«In quel tempo, Gesù chiamò a
sé i Dodici e prese a mandarli a due a due e dava loro potere sugli spiriti
impuri. E ordinò loro di non prendere per il viaggio nient’altro che un bastone:
né pane, né sacca, né denaro nella cintura; ma di calzare sandali e di non
portare due tuniche»(Mc 6,7-13).
Gesù
finora aveva agito da solo; adesso manda i suoi apostoli. Li manda “due a due” perché questo permette di
difendersi meglio da eventuali pericoli. A due a due perché per l’antichità la
testimonianza era valida sulla base di almeno due persone. Gesù fa fare un
tirocinio ai suoi apostoli. Nella vita c’è la teoria, c’è l’apprendimento, ma
ciò che è decisivo è la pratica, l’esperienza. Dobbiamo sperimentare in prima
persona ciò che abbiamo imparato. Dobbiamo provarci. Dobbiamo provare a metterci
in gioco, ad uscire, a credere in noi, nelle nostre risorse, nelle nostre
possibilità. Sappiamo da altri vangeli che spesso gli apostoli sbagliarono e fallirono:
questo non importa, l’importante è che impararono. Perché anche l’errore, se riconosciuto,
diventa fonte di crescita. Provarci vuol dire darsi fiducia, credere nella
forza e nel potenziale che c’è in noi. Che cosa avranno pensato gli apostoli quando Gesù li ha mandati a guarire? Quanto meno saranno rimasti allibiti, sorpresi, interdetti: “Ma come facciamo? Noi non siamo mica te! Cosa diciamo? No, non è cosa per noi!”. Quanta gente si autolimita da sola e dice: “Io non ce la faccio; io ho paura”. C’è chi ha paura di volare, di stare da solo in casa, di guidare in montagna o in autostrada, di parlare in pubblico, di prendere l’ascensore; c’è chi ha paura di fare certe scelte o di dire certi “no”. “Provateci! Prima di dire di no, provateci una, due, tre volte”.
I discepoli hanno soprattutto paura della reazione degli altri: ma Gesù è perentorio; li invia senza esitazioni: “Ora ci andate voi. Siete in grado di farlo. Nonostante le vostre paure, potete farlo anche voi!”.
Questa è fiducia; questo è dare credito; questo è amore, fratelli: invitare le persone a prendere coscienza di ciò che sono, di ciò che possono fare, di ciò che possono essere, diventare, significa amare queste persone. La perversione è, invece, quando il nostro presunto “amore” impedisce alle persone di fare e di essere quello che potrebbero; quando pretendiamo di fare sempre e tutto noi, perché non ci fidiamo degli altri, non li riteniamo all’altezza: ebbene, questo non è amore ma, ripeto, sopraffazione, egoismo!
Quello che Gesù raccomanda in pratica agli apostoli è di essere privi di zavorra, leggeri, essenziali; non solo materialmente ma anche mentalmente. Noi crediamo invece che il “sapere” sia decisivo. Più sappiamo e più siamo garantiti. Ma sappiamo anche che non è così.
A questo proposito permettetemi una confidenza: quando dovevo tenere una relazione, una conferenza o un incontro, mi preparavo scrupolosamente, studiavo tutto nei minimi particolari, immagazzinavo un sacco di nozioni, ero pieno di idee, di concetti: ero convinto in questo modo di essermi “garantito”, di ottenere un risultato sicuro. Poi col tempo, con la pratica, mi sono accorto che non è il “conoscere”, il “sapere”, non sono le belle parole, una fluente e appropriata esposizione, quello che rimane, quello che fa presa in chi ascolta, quello che arriva al cuore delle persone; al contrario è la coerenza dell’oratore, la sua convinzione, il suo vivere nella pratica ciò che espone; ciò in cui crede e soprattutto come lo crede, come lo vive, come lo sente. La preparazione, più che sui libri, va fatta sulla propria vita, su come adattare coerentemente quello che si dice a quello che si fa.
Ecco perché, fratelli, dobbiamo prima di tutto preoccuparci del nostro agire, della nostra condotta, del nostro “essere”, piuttosto di come devono comportarsi gli altri, di quello che gli altri devono o non devono fare. Certo, lo studio, la preparazione, i corsi di aggiornamento, sono tutte cose necessarie, indispensabili, fondamentali, ma se non sono suffragate da una vita coerente, sono zavorra, sono soltanto un fardello inutile e pesante. Se trascuriamo la nostra vita cristiana, la nostra vita spirituale, tutto il nostro sapere diventa superfluo, ingombrante, si riduce ad una questione tecnica e sterile, senz’anima e cuore.
