martedì 17 luglio 2012

22 Luglio 2012 – XVI Domenica del Tempo Ordinario

«In quel tempo, gli apostoli si riunirono attorno a Gesù e gli riferirono tutto quello che avevano fatto e quello che avevano insegnato. Ed egli disse loro: “Venite in disparte, voi soli, in un luogo deserto, e riposatevi un po’”. Erano infatti molti quelli che andavano e venivano e non avevano neanche il tempo di mangiare» (Mc 6,30-34).
Ci siamo lasciati domenica scorsa con la partenza dei discepoli: Gesù li ha mandati per le strade della Palestina a “guarire”. Oggi gli apostoli ritornano e gli riferiscono tutto quello che hanno fatto, tutto quello che è loro successo. E a ragione. Perché Gesù  è l’inizio e il termine del loro viaggio. Sono partiti da Lui, sono stati mandati da Lui, e adesso ritornano a Lui. Lui è il polo di attrazione, il loro riferimento, il loro centro.
Perché lo fanno? Per verificarsi, per condividere le esperienze, per rallegrarsi dei risultati ottenuti. Sono i motivi per cui qualunque venditore o agente assicurativo si relaziona anche oggi col suo capo. Tre motivi che a maggior ragione devono animare anche noi, nel nostro personale incontro con il Maestro.
Innanzitutto i discepoli tornano da Gesù per verificarsi. Verificarsi, vuol dire controllare se siamo nel giusto, se agiamo secondo i canoni, secondo verità. Ci verifichiamo non per darci un giudizio, un voto - non serve a niente stabilire se siamo bravi o no (per chi poi?) - ma per vedere se ciò che viviamo corrisponde esattamente a ciò che ci è stato proposto, a ciò che è il nostro bene, se è coerente con quanto professiamo e crediamo. Un po’ come con l’auto: la revisione serve per vedere che tutto funzioni a dovere, che non ci siano problemi latenti, che tutto corrisponda a quanto stabilito dalla casa costruttrice.
Nella nostra vita sono diversi gli elementi importanti, funzionali alla nostra crescita e realizzazione, che meritano di essere revisionati. Particolarmente alcuni.
Prima di tutto il lavoro: è senza dubbio importante, fondamentale, ma ogni tanto necessita di una nostra verifica: “Quello che facciamo è un buon lavoro? Il nostro modo di lavorare è corretto? Realizza i nostri ideali? Rispecchia la nostra personalità, il nostro modo di sentire?”. Noi siamo anche ciò che facciamo, siamo il nostro lavoro: un terzo della nostra giornata (otto ore) lo passiamo quasi tutti lavorando. Capite che se il nostro lavoro non rispetta determinati canoni, un terzo della nostra vita è inutile, buttata via, non si realizzerà mai.
Altro elemento importantissimo è l’amare, il donarsi, il dare e ricevere: anche qui ogni tanto dobbiamo controllare: “Ciò che chiamiamo “amore” è veramente “amore” o qualcos’altro?”. Perché non basta incollare su di una bottiglia l’etichetta “Prosecco” perché il suo contenuto sia matematicamente ottimo vino. Non basta dire semplicemente: “Io amo” e sentirci a posto. Il nostro è amore evangelico autentico, oppure un morboso attaccamento umano? Amiamo cioè soltanto per un ritorno egoistico, perché abbiamo paura di rimanere soli, per poter dare un senso alla nostra vita?
Anche la vita è un elemento basilare: vivere bene, poi, è essenziale, per cui ogni tanto dobbiamo fermarci e chiederci: “La nostra vita è davvero felice? Viviamo, oppure ci trasciniamo come dei morti viventi? O viviamo una vita che non è la nostra? O viviamo una vita sdoppiata, bella e coerente all’esterno, ma falsa e infedele nell’intimo?”. Certo scoprire la coesistenza in noi di un così lacerante dualismo, scoprire che la nostra vita spirituale è un completo fallimento, non è sicuramente consolante, anzi fa decisamente male; ma, fratelli miei, è molto peggio continuare a vivere mentendo a noi stessi, fare per convenienza cose che non ci piacciono, che non ci convincono, che non sentiamo nostre. Accontentarci, in questo caso, vuol dire accettare l’inutilità di una vita che non ci soddisfa, continuare nel grigiore di un fallimento, per paura di cambiare, di metterci in gioco, di rischiare.
