«Un profeta non è disprezzato
se non nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua» (Mc 6,1-6).
Sacrosanta
verità! Ma cosa è successo a Gesù per fargli esclamare questa frase tremenda? Gesù,
ci dice oggi il vangelo, nel suo peregrinare lungo le strade della Palestina, giunge
nella sua città, continuando a comportarsi esattamente come altrove: nel giorno
di sabato, cioè, entra nella sinagoga, legge e spiega la Scrittura, predica. Come
tutti, i suoi concittadini lo ascoltano e rimangono all’inizio stupiti,
meravigliati; capiscono che le sue parole contengono qualcosa di grande, di
nuovo, di rivoluzionario; riconoscono che sono parole di vita, che risvegliano nel
loro cuore sentimenti nuovi, parole che toccano le corde più sensibili della
loro anima; ma poi, resisi conto che l’uomo che le pronuncia è uno di loro, un loro
concittadino, improvvisamente scuotono il capo, si tirano indietro, preferiscono
rimanere nelle loro idee, nelle loro convinzioni, nelle loro tradizioni, nelle loro
sicurezze. Come mai? Sappiamo che Gesù era franco, diretto nel suo parlare; non
si preoccupava se le sue parole potevano urtare qualcuno; non era diplomatico, non
era un politico; diceva esattamente quello che riteneva giusto davanti a Dio: diceva
cioè ai signori farisei che la loro religione era tutta una falsità; diceva ai
nobili sadducei che dietro la loro religione c’erano solo interessi di potere e
che quindi molte loro pratiche religiose, erano stupide, inutili, prive di
vita. Beh, fratelli, proviamo a metterci noi nei panni di chi ci credeva in
quelle pratiche, di chi le osservava scrupolosamente! Immaginate l’imbarazzo? È
quindi naturale che tutta questa gente sia entrata in crisi, sentendosi esaminata,
criticata, toccata in prima persona; ed è naturale che abbiano avuto una duplice
reazione: o di ravvedersi, accettando l’invito di Gesù di cambiare radicalmente,
mettendo quindi in discussione tutta la loro vita, oppure di attaccarlo
frontalmente, facendolo passare per pazzo, sparlando di lui, diffondendo sul
suo conto chiacchiere velenose, arrivando anche, se necessario, alla sua
soppressione: cosa che poi è stata fatta puntualmente. Negli altri villaggi della Palestina, il fatto che Gesù fosse uno sconosciuto, giocava certamente a suo favore. Ma qui, a “casa sua”, è conosciuto bene, i suoi compaesani lo considerano uno di loro; non è uno straniero venuto da chissà dove, conoscono la sua famiglia, i suoi parenti, la sua infanzia; per cui di fronte all’innegabile saggezza che trasuda dai suoi discorsi, è abbastanza comprensibile la loro reazione, mossa soprattutto dall’invidia: “Chi si crede di essere? Ha studiato qui con noi; non è laureato, non ha titoli accademici, come fanno ad essere vere tutte queste cose che ci dice? Da chi le ha imparate? Chi gliel’ha messe in testa? Ti ricordi? Era in banco con te, con me, neppure era tanto bravo a scuola. Anche la sua famiglia è sempre stata un po’ strana, ricordi? Evidentemente anche lui ha preso da loro!”. Gesù insomma, come dice il vangelo, “era per loro motivo di scandalo”: non possono cioè neppure immaginare che Dio possa manifestarsi tramite un tizio come lui, uno qualunque, uno che essi conoscono da sempre molto bene, e che non si è mai distinto per qualcosa di speciale. E decidono che, proprio lui, non poteva essere l’inviato da Dio, e quindi non era affidabile.
Inutile discutere, fratelli, è una cosa che succede anche oggi: per quelli che ci conoscono, noi saremo sempre i “figli di tizio, i figli di caio”; qualunque sia la nostra carriera professionale, noi rimarremo sempre, per tutta la vita, gli stessi “ragazzi” di una volta: siamo ormai etichettati: siamo stati “definiti” una volta per tutte, in maniera rigida. Il guaio è che così facendo essi rinunciano a conoscerci veramente. Pensano di conoscerci a puntino, ma in realtà ci vedono e ci giudicano non per quello che siamo diventati, ma per quello che eravamo.
Cambiare opinione, è sempre difficile, significa abbandonare vecchie e radicate posizioni.
Ed è esattamente quello che è successo a Nazareth: gli abitanti hanno rifiutato Dio, convinti di conoscere Gesù molto bene. Ma in realtà, questa gente lo conosceva veramente, o conosceva solo la sua immagine lontana, remota, la sua “etichetta”?