È anche in questo senso che Gesù, con le sue parole, raccomanda: “Non caricatevi di troppe cose. Siate essenziali, leggeri, liberi. E abbiate soprattutto sempre in mente il vostro obiettivo: andate e guarite”. Nella vita è fondamentale non perdere mai di vista i propri obiettivi. Tanti di noi, fratelli, viviamo alla giornata, siamo spenti, senza idee. Non sappiamo perché facciamo le cose, sopravviviamo.
In questo modo però, procediamo a casaccio, non andiamo da nessuna parte, non abbiamo nessuna direzione da seguire. È vero, non sempre riusciremo a raggiungere le nostre mete, ma almeno poniamocele! Avere un obiettivo ci aiuta a scegliere, a sapere cosa vogliamo, dove vogliamo andare. Senza obiettivi tutto diventa sfuocato, ci va bene tutto, indistintamente; e non ci rendiamo conto che così facendo, inseguendo tutto e niente, saremo perennemente degli inconcludenti.
Oggi, assistiamo alla tendenza diffusa di fare un sacco di cose, di cimentarci in tutto: facciamo ginnastica, gli sport più disparati, abbiamo mille hobby; seguiamo qualunque corrente spirituale, proviamo tutto ciò che dettano le mode, ci impegniamo nel volontariato, nella caritas; ma siamo discontinui, cambiamo interesse con estrema facilità, in continuazione. Ci interessiamo a tutto perché non abbiamo un obiettivo chiaro. Soltanto sapendo bene cosa vogliamo dalla nostra vita, conoscendo esattamente dove vogliamo andare, cosa dobbiamo fare per seguire la nostra vocazione, solo allora, fratelli, le nostre scelte saranno valide per la nostra crescita spirituale e umana. Perché il vero obiettivo da raggiungere è proprio quello che riguarda noi stessi: ed è anche quello che è più difficile da raggiungere, perché non consiste nel fare qualcosa ma nell’essere qualcosa; non è tanto rivolto all’esterno come comprarsi un vestito, una casa, un’auto o una moto, ma all’interno, al nostro cuore, alla nostra mente, saper cambiare, saper lottare per qualcosa, saper investire le proprie risorse per migliorarsi spiritualmente…, saper incanalare correttamente la passione che si ha dentro, ecc.
Gesù invita pertanto i discepoli a portare con sé solo due cose: bastone e sandali. Il bastone serve per camminare meglio, per appoggiarsi e per difendersi dai pericoli e dagli animali. I sandali erano necessari per camminare nelle strade sassose della Palestina. Tutto il resto contribuiva ad appesantirli. Niente denaro. Il denaro ci dà false sicurezze: abbiamo i soldi, possiamo permetterci qualunque cosa; ma a che pro? Avere soldi ci fa sentire potenti, ma è una magra sicurezza, perché non è legata al “noi”. Più abbiamo denaro e più ne vorremmo e il perché è ovvio: tanto denaro, tanto potere. Ma per quanto denaro riusciamo ad avere, saremo sempre insoddisfatti, perché il potere vero risiede solo nella forza interiore, nella nostra anima. Se il nostro potere si chiama denaro, e non Dio, dobbiamo difenderlo, dobbiamo proteggerlo, dobbiamo moltiplicarlo, vorremmo averne sempre più degli altri, ecc. Spendiamo la nostra vita non per andare avanti, per progredire, ma per difendere ciò che abbiamo, per non perderlo. Più abbiamo il potere legato al denaro e meno abbiamo il potere legato alla persona.
Non due tuniche. Una tunica è ciò che ci serve: tutti sono vestiti, tutti hanno bisogno di qualcosa con cui coprirsi dal freddo, dagli animali, dal sole e dagli sguardi. Ma non dobbiamo avere più di quello che ci serve. Guardiamo un po’ nelle nostre case: abbiamo gli armadi stracolmi di vestiti; i nostri frigoriferi sono pieni di cibo; i nostri figli sono zeppi di giocattoli, di mille cose; ma siamo davvero felici? Che fine fanno poi tutte queste cose? La gran parte finisce nei rifiuti, vengono gettate via. Ci accorgiamo che sono inutili.
