«Un profeta non è disprezzato
se non nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua» (Mc 6,1-6).
Sacrosanta
verità! Ma cosa è successo a Gesù per fargli esclamare questa frase tremenda? Gesù,
ci dice oggi il vangelo, nel suo peregrinare lungo le strade della Palestina, giunge
nella sua città, continuando a comportarsi esattamente come altrove: nel giorno
di sabato, cioè, entra nella sinagoga, legge e spiega la Scrittura, predica. Come
tutti, i suoi concittadini lo ascoltano e rimangono all’inizio stupiti,
meravigliati; capiscono che le sue parole contengono qualcosa di grande, di
nuovo, di rivoluzionario; riconoscono che sono parole di vita, che risvegliano nel
loro cuore sentimenti nuovi, parole che toccano le corde più sensibili della
loro anima; ma poi, resisi conto che l’uomo che le pronuncia è uno di loro, un loro
concittadino, improvvisamente scuotono il capo, si tirano indietro, preferiscono
rimanere nelle loro idee, nelle loro convinzioni, nelle loro tradizioni, nelle loro
sicurezze. Come mai? Sappiamo che Gesù era franco, diretto nel suo parlare; non
si preoccupava se le sue parole potevano urtare qualcuno; non era diplomatico, non
era un politico; diceva esattamente quello che riteneva giusto davanti a Dio: diceva
cioè ai signori farisei che la loro religione era tutta una falsità; diceva ai
nobili sadducei che dietro la loro religione c’erano solo interessi di potere e
che quindi molte loro pratiche religiose, erano stupide, inutili, prive di
vita. Beh, fratelli, proviamo a metterci noi nei panni di chi ci credeva in
quelle pratiche, di chi le osservava scrupolosamente! Immaginate l’imbarazzo? È
quindi naturale che tutta questa gente sia entrata in crisi, sentendosi esaminata,
criticata, toccata in prima persona; ed è naturale che abbiano avuto una duplice
reazione: o di ravvedersi, accettando l’invito di Gesù di cambiare radicalmente,
mettendo quindi in discussione tutta la loro vita, oppure di attaccarlo
frontalmente, facendolo passare per pazzo, sparlando di lui, diffondendo sul
suo conto chiacchiere velenose, arrivando anche, se necessario, alla sua
soppressione: cosa che poi è stata fatta puntualmente.
Negli
altri villaggi della Palestina, il fatto che Gesù fosse uno sconosciuto,
giocava certamente a suo favore. Ma qui, a “casa sua”, è conosciuto bene, i suoi
compaesani lo considerano uno di loro; non è uno straniero venuto da chissà
dove, conoscono la sua famiglia, i suoi parenti, la sua infanzia; per cui di
fronte all’innegabile saggezza che trasuda dai suoi discorsi, è abbastanza
comprensibile la loro reazione, mossa soprattutto dall’invidia: “Chi si crede
di essere? Ha studiato qui con noi; non è laureato, non ha titoli accademici,
come fanno ad essere vere tutte queste cose che ci dice? Da chi le ha imparate?
Chi gliel’ha messe in testa? Ti ricordi? Era in banco con te, con me, neppure
era tanto bravo a scuola. Anche la sua famiglia è sempre stata un po’ strana,
ricordi? Evidentemente anche lui ha preso da loro!”. Gesù insomma, come dice il
vangelo, “era per loro motivo di scandalo”: non possono cioè neppure immaginare
che Dio possa manifestarsi tramite un tizio come lui, uno qualunque, uno che essi
conoscono da sempre molto bene, e che non si è mai distinto per qualcosa di
speciale. E decidono che, proprio lui, non poteva essere l’inviato da Dio, e
quindi non era affidabile.
Inutile
discutere, fratelli, è una cosa che succede anche oggi: per quelli che ci
conoscono, noi saremo sempre i “figli di tizio, i figli di caio”; qualunque sia
la nostra carriera professionale, noi rimarremo sempre, per tutta la vita, gli
stessi “ragazzi” di una volta: siamo ormai etichettati: siamo stati “definiti” una
volta per tutte, in maniera rigida. Il guaio è che così facendo essi rinunciano
a conoscerci veramente. Pensano di conoscerci a puntino, ma in realtà ci vedono
e ci giudicano non per quello che siamo diventati, ma per quello che eravamo.
Cambiare
opinione, è sempre difficile, significa abbandonare vecchie e radicate posizioni.
Ed è
esattamente quello che è successo a Nazareth: gli abitanti hanno rifiutato Dio,
convinti di conoscere Gesù molto bene. Ma in realtà, questa gente lo conosceva veramente,
o conosceva solo la sua immagine lontana, remota, la sua “etichetta”?
E
questo vale anche per noi: conosciamo veramente Dio o conosciamo la nostra idea
di Dio (l’etichetta), l’immagine che ci siamo fatti di Lui, alla quale siamo tanto
attaccati? Come pure: conosciamo realmente nostro marito, nostra moglie, i
nostri amici, coloro che ci stanno vicini, o conosciamo solo l’idea che per
convenienza ci siamo fatti di loro? Sentite questa: un avvocato riceve la
fattura dell’idraulico per dei lavori; poiché gli sembra decisamente troppo
cara, lo chiama e gli dice: “Ehi, ma tu mi sei costato duecento euro all’ora.
Non li prendo neppure io che sono avvocato!”. E l’idraulico: “Nemmeno io li
prendevo quando facevo l’avvocato!”. Ecco: al di là della battuta, la realtà,
le persone, la vita sono spesso più grandi dei nostri pensieri, delle nostre
etichette, delle nostre valutazioni. Giudicare è sempre difficile. È una
facoltà, il giudicare, il giudizio, che ha origini molto lontane nella nostra
vita, di quando eravamo bambini: allora era tutto più semplice, dividevamo ogni
cosa in “buono” o “cattivo”; era “buono” quello che non era pericoloso, quello che
ci piaceva, che non ci faceva male; “cattivo” era quello che ci faceva piangere,
che ci creava problemi, quello che non potevamo gestire. Ma poi abbiamo dovuto
fare i conti con la realtà, e abbiamo imparato che stabilire cosa sia “buono”,
ossia vero, lecito, meritevole, è molto più complesso. Non sempre il giudizio è
facile; anzi, in ogni caso, è traumatico, poiché spezza, divide, distrugge le
persone (in greco krino, “giudicare”,
vuol dire proprio dividere).
Giudicare è il tentativo dell’uomo di controllare, di possedere la realtà
perché gli fa paura. Quando una persona giudica molto, spara giudizi ovunque, vuol
dire che è piena di paure. Tenta in quel modo di fissare delle etichette, dei
ragionamenti; cerca cioè di rendere più semplice la realtà, classificandola. Ma
“giudicare” con rettitudine, garantito, non è impresa semplice! È un po’ come
voler far passare tutta l’acqua del mare per il tubo del lavandino. Ricordate il
mito del “letto di Procuste”? Procuste era un bandito malvagio che rapiva i
passanti e li faceva prigionieri. Poi li stendeva su di un letto e se il
prigioniero era troppo piccolo gli tirava le gambe, allungandolo fino a
raggiungere la lunghezza del letto; se invece era troppo alto e andava fuori
misura, gliele accorciava tagliandole. Bene: il “letto di Procuste” rappresenta
tutte quelle persone che si rifiutano di accettare la realtà per quella che è,
devono giudicarla, “allungarla”, “tagliarla”, accorciarla, cambiarla,
deformarla, per farla rientrare nei loro rigidi schemi mentali.
Nel
vangelo leggiamo di persone che, incontrando Gesù, si trasformano, cambiano
radicalmente, non sono più loro, diventavano totalmente nuove; ma anche di
altre che, ancorate nei loro giudizi e nei loro schemi, non si lasciano scalfire
neppure di una virgola. Rimangono del tutto indifferenti, anzi si infastidiscono,
sono estranee, totalmente “fuori”. Per alcuni Gesù è luminoso, chiaro, lampante,
perché in Lui è presente Dio; per altri invece è completamente oscuro, opaco.
Questo
ci dice, fratelli miei, quanto sia decisiva la fede per la nostra vita cristiana.
La fede è la capacità di vedere, di riconoscere, di percepire che Lui vive,
agisce, è presente e si manifesta nella nostra vita. Dio non può fare nulla se noi
non lo riconosciamo. Dio è assente, se per noi è assente. Se non ci apriamo alla
fede, non possiamo fare nulla, nulla ci sarà mai possibile, la nostra vita sarà
un continuo tormento, un vagabondare senza meta. La fede non è capire, fratelli:
la fede è sperimentare, incontrare, accettare incondizionatamente, Lui vivo. Ma
se non siamo noi a lasciarci coinvolgere, se non gli permettiamo noi di tirarci
dentro, di farci cambiare, di essere un tutt’uno con Lui, state sicuri,
fratelli miei, che neppure Dio può sostituirsi in questo a noi. In teoria, a
parole, tutti vogliamo Dio, tutti lo amiamo, tutti diciamo di volerlo accogliere.
Ma poi, in pratica, riconoscere che Dio ci salva solo se noi lo vogliamo; che
Dio ci ama solo se noi ci apriamo; che Dio ci cambia solo se noi glielo
permettiamo; che Dio ci porta al centro della sua Vita, solo se noi camminiamo
al suo fianco, è molto difficile, perché richiede da parte nostra molta
responsabilità e applicazione. È proprio vero, fratelli miei: senza di noi, Dio
non può far nulla per noi.
Abbiamo
detto dunque che i suoi concittadini “si scandalizzavano di lui”. Il verbo è
molto forte; indica l’indignazione verso Gesù. Non riescono ad accettare che
uno di loro, uno che conoscono, sia diverso. In quel verbo c’è tutto il loro rifiuto;
c’è lo sdegno, la rabbia, il disprezzo, il rifiuto, l’odio per Gesù. Certo,
Gesù in tutta la sua vita non è mai stato indifferente, per nessuno: i suoi contemporanei
o erano con Lui o contro di Lui. E lo stesso vale anche per noi oggi: o lo amiamo
o lo odiamo; o lo lasciamo entrarci dentro o gli chiudiamo la porta in faccia e
lo lasciamo fuori. Non ci sono alternative. La storia di Gesù continua ad
essere quella di un uomo che è molto accettato e amato; ma è anche la storia di
un uomo che dai più è categoricamente rifiutato.
Brutta
cosa il rifiuto, fratelli. Non cerchiamo mai il rifiuto, la lotta, il conflitto,
per il gusto di sentirci delle vittime, per sentirci dei martiri. Saremmo dei masochisti,
dei malati: ci sono persone che più sono avversate, rifiutate, contestate, emarginate,
più si sentono sante, più godono: è anche questa una forma di malattia: “Guardate
come soffro, guardate quanto è crudele il mondo con me, ma io sopporto tutto
stoicamente”.
È altrettanto
vero però che il rifiuto, la “persecuzione” degli altri, se non è da noi cercato
ma accettato umilmente, può costituire un motivo di ascesi, di grande crescita spirituale.
Perché di fronte ad esso, viene fuori chi siamo realmente; emerge l’autenticità
della nostra vocazione, l’autenticità delle nostre scelte; facciamo vedere cioè
quanto noi realmente vogliamo queste nostre scelte, queste nostre convinzioni.
Se alla prima contrarietà abbandoniamo subito, che radici potranno mai avere?
Quanto saranno profonde? Ecco allora che l’ostilità ci fa capire se crediamo realmente
in ciò che diciamo. Dobbiamo pagare in prima persona per verificare se si
tratta semplicemente di parole o di fatti.
Quante
persone sentiamo dire: “Io credo in Gesù, ma è troppo difficile…”. No, fratelli,
non credono; semmai credono di credere. Credere vuol dire aderire con tutta la nostra
mente alla Verità, vuol dire essere disposti a mettersi in gioco direttamente,
a pagare sempre di persona. Altrimenti sono solo parole. Dicevano i saggi: “Se l’uomo
non paga di persona per ciò che crede, o non vale nulla l’uomo o sono le sue idee
a non valere”.