Pure la preghiera è un elemento vitale che necessita periodicamente di una verifica: “Com’è la nostra preghiera? È un automatismo di parole? È la lista della spesa, il pozzo dei desideri irrealizzati? È la richiesta ripetitiva e puntuale di ciò che non riusciamo ad avere?” E ancora: “da dove nasce la nostra preghiera? Dal cuore? Dalla paura? Dalla paura di un Dio vendicatore (che ci punisca, che non ci voglia, che ci mandi all’inferno) o dall’amore per un Dio-Amore?”.
Ultimo ma non meno importante elemento è il nostro “stare insieme”, il fare comunità; un punto su cui ogni tanto dobbiamo guardarci bene negli occhi, verificarci a fondo, identificare bene le difficoltà che dobbiamo affrontare, ciò che dobbiamo cambiare, ciò che non va. Su questo punto la nostra verifica deve essere severa: magari quello che ne esce ci metterà in crisi, scopriremo situazioni che non vorremmo mai scoprire o vedere. Forse per questo molti non si fermano mai, non riflettono sulla loro esistenza, non si pongono questioni profonde: perché così facendo si illudono che tutto vada bene o che, ignorandoli, i problemi non esistano. Ma la politica dello struzzo non ha mai dato frutti apprezzabili… Del resto, fare verità vuol dire anche essere preparati ad affrontarla, qualunque essa sia. Solamente guardandola in faccia possiamo cambiare; solamente non raccontandoci “balle” possiamo affrontare e risolvere i problemi. È vero: “Veritas odium parit, la verità genera odio” ma è altrettanto vero che “veritas liberabit vos, la verità vi renderà liberi”.
I Dodici dunque tornano da Gesù prima di tutto per verificarsi: “Noi, Gesù, abbiamo fatto così. Tu che dici?”. E lo ascoltano per imparare, per vedere dove possono migliorare, cosa devono modificare. Gesù è il loro maestro, il loro supervisore. Si affidano a Lui perché credono in Lui: perché Egli sa cosa devono fare e come devono farlo.
Se vogliamo che la nostra verifica sia proficua, abbiamo bisogno anche noi di un “supervisore”, un maestro, un padre spirituale, una guida, un riferimento, ecc.; è un aiuto su cui dobbiamo fare affidamento; ebbene, come è avvenuto per gli apostoli, chi meglio di Gesù può aiutarci in questa nostra “revisione”? Dobbiamo imparare a parlare con Lui, a confidarci con Lui: sul nostro cammino, sulla nostra vita, sulla qualità del nostro lavoro. Avremo sempre valide ispirazioni.
Poi, oltre che per verificarsi, i discepoli tornano da Gesù anche per condividere con Lui i risultati del loro “andare”. È naturale che questa condivisione riservata porti a favorire e accrescere con Lui una reciproca comunione. L’unione tra due persone nasce infatti dal raccontarsi, dall’aprirsi. Non è il sesso o il matrimonio che fanno due persone unite. L’unità nasce dall’intimità, dal potersi dare, raccontare, accogliere, reciprocamente, dal poter entrare l’uno nel cuore dell’altro. Lo sappiamo tutti: quando abbiamo fatto qualcosa, grande o piccola che sia, abbiamo il bisogno di raccontarlo: il condividerlo con qualcuno, ci fa sentire più uniti, intimi, vicini, cuore nel cuore; ci fa gustare e assaporare ancor di più una nostra conquista: perché allora la gioia non sarà più soltanto nostra ma anche degli altri. Condividere un avvenimento, soprattutto se è pesante, angosciante, contribuisce a renderlo più sopportabile: il nostro peso diventerà più leggero perché l’abbiamo “diviso” con qualcun altro e non ci sentiremo più soli, abbandonati.
La condivisione vera, però, non è “cronaca” di ciò che è successo: “Ho fatto questo, e poi questo, e poi questo…”. La condivisione è tale quando riusciamo a far emergere dal profondo i nostri sentimenti, i nostri vissuti, ciò che ci ha emozionato, ciò che ci ha entusiasmato, che ci ha “mandato alle stelle”; o anche ciò che ci mandato “in bestia”, ciò che ci ha rattristato, fatto male, deluso, ciò che ci ha fatto sentire rifiutati. Condividere così, vuol dire esporsi, mostrarsi, farsi vedere, abbattere le difese, diventare vulnerabili: ma non c’è unione vera senza questa apertura. Molte persone parlano tanto, ma condividono poco. Molte persone ci parlano degli altri ma non di sé. Molte persone ci parlano solo di sciocchezze, di futilità, di chiacchiere o delle solite cose, come se dicessero: “Non voglio entrare dentro a questa cosa”. E rimangono all’esterno. Da sole. Invece quando possiamo condividere ci sentiamo accolti, sentiamo che qualcuno c’è, che qualcuno ci ascolta, che quello che viviamo non è stupido o insensato, perché c’è qualcuno a cui interessa e che lo ascolta di proposito. Allora sentiamo che la nostra vita merita di essere spesa generosamente fino in fondo, perché c’è qualcuno che l’apprezza.