Così pure le nostre vite: sono
invase dai mezzi di comunicazione, Pc, Tv, telefonini e quant’altro: dubito però che riescano
a farci comunicare con noi stessi, con la nostra coscienza. Riusciamo almeno a parlare con gli altri, a farli
entrare nel nostro mondo, nel nostro cuore? Siamo convinti che disporre, l’avere tante cose,
ci riempia la vita. Ma essere pieni di cose sicuramente non ci aumenta la felicità; non ci dà la sensazione di essere vivi nell’anima. Perché così diventiamo schiavi
delle cose, servi di quello che non serve, diventiamo dipendenti, non ne possiamo più fare a meno, diamo valore e potere a cose che non lo meritano, che non sono determinanti
per il nostro benessere.
La
bisaccia, il nostro zaino, ci serve per portare con noi solo l’indispensabile per il
viaggio. Non si può andare in montagna con zaini pesanti, strapieni, dobbiamo limitarci all’essenziale,
e se poi possiamo fare a meno anche di questo, tanto meglio. Invece quanti pesi
ci portiamo dietro! Quanti ricordi non digeriti, quante lacrime non versate e
quanti conti in sospeso continuano a pesarci. Ma noi facciamo finta di niente e
andiamo avanti coi nostri pesi. Poi però ci sentiamo stanchi, privi di energie,
ci sentiamo schiacciare, non abbiamo più forze per reagire. Per forza! Quante
cose dovremmo lasciare andare, e invece ce le teniamo strette e continuiamo a
trascinarcele dietro, sprecando inutilmente preziose energie! Vivere in questo
modo diventa veramente faticoso. Allora, perché vivere con questi pesi che ci
opprimono? Proviamo ad abbandonare questi macigni inutili, queste zavorre,
e vedrete come sarà più agevole spiccare il volo, librarsi lassù in alto, nel
cielo della vita. Dalle parole di Gesù possiamo ricavare un altro grande insegnamento: “Non preoccupatevi del risultato”. Spesso oggi sentiamo dire: “Non c’è più gente in chiesa! Le chiese sono vuote Non c’è più fede! Ci stiamo scristianizzando!”. Non dobbiamo preoccuparci più di tanto, fratelli; chiediamoci invece cosa stiamo facendo noi in concreto per risolvere questo problema. In altre parole, il nostro annuncio è fatto con forza, con passione, con convinzione? Lo viviamo coerentemente? Questo è importante; non tocca a noi salvare il mondo, ci pensa già Dio. Non dobbiamo avere ansie. Non dobbiamo crearci patemi. Se gli altri non vogliono accettare l’annuncio, personalmente non possiamo farci niente. Non distruggiamoci per questo. Se non ci accolgono, non preoccupiamoci, non arrabbiamoci, non sentiamoci umiliati o falliti e non abbattiamoci; non pretendiamo di essere onnipotenti!
Ciò che dobbiamo annunciare è la possibilità di migliorare nella sequela di Cristo; ognuno è libero di condividerla. Per questo non facciamoci prendere dall’ansia; se siamo in ansia è perché pretendiamo risultati personali, vogliamo dimostrare a noi e agli altri che siamo i più bravi. Se non ci accolgono, scuotiamo la polvere dai nostri sandali, come facevano gli Ebrei prima di entrare in Terra Santa: un gesto per gettarci alle spalle ciò che è negativo. Vale a dire: “Abbiamo fatto tutto ciò che potevamo, ma voi avete risposto “no”; assumetevi dunque la responsabilità del vostro “no”. Noi di più non possiamo fare”. Ognuno è responsabile davanti a Dio della propria vita. Alla fine, quando arriveremo al dunque, non sono ammesse scuse, né giustificazioni. Dio a noi chiederà conto della nostra vita; agli altri chiederà conto della loro.