E concludo.
“Nessuno è profeta in patria”, decreta il vangelo: è un’amara constatazione, che
è diventata anche un proverbio. Ma sappiamo che in realtà è la storia di un
popolo, Israele, che non ha mai dato ascolto ai profeti. Sono parole che indicano
la rassegnazione di Gesù per il rifiuto della sua persona; esprimono il dolore
e l’impotenza di fronte al pregiudizio dei suoi concittadini: e allora meglio
non insistere, meglio andare altrove. Meglio cambiare. “Neanche se Dio
scendesse, voi credereste”, ebbe a dire in altra occasione. Ed è proprio così,
fratelli. Gesù a volte anche con noi è costretto a girar pagina, a tirare i
remi in barca. La nostra ottusità, la nostra testardaggine, è irremovibile. Gesù
ne è profondamente amareggiato; non sa capacitarsi della nostra incredulità:
“Come fate a mettere in discussione ciò che faccio per voi? Come fate a non
percepire l’amore, l’apertura, la misericordia che trasuda da ogni mia parola,
da ogni mio gesto, da ogni mio sguardo? Come fate a non capire che vi amo? Che
con me potreste essere diversi, vivere in maniera più umana, intensa, divina?
Come fate a non riconoscere la vostra stoltezza, i vostri attaccamenti preconcetti,
le vostre chiusure totali?”. Ecco, fratelli: è proprio qui tutta la delusione
di Gesù. Il verbo greco thaumatizo,
“meravigliarsi”, acquista in questo caso un valore ben più profondo della
semplice meraviglia. Gesù, di fronte alla nostra cecità, alla nostra cocciutaggine,
al nostro irrigidimento, rimane letteralmente costernato, incredulo, traumatizzato,
senza parole. Non ci fidiamo di lui, siamo prevenuti! Einstein – che se ne
intendeva di queste cose – diceva: “È più facile spezzare l’atomo che il
pregiudizio!”.
Il
dramma di Gesù, lo ripeto fratelli, è stato di non venire accolto da tutti a
causa di un puntiglioso pregiudizio; è stato anche il dramma di tutti i profeti,
di tutti quelli che lo hanno seguito e di quanti lo seguono; è il dramma di chiunque
vive Dio; è il nostro dramma. Tutti noi, infatti, vorremmo essere accolti e
amati dai nostri vicini, dai nostri concittadini per il nostro impegno nella
Chiesa, per la nostra fede, per il nostro volontariato: vorremmo che ci
riconoscessero subito, che ci salutassero per strada, che parlassero sempre
bene di noi, che ci ammirassero per quello che, scioccamente, siamo convinti di
essere e di meritare. Ebbene, fratelli, se è questo ciò che noi desideriamo,
cerchiamo almeno di non essere noi per primi ad alimentare pregiudizi nei
confronti dei nostri fratelli. Amen.
«In quel tempo, essendo Gesù
passato di nuovo in barca all’altra riva, gli si radunò attorno molta folla…”La
mia figlioletta sta morendo: vieni a imporle le mani, perché sia salvata e
viva”… “Se riuscirò anche solo a toccare le sue vesti, sarò salvata”… e sentì
nel suo corpo che era guarita dal male» (Mc 5,21-43).
Nel
vangelo di oggi sono tre gli elementi che desidero sottolineare. Prima di tutto
il passaggio di Gesù da una parte all’altra del lago di Genezaret; poi le due
figure di donne, due situazioni di vita completamente diverse: la giovane
figlia di Giairo e la donna sofferente di abbondanti perdite di sangue.
Gesù nel
suo peregrinare passa dunque da un luogo all’altro, compie continui spostamenti;
e il suo non è solo un passaggio materiale, uno spostamento fisico, ma è un affrontare
e risolvere questioni nuove, lasciare nuovi insegnamenti adeguati alle nuove
situazioni. La vita infatti è fatta di distacchi, di passaggi, di cambiamenti:
si lascia un posto per andare verso un altro, verso nuovi contesti. E quando ciò
avviene, in noi si scontrano due forze diametralmente opposte: la forza
conservatrice e quella progressista. Una prima dice: “Sta fermo qui, non
muoverti. Qui sei al sicuro, perché andare a rischiare? Perché metterti in
pericolo? Qui conosci già tutto: il tuo territorio, il tuo spazio, le persone
che ami; cercare, cambiare, conoscere, andare verso l’ignoto è pericoloso”. E
così ci convinciamo di rimanere fermi, di non crearci problemi, difficoltà, di
stare nel nostro nido. Abbiamo praticamente tutto; perché mai dovremmo cercare
qualcos’altro? Ma nessun vivente che si apre alla vita rimane sempre nel suo nido,
nessuno si rifiuta di imparare a muoversi da solo, a fare le proprie
esperienze, nessuno ignora i suoi desideri, nessuno lascia le proprie
aspirazioni disattese. Quello che andava bene prima, ad un certo momento non ci
soddisfa più, sentiamo che ci manca qualcosa, che dobbiamo aprirci ad altri
bisogni, ad altri spazi. È il richiamo della Vita, fratelli, una Vita che ci vuole
sempre più noi stessi, che ci immergiamo sempre di più in lei. Allora dobbiamo andare
oltre. E allora ecco l’altra forza che ci spinge ad uscire, che ci dice:
“Fuori, cerca, costruisci, divieni, diventa te stesso, diventa ciò che la Vita
vuole per te”. E Gesù, in questo suo uscire, in questo suo passare oltre, ci
insegna che ci sono delle difficoltà, che ci sono degli elementi duri e ostici
da affrontare, ci sono degli imprevisti. È la tempesta che lo ha colto
improvvisamente nel lago (il vangelo di domenica scorsa). La vita non è tutta
rose e fiori; è un luogo dove tempeste, eventi duri, scontri, lotte, accadono
continuamente. Eppure sono proprio le difficoltà che ci fanno scoprire la
nostra forza e la nostra fiducia. Dobbiamo imparare non a evitare le tempeste
perché altrimenti saremo sempre in fuga dalla realtà, dal mondo e dagli altri.
Quante
volte parlando con gli altri noi diciamo di noi stessi: “Io non riesco ad
essere cattivo”; dove per “cattivo”, intendiamo uno che sa farsi rispettare,
uno che fa valere con decisione le sue ragioni. E ne siamo tutto sommato
soddisfatti. Ora, da una parte è anche comprensibile, ma così facendo rimaniamo
in balia di tutto e di tutti. Se la carità e l’amore ci guidano nei rapporti
col prossimo, per il resto non dobbiamo rimanere passivi, insensibili e
comunque perdenti: abbiamo il dovere di realizzare e valorizzare il capolavoro
che Dio ha immaginato in noi, la nostra dignità di Figli. È questo l’insegnamento
di Gesù: dobbiamo cioè prendere coscienza di ciò che siamo, dobbiamo custodire
tutto il bello e il buono che ci è stato dato, e lavorare su di noi per buttare
via ciò che fa male, ciò che è negativo, così da costruire saldamente la nostra
personalità. La “nostra” vita, fratelli, non dipende dagli altri: è nelle nostre
mani, nelle nostre scelte, nelle nostre decisioni responsabili. Questo vuol
dire essere adulti: è il passaggio dal bambino istintivo all’adulto razionale.
Il “noi”-bambino si aspetta tutto dagli altri: “La parrocchia… il governo… il
comune… la Chiesa… dovrebbero fare così e così… spetta a loro”. L’adulto,
invece, è lui che fa in prima persona.
E
arriviamo alle due figure femminili: la prima è la figlia dell’uomo, Giairo,
descritto nella prima parte del vangelo di oggi. Lui è il capo della sinagoga,
è una persona importante in paese e sua figlia deve essere l’orgoglio del papà.
Perché, si sa, un figlio è sempre lo specchio dei genitori. Siamo avvocati,
medici, laureati, professori? ebbene, noi che sappiamo di essere gente
superiore, non possiamo avere un figlio come tutti gli altri. Il nostro deve essere
un “modello”, deve essere assolutamente “più” degli altri: nostro figlio è
sempre il più bravo, il più bello, il più educato, il più intelligente, il più
sportivo, quello che eccelle in tutto, ecc. Ma nostro figlio è solo un bambino,
un bambino come tutti. Quanti genitori dicono: “Mio figlio è già un ometto, un
adulto. Parla e si comporta come un grande!”. E ne sono fieri, magari causando
uno stravolgimento della realtà: è un dramma infatti assistere in TV a certi
scimmiottamenti di divi o dive imposti ai loro piccoli da genitori obnubilati
dall’orgoglio! Dovremmo proprio chiederci: “dov’è finito il bambino che era
vostro figlio?” Hanno costruito un palazzo distruggendo le fondamenta!
Giairo
parla di sua figlia e la chiama “figlioletta”; ma sua figlia ha già dodici anni
e a quell’età in Israele si era adulti. La tratta ancora come la sua bimbetta,
ma non lo è più, non è più il suo “giocattolo”. Quante volte sentiamo dire: “Sono
così belli da piccoli!”: certo, ma attenzione: non sono dei giocattoli con cui
ci divertiamo. E poi, sono belli perché fanno quello che vogliamo noi o sono
belli perché sono “unici”?
Gesù,
a differenza del padre, tratta questa fanciulla da adulta: dopo averla
“svegliata”, ordina di darle da mangiare. Il cibo è la vita, il nutrimento, la
voglia di vivere. Questa ragazza probabilmente non aveva più voglia di mangiare,
non aveva più voglia di vivere perché soffocata dai legami familiari troppo
intrusivi (noi oggi la definiremmo “anoressica”). Che in tale situazione ci
fosse la responsabilità dei genitori, ci viene suggerito dal fatto che Gesù per
entrare nella stanza dove giaceva la ragazza, prenda con sé non solo il padre,
ma anche la madre. Questa figlia (in genere avviene così per tutte le
anoressiche) respingeva oltre il padre anche la madre, non voleva il loro “nutrimento”.
Ma Gesù la chiamerà per quella che è: “Talità, ragazza, donna. Non sei più
bambina, cresci, divieni, fiorisci; hai dodici
anni”.
Altre
parole che sentiamo spesso: “Godetevi i figli finché sono piccoli, perché poi, da
grandi, sono solo problemi”. Per forza: da piccoli ce li godiamo perché fanno
come diciamo noi, ci obbediscono! Ma poi crescono e vogliono dire la loro e
vogliono fare le loro scelte, le loro esperienze. Allora non li controlliamo
più, allora ci sfuggono. E a questo punto emerge nella sua autenticità il
nostro stile educativo: quello oppressivo,
tirannico che dice: “Finora mi ha sempre obbedito, e gli è andata bene; adesso
vuol fare di testa sua? che si arrangi!”; un comportamento deleterio e diseducativo
che fa crescere nei figli dipendenza e paura, sottomissione e ribellione. L’altro
stile invece, quello del colloquio e
della condivisione, dice: “Ora sei
grande, possiamo finalmente discutere; parliamone, confrontiamoci!”; uno stile che
fa crescere nei figli fiducia e amore. Ovviamente, fratelli, ciò è possibile
solo se noi stessi siamo genitori maturi e adulti. Quanti padri, invece, quando
la figlia arriva all’adolescenza la rinnegano. Fino a quel momento era la “loro
bambina”; ma improvvisamente la “loro” bambina preferisce i ragazzi suoi
coetanei, si scontra con il padre, rifiuta quello che prima accettava, non
vuole più il “bacetto” della buona notte. Se prima il padre era il suo mito
adesso non lo è più. Se prima la madre era la sua confidente, ora è un’antagonista.