I discepoli infine tornano da Gesù anche per esprimere la gioia per i loro successi.
Ed è naturale: essi si sono resi conto di aver fatto, almeno un po’, quello che faceva il loro maestro. E sono pieni di gioia! Comprensibile: anche noi quando riusciamo in qualcosa di importante, una buona azione, fare un bel dipinto o tenere una lezione magistrale, scrivere un bell’articolo o un libro, fare pubblicamente delle considerazioni profonde che colpiscono le persone, le aiutano nelle loro scelte, bene, anche noi, ne siamo orgogliosi e felici.
Certamente non dobbiamo dimenticare che anche queste cose bellissime sono destinate a passare. Non possiamo quindi attaccarci ai risultati positivi. Se lavoriamo soltanto per avere dei ritorni positivi o l’approvazione della gente, il successo, la gloria, ben presto diventiamo schiavi del nostro orgoglio. Dobbiamo cercare invece di rimanere liberi, di “non montarci la testa”. Per questo dobbiamo accettare anche qualche delusione: ci fa sempre bene, ci aiuta a tenere i piedi per terra.
D’altro canto però non dobbiamo neppure aver paura di gioire se quello che facciamo è buono, ci riesce. Ci dimostra che valiamo, che facciamo le cose con passione. E allora, quando riusciamo nel lavoro, non temiamo, godiamone. Quando sistemiamo tutte le nostre cose e tutto è in ordine, godiamone. Quando riusciamo a spiegare e a far capire cose importanti e profonde a qualcuno, godiamone. Anche quando vediamo semplicemente qualcosa di bello, sia esso il vento che ci accarezza o il sole che scende all’orizzonte colorando il cielo, un sorriso o un gesto di bontà disinteressato, godiamone, perché è Gesù che si rivela in tutto ciò. È allora che avvertiamo la sua presenza, che tocchiamo la sua mano soprattutto nei nostri successi; che percepiamo la sua fiducia in noi, nonostante tutto; nonostante sappia bene chi siamo, e conosca i nostri limiti, i nostri errori e i nostri orrori.
Gli apostoli hanno sicuramente vissuto e provato una situazione come questa: hanno predicato la buona novella e le persone che hanno creduto a quell’annuncio sono guarite dai loro mali e dalle loro malattie. Possiamo ben capirli: sono increduli, entusiasti, stupiti, dal vedere cosa succede e cosa riescono a fare; sono attimi intensi, provano una gioia immensa, irresistibile; hanno la certezza che un oceano di vita e d’amore inonda il loro cuore, si sentono terribilmente vivi; sentono di essere travolti da Lui, fiume impetuoso di Vita. Sentono che la loro vita ora ha un senso, e sentono anche che tutta l’umanità ha un senso se vive nella Vita. Come fanno a questo punto a tenere per sé tutta questa emozione, tutta quest’ebbrezza? Hanno bisogno di condividere con Lui, di dirlo a Gesù, perché solo Lui può capire la gioia che pervade il loro cuore. E a questo punto cosa fa Gesù? Nella sua infinita saggezza non dice: “Continuate, andate ancora; visto che avete avuto successo, tornate da dove siete venuti, insistete”; ma: “Adesso ci fermiamo e riposiamo”.
Gesù li invita a riposarsi, a non lasciarsi prendere dall’attivismo, dall’onnipotenza, dal credere che senza di loro il mondo non sarebbe andato avanti.
