«Così è il regno di Dio: come
un uomo che getta il seme sul terreno; dorma o vegli, di notte o di giorno, il
seme germoglia e cresce. Come, egli stesso non lo sa» (Mc 4,26-34).
Leggiamolo
attentamente il vangelo di oggi, fratelli: soprattutto noi che siamo convinti
di essere il motore trainante del Regno, quelli che reggono le sorti della
Chiesa, quelli che hanno sempre un soluzione migliore per ogni cosa, quelli
che, se dessero retta a noi, le cose andrebbero sicuramente meglio.
Tranquilli:
non è il nostro efficientismo né la nostra esperienza, né la nostra super dedizione
che concorrono a fare grande il Regno di Dio. Il Regno, ci dice oggi il
vangelo, è come il seme: ha solo bisogno di essere piantato alla giusta profondità
per germogliare e dare frutto; non ha certo bisogno dell’assistenza o della consulenza
del seminatore! Il comportamento del contadino ci suggerisce al contrario una verità
importante: che seminare è sempre doloroso; prima di tutto perché significa donare
un qualcosa che ci appartiene, che abbiamo acquistato con fatica e sacrificio, e da
cui dobbiamo separarci: «nell'andare, se
ne va e piange, portando la semente da gettare…» (Sal 125). Seminare è quindi
impegnativo, è gravoso; ma soprattutto è una scommessa, poiché è un lavoro che
mette in discussione le nostre sicurezze.
Nei confronti
della nostra semina, dobbiamo pertanto tener presente tre cose. La prima è che il seme
cresce spontaneamente; il suo processo di sviluppo è automatico, sfugge
all'azione del seminatore, tant’è che avviene anche quando lui dorme, anche quando
lui è assente. La seconda è che questo sviluppo spontaneo risponde alle caratteristiche
naturali del seme, alle sue proprietà, che lo stesso Creatore gli ha predisposto. La terza è che il risultato
finale deve essere sempre un frutto di gran lunga più abbondante e più nutriente
del seme originario.
Ebbene,
fratelli: sono questi gli insegnamenti che dobbiamo fare nostri nel lavoro di semina.
Noi oggi
viviamo in un’epoca in cui i simboli sacri hanno perso completamente la loro importanza;
gli insegnamenti religiosi sono ampiamente ignorati e contestati; siamo in un'epoca
che possiamo definire post cristiana, un’epoca cioè in cui il Cristo e la sua
Parola sono stati banditi dalla società. Questo però è il nostro terreno, questo è il terreno in cui dobbiamo seminare
il Regno di Dio: un terreno certamente inospitale, arido, una pietraia. Ma ciò non deve scoraggiarci;
non deve smorzare il nostro impegno di cristiani; anzi ciò deve renderci più reattivi ed entusiasti. Non
si tratta di essere dei “superman”, degli spaccamontagne, dei faccio tutto io, come siamo inclini a
pensarci, ma soltanto degli autentici “cristiani”, dei fedeli annunciatori
della Parola: perché questo deve essere il nostro metodo di “seminatori”, qualunque sia il terreno su cui siamo mandati a seminare. Con umiltà e costanza. Dobbiamo farlo con lo stile di Dio. Sia Ezechiele che il
Vangelo sottolineano oggi che lo stile di Dio è fatto soprattutto di pazienza, di amore, di fiducia; uno stile che rispecchia in qualche modo quello del contadino: egli non può modificare
i tempi delle stagioni di questo mondo, e quindi aspetta paziente e fiducioso la stagione del
suo raccolto; noi dobbiamo fare altrettanto, dobbiamo anche noi aspettare pazientemente che i frutti del nostro
lavoro giungano a compimento, dobbiamo aspettare con fede l'ora della carità di
Dio, quella carità assoluta che ha la sua radice nella nostra speranza.
Questo,
fratelli, ci insegna oggi il Vangelo. Un vangelo in cui l'ottimismo di Gesù è
evidente. Egli ha fiducia nel suo lavoro, crede nella forza delle idee e sa che
quelle racchiuse nella Parola di Dio hanno una potenza divina che supera tutte
le altre: egli sa per certo che la parola uscita dalla bocca di Dio non tornerà
mai senza effetto, senza aver operato ciò che egli desidera e senza aver
compiuto ciò per cui egli l'ha mandata
(cfr Is 55,11). Lavorare con una tale semente ci deve solo che tranquillizzare; perché
essa, la Parola, produca frutto, dobbiamo soltanto seminarla; dobbiamo cioè annunciarla, dobbiamo fare la nostra evangelizzazione: tutto il resto viene da sé; non dipende da noi; dipende da Dio e da chi accoglie la Sua Parola; il nostro non è un lavoro individualistico, è un lavoro da équipe, collettivo, a più mani, diretto e coordinato però da un'unica mano, magistrale e risolutiva, che controlla e soprassiede a tutto; come dice giustamente Paolo alla comunità
cristiana di Corinto: «Io ho piantato,
Apollo ha irrigato, ma è Dio che ha fatto crescere» (1Cor 3,6).
Non è quindi
l'azione dell'uomo che produce il Regno, ma è la potenza stessa di Dio,
nascosta nel seme della sua Parola. In quest'ottica, tutte le nostre ansie, tutte le
nostre preoccupazioni non solo non servono a nulla, ma sono dannose. Sono inquietudini che
non vengono da Dio, che ci ha comandato di non affannarci (cfr Mt 6,25-34), ma dalla nostra mancanza di fede.