Allora i genitori, che in qualche modo si sentono rifiutati, adottano
generalmente due comportamenti, entrambi negativi: o la lasciano sola, disinteressandosi
completamente di quello che lei fa e di come lo fa, oppure non accettano che diventi
grande: diventano succubi delle loro paure, delle loro difficoltà di adattarsi
alla nuova situazione: non è più soltanto “nostra” figlia; sta diventando una
donna, appartiene al mondo! La ragazza del Vangelo vuole crescere, vuole
diventare donna, adulta, grande, autonoma. I suoi invece la stanno uccidendo,
la stanno soffocando, non la vogliono lasciare, non sono preparati a perderla. Per
questo non si regge sulle proprie gambe, non sta in piedi, non può confidare in
se stessa, perché suo padre la soffoca: decide tutto lui (è il capo della
sinagoga, lui sa!); la dirige, perché solo lui sa quali scelte sono buone per
lei. È chiaro che questa figlia deve staccarsi da casa sua, deve tagliare il
cordone ombelicale per poter crescere. È chiaro che per lei è difficile, perché
ama suo padre. Vuole andarsene ma non vorrebbe procurargli troppo dolore.
Abbiamo
mai pensato, fratelli miei, quanto sia difficile per i nostri adolescenti dirci
di no, mettersi contro di noi, opporsi a noi? Ci vogliono bene, non vogliono
deluderci, sentono di aver bisogno di noi. E se noi ci intromettiamo
prepotentemente in tutto, potrebbero anche non affrancarsi mai. È chiaro allora
che la figlia ha tutti i buoni motivi per mettere da parte suo padre, altrimenti
non arriverà mai a realizzare la sua autonomia, non potrà mai trovare nessun
altro uomo, né potrà vivere la sua vita. Ma è ancor più chiaro che Giairo deve
lasciarla andare. Per lui, lasciarla andare, è come vederla morire. E sua figlia,
come avviene nel vangelo, effettivamente muore. Giairo ricorre a Gesù: ma sua
figlia potrà guarire, potrà rivivere, solo a condizione che lui accetti il
fatto che sua figlia non è più una bambina ma una donna: e lo riconosce,
inginocchiandosi davanti a Gesù; riconosce, cioè, di essere lui, in prima
persona, il maggior responsabile della malattia della figlia, di essere lui la
vera causa di questo disagio; e gli chiede aiuto. Ma Gesù non fa sconti a
Giairo; la guarigione arriva soltanto dopo che la figlia è morta. Egli deve prima
“distaccarsi” da sua figlia. Questo deve avvenire e avverrà. Giairo deve
accettare questa “morte” dentro di sé. Persa la figlia, la bambina, deve
accettare la donna, una donna che cammina con le sue gambe, che “è passata” ad
un altro stile di vita. Amare è far
diventare grandi, adulti, indipendenti, autonomi. Amarsi è diventare grandi, adulti, autonomi, responsabili della
propria vita senza delegarla più a nessuno.
L’altra
donna del vangelo, invece, è già adulta, ed è gravemente ammalata: soffre cioè di
continue e dolorose perdite di sangue. Questa donna ha dei seri problemi con la
sessualità, con la sua femminilità. La stessa religione ebraica le impedisce di
guarire: lei impura non può toccare nessuna persona, tanto meno un maestro come
Gesù: renderebbe impuro anche lui. È una donna che vive isolata perché rende
impuro qualunque cosa o persona le capiti di toccare.
C’è
una religione che guarisce e c’è una religione che invece ammala. Per esempio tutto
ciò che era sessualità, fino a qualche tempo fa, era peccato. La donna dopo il
parto poteva entrare in chiesa soltanto dopo quaranta giorni; avere rapporti sessuali
prima del matrimonio era peccato gravissimo e se la donna rimaneva incinta, e non
era sposata, il matrimonio riparatore doveva essere celebrato alle cinque o
alle sei di mattina; se si guardava con ammirazione una donna era peccato; se si
pensava intensamente ad una donna era peccato; qualche confessore si
preoccupava soprattutto di “quei peccati”, tutto il resto era secondario. Parlare
di sessualità era tabù; se uno aveva un qualsiasi problema sessuale doveva
gestirselo da solo. La sessualità non era un piacere ma un dovere (coniugale) e
l’unico scopo per viverla era fare figli. Una religione con tali convinzioni ha
sicuramente contribuito a iniettare terribili sensi di colpa nelle coscienze di
tanti fedeli. E le donne subivano! Certo non era così dappertutto e per tutti,
ma quasi!
Oggi,
come fede, come chiesa, dobbiamo avere il coraggio di parlarne apertamente, non
soltanto per stabilire se la sessualità va praticata prima o dopo il matrimonio.
Dobbiamo avere il coraggio di riconoscere che la sessualità è la forza,
l’energia più forte che come uomini, come donne, possediamo. Un’energia
dirompente, intensa, passionale, esplosiva; un’energia che fa paura, e proprio per
questo, deve essere gestita bene. È energia di vita. Dobbiamo capire cosa
accade, cosa c’è in gioco, dobbiamo entrare in quest’argomento così vitale per
l’uomo e per le donne: è nella relazione sessuale che nasce la vita: ora, se
non c’è Dio qui, in quale altro posto c’è? Nella sessualità noi sperimentiamo infatti
la forza creatrice di Dio, l’intensità e l’unione più grande di un rapporto; nella
sessualità si innescano le paure più grandi: di essere dominati, rifiutati,
traditi, di non lasciarsi andare, di non essere all’altezza, di essere
vulnerabili; emergono la nostra aggressività, le nostre ossessioni e
perversioni: ebbene, se non c’è bisogno di Dio, di guarigione, di
comunicazione, di aprirsi qui, dove mai? Nella sessualità si vivono le unioni
più profonde e le divisioni più grandi: per questo c’è bisogno di confronto, di
relazione umana ed evangelica, di potersi esprimere, comprendere, donare.
L’oscurantismo
e la paura di una volta erano sicuramente riflesso della paura della
sessualità. Una paura, però, che ha portato per reazione all’attuale esaltazione
insensata e delirante della sessualità: dal nulla, oggi navighiamo impunemente
nel troppo!
A ben
vedere, la donna del vangelo che soffre di emorragie è dissanguata non solo
perché perde sangue ma perché ha perso tutti i suoi averi nella ricerca della
guarigione. È una donna umile, una donna che dà, una che fa un sacco di cose
per gli altri, che si “fa in quattro per gli altri”.
Il
sangue è la forza vitale dell’uomo: senza sangue si muore! Il suo sangue è la
sua affettività, i suoi sentimenti, che offre a tutti; ma dai quali non riceve
niente. Il suo sangue versato è il simbolo di tutto quello che lei spende, dà,
versa agli altri, ma che non crea e non fa nascere nulla. Questa donna ha dato
la sua vitalità a tante persone ma non è felice, anzi è ammalata, triste,
insoddisfatta e sola. E ciò perché ha sempre dato per ricevere. Dà per avere
amore, per avere attenzioni, per essere riconosciuta, per “guarire”. Dà molto,
ma lo fa per ricevere anche molto.
Ci
sono due modi di dare: c’è chi dà perché è pieno di amore e c’è chi dà per
ricevere qualcosa in cambio. Chi dà perché è ricolmo d’amore, lo fa con
passione, con un entusiasmo che nasce dalla ricchezza del suo cuore. Non chiede
niente, quindi non ha pretese, non colpevolizza gli altri se non fanno altrettanto
e non fa la vittima se gli altri non lo ricambiano. Lui dà perché si sente
sovrabbondante. Chi dà per ricevere, invece, ha bisogno di affetto, di
attenzioni, di riconoscimento. E siccome non è in grado di chiedere, fa qualunque
cosa, si distrugge, “si disfa”, pur di avere un ritorno. Siccome il suo cuore è
vuoto, egli deve in ogni caso ricevere; ma non è mai pago: gli altri non lo
fanno mai bene, non basta mai, non fanno come vuole lui, ha sempre da ridire.
Ciò
che colpisce comunque di questa donna è il suo coraggio: infrange le regole e
fa ciò che non si poteva fare: tocca Gesù. Ciò che fa è sfrontato, ardito,
pericoloso; è una donna che vuole vivere ad ogni costo. Ciò che colpisce è la
sua convinzione di poter guarire, il suo non adattarsi alla sua attuale condizione.
Gesù le dirà alla fine: “La tua fede ti ha salvato”. Cioè: “è per questo
coraggio, per questo credere al di là di tutte le tue sconfitte e le tue delusioni,
che tu sei guarita. Tu hai dato fiducia alla vita che c’era in te, e non alle
regole che invece la bloccavano; ecco, sei guarita”.
Questo
è Gesù, fratelli. Gesù le dà esattamente ciò di cui ha bisogno: una forza che
da lui passa a lei. Finalmente, forse per la prima volta, questa donna trova
accoglienza, trova qualcuno da cui ricevere, qualcuno che non le chiede più soltanto
di dare ma dal quale può finalmente ricevere amore e riconoscimento. Ma ad una
condizione: Gesù chiede: “Chi mi ha toccato?”. Chiede cioè di uscire allo
scoperto, di legittimare il suo bisogno di amore, i suoi impulsi e i suoi desideri.
Ella deve venir fuori davanti a tutti e affrontare il giudizio della gente. Se
prima gli si è avvicinata da dietro, di nascosto, adesso deve farlo davanti e
davanti a tutti. Solo in questo modo la vita torna a circolare dentro di lei, e
possiamo esserne sicuri, anche fuori di lei.
Ebbene
fratelli, noi siamo vita: la vita vuole circolare liberamente in noi. La vita
vuole uscire ed esprimersi da noi. Mettiamo allora in circolazione la vita che abbiamo
dentro. Siamo vita che vuol vivere. Sì, fratelli: noi abbiamo bisogno di amare;
abbiamo bisogno di dire a qualcuno: “Ti amo, ti voglio bene, sei importante per
me”. Noi abbiamo bisogno di essere amati, abbiamo bisogno che qualcuno ci dica:
“Ti amo, ti voglio bene, sei luce per i miei occhi”. Noi abbiamo bisogno di
affetto: abbiamo bisogno di accarezzare e di essere accarezzati, abbiamo bisogno
che l’amore che vive in noi esca attraverso le nostre mani, il nostro corpo, i nostri
gesti, le nostre parole. Noi esistiamo e abbiamo bisogno di esprimerci. Abbiamo
bisogno di sentire che ci siamo, che possiamo esprimerci, che possiamo
scegliere, che possiamo plasmare la nostra vita. Abbiamo dentro di noi
sentimenti ed emozioni che non possiamo lasciar languire. Tutto in noi è vita. Vita
è il nostro pianto: abbiamo bisogno che le lacrime solchino il nostro volto perché
in certi giorni soffriamo. Vita è la nostra rabbia: abbiamo bisogno che la
rabbia, il nostro “no” a ciò che non ci va bene, esca fuori. Vita è lo stupore
che portiamo dentro: abbiamo bisogno di fermarci e di congiungere le mani
quando l’invisibile si fa visibile, quando la bellezza si dipana davanti ai nostri
occhi, quando la tenerezza tocca il nostro cuore. Vita è la felicità che abbiamo
dentro: abbiamo bisogno di cantare, di danzare, di ballare, di ridere e di
sorridere. Vita è creare: abbiamo bisogno di fare di noi qualcosa di utile, abbiamo
bisogno che la nostra vita produca altra vita. Vita è chiedere aiuto: abbiamo bisogno
di sentire la presenza, la vicinanza, l’accompagnamento e l’amore di qualcuno
per noi. La vita ci abita ma non può vivere se non la esprimiamo. Dobbiamo avere,
come questa donna del vangelo, la forza di legittimarci, di tirare fuori tutta
la vita che c’è dentro di noi e che vuol vivere. La vita per sua natura vuol
espandersi, uscire, nascere. Bloccarla, è morire.
Fede è
far vivere la vita che c’è in noi. Peccato, è seppellire e lasciar morire la
vitalità che Dio ha messo in noi. La qualità essenziale della vita è la “vitalità”.
Senza vitalità siamo come un mare senz’acqua o un campo senza terra. Senza
vitalità siamo come un ramo secco attaccato all’albero: si aspetta soltanto che
cada. Vitalità è amare sempre, con perseveranza, ad ogni costo, oltre ogni avversità.