Ricordiamocelo anche noi fratelli: il mondo non dipende da noi; quando non ci saremo più, esso continuerà ad andare avanti senza di noi, esattamente come prima. Se di fronte ai mali del mondo, ai suoi problemi, alla gente che soffre, a chi sta male, pretendiamo di essere noi la soluzione di tutto, beh, sicuramente veniamo assaliti dallo sconforto, dall’impotenza. Perché c’è troppo da fare, c’è troppo da lavorare, c’è troppo da sistemare. Il rischio, allora, come per gli apostoli, è quello di perderci, di non avere più tempo per noi, tempo per pregare, per ricaricarci. Ecco perché dobbiamo fare esattamente quello che Gesù ha preteso dai discepoli: dobbiamo fermarci, calmarci, trovare un po’ di tempo per noi.
Nel vangelo troviamo talvolta un Gesù che scappa, che si sottrae a tutti e va in luoghi solitari dove nessuno può andarci. Perché lo fa? Perché conosce i suoi limiti umani, sa di avere bisogno di pause, sa che deve ricaricarsi, sa che deve ricollegarsi col Padre, pregandolo.
Gesù non si arrabbia mai perché tutti lo cercano; non si spazientisce mai con le persone che gli chiedono troppo. Quando è arrivato il momento, quando vede che è troppo, fa una cosa semplice: si protegge, lascia lì e si rifugia nella solitudine. Per egoismo? No, ma perché è necessario fare così, perché così facendo intende insegnarci che non serve a nulla strafare, perdersi, fondere, esaurirsi. Dobbiamo invece stabilire delle priorità, anche nella nostra vita di ogni giorno: distruggerci, non è per niente un atto di eroismo. Dimostra solo la nostra incapacità di gestirci, di dire qualche “no”, di fare delle scelte, di capire e accettare che non possiamo controllare tutto, non possiamo arrivare a tutto.
Dobbiamo imparare a saper rispettare i nostri limiti: il nostro cervello sempre in presa diretta, ha bisogno di “staccare”, di passare a qualcosa di rilassante, di alternativo: una passeggiata, uno sport, due chiacchiere, ridere, un po’ di silenzio, meditare, pregare, ecc. Invece oggi il trend che ci viene proposto è soltanto quello efficientista: lavorare, fare, correre continuamente, produrre senza sosta. Siamo come quel tizio che impiega tutte le giornate per riempire il frigorifero di cibo e poi non ha mai tempo per mangiare. Ebbene, noi siamo così. Siamo pieni di tutto ma non gustiamo niente.
A questo punto, fratelli, tiriamo le nostre conclusioni. Fermiamoci ogni tanto: stacchiamo la spina. Immergiamoci nella meditazione, caliamoci nella nostra anima. Ricarichiamoci: gustiamo nella meditazione silenziosa quella Parola che siamo mandati ad annunciare. Verifichiamoci, controlliamo l’autenticità delle basi del nostro efficientismo, per scongiurare la possibilità di dedicare tutto il nostro lavoro, tutte le nostre fatiche, ad una costruzione fondata sulla sabbia. Capite il fallimento. “Andate…”, dice Gesù. È vero, è Lui che ci manda: ma non ci manda di sicuro allo sbaraglio, anche se “la messe è tanta e gli operai sono pochi”; Egli anzi si preoccupa di noi; ci vuole sempre all’altezza; e si preoccupa che abbiamo le idee ben chiare, che la Voce del Padre, arrivi anche a noi chiaramente; che converta il nostro cuore; che lo colleghi saldamente a Lui, perché solo così poi, potremo trasformare la Parola in “liberazione dal male”, in “conforto”, in “guarigione” per i nostri fratelli.
E in che modo questo può accadere? Nella pausa, nel silenzio, nello stacco dalla normalità. È indispensabile fermarci, verificare in tutta umiltà se conosciamo davvero la Parola di Dio; se nella nostra vita convulsa, troviamo ancora tempo per meditarla sul serio; se, almeno quando andiamo a Messa, cerchiamo di ascoltarla, di ricordarla, di rielaborarla, per renderla nostra guida sicura. Dobbiamo assolutamente ricavare questi spazi, fratelli, dobbiamo ritornare al nostro Signore: perché solo così lo sentiremo penetrare nel nostro cuore: solo così Egli diventerà luce e forza in grado di cambiare il nostro stile di vita, facendoci riemergere dalla fitta nebbia che troppo spesso ci avvolge. Ecco, fratelli: il periodo delle “vacanze” che si apre davanti a noi, sia una provvidenziale occasione per farci entrare in contatto diretto con Lui, per capirlo e amarlo sempre più; la vitalità, l’entusiasmo che ne trarremo, daranno sicuramente nuovo vigore e nuovo impulso alla nostra missione. Amen.


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