E questo vale anche per noi: conosciamo veramente Dio o conosciamo la nostra idea di Dio (l’etichetta), l’immagine che ci siamo fatti di Lui, alla quale siamo tanto attaccati? Come pure: conosciamo realmente nostro marito, nostra moglie, i nostri amici, coloro che ci stanno vicini, o conosciamo solo l’idea che per convenienza ci siamo fatti di loro? Sentite questa: un avvocato riceve la fattura dell’idraulico per dei lavori; poiché gli sembra decisamente troppo cara, lo chiama e gli dice: “Ehi, ma tu mi sei costato duecento euro all’ora. Non li prendo neppure io che sono avvocato!”. E l’idraulico: “Nemmeno io li prendevo quando facevo l’avvocato!”. Ecco: al di là della battuta, la realtà, le persone, la vita sono spesso più grandi dei nostri pensieri, delle nostre etichette, delle nostre valutazioni. Giudicare è sempre difficile. È una facoltà, il giudicare, il giudizio, che ha origini molto lontane nella nostra vita, di quando eravamo bambini: allora era tutto più semplice, dividevamo ogni cosa in “buono” o “cattivo”; era “buono” quello che non era pericoloso, quello che ci piaceva, che non ci faceva male; “cattivo” era quello che ci faceva piangere, che ci creava problemi, quello che non potevamo gestire. Ma poi abbiamo dovuto fare i conti con la realtà, e abbiamo imparato che stabilire cosa sia “buono”, ossia vero, lecito, meritevole, è molto più complesso. Non sempre il giudizio è facile; anzi, in ogni caso, è traumatico, poiché spezza, divide, distrugge le persone (in greco krino, “giudicare”, vuol dire proprio dividere). Giudicare è il tentativo dell’uomo di controllare, di possedere la realtà perché gli fa paura. Quando una persona giudica molto, spara giudizi ovunque, vuol dire che è piena di paure. Tenta in quel modo di fissare delle etichette, dei ragionamenti; cerca cioè di rendere più semplice la realtà, classificandola. Ma “giudicare” con rettitudine, garantito, non è impresa semplice! È un po’ come voler far passare tutta l’acqua del mare per il tubo del lavandino. Ricordate il mito del “letto di Procuste”? Procuste era un bandito malvagio che rapiva i passanti e li faceva prigionieri. Poi li stendeva su di un letto e se il prigioniero era troppo piccolo gli tirava le gambe, allungandolo fino a raggiungere la lunghezza del letto; se invece era troppo alto e andava fuori misura, gliele accorciava tagliandole. Bene: il “letto di Procuste” rappresenta tutte quelle persone che si rifiutano di accettare la realtà per quella che è, devono giudicarla, “allungarla”, “tagliarla”, accorciarla, cambiarla, deformarla, per farla rientrare nei loro rigidi schemi mentali.
Nel vangelo leggiamo di persone che, incontrando Gesù, si trasformano, cambiano radicalmente, non sono più loro, diventavano totalmente nuove; ma anche di altre che, ancorate nei loro giudizi e nei loro schemi, non si lasciano scalfire neppure di una virgola. Rimangono del tutto indifferenti, anzi si infastidiscono, sono estranee, totalmente “fuori”. Per alcuni Gesù è luminoso, chiaro, lampante, perché in Lui è presente Dio; per altri invece è completamente oscuro, opaco.
Questo ci dice, fratelli miei, quanto sia decisiva la fede per la nostra vita cristiana. La fede è la capacità di vedere, di riconoscere, di percepire che Lui vive, agisce, è presente e si manifesta nella nostra vita. Dio non può fare nulla se noi non lo riconosciamo. Dio è assente, se per noi è assente. Se non ci apriamo alla fede, non possiamo fare nulla, nulla ci sarà mai possibile, la nostra vita sarà un continuo tormento, un vagabondare senza meta. La fede non è capire, fratelli: la fede è sperimentare, incontrare, accettare incondizionatamente, Lui vivo. Ma se non siamo noi a lasciarci coinvolgere, se non gli permettiamo noi di tirarci dentro, di farci cambiare, di essere un tutt’uno con Lui, state sicuri, fratelli miei, che neppure Dio può sostituirsi in questo a noi. In teoria, a parole, tutti vogliamo Dio, tutti lo amiamo, tutti diciamo di volerlo accogliere. Ma poi, in pratica, riconoscere che Dio ci salva solo se noi lo vogliamo; che Dio ci ama solo se noi ci apriamo; che Dio ci cambia solo se noi glielo permettiamo; che Dio ci porta al centro della sua Vita, solo se noi camminiamo al suo fianco, è molto difficile, perché richiede da parte nostra molta responsabilità e applicazione. È proprio vero, fratelli miei: senza di noi, Dio non può far nulla per noi.