A volte pensiamo che i grandi amori siano come gli alberi secolari, destinati a
sfidare qualunque tempesta, e soprattutto a lottare contro il tempo, senza mai venir
meno, senza mai morire. Invece non è così, fratelli; anche un grande albero può
perdere lentamente i suoi rami e diventare secco. I grandi amori, come gli
alberi, non muoiono per un colpo di vento o per un po’ d’acqua in meno. Muoiono
se li facciamo morire dentro. Pensiamo che vivano anche senza linfa vitale. Ma
non è possibile. Due vecchietti sposati da tempo immemorabile sono seduti in
stazione e aspettano il treno. Sulla panchina di fronte, siedono due giovani innamorati.
I due anziani osservano la giovane coppia in silenzio. La ragazza abbraccia il ragazzo
con tenerezza e lo bacia teneramente. L’uomo anziano, con gli occhi che
brillano, sfiora la moglie con la mano e le sussurra: “Potresti farlo anche
tu!”. L’anziana donna lo guarda sdegnato: “Ma se non lo conosco neppure!”. Non
le era neppure sfiorato il pensiero che lui parlasse di loro due e non della
giovane coppia. Ecco, questo è arrivare a non vivere fino in fondo la vita;
questo è rimanere senza linfa e far morire la vita dentro. Amen.
«Per Elisabetta si compì il
tempo del parto e diede alla luce un figlio. I vicini e i parenti udirono che
il Signore aveva manifestato in lei la sua grande misericordia, e si
rallegravano con lei» (Lc 1,57-66.80).
Il
calendario liturgico, quest'anno, ci propone una delle feste più significative
della cristianità: la nascita del Battista. Giovanni è una figura straordinaria
all'interno della fede: Gesù stesso lo indica come il più grande uomo mai
vissuto, “il più grande tra i nati di
donna” (Mt 11,11) ed è l'unico
santo di cui ricordiamo sia la nascita (24 giugno) che la morte (29 agosto).
È
definito “profeta”: una figura speciale,
uno cioè che in forza del suo nome indica un'azione di Dio, il “chinarsi” di
Dio, l'irradiarsi di Dio sul suo popolo. I profeti non predicono il futuro
(quelli sono gli indovini!), ma sono amici di Dio che, animati dallo Spirito
Santo, indicano al popolo l'interpretazione degli eventi, ammoniscono,
scuotono, a volte con metodi piuttosto inusuali e rudi. E fra questi profeti
spicca appunto, come un gigante, Giovanni Battista. Un austero asceta del
deserto, tagliente predicatore, profeta disposto a morire pur di mantenere fede
alla sua missione di verità. Un Giovanni che prepara e dispone il popolo
all'accoglienza del Messia ma che, teneramente, resta anche lui spiazzato
dall'originalità di questo Messia. Come biasimarlo?
Impregnato
completamente di Antico testamento, egli invita il popolo alla conversione predicando
la venuta di un Messia giusto giudice, portatore di vendette e punizioni; al contrario, di fronte al
comportamento del Messia Gesù, ispirato ad una inaudita tenerezza, ad un amore
senza limiti, rimane inizialmente spiazzato, per venire poi ammaliato e completamente assorbito dalla disarmante novità introdotta da Gesù.
Uomo
e profeta straordinario. Ma per capire la sua straordinarietà,
abbiamo bisogno di silenzio: lo stesso silenzio di Zaccaria che riflette sulla
vera natura di questo suo figlio, “inviato” da Dio ad Israele come un dono speciale. Un
“inviato”, peraltro, che ha molto da dire anche a noi, sia come uomo che come
testimone di Cristo.
Sappiamo
dalla Bibbia che Dio “segna” fin dalla nascita, con speciali interventi, quelli
che lui sceglie per sé, i grandi re, i suoi rappresentanti, i condottieri, i
profeti.
È questo
il caso del Battista: figlio di una donna sterile, resa feconda per dono di Dio,
la sua nascita è accompagnata da strane circostanze: singolare e sorprendente è
la determinazione dei genitori di imporgli proprio quel determinato nome, “Giovanni è il suo nome”; un nome che
non rientra assolutamente nella tradizione familiare, come invece era d’obbligo
in quei tempi; come pure singolari sono i salti gi gioia, pieno di Spirito
santo, che il bimbo compie nel grembo materno allorquando Maria fa visita alla
cugina Elisabetta; e, una volta nato, “tutti furono meravigliati” per l’improvviso
riacquisto della parola da parte del padre Zaccaria, tanto da farli esclamare: “Chi sarà mai questo bambino?”. È quindi
evidente che Dio ha scelto e preparato il suo uomo: “Davvero la mano del Signore stava con lui”.
È
naturale quindi che la sua austera e severa preparazione per poter continuare
la missione di Elia, per diventare come Lui un grande profeta, anzi per
diventare il più grande dei profeti, avvenga nel deserto: si tratta infatti della
stessa preparazione e dello stesso luogo scelto da Dio per educare il popolo di
Israele. La missione del Battista costituisce infatti lo sbocco naturale di
quella tensione messianica presente in tutto l'Antico Testamento, quella
tensione verso l'evento straordinario, atteso da millenni, del Gesù di Nazaret,
il Cristo Messia.
E proprio
Gesù fa di lui un elogio molto grande: «Che
cosa siete andati a vedere nel deserto? Una canna sbattuta dal vento? E allora,
che cosa siete andati a vedere? Un uomo avvolto in morbide vesti? Coloro che
portano vesti sontuose e vivono nella lussuria stanno nei palazzi dei re.
Allora, che cosa siete andati a vedere? Un profeta? Sì, vi dico, e più che un
profeta. Egli è colui del quale sta scritto: “Ecco io mando davanti a te il mio
messaggero, egli preparerà la via davanti a te”» (Lc 7,24-27).
Giovanni
è un uomo coerente, irremovibile nei suoi principi, integro fino al martirio, di
una intransigenza morale che riassumeva tutta l'anima veterotestamentaria. La
sua predicazione e il battesimo che lui dava al Giordano “per il perdono dei peccati” (Lc 3,3), segnano il passaggio definitivo
da una realtà ad un’altra completamente nuova, il superamento della linea di
demarcazione tra l’antica Legge e i Profeti e il Regno di Dio rappresentato da
Cristo; Giovanni è il traghettatore dell’uomo verso questa novità cristiana, ben
superiore all'antica Legge. Una novità così sconvolgente che riuscirà a
disorientare la sua stessa fede messianica, per la quale a questo punto ha
bisogno di esplicite rassicurazioni: “Sei
tu colui che deve venire o dobbiamo attenderne un altro?” (Mt 11,3) manderà
infatti a chiedere a Gesù. Egli ha bisogno di conferme, anche se è consapevole di
dipendere completamente da Gesù, di essere il testimone umile e preciso della Sua
divinità e in particolare della Sua specifica missione di salvatore: «Io non sono ciò che voi pensate che io
sia! Ecco, viene dopo di me uno, al quale io non sono degno di sciogliere i
sandali” (Mc 1,1-13). E ancora: “Dopo
di me viene un uomo che mi è passato avanti, perché era prima di me. Io sono
venuto a battezzare con acqua perché egli fosse fatto conoscere a Israele” (Gv
1,30-31). Si sentiva non lo sposo, ma l'amico dello sposo, colui che aveva
solo la funzione di presentarlo: “Non
sono io il Cristo, ma sono stato mandato innanzi a lui. Chi possiede la sposa è
lo sposo; ma l'amico dello sposo, che è presente e ascolta, esulta di gioia
alla voce dello sposo. Ora questa mia gioia è compiuta. Egli deve crescere e io
invece diminuire” (Gv 3,20-30). E lo indicherà non soltanto come Messia, ma
anche come Figlio di Dio, l’agnello sacrificale che si offre spontaneamente per
la salvezza di tutti: “Ecco l'Agnello di
Dio, ecco colui che toglie il peccato del mondo” (Gv 1,29).
In
sostanza, dunque, Giovanni è uno che, venuto dal Primo Testamento, si è
inoltrato nel Nuovo diventando pienamente discepolo di Gesù, suo primo
testimone e missionario.
E questa,
fratelli, è esattamente la strada che Giovanni ci indica per essere anche noi dei veri testimoni di
Cristo: fare prima di tutto una seria esperienza personale di Gesù, indicarlo
agli altri come unico Maestro, e quindi metterci da parte, perché sia solo Lui
a crescere nel cuore di quanti gli abbiamo condotto. La sua testimonianza fino
al martirio, ci svela inoltre la sua libertà interiore, di uomo senza
compromessi, che consiste in quella rettitudine del cuore (“puri di cuore”) che
fa di un uomo un docile strumento di Dio.
Questo
è Giovanni. E noi, fratelli miei, dobbiamo essere come lui; noi, i nuovi Giovanni,
diventati figli di Dio per mezzo del Battesimo - non voluto da noi, ma voluto
dall'Alto - siamo infatti chiamati come lui a tener fede alle Sue parole,
impegnandoci a vivere veramente da suoi figli, da risorti, da obbedienti alla
volontà del Padre. E lo siamo soprattutto quando non ci teniamo aggrappati ai
nostri privilegi, quando siamo obbedienti alla volontà di Dio, quando ci
veniamo incontro l'un l'altro, quando non ci scoraggiamo se gli altri non
valutano positivamente quanto facciamo.
Ecco,
fratelli, in questo modo anche noi saremo altrettanti profeti; saremo come le
migliaia di nuovi profeti che vivono nella Chiesa di oggi: sì perché i profeti,
quelli veri, esistono ancora, sono veramente presenti in mezzo a noi; sono tutti
quegli uomini e donne che vivono il Vangelo con semplicità e fedeltà,
diventando motivo di conversione per gli altri. Non sono persone straordinarie,
non fanno miracoli; sono semplicemente persone che vivono il Vangelo con
amore, con tenacia, con convinzione: sono coniugi che aprono il loro cuore e la loro casa per
alleviare le sofferenze di tanti bimbi feriti gravemente nell'anima; sono giovani
che si impegnano ad educare alla vita i loro coetanei, e che spendono il loro tempo
libero nel volontariato o nella “caritas”; sono quei preti che non si negano mai, per nessun motivo, a quanti cercano e bussano alla loro porta; sono quelle sorelle consacrate che
consumano giorni e salute per dare speranza ai disperati, conforto ai malati,
luce ai moribondi… Siamo circondati da questi silenziosi testimoni di Dio;
viviamo tra migliaia di questi profeti che danno testimonianza al Signore,
anche senza vestire con peli di cammello! Ringraziamo Dio, fratelli, per i
tanti profeti che ancora incrociamo giorno per giorno, che ci spronano ad
imitarli, che ci invitano a leggere il presente alla luce della fede.
Purtroppo
la società contemporanea è immersa nel pessimismo; anche nella Chiesa prevale
una logica mondana piccina e rissosa. Ma non deve essere così: la figura del
Battista, e dei tanti che cercano di vivere la sua stessa esperienza, ci deve aiutare
a cogliere i segnali di luce che, nonostante tutto, ci raggiungono nella
quotidianità.
Riconoscere
e accogliere questi profeti significa allora scrutare, interrogarsi, non dare
per scontata e acquisita la vita di fede e la fedeltà al Vangelo. Tempi nuovi richiedono
modi nuovi di vivere e di annunciare il Vangelo.
Ecco,
fratelli miei; così devono essere le nostre comunità cristiane: comunità di
profeti, chiamati a leggere il presente alla luce del Vangelo, per dare
speranza a questo nostro mondo tanto inquieto. È urgente e vitale che noi,
Chiesa, ci riappropriamo di questo ruolo profetico; anche se si tratta di una
scelta scomoda. Guai a noi, fratelli, se pensiamo di appartenere ad una Chiesa
che è dalla parte dei potenti, dei ricchi, dei più forti! Noi, come Giovanni, non siamo
chiamati per blandirli; la nostra missione è invece di vivere e di promuovere
la conversione dei cuori; di far accogliere il Dio che viene continuamente tra noi; di denunciare il
sopruso e l'ingiustizia sia dentro che fuori della Chiesa, con mitezza e senza “personalismi”,
ma con estrema determinazione. Ciascuno di noi deve essere quindi un “segno” luminoso
nell’ambiente in cui vive; deve essere, il più possibile, la vera trasparenza
di Dio. Amen.