Dal vangelo di oggi emergono inoltre due elementi fondamentali dell’evangelizzazione: l’andare (la strada) e il rimanere (la casa). I Dodici che sono stati invitati ad andare, vanno lungo le strade, fermandosi in quelle case in cui vengono accolti. Strade e case dunque: i due elementi che coordinano l’annuncio di Gesù, il suo stile. Strada significa “Io cammino con te, cammino al tuo fianco, ti incoraggio, ti aiuto, ti aspetto, ti concedo tutto il tempo che ti serve. Non pretendere però che io percorra la strada al tuo posto. Non posso toglierti le difficoltà. Non posso dispensarti dal camminare con le tue gambe, perché è la tua di strada, di nessun altro!”. Casa invece sta per “io ci sono, sono qui e puoi sempre tornare; qualunque cosa succeda, io ci sarò”. Strada è: “Devi andare”. Casa è: “Rimani qui”. Il pericolo della strada è di diventare vagabondi; il pericolo della casa è di rimanere fermi, inattivi.
La “strada” è l’amore che si fa tempo.
Camminare con Gesù significa, come abbiamo detto, avere riconosciuti i nostri tempi, le nostre fragilità, le nostre difficoltà. Egli ci trova dove siamo e ci prende al suo fianco come siamo. Gesù è paziente, sa che ogni cosa ha i suoi tempi e che il nostro tempo è diverso dal suo. Gesù non guarda se una persona è lontana da Lui, peccatrice, ammalata; Gesù guarda il cuore. È il compagno di viaggio ideale (Lc 24,31: i discepoli di Emmaus). Lui ci sta vicino, risolvendo i nostri dubbi, le nostre incertezze.
Ognuno dunque ha i suoi tempi: e dobbiamo rispettare anche noi quelli dei nostri fratelli. “Educare” significa accompagnare nel suo viaggio i fratelli che ci sono stati affidati. È sapere che il nostro viaggio non è il loro; che i loro tempi non sono i nostri; che il loro traguardo non coincide con il nostro. Se pretendiamo da loro qualcosa che non ci possono dare, non li aiutiamo, ma li affondiamo nei sensi di colpa. Se pretendiamo da loro quello che vogliamo noi, sostituiamo la loro vita con la nostra.
Se andiamo troppo in fretta per anticipare i tempi, li collassiamo! Ogni cosa al momento giusto con la durata giusta. L’amore ha il suo tempo. Il progresso ha il suo tempo. La crescita ha il suo tempo. La preghiera ha bisogno del suo tempo. L’ascolto ha bisogno di tempo.
Il tempo è infatti quella “dimensione” che ci fa vivere le cose, i sentimenti, la vita. Il tempo non si può sintetizzare; non si può condensare; non si possono bruciare le sue tappe. Il tempo è crescita, è strada: e strada vuol dire anche: “Cammina, cresci, cambia, guarisci”. È dire ai fratelli che hanno un loro cammino da fare, che non devono lamentarsi o piangersi addosso. Gesù diceva: “Segui la strada e percorri la tua via dovunque ti porti”. E quando le persone obbedivano, guarivano immediatamente, cambiavano vita e capivano che Gesù era Dio, era la loro stessa Vita.
La “casa” è l’amore che si fa spazio.
Amare significa rispettare gli spazi altrui, non essere invasivi, dirompenti, dilaganti, non voler sapere tutto di tutti… non entrare mai senza bussare… senza chiedere permesso…; casa significa stare, sostare, rimanere; casa è: “Io ci sono; io rimango; Io per te ci sono sempre”. Casa vuol dire “rimanere” con i nostri fratelli, sempre; vuol dire: “Se tu non riesci a cambiare, nonostante tutti i tentativi che abbiamo fatto insieme, io rimango comunque con te. Quando cadi e ti fai male, - e io te l’avevo detto!- rimango con te. Da me tu puoi sempre venire, anche se non hai fatto come ti avevo detto o come io speravo. Quando tu non ti accetti, ti detesti, ti odi, a casa mia c’è spazio e ospitalità. Da me troverai sempre accettazione…”.
E concludo: casa e strada devono essere le dimensioni della nostra missione, del nostro amore: noi siamo casa; proprio noi, fratelli, noi gli “inviati”, quelli che sono partiti, quelli che hanno accolto positivamente la chiamata alla missione. Strada è l’altro, il fratello ancora in cammino; il fratello che dobbiamo rassicurare, accogliere; il fratello che accetterà di camminare con noi, solo se lui lo vorrà, quando vorrà. L’essenziale è che noi continuiamo ad essere casa: per aspettarlo pazientemente, pronti a dirgli: “eccomi, ci sono, ti accolgo, vieni pure con fiducia!”. Amen