Abbiamo detto dunque che i suoi concittadini “si scandalizzavano di lui”. Il verbo è molto forte; indica l’indignazione verso Gesù. Non riescono ad accettare che uno di loro, uno che conoscono, sia diverso. In quel verbo c’è tutto il loro rifiuto; c’è lo sdegno, la rabbia, il disprezzo, il rifiuto, l’odio per Gesù. Certo, Gesù in tutta la sua vita non è mai stato indifferente, per nessuno: i suoi contemporanei o erano con Lui o contro di Lui. E lo stesso vale anche per noi oggi: o lo amiamo o lo odiamo; o lo lasciamo entrarci dentro o gli chiudiamo la porta in faccia e lo lasciamo fuori. Non ci sono alternative. La storia di Gesù continua ad essere quella di un uomo che è molto accettato e amato; ma è anche la storia di un uomo che dai più è categoricamente rifiutato.
Brutta cosa il rifiuto, fratelli. Non cerchiamo mai il rifiuto, la lotta, il conflitto, per il gusto di sentirci delle vittime, per sentirci dei martiri. Saremmo dei masochisti, dei malati: ci sono persone che più sono avversate, rifiutate, contestate, emarginate, più si sentono sante, più godono: è anche questa una forma di malattia: “Guardate come soffro, guardate quanto è crudele il mondo con me, ma io sopporto tutto stoicamente”.
È altrettanto vero però che il rifiuto, la “persecuzione” degli altri, se non è da noi cercato ma accettato umilmente, può costituire un motivo di ascesi, di grande crescita spirituale. Perché di fronte ad esso, viene fuori chi siamo realmente; emerge l’autenticità della nostra vocazione, l’autenticità delle nostre scelte; facciamo vedere cioè quanto noi realmente vogliamo queste nostre scelte, queste nostre convinzioni. Se alla prima contrarietà abbandoniamo subito, che radici potranno mai avere? Quanto saranno profonde? Ecco allora che l’ostilità ci fa capire se crediamo realmente in ciò che diciamo. Dobbiamo pagare in prima persona per verificare se si tratta semplicemente di parole o di fatti.
Quante persone sentiamo dire: “Io credo in Gesù, ma è troppo difficile…”. No, fratelli, non credono; semmai credono di credere. Credere vuol dire aderire con tutta la nostra mente alla Verità, vuol dire essere disposti a mettersi in gioco direttamente, a pagare sempre di persona. Altrimenti sono solo parole. Dicevano i saggi: “Se l’uomo non paga di persona per ciò che crede, o non vale nulla l’uomo o sono le sue idee a non valere”.
E concludo. “Nessuno è profeta in patria”, decreta il vangelo: è un’amara constatazione, che è diventata anche un proverbio. Ma sappiamo che in realtà è la storia di un popolo, Israele, che non ha mai dato ascolto ai profeti. Sono parole che indicano la rassegnazione di Gesù per il rifiuto della sua persona; esprimono il dolore e l’impotenza di fronte al pregiudizio dei suoi concittadini: e allora meglio non insistere, meglio andare altrove. Meglio cambiare. “Neanche se Dio scendesse, voi credereste”, ebbe a dire in altra occasione. Ed è proprio così, fratelli. Gesù a volte anche con noi è costretto a girar pagina, a tirare i remi in barca. La nostra ottusità, la nostra testardaggine, è irremovibile. Gesù ne è profondamente amareggiato; non sa capacitarsi della nostra incredulità: “Come fate a mettere in discussione ciò che faccio per voi? Come fate a non percepire l’amore, l’apertura, la misericordia che trasuda da ogni mia parola, da ogni mio gesto, da ogni mio sguardo? Come fate a non capire che vi amo? Che con me potreste essere diversi, vivere in maniera più umana, intensa, divina? Come fate a non riconoscere la vostra stoltezza, i vostri attaccamenti preconcetti, le vostre chiusure totali?”. Ecco, fratelli: è proprio qui tutta la delusione di Gesù. Il verbo greco thaumatizo, “meravigliarsi”, acquista in questo caso un valore ben più profondo della semplice meraviglia. Gesù, di fronte alla nostra cecità, alla nostra cocciutaggine, al nostro irrigidimento, rimane letteralmente costernato, incredulo, traumatizzato, senza parole. Non ci fidiamo di lui, siamo prevenuti! Einstein – che se ne intendeva di queste cose – diceva: “È più facile spezzare l’atomo che il pregiudizio!”.
Il dramma di Gesù, lo ripeto fratelli, è stato di non venire accolto da tutti a causa di un puntiglioso pregiudizio; è stato anche il dramma di tutti i profeti, di tutti quelli che lo hanno seguito e di quanti lo seguono; è il dramma di chiunque vive Dio; è il nostro dramma. Tutti noi, infatti, vorremmo essere accolti e amati dai nostri vicini, dai nostri concittadini per il nostro impegno nella Chiesa, per la nostra fede, per il nostro volontariato: vorremmo che ci riconoscessero subito, che ci salutassero per strada, che parlassero sempre bene di noi, che ci ammirassero per quello che, scioccamente, siamo convinti di essere e di meritare. Ebbene, fratelli, se è questo ciò che noi desideriamo, cerchiamo almeno di non essere noi per primi ad alimentare pregiudizi nei confronti dei nostri fratelli. Amen.
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