«Così è il regno di Dio: come
un uomo che getta il seme sul terreno; dorma o vegli, di notte o di giorno, il
seme germoglia e cresce. Come, egli stesso non lo sa» (Mc 4,26-34).
Leggiamolo
attentamente il vangelo di oggi, fratelli: soprattutto noi che siamo convinti
di essere il motore trainante del Regno, quelli che reggono le sorti della
Chiesa, quelli che hanno sempre un soluzione migliore per ogni cosa, quelli
che, se dessero retta a noi, le cose andrebbero sicuramente meglio.
Tranquilli:
non è il nostro efficientismo né la nostra esperienza, né la nostra super dedizione
che concorrono a fare grande il Regno di Dio. Il Regno, ci dice oggi il
vangelo, è come il seme: ha solo bisogno di essere piantato alla giusta profondità
per germogliare e dare frutto; non ha certo bisogno dell’assistenza o della consulenza
del seminatore! Il comportamento del contadino ci suggerisce al contrario una verità
importante: che seminare è sempre doloroso; prima di tutto perché significa donare
un qualcosa che ci appartiene, che abbiamo acquistato con fatica e sacrificio, e da
cui dobbiamo separarci: «nell'andare, se
ne va e piange, portando la semente da gettare…» (Sal 125). Seminare è quindi
impegnativo, è gravoso; ma soprattutto è una scommessa, poiché è un lavoro che
mette in discussione le nostre sicurezze.
Nei confronti
della nostra semina, dobbiamo pertanto tener presente tre cose. La prima è che il seme
cresce spontaneamente; il suo processo di sviluppo è automatico, sfugge
all'azione del seminatore, tant’è che avviene anche quando lui dorme, anche quando
lui è assente. La seconda è che questo sviluppo spontaneo risponde alle caratteristiche
naturali del seme, alle sue proprietà, che lo stesso Creatore gli ha predisposto. La terza è che il risultato
finale deve essere sempre un frutto di gran lunga più abbondante e più nutriente
del seme originario.
Ebbene,
fratelli: sono questi gli insegnamenti che dobbiamo fare nostri nel lavoro di semina.
Noi oggi
viviamo in un’epoca in cui i simboli sacri hanno perso completamente la loro importanza;
gli insegnamenti religiosi sono ampiamente ignorati e contestati; siamo in un'epoca
che possiamo definire post cristiana, un’epoca cioè in cui il Cristo e la sua
Parola sono stati banditi dalla società. Questo però è il nostro terreno, questo è il terreno in cui dobbiamo seminare
il Regno di Dio: un terreno certamente inospitale, arido, una pietraia. Ma ciò non deve scoraggiarci;
non deve smorzare il nostro impegno di cristiani; anzi ciò deve renderci più reattivi ed entusiasti. Non
si tratta di essere dei “superman”, degli spaccamontagne, dei faccio tutto io, come siamo inclini a
pensarci, ma soltanto degli autentici “cristiani”, dei fedeli annunciatori
della Parola: perché questo deve essere il nostro metodo di “seminatori”, qualunque sia il terreno su cui siamo mandati a seminare. Con umiltà e costanza. Dobbiamo farlo con lo stile di Dio. Sia Ezechiele che il
Vangelo sottolineano oggi che lo stile di Dio è fatto soprattutto di pazienza, di amore, di fiducia; uno stile che rispecchia in qualche modo quello del contadino: egli non può modificare
i tempi delle stagioni di questo mondo, e quindi aspetta paziente e fiducioso la stagione del
suo raccolto; noi dobbiamo fare altrettanto, dobbiamo anche noi aspettare pazientemente che i frutti del nostro
lavoro giungano a compimento, dobbiamo aspettare con fede l'ora della carità di
Dio, quella carità assoluta che ha la sua radice nella nostra speranza.
Questo,
fratelli, ci insegna oggi il Vangelo. Un vangelo in cui l'ottimismo di Gesù è
evidente. Egli ha fiducia nel suo lavoro, crede nella forza delle idee e sa che
quelle racchiuse nella Parola di Dio hanno una potenza divina che supera tutte
le altre: egli sa per certo che la parola uscita dalla bocca di Dio non tornerà
mai senza effetto, senza aver operato ciò che egli desidera e senza aver
compiuto ciò per cui egli l'ha mandata
(cfr Is 55,11). Lavorare con una tale semente ci deve solo che tranquillizzare; perché
essa, la Parola, produca frutto, dobbiamo soltanto seminarla; dobbiamo cioè annunciarla, dobbiamo fare la nostra evangelizzazione: tutto il resto viene da sé; non dipende da noi; dipende da Dio e da chi accoglie la Sua Parola; il nostro non è un lavoro individualistico, è un lavoro da équipe, collettivo, a più mani, diretto e coordinato però da un'unica mano, magistrale e risolutiva, che controlla e soprassiede a tutto; come dice giustamente Paolo alla comunità
cristiana di Corinto: «Io ho piantato,
Apollo ha irrigato, ma è Dio che ha fatto crescere» (1Cor 3,6).
Non è quindi
l'azione dell'uomo che produce il Regno, ma è la potenza stessa di Dio,
nascosta nel seme della sua Parola. In quest'ottica, tutte le nostre ansie, tutte le
nostre preoccupazioni non solo non servono a nulla, ma sono dannose. Sono inquietudini che
non vengono da Dio, che ci ha comandato di non affannarci (cfr Mt 6,25-34), ma dalla nostra mancanza di fede.
L'efficacia
del vangelo è su un altro piano, è all'opposto dell'efficienza mondana. Il
regno di Dio è di Dio. Quindi non è l'uomo che può farlo, ingrandirlo o
addirittura impedirlo. Semmai, con il suo comportamento dissennato, a volte può soltanto ritardarlo
un po', come succede con una instabile barriera di fango e rifiuti che contrasta il corso impetuoso dell'acqua del fiume.
Gesù
dunque ha seminato in ciascuno di noi la sua Parola, e ci ha incaricati di gettare
anche noi questo suo seme: è Lui stesso, infatti, il seme di Dio che dobbiamo spargere nel
terreno della storia. E aspettare con la paziente fiducia di chi sa attendere.
Gesù
ha detto: «Il regno di Dio è vicino» (Mc
1,5); ma quanto vicino? Non ne abbiamo la percezione; apparentemente nulla è
cambiato da allora: la gente ha continuato a vivere, a soffrire e a
morire. Di nuovo c'è stato semplicemente un uomo che predicava in un luogo poco
importante dell'impero e i suoi ascoltatori erano malati, analfabeti,
squattrinati: quelli che non contavano niente. Tanto che ancora oggi ci chiediamo: è tutto
qui il regno di Dio? Sì, fratelli, è tutto qui! Grande come un granello di
senapa. Proprio perché Dio è grande non ha paura di farsi piccolo; proprio
perché il suo regno è potente, può fare a meno di ogni apparato esterno
grandioso: non ha bisogno di terrorizzare per affermarsi.
Non gli servono eserciti; nonostante Il
mondo lo combatta con tutti i mezzi; nonostante opponga al Suo Regno le sue attraenti seduzioni: il denaro, il possesso, il piacere; nonostante esibisca tutte le sue forze destinate a incutere timore: la persecuzione, le tribolazioni, la
morte violenta... Ecco perché le parabole ci dicono che il Regno viene
attraverso lotte e opposizioni. E che, nonostante gli ostacoli, esso avrà la
meglio. Ma gli ostacoli a volte sono posti non tanto dalla malvagità dei
cattivi, ma proprio dalla stupidità dei buoni; la più grande alleata del nemico
è proprio la nostra ignoranza spirituale; è il nostro assecondare il diavolo, che
ci mette volentieri a disposizione quei mezzi che il Signore scartò come
tentazioni: il successo, la pubblicità, l'efficienza e la grandezza.
Soltanto
Gesù, fratelli miei, è la grandezza di Dio: Gesù che per noi si è fatto “piccolo” fino alla
morte di croce; e grazie a questo “annientamento” è diventato il grande albero sotto l'ombra del quale tutti possono trovare accoglienza. E noi, i discepoli, dobbiamo rispecchiare esattamente questo
Suo spirito di piccolezza e di servizio; perché solo così riusciremo a vincere il male del
mondo, con il suo imperativo di grandezza e di potere. Al contrario chi ama veramente si fa piccolo
per lasciare posto all'altro; il suo io scompare per diventare pura accoglienza
dell'altro.
«Annunciava loro la parola
secondo quello che potevano intendere».
Ecco,
fratelli, questo è un altro insegnamento del vangelo di oggi; è un tratto
importante della pedagogia di Gesù: carità, comprensione, progressività,
adattamento ai fratelli e ai loro ritmi di crescita. Ecco perché, a imitazione di Gesù, dobbiamo incarnarci, immedesimarci nelle situazioni personali dei più deboli, di chi non capisce o di
chi non riesce a convertirsi in fretta, o di chi non riesce a reggersi con i suoi piedi, ricordandoci che un tempo eravamo anche noi nelle loro stesse condizioni;
e forse lo siamo ancora.
Dobbiamo comportarci come Gesù ci ha insegnato. Misericordioso e compassionevole, Egli vuole la conversione di
tutti:
Egli si rivolge a tutti, buoni e cattivi, disposti e indisposti, preparati e
impreparati, perché vuole che tutti, indistintamente, siano salvati. E soprattutto dobbiamo ricordarci
che il Regno di Dio non è un nostro prodotto, non è il risultato di un nostro
sforzo titanico; è un dono Suo. Un dono sottratto alle logiche di efficienza e
di visibilità che spesso condizionano la nostra spolmonante frenesia.
Ebbene,
fratelli, noi discepoli di ogni tempo, che viviamo nel dubbio e nella paura che
il seme della Parola faccia cilecca, e che il Regno di Dio diventi soltanto un promettente
miraggio nel deserto della crisi attuale, noi discepoli dunque, siamo invitati seriamente
a rinforzare, a irrobustire la nostra fede, la nostra fiducia, la nostra umiltà.
Dobbiamo essere certi che il seme di Dio, una volta che lo abbiamo seminato, porterà comunque il suo frutto. Senza di noi. Non
ci sono dubbi. Amen.
«Prese il pane e recitò la
benedizione, lo spezzò e lo diede loro, dicendo: “Prendete, questo è il mio
corpo”. Poi prese un calice e rese grazie, lo diede loro e ne bevvero tutti. E
disse loro: “Questo è il mio sangue dell'alleanza, che è versato per molti”»(
Mc 14,12-16.22-26).
Oggi
celebriamo la festa del “Corpo e del Sangue” del Signore: una festa nata a
seguito del miracolo eucaristico di Bolsena, piccolo centro non lontano da Roma.
Un sacerdote dubita della presenza reale di Cristo nel pane e nel vino; durante
una messa, al momento dello “spezzare il pane”, dalla piccola ostia zampilla
del sangue, che macchia vistosamente il corporale steso sull’altare; ancora
oggi quella tovaglietta macchiata è esposta alla venerazione dei fedeli nel
Duomo di Orvieto. L’autenticità del miracolo è immediatamente confermata da due
eminenti teologi, san Tommaso d’Aquino e san Bonaventura da Bagnoregio, inviati
sul luogo dal Papa, insieme al vescovo di Orvieto, per le verifiche del caso. Dal
1264 questa festa è estesa a tutta la chiesa.
