per lui, che lo devono lasciare andare. E gli stanno
vicino; come prima, anzi più di prima; lo rassicurano con tutto il loro amore, lo
introducono nella vita umana, gli danno tutto, pur consapevoli che un giorno
lui se ne andrà per realizzare la sua missione. Verrà questo suo tempo. Ma intanto,
nella famiglia, cresce in sapienza, età e
grazia davanti a Dio e agli uomini. Un piccolo esemplare spaccato di vita
familiare: serena, piena di amore, di rispetto reciproco, di abbandono alla
volontà del Padre. Ecco, fratelli: confrontiamo questa atmosfera con quella che
viviamo nelle nostre famiglie, nelle nostre comunità; verifichiamo i rapporti
che abbiamo con i nostri figli, con i nostri fratelli in Cristo, con tutti i
nostri compagni di viaggio. E soprattutto meditiamo.
Siamo agli sgoccioli di
questo anno. Porgo a voi tutti gli auguri per un radioso 2013.
Anche se fatti con il cuore, so perfettamente
che non vi cambieranno la vita. Ma sono altrettanto sicuro che Dio, nel Suo
amore, ha il potere di rinnovarla sul serio. Basta chiederglielo umilmente. E
meritarcelo. Amen.
«Mentre si trovavano in quel
luogo, si compirono per lei i giorni del parto. Diede alla luce il suo figlio
primogenito, lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia… E subito apparve
con l’angelo una moltitudine dell’esercito celeste, che lodava Dio e diceva:
Gloria a Dio nel più alto dei cieli e sulla terra pace agli uomini, che egli
ama» (Lc 2,1-14).
Il
Vangelo di oggi mette a confronto due re: Cesare Augusto Ottaviano, il re
ricco, e Gesù, il re povero. Il re ricco ha il potere, la forza, il dominio;
indice un censimento di tutta la terra, perché nessuno possa sfuggire al
pagamento delle imposte di Roma; il re ricco impone: “Devi fare così, e basta”.
Il re povero ha come potere l'amore, la debolezza, la vulnerabilità. Il re
povero propone: “Se vuoi seguirmi… se qualcuno… se uno…”. Il re della forza e
della potenza contro il re della dignità e dell'amore. Uno scontro tra re.
Il
falso re, quello che si dice “salvatore del mondo”ma non fa nulla per salvarlo,
e il vero re, il vero “Salvatore del mondo”, che il mondo lo salva per davvero.
Uno
che rapina la gente, ma promette lusso, benessere, godimenti, l’altro che la
riempie di regali, dicendole però che la vera ricchezza, la vera gioia non è di
questo mondo.
Di
fronte però alle lusinghe allettanti del re fasullo di questo mondo, in tanti
hanno ceduto, si sono fatti abbagliare: ma noi, fratelli, noi che sappiamo
individuare l’autentico re, non lasciamoci sedurre, non abdichiamo alla nostra
dignità di cristiani.
Infatti,
cosa ci ripete anche quest’anno, cosa vuole confermarci ancora una volta questo
vangelo di Natale? Che Dio è venuto per noi esclusivamente per amarci: Dio non è
vendicativo, Dio non punisce, non castiga. Dio ama. Sempre. Il suo è un amore
giusto, misericordioso, impossibile, generoso, spontaneo. Siamo noi che
rifiutiamo questo suo amore. Siamo noi che gli sbattiamo la porta in faccia
preferendogli l’infelicità, l’ansia, il dolore, i castighi: siamo noi a girargli
le spalle con la nostra testardaggine,
con la nostra poca fede, con la nostra totale assenza di carità, di
comprensione, di amore. Lui no, Lui continua nonostante tutto ad amare proprio
noi, i lontani, gli esclusi, gli esiliati, i peccatori, i cattivi, gli impuri, i
traditori; Dio continua a venire per tutti noi. E viene per continuare ad amarci.
Un
giorno una bambina va dalla mamma e le chiede: “Mamma, chi è Dio?”. La mamma si
trova in difficoltà: come si fa a spiegare chi è Dio ad una bambina, quando
anche noi adulti su ciò abbiamo le idee molto confuse? Allora la mamma le dice:
“Vieni qui”: e la prende fra le sue braccia e la stringe a sé forte forte. Poi le
sussurra: “Cosa senti?”. “Sento che mi ami tanto, mamma”. “Ecco, amore mio: questo
è Dio!”.
Natale:
Dio nasce in ciascuno di noi, nasce nella nostra vita. Accogliamolo! Non verrà
come vogliamo noi. Ma verrà proprio in questa nostra vita di oggi. Natale è
oggi, fratelli, Gesù è qui per tutti noi. “Io
sto alla porta e busso. Se qualcuno mi apre la porta…”. Lui c'è! Lui è alla
porta! Nascosto, ma è Lui che viene a portarci amore.
E noi?
Che desolazione: una crisi internazionale affligge oggi il mondo: homo homini lupus. Viviamo nella cultura
dell’uno contro l’altro: ma abbiamo mai pensato che se uno vince, l’altro
necessariamente perde? Perché non trovare una soluzione che ci veda tutti d’accordo?
Se noi invece lottassimo tutti uniti contro la fame, la miseria, le malattie,
le violenze? Certo andare tutti in una direzione oggi non è cosa facilmente
realizzabile : ma neppure impossibile. “Io
insieme a te”. E se iniziassimo noi, nel nostro piccolo?
Tutti
abbiamo un po' di verità: ma ognuno difende le sue vedute, ognuno pretende di
essere solo lui nel giusto: e se cominciassimo noi a valorizzare ciò che ci
unisce piuttosto che moltiplicare ciò che ci divide? E se iniziassimo noi a
stimarci reciprocamente? E se lavorassimo insieme per un ideale comune, più
umano? Se ci volessimo tutti veramente bene?
Sono
sicuro che i più penseranno: “Impossibile, è fantascienza, questa crisi non si
risolverà mai con una stretta di mano!”. Niente di più falso: se tutti insieme lo
volessimo veramente, prima o poi raggiungeremmo sicuramente tale obiettivo. L’importante
è volerlo. Virgilio disse in proposito una grande verità: “Possiamo! Perché siamo convinti di potere”. Se non siamo convinti di
potercela fare, non ce la faremo mai.
È Natale:
Dio si è incarnato. L’impossibile è divenuto realtà. Dio è carne, è qui con
noi: e con Lui, con il suo amore, tutto è più facile, tutto diventa possibile anche
per noi. Amen.