L'efficacia
del vangelo è su un altro piano, è all'opposto dell'efficienza mondana. Il
regno di Dio è di Dio. Quindi non è l'uomo che può farlo, ingrandirlo o
addirittura impedirlo. Semmai, con il suo comportamento dissennato, a volte può soltanto ritardarlo
un po', come succede con una instabile barriera di fango e rifiuti che contrasta il corso impetuoso dell'acqua del fiume.
Gesù
dunque ha seminato in ciascuno di noi la sua Parola, e ci ha incaricati di gettare
anche noi questo suo seme: è Lui stesso, infatti, il seme di Dio che dobbiamo spargere nel
terreno della storia. E aspettare con la paziente fiducia di chi sa attendere.
Gesù
ha detto: «Il regno di Dio è vicino» (Mc
1,5); ma quanto vicino? Non ne abbiamo la percezione; apparentemente nulla è
cambiato da allora: la gente ha continuato a vivere, a soffrire e a
morire. Di nuovo c'è stato semplicemente un uomo che predicava in un luogo poco
importante dell'impero e i suoi ascoltatori erano malati, analfabeti,
squattrinati: quelli che non contavano niente. Tanto che ancora oggi ci chiediamo: è tutto
qui il regno di Dio? Sì, fratelli, è tutto qui! Grande come un granello di
senapa. Proprio perché Dio è grande non ha paura di farsi piccolo; proprio
perché il suo regno è potente, può fare a meno di ogni apparato esterno
grandioso: non ha bisogno di terrorizzare per affermarsi.
Non gli servono eserciti; nonostante Il
mondo lo combatta con tutti i mezzi; nonostante opponga al Suo Regno le sue attraenti seduzioni: il denaro, il possesso, il piacere; nonostante esibisca tutte le sue forze destinate a incutere timore: la persecuzione, le tribolazioni, la
morte violenta... Ecco perché le parabole ci dicono che il Regno viene
attraverso lotte e opposizioni. E che, nonostante gli ostacoli, esso avrà la
meglio. Ma gli ostacoli a volte sono posti non tanto dalla malvagità dei
cattivi, ma proprio dalla stupidità dei buoni; la più grande alleata del nemico
è proprio la nostra ignoranza spirituale; è il nostro assecondare il diavolo, che
ci mette volentieri a disposizione quei mezzi che il Signore scartò come
tentazioni: il successo, la pubblicità, l'efficienza e la grandezza.
Soltanto
Gesù, fratelli miei, è la grandezza di Dio: Gesù che per noi si è fatto “piccolo” fino alla
morte di croce; e grazie a questo “annientamento” è diventato il grande albero sotto l'ombra del quale tutti possono trovare accoglienza. E noi, i discepoli, dobbiamo rispecchiare esattamente questo
Suo spirito di piccolezza e di servizio; perché solo così riusciremo a vincere il male del
mondo, con il suo imperativo di grandezza e di potere. Al contrario chi ama veramente si fa piccolo
per lasciare posto all'altro; il suo io scompare per diventare pura accoglienza
dell'altro.
«Annunciava loro la parola
secondo quello che potevano intendere».
Ecco,
fratelli, questo è un altro insegnamento del vangelo di oggi; è un tratto
importante della pedagogia di Gesù: carità, comprensione, progressività,
adattamento ai fratelli e ai loro ritmi di crescita. Ecco perché, a imitazione di Gesù, dobbiamo incarnarci, immedesimarci nelle situazioni personali dei più deboli, di chi non capisce o di
chi non riesce a convertirsi in fretta, o di chi non riesce a reggersi con i suoi piedi, ricordandoci che un tempo eravamo anche noi nelle loro stesse condizioni;
e forse lo siamo ancora.
Dobbiamo comportarci come Gesù ci ha insegnato. Misericordioso e compassionevole, Egli vuole la conversione di
tutti:
Egli si rivolge a tutti, buoni e cattivi, disposti e indisposti, preparati e
impreparati, perché vuole che tutti, indistintamente, siano salvati. E soprattutto dobbiamo ricordarci
che il Regno di Dio non è un nostro prodotto, non è il risultato di un nostro
sforzo titanico; è un dono Suo. Un dono sottratto alle logiche di efficienza e
di visibilità che spesso condizionano la nostra spolmonante frenesia.
Ebbene,
fratelli, noi discepoli di ogni tempo, che viviamo nel dubbio e nella paura che
il seme della Parola faccia cilecca, e che il Regno di Dio diventi soltanto un promettente
miraggio nel deserto della crisi attuale, noi discepoli dunque, siamo invitati seriamente
a rinforzare, a irrobustire la nostra fede, la nostra fiducia, la nostra umiltà.
Dobbiamo essere certi che il seme di Dio, una volta che lo abbiamo seminato, porterà comunque il suo frutto. Senza di noi. Non
ci sono dubbi. Amen.
«Prese il pane e recitò la
benedizione, lo spezzò e lo diede loro, dicendo: “Prendete, questo è il mio
corpo”. Poi prese un calice e rese grazie, lo diede loro e ne bevvero tutti. E
disse loro: “Questo è il mio sangue dell'alleanza, che è versato per molti”»(
Mc 14,12