Originariamente
però, già nel primo millennio, con il nome “Corpo del Signore” non si intendeva
l’eucarestia, ma l’assemblea che si riuniva per celebrarla, ossia gli uomini e
le donne che costituivano la nascente Chiesa (tant’è che ancora oggi ricordiamo
questa antichissima tradizione mediante l’incensazione durante la messa: si
incensa infatti Dio rappresentato oltre che dall’altare, dal Vangelo, dal Pane
consacrato, anche dall’assemblea dei fedeli). Erano pertanto le persone il
“verum corpus Christi”; l’eucarestia era il “corpus mysticum”. Poi, nei secoli,
le cose si sono invertite.
Ora, amare
un pezzo di pane può essere anche facile; credere che in questo pane ci sia Dio,
anche se più impegnativo, non è che ci stravolga concretamente la vita. Ma,
fratelli miei, amare le persone che ci stanno intorno, vedendo in esse Dio, beh
questa è tutta un’altra cosa. Vedere e credere, che anche in “certi” volti, in
certi personaggi, spesso antipatici e insopportabili, ci sia veramente Dio, è decisamente
impegnativo, coinvolgente e sconcertante. Non lo sarà per i santi, ma sicuramente
lo è per noi. Madre Teresa infatti era solita dire: “Mi è particolarmente
difficile pensare che chi riesce a vedere il Corpo di Cristo in un pezzo di
pane, non riesca poi a vederlo nelle persone, negli uomini e nei volti del
prossimo”. E un santo predicatore le faceva eco: “Non so se chi ama Dio ami anche
l’uomo. Ma so che chi ama l’uomo, ama sicuramente Dio”.
Nel
Vangelo di oggi Gesù in pratica ci dice: “non solo io vivo, ma voglio fare di
questa mia vita un dono d’amore per voi e per il mondo intero”. Ecco, fratelli,
questo è il punto. Per cui, noi che ci professiamo discepoli, fratelli di
Cristo, non solo viviamo, ma dobbiamo anche mettere questa nostra vita a
servizio degli altri. Questa deve essere per noi una necessità, un bisogno
imprescindibile della nostra esistenza. Altrimenti, che ci stiamo a fare in
questo mondo? perché vivere? Se la nostra vita non serve a nessuno, se non è
utile per qualcuno o per qualcosa, che significato ha vivere? A questo punto esserci
o non esserci, è la stessa cosa.
Ricordo
che per la mia Cresima, da ragazzo, mi regalarono un orologio: una volta era il
massimo, era un oggetto da “grandi”; e la Cresima sanciva proprio l’ingresso del
ragazzo tra i cristiani “adulti”. Era così bello, quell’orologio, che i miei
genitori decisero di non farmelo portare perché avrei potuto perderlo. Non lo
portai e cadde nel dimenticatoio. Quando anni dopo lo ritrovammo, non
funzionava più. Ora, che senso aveva avuto metterlo via? Non era servito a
niente. Ebbene, fratelli, molte vite sono proprio così: per paura di osare, di
perdersi, di rischiare, di sbagliare, vivono sulla difensiva, sull’indecisione,
sulla eccessiva prudenza, sul non esporsi più di tanto; vite che passano e non
lasciano segno; vite che non servono a nessuno, che si trascinano in giornate tristi,
vuote, buie.
Chi
segue Cristo, invece, ha bisogno di sentire che la sua esistenza è dono, che lui
è un servo utile, che è come il grano che si frantuma per diventare alimento
per gli altri. Questo dobbiamo essere noi: pane e vino; dobbiamo infondere
forza, dobbiamo placare la sete, dobbiamo offrire agli altri gusto, saggezza,
sapore. Solo così, per noi e per il mondo, vivere avrà veramente un senso; solo
così la nostra vita avrà dato i suoi frutti. Quante persone muoiono invece con
il rimorso di non aver vissuto! Quanti si rendono conto troppo tardi che la
loro vita non è mai stata “dono”; non sono serviti a nulla, sono stati inutili,
completamente insignificanti per il mondo intero! È come se non avessero mai vissuto.
Gesù in
pratica ci dice: “Io voglio che la mia vita sia un pane che vi nutre”. Vuole cioè
che la sua vita ci offra sostentamento, ci dia forza e lucidità, ci faccia
crescere, ci renda maturi.
Purtroppo
la vita passa, fratelli miei. Non illudiamoci di rimanere qui per l’eternità,
di vivere per sempre. Anche per noi arriverà il “nostro giorno”, lo sappiamo: allora
non facciamoci trovare a mani vuote, offriamo con gioia i frutti del nostro
amore: perché solo se saremo stati “vita che dà vita”, solo se nel nostro
vivere quotidiano ci saremo “consumati”, non avremo motivo di temere, nulla potrà
turbarci: allora potremo serenamente passare la mano. Chi vive in pieno, non teme
di morire.
Facciamo
allora, fratelli, il punto della situazione e chiediamoci seriamente: la nostra
vita è “pane” che nutre qualcuno? È vino che disseta e corrobora? Oppure è soltanto
un tempo che scorre inutilmente? C’è tanta gente che non si dà mai, che non si
concede mai; se parliamo con loro non ci fanno mai vedere quello che hanno
dentro, gente che ha troppa paura di impegnarsi per qualcosa di vero, di bello.
E si giustificano dicendo: “È troppo difficile”. Non riescono a donarsi. Per
paura di perdersi, di sbagliare, non si danno, e non capiscono che è proprio facendo
così che si perdono. Noi invece, con i nostri fratelli, con la nostra famiglia,
con le nostre comunità con cui abitiamo, come la mettiamo? Ci siamo mai chiesto
a che serve condividere una stessa casa, se poi neppure ci si parla? Che senso
ha? Nessuno: perché se non c’è comunicazione tra noi, se le nostre anime non si
incontrano, non si toccano, non si parlano, se i nostri occhi non si penetrano,
noi “stiamo” insieme solo perché “facciamo” insieme tante cose; ma non possiamo
certo dire che “siamo” insieme. Il dono più importante che possiamo fare agli
altri non sono i nostri soldi, offrire le cose più belle e varie di questo
mondo; il vero dono è donare ciò che siamo, ciò che abbiamo dentro, la nostra
parte più vera, più profonda: la nostra anima, i nostri dubbi, le nostre paure,
i nostri slanci. Solo donandoci agli altri così, senza riserve, gli altri
potranno averci, potranno conoscerci, potranno averci nel loro cuore e nella loro
anima.
Gesù
non ci ha lasciato nulla di questo mondo in eredità: non ricchezze, non una
casa, non un libro, non una dottrina e neppure una regola. Gesù ci ha lasciato
solo se stesso, attraverso un po’ di pane e di vino: “Io sono il pane vivo,
disceso dal cielo”. Dio si è fatto carne per noi: è questo il suo grande dono,
è questo il grande mistero che la Chiesa oggi medita. Gesù è venuto su questa terra,
si è incarnato, ha assunto un corpo mortale; non è rimasto lassù col Padre, ma ha
accettato di abbassarsi al nostro livello umano; Lui, il senza macchia, si è
fatto carico di tutte le nostre colpe, si è fatto carne, ha assunto un corpo da
offrire in sacrificio sulla croce, pagando così il prezzo per il nostro riscatto:
un corpo che ha voluto lasciare qui tra noi nel pane consacrato, instaurando
una costante opera di mediazione tra noi e il Padre: è vero: noi possiamo arrivare
a Dio anche attraverso l’amore per una persona, attraverso un paesaggio, un
tramonto, attraverso il sorriso di un bambino, di una madre, attraverso le
lacrime di chi è felice… Anche queste sono “mediazioni”. Ma, fratelli miei, l’autentica,
la più grande mediazione, è quella di Cristo: Dio continua a darsi a noi in un
rapporto di amicizia e di grazia, attraverso il pane della domenica, attraverso
appunto il corpo di Gesù; e questo
rapporto con Dio continua anche attraverso il “nostro” corpo, trasformato con Cristo in Cristo; e continua ancora attraverso
il corpo dei “nostri” fratelli, nei quali
vediamo Cristo.
Possiamo
definire il Cristianesimo la “religione del corpo”.
Per secoli si è fatta una netta distinzione tra ciò che è materiale (e quindi il
corpo, tutto ciò che è umano) e ciò che è spirituale. E si diceva: “Tutto ciò
che è materia è destinato a morire, è indegno, spregevole. Tutto ciò che è
spirito è invece elevato e sublime. Quindi umiliamo il più possibile la materia,
perché solo così emergerà lo spirito”. Con tali premesse, seguire Dio
significava “crocifiggere” in suo nome il proprio corpo, vivere nella fuga e nel disprezzo del mondo. La via della santità,
fino a qualche decennio fa, passava solo attraverso la completa rinuncia ad ogni
piacere, di qualunque natura (cibo, sesso, affetti, amicizie, divertimento,
allegria). Così, andare al cinema era “peccato”, andare a ballare era peccato:
qualunque divertimento era demoniaco. Tutto ciò che era “corporale” era automaticamente
sporco, diabolico, negativo, causa di perdizione.
Ma non
è così, fratelli: il nostro corpo è abitazione
di Dio, è tempio di Dio; il corpo dei
nostri fratelli è Dio, esattamente come corpo
di Dio è il “pane consacrato” della domenica che noi assumiamo. Dio è qui, in
noi, nel nostro corpo. Lo Spirito di
Dio, su questa terra, esiste solo attraverso un corpo: quello di Gesù, il nostro, quello dei fratelli, della Chiesa.
Il corpo diventa così spirituale e lo
Spirito diventa corporeo. Quando stiamo male nel corpo, anche lo spirito soffre, e quando lo spirito sta bene, anche
il corpo sta bene. Tante nostre
malattie corporali, sono solo malattie dell’anima: possiamo infatti prendere
tutte le medicine possibili, ma non arriveremo mai a star bene; perché non è il
nostro corpo ad essere ammalato, è il
nostro spirito. Il corpo non è altro
che la visualizzazione, il “monitor”, lo schermo del nostro spirito. Chi non
ama il proprio corpo non ama neppure Dio,
perché il nostro corpo è a pieno
titolo inabitazione dello Spirito.
Il
corpo ha dunque bisogno della nostra anima, come l’anima ha bisogno del nostro
corpo: se il nostro corpo ha bisogno di carezze e di contatto, è perché la
nostra anima ha bisogno di amore, di essere riconosciuta e accarezzata. Se il nostro
corpo ha bisogno di coccole, di abbracci e di gesti affettivi è perché lo
spirito esige concretezza: è lui che ha bisogno di contatti veri, profondi, perché
lui vuole incontrarci là dove non abbiamo paura, dove gli altri non possono intromettersi,
dove gli altri non possono sedurci (se-durre:
attirare sé); là dove siamo veramente noi, dove nessuno può “cambiarci” in qualcos’altro.
Se il nostro corpo ha bisogno di piacere, è perché il nostro spirito aspira a tutto
ciò che è bello, buono e divino. Curare quindi il nostro corpo significa curare anche la nostra anima. Tenerlo in forma,
significa “tenere in forma” l’anima. Se ci ingolfiamo di cibo, di alcolici e di
droghe, se amiamo gli eccessi estremi di qualunque natura, vuol dire che la
nostra anima è gravemente ammalata; ed ha bisogno di disintossicarsi dal “troppo”,
ha bisogno di pause salutari per eliminare quella “sazietà mortale” che le
impedisce di ascoltare lo “Spirito che parla ai nostri cuori”. È proprio vero,
fratelli: il nostro corpo ha bisogno
di silenzio, di meditazione, di solitarie occasioni di preghiera, per potersi
integrare completamente nel Corpo di Dio; perché, come dicevo, il Cristianesimo
è la religione del corpo.
Ogniqualvolta
ci accostiamo alla Comunione, il Corpo di Cristo viene dentro di noi, viene ad abitare
in casa nostra; nonostante quel che siamo, nonostante tutto, Lui non si
vergogna di noi, viene anzi per amarci, è felice di incontrarci, di diventare
un tutt’uno con noi, di immedesimarsi in noi: Corpo nel corpo. Allora, fratelli
miei, in quel prodigioso momento, alle parole “Corpo di Cristo”, e alla nostra
conferma “Amen, Sì”, esprimiamo umilmente in cuor nostro: “Signore, questo è il
“mio” di corpo…” e sentiremo Gesù che a sua volta ci dirà “Amen, Sì, lo so”.
Capite? Noi diciamo “sì “ a Lui, e Lui risponde “sì” a noi; una accettazione totale.
Un “si”, quello di Dio, portatore di grazie e benedizioni; un “si”, il nostro,
che ci deve seriamente impegnare nella vita, sintonizzandoci sulle importanti parole
di Paolo: «Voi che avete
accolto Cristo Gesù, il Signore, in lui camminate, radicati e costruiti su di
lui, saldi nella fede…» (Col 2,6); pertanto
«vi esorto a offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo, gradito a
Dio, come vostro culto spirituale» (Rom 12,1); poiché «se vivete
secondo la carne, morirete; se invece uccidete con lo Spirito le azioni del
corpo, vivrete. Tutti quelli infatti che sono guidati dallo Spirito di Dio,
sono figli di Dio» (Rom 8,13s)». Amen.
«Andate dunque e fate discepoli
tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito
Santo» (Mt 28, 16-20).
Oggi è
la festa della Trinità. Una solennità in cui la Chiesa celebra un Dio che è
comunione, amore, relazione, famiglia. Dio non è un’entità solitaria, ma una
realtà dinamica, viva e “relazionale”. Sì, fratelli, Dio è “relazione”: Dio è
amore e comunione. Relazione, amore, comunione, sono concetti che tutti conosciamo, che tutti sperimentiamo
nella nostra vita. Nell’amore, infatti, ciò che conta è l’essere uniti,
legati insieme dalla condivisione, essere all’unisono, senza per questo perdere la
propria identità: è importante donarci senza perderci; è importante
essere uniti senza annullarci, è importante rimanere divisi senza separarci.
È da questi concetti che noi possiamo trarre un’idea di Dio Trinità, dell’amore
trinitario: un Dio unito ma non uniforme; separato ma non diviso. La Trinità, prima di essere dogma, è quindi per noi esperienza: quella stessa esperienza
che fecero i primi cristiani e i primi discepoli. Sperimentarono cioè che Dio è
amore, che Dio è relazione, che in Dio c’è unione ma non fusione, diversità ma
non separazione. Capirono che il Padre, suo Figlio Gesù e lo Spirito, da una
parte erano tre esperienze diverse, tre persone, ma contemporaneamente erano lo
stesso Dio, erano la stessa esperienza. E per esprimere queste verità,
utilizzarono l’immagine che tutti conosciamo: la famiglia. Sì, la famiglia è
come Dio: è comunione, amore, relazione, un rapporto di stretta unione tra persone distinte…
Ci sono tanti invece che dicono di sapere chi è Dio,
ma non vogliono fare esperienza di Dio; e non capiscono che senza “provarlo”
non arriveranno mai a capirlo. Non capiranno mai che Dio è relazione, amicizia,
amore, incontro, comunione.
“La
Trinità è relazione tra un Io, un Tu e un Noi” scriveva Papa Benedetto XVI: una
magistrale definizione che esprime appunto l’esistenza di una relazione
fondante, di un dialogo d’amore intimo: in Dio c’è un Padre che ama il Figlio e
che è amato dal Figlio. Il loro amore è lo Spirito.
Questo
fratelli è Dio-famiglia. Questa deve essere esattamente anche la nostra di famiglia:
la vera forza della famiglia non sta tanto nel fatto che due persone stanno
insieme, che convivono, quanto invece nella profonda e sacra relazione d’amore che
si instaura tra loro. Più ciascuno di loro è se stesso (persona), più c’è
profondità e maggiore è lo scambio, l’apertura verso l’altro; più c’è amore
(spirito), più c’è complicità, confidenza, fiducia. Ecco perché ogni vera relazione deve
essere in qualche modo trinitaria, deve cioè essere composta da tre elementi:
l’io, il tu e il noi.
L’io significa che io sono io, che io ci sono, che io sto in piedi
con le mie gambe, che sono persona. Io sono io e non te. Io sono unico (unus) e
non posso confondermi con te. Molti pensano che fare le stesse cose significhi unione:
sì, può aiutare, ma non è questa l’unità di due entità distinte. Molti pensano che
stando insieme, alla pari, arriverà anche l’intimità. Ma non funziona così.
Molti credono che vivendo in due i problemi personali di ciascuno passeranno.
Ma non è così. L’unione, l’intimità, l’affiatamento si raggiungono soltanto
attraverso l’accettazione dell’altro come persona, nella sua singolarità. Molti
pensano di raggiungere un rapporto ideale mediante una totale “fusione” con il
partner, mediante l’annientamento della propria personalità, nel non poter più vivere
senza di lui, nel dipendere totalmente da lui, nell’attendere da lui qualunque
cosa, ogni attenzione. Ma è una fusione destinata a frantumarsi. Ogni rapporto
è così come siamo noi. Se noi siamo entità mature, consapevoli, aperte, lo saranno altrettanto
anche i nostri rapporti, altrimenti no.
Lo
stesso vale per il secondo elemento, il tu:
vuol dire che tu devi essere te stesso; che tu non sei me e io non sono te. Per
cui nella famiglia non dobbiamo fare necessariamente le stesse identiche cose;
non dobbiamo pensarla esattamente alla stesa maniera; non dobbiamo essere “fusi”;
ma uniti; due entità distinte, con tutte le loro caratteristiche e peculiarità,
ma unite. Le
coppie che fanno rigorosamente sempre e tutto insieme, nascondono la paura
dell’individualità. Sembrano coppie romantiche, di grande amore, ma nel loro
guscio c’è tanta paura. Tu sei tu e io sono io: non facciamo confusione.
Unità non è uni-formità o uni-direzionalità. Se tu non sei tu, non
accetterai neppure che io sia io. Perché prima o poi mi vorrai cambiare; perché
vorrai che io faccia ad ogni costo esattamente come te; perché non accetterai
la mia diversità, poiché non accetti la tua. Ciò che trasforma il rapporto in vera unità, in vera unione, è invece il terzo elemento, il noi. La vera forza della famiglia sta proprio
nella relazione reciproca; è il rapporto fra l’io
e il tu, che forma il noi. Nient’altro. È quello che
costruiamo insieme, tu ed io, la nostra “coesione”, la nostra unità. È quello
che c’è fra me e te che ci tiene uniti. Se non c’è niente tra noi, non può
esserci rapporto, è normale. Magari staremo anche insieme, ma solo per
convenienza, per abitudine; forse anche per paura di iniziare a vivere veramente,
preferendo piuttosto tirare avanti.
È il noi che dice quanto ci amiamo. È lo
spirito che c’è fra me e te che dice com’è il nostro rapporto: un rapporto vero,
intenso, è infatti dato dalla capacità che due persone hanno di uscire individualmente da
sé stesse (senza perdersi) per creare un noi, uno spazio in cui possono esprimersi
e accogliersi.
La
relazione è quindi l’elemento universale indispensabile per ogni rapporto, ne è lo stile. In questo senso l’amore deve essere relazionale: deve
cioè dare e ricevere, altrimenti non è amore. Il parlarsi deve essere relazionale: altrimenti diventa
monologo, autoritarismo, imposizione. Se non accetto le posizioni dell’altro,
se non lo ascolto, se non cambio io stesso, non c’è relazione. Relazionarsi vuol dire sentire, ascoltare l’altro,
cercare di capire chi è, cosa gli piace, cosa desidera. Senza la relazione, le persone sono solo oggetti.
Anche l’educare deve essere relazionale;
come pure il lavoro, il gioco, l’amicizia, la preghiera. Tutto deve essere
improntato alla “relazione”, tutto deve corrispondere al nostro “stile” di vita:
e vivere in uno stile relazionale vuol dire appunto vivere secondo il modello
trinitario. E tanto basta; perché per noi cristiani è il massimo.
Proprio
per questo, fratelli miei, dobbiamo lavorare sodo sul nostro relazionarci: è infatti la qualità delle
nostre relazioni che ci qualifica come cristiani; sono le nostre relazioni che,
ci piaccia o no, danno un valore e un senso alla nostra esistenza.
A
volte ci lamentiamo e diciamo: “Nessuno mi ama! Sono solo!”. È vero; ma dovremmo
anche chiederci: “Ma io, in che maniera mi pongo?”. Perché se è vero che abbiamo
il diritto di essere amati, è altrettanto vero che abbiamo il dovere di renderci
amabili. Se gli altri ci rifiutano, spesso lo fanno perché hanno ottimi motivi
per farlo. Se nessuno ci ama, per prima cosa dobbiamo verificare se non dipenda
proprio da noi. Non meravigliamoci. Noi tutti sappiamo infatti che la bontà
della nostra vita, la nostra maturità, la nostra serenità, l’amore, l’armonia, la
preghiera, la fede, dipendono semplicemente dalla nostra capacità di intessere relazioni
positive, sane, profonde e durature. E oggi, cari fratelli, la Trinità ci
ricorda appunto questo: che tutto è “relazione”; che il Tutto è “relazione”; che
Dio Padre, Figlio e Spirito Santo, sono in perenne “relazione”; e che pertanto anche
noi, creature mortali, dobbiamo vivere sempre in “relazione”. È questo il nostro DNA
trinitario. Amen.
«Quando verrà lui, lo Spirito
della verità, vi guiderà a tutta la verità» (Gv 15,26-27; 16,12-15).
Con la
Pentecoste il tempo del Gesù terreno e delle sue apparizioni termina: si apre
un nuovo tempo, il tempo dell’uomo, il tempo della Chiesa, dello Spirito.
Cos’è
successo nel frattempo? Dopo la morte di Gesù, gli apostoli vengono presi da un
profondo sconforto, dalla paura, dalla delusione. Si sono rinchiusi nel
Cenacolo, stanno tutti insieme, hanno una paura folle. Il Cenacolo, in cui
tutto ricorda ancora la presenza di Gesù, è per loro come un grembo materno, si
sentono avvolti, protetti: lì si sentono al sicuro, nascosti. I cinquanta
giorni, che sono trascorsi dalla Pasqua, sono stati per loro un tempo di forte
crisi, di forte scelta, di ridiscussione della loro vita.
Poi scoppia
questo terremoto: un uragano, uno scossone elettrizzante. Lo Spirito è sceso
nei loro cuori, nelle loro menti. Ed ha letteralmente scombussolato la loro
esistenza. I loro pensieri, le loro incertezze, la loro vita che prima andava
in un senso, ora improvvisamente cambiano direzione. Da timorosi, dimessi e
spaventati, diventano forti, intrepidi, battaglieri: diventano “altri”. Si sono
lasciati “scombussolare” dallo Spirito: perché, fratelli miei, lo Spirito
scombussola, e noi dobbiamo lasciarlo fare: perché mai, nessuno Spirito, potrà
mai scendere in chi non accetta di lasciarsi scombussolare. Certo, non è una
cosa da nulla; si tratta di prendere o lasciare; all’istante. Perché lo Spirito
è impetuoso, distrugge all’istante le nostre sicurezze, i nostri progetti, i nostri
rifugi mentali, i nidi della nostra tiepidezza.
Quando
invochiamo lo Spirito, fratelli, ricordiamoci bene delle conseguenze: il nostro
radicale cambiamento di punto in bianco non potrà più essere rimandato, non
avremo più scuse, deve essere affrontato. Subito. Con generosità, senza calcoli
o sconti.
Quanti
cristiani invece pensano a vanvera dello Spirito: non sanno cosa significhi. Non
sanno cosa comporti. Vogliono lo Spirito, ma non vogliono cambiare: stanno bene
così come sono; ma non capiscono che così facendo rifiutano lo Spirito!
L’irruzione
dello Spirito è accompagnato da una crisi. La parola greca “crisi” vuol dire separare,
distinguere, dividere: la crisi è quindi un punto di svolta, di
separazione, un momento in cui è necessario distinguere ciò che dobbiamo tenere
e ciò che dobbiamo lasciare; riconoscere il nuovo e avere il coraggio di
lasciare il vecchio. È pertanto impossibile crescere, evolvere, rinascere, sfuggendo
le crisi. Tutte le nostre crisi; che sono tante: ci sono le crisi della vita: gli anni
che corrono inesorabilmente; il passaggio dalla giovinezza all’età matura; i sessant’anni;
la morte delle persone che amiamo; una persona amata che ci lascia, che si
allontana da noi; le disavventure e le difficoltà economiche, la perdita del
lavoro. Ci sono le crisi mentali e spirituali: la nostra fede non ci soddisfa
più; abbiamo bisogno di maggiori certezze; le nostre sicurezze non ci servono
più; le nostre convinzioni vengono scalzate. Ci sono le crisi affettive: il
nostro modo di amare non va più bene, richiede nuovi impulsi, maggiore
profondità; emergono paure, blocchi o cose che ignoravamo; ci accorgiamo di non
essere poi così tanto liberi.
Ogni
crisi è una sofferenza, un travaglio, un conflitto; ma ci matura, ci fa più
forti, ci scuote.
La
crisi è pertanto il momento della discesa dello Spirito, il momento in cui ci purifichiamo,
in cui lasciamo spazio perché la Vita ci faccia più veri, più maturi, più liberi
e più trasparenti; il momento in cui Dio ci modella e ci plasma, ci forgia e ci
rende come Lui vuole: ecco perché chi evita la crisi, rimane infantile,
involuto.
La
festa di Pentecoste esprime dunque questa verità: Dio abita dentro di noi. Dio
non è più presente fisicamente in mezzo a noi, ma è presente in noi con il suo
Spirito.
Quando
noi sentiamo questa affermazione pur registrandola con la mente e sapendola
ripetere a memoria, in pratica rimaniamo interdetti: “Cosa vuol dire? Io non
sento nulla! Cos’è questo Spirito?”. In effetti, se chiediamo alle persone
cos’è lo Spirito, la maggior parte non sa cosa rispondere. E se non sa
risponderci, è perché non lo conosce, non l’ha mai sperimentato, non l’ha mai
vissuto. Molti pensano che lo Spirito sia un di più, un qualcosa che si aggiunge
a quello che già siamo. Per cui ne possono fare anche a meno. Stanno benone
così come sono. Ma lo Spirito, fratelli, non è un’aggiunta, non è un qualcosa di
appiccicaticcio; è qualcosa che noi già abbiamo, già siamo, senza saperlo né
averlo mai saputo.
Lo Spirito non decide un bel giorno della nostra vita di scendere dentro di
noi, ma abita già in noi (ricordate il “soffio di vita” della creazione?). Lo
Spirito pertanto altro non è che il modo con cui Dio abita in noi. Essere dello
Spirito, spirituali, non vuol dire pregare molto, o fare cose pie e religiose,
frequentare la chiesa o andare in pellegrinaggi. Essere spirituali vuol dire essere
dello Spirito, vivere dimostrando a tutti chi abbiamo dentro, chi è la nostra
guida che ci abita dentro. È uno stile di vita.
I
mistici cristiani (Eckhart) dicevano: “Tutte le creature sono orme di Dio...
Dio ha creato tutte le cose; non che le abbia fatte divenire, e poi se ne sia
andato per la sua strada, ma è rimasto in esse”. Eppure se noi guardiamo una
persona, non vediamo Dio, vediamo solo una persona. Che cosa invece vedevano i
santi? Madre Teresa è chiara. Un giorno disse ad un giornalista: “Vede, io Dio
lo vedo chiaramente. È qui in questo uomo che soffre o in quello lì, in quel
letto, abbandonato da tutti. Dio è in me, è in lei. Io lo vedo. Se lei non lo
vede purtroppo non dipende da me, ma solo da lei. Per me lui è evidente!”. Che
cosa vedeva questa donna? Che occhi aveva per vedere Dio presente in ogni
creatura? Era una santa; e i Santi, si sa, quando guardavano le persone, non
vedevano il corpo, la materialità, ma la luce, lo Spirito che abitava in esse.
Ora
cosa c’entra questo con la festa di Pentecoste? C’entra, fratelli, eccome: perché
lo Spirito abita ogni cosa, è ogni cosa. Si tratta di andare oltre le
apparenze. Gesù fu precisamente l’uomo del guardare oltre le apparenze, del
guardare dentro la realtà. Questa cosa Lui la chiamava “Regno di Dio”. E lo
diceva sempre: “Il Regno di Dio non è un paradiso lontano, ma è qui, oggi,
adesso. Dipende dai tuoi occhi”. Gesù vedeva un fiore e vedeva Dio (vedeva la
luce, lo Spirito del fiore). Gesù vedeva gli uccelli del cielo ed esclamava: “Che
meraviglia; chi può vestire come loro? Come sono liberi!”. Gesù vedeva i fatti che
accadevano e vi leggeva la mano di Dio che insegnava. Gesù vedeva i sofferenti,
i poveracci, i bisognosi e mentre tutti cercavano di evitarli, Lui li
abbracciava, li incontrava, li baciava, li accarezzava e coglieva il loro bisogno
d’amore, donando amore. Gesù vedeva i peccatori e mentre tutti si fermavano
all’apparenza (“Siete peccatori, avete sbagliato, lontani da Dio!”), Lui andava
dentro. Sapeva cogliere la luce che li abitava dentro; sapeva vedere la forza e
il desiderio di vita nascosti dentro di loro. Lui vedeva un pescatore qualsiasi
e vi coglieva i desideri profondi del suo animo. Lui era vicino in croce ad un assassino, un omicida e, mentre tutti vedevano il malfattore, Lui gli disse: “Oggi
sarai con me in Paradiso”. Fu condannato a morte e, mentre noi non proviamo che
rabbia verso coloro che lo condannarono, Lui vide la luce che si nascondeva nel
profondo delle loro tenebre e disse: “Padre perdonali, perché non sanno quello
che fanno”. Gesù non vedeva la materia; Gesù vedeva lo Spirito, la luce che c’è
dentro ad ogni essere.
E noi?
Ci sarà capitato di passare qualche volta davanti ad un albero secolare. Sta lì
da tanto tempo, prima di noi; e chissà quanto tempo rimarrà lì, anche dopo di noi.
Ma noi non ci siamo mai resi conto che c’è, che sta lì; non ci siamo mai fermati
ad ammirarlo veramente, non ci siamo mai seduti alla sua ombra, insomma non lo abbiamo
mai “visto” per quello che realmente è. Per noi è solo un tronco di legno; non ci
siamo mai fermati ad “ascoltarlo”, a “parlargli”; non abbiamo mai imparato nulla
da lui. Non abbiamo colto il suo Spirito, non lo abbiamo mai considerato come
un essere vivente, che parla attraverso lo stormire delle sue fronde, non abbiamo mai provato ad entrare nella sua luce che cattura dal sole. Siamo troppo distratti, indifferenti: e
come facciamo con quell’albero, così purtroppo facciamo anche con i nostri
fratelli. E questo non va.
Abbiamo
un sacco di cose da fare, e questo ci tiene tesi, ci assilla: ma non ci chiediamo
mai il vero perché della nostra irrequietezza e del nostro nervosismo. Nel nostro
intimo siamo sempre insoddisfatti, mai pienamente felici. Cerchiamo di farcene una
ragione: “pazienza, bisogna accontentarsi; è così per tutti”; ma la verità è
che non riusciamo a capire cosa sia quello che non va in noi. E continuiamo a
correre, a fare, a produrre, e non ci accorgiamo di essere fermi, concentrati
sul materiale. Non riusciamo ad entrare nello Spirito che c’è in ogni cosa. Questo
è il problema, fratelli. Non riusciamo a vedere il divino, vedere Dio, che si nasconde
dentro le persone e la vita stessa.
Ci
siamo mai chiesto perché sbattiamo le porte così forte? Perché urliamo sempre
quando parliamo? Perché siamo sempre arrabbiati? Perché non c’è luce nel nostro
volto? Perché non sappiamo esprimere un sentimento che sia uno? Perché, se possiamo
“fregare” gli altri, lo facciamo volentieri? Perché niente ci intenerisce?
Perché non sappiamo dire “grazie”? Perché non sappiamo pregare? È chiaro: siamo
fermi al materiale. Purtroppo viviamo in una società che è incapace di guardare
allo spirituale, e questo non ci aiuta. È una vera malattia. Suo unico interesse
è l’avere: “Quanto costa? Quanti soldi hai? Quanti soldi servono? Quanti soldi
ti danno?”; come pure la centralità dell’io, l’egocentrismo: “Io…, io…; Io
faccio così; se non ci fossi io; ti dico io cosa fare; io di qua, io di là;
parlo io; io so; io non ho bisogno…”. Noi ci scandalizziamo per ciò che succede
nel mondo, per le notizie dei telegiornali; ma dimentichiamo che siamo noi a comportarci
così, è la società che noi stessi formiamo.
Perché,
quando il valore che conta è vincere sempre, eccellere, essere sempre i primi
in tutto, è naturale che lo Spirito passa in seconda linea; è in questo modo che
lo perdiamo, che perdiamo l’anima dello “stare” insieme. Quando giudichiamo o
valutiamo le persone in base al vestito; quando ammiriamo le auto e le case
della gente, invidiandole; quando il nostro unico pensiero è il conto in banca;
quando il divertimento viene prima di ogni cosa; quando tutto viene monetizzato;
quando ragioniamo in base alla logica del “do ut des”; quando non sappiamo più
pregare, non troviamo più il tempo per congiungere le mani, per fare silenzio,
per metterci in contatto con la nostra anima, ebbene, fratelli, siamo già al capolinea:
ci siamo sganciati dallo Spirito, abbiamo fatto del materialismo il centro
della nostra vita. Siamo materia quando dovremmo essere Spirito: così siamo materia quando
alla domenica vediamo sull’altare il pane, e siamo invece Spirito quando vediamo
in quel pane, il Pane divino, il Cristo. Siamo materia quando vediamo nell’amico,
nella persona che incontriamo, soltanto uno che ci importuna, che ci scoccia, che
ci dà fastidio; siamo Spirito quando iniziamo a vedere il lui uno che soffre,
che vive un dramma, uno che ha un cuore e un’anima. Siamo materia quando al
mattino vediamo soltanto un altro giorno pesante da superare; siamo Spirito quando
vediamo un’altra opportunità donatami da Dio per sperimentare la sua infinita bontà
e misericordia. Siamo materia quando qualunque cosa ci fa innervosire; siamo
Spirito quando iniziamo a chiederci il perché di questo nervosismo, cosa dobbiamo
imparare e fare, cosa dobbiamo cambiare del nostro comportamento o del nostro modo
di pensare. Siamo materia quando guardiamo alla nostra vita in termini di
successi, di conquiste, di cose raggiunte, di posizione sociale, di quale
immagine diamo agli altri; siamo Spirito quando finalmente iniziamo a percepire
i movimenti del nostro cuore e della nostra anima. Così, materia è mangiare, Spirito
è gustare; materia è respirare, Spirito è essere consapevoli del soffio di Vita
che inspiriamo per noi ed espiriamo per gli altri. La nostra vita può essere insieme terribilmente materiale o divinamente
Spirituale, può essere piena di buio o di luce. Tutto per noi può essere
materia, o tutto può essere Spirito: dipende solo da noi; da come noi ci poniamo e guardiamo.
Ben
venga allora, fratelli, questo uragano dello Spirito! Scenda nei nostri cuori
quella scintilla divina che rianimi il nostro fuoco che langue. Perché a noi serve
veramente una Pentecoste, una crisi, uno scossone, uno Spirito che distrugga i
nostri nascondigli e ci butti fuori; che ci costringa ad uscire dai nostri
cenacoli di paura. Uno Spirito che ci costringa a camminare a testa
alta, sulle vie della vita, incuranti del mondo, impassibili di fronte alle sue
insidiose lusinghe. Dio è con noi, fratelli; Dio è in noi! Ascoltiamolo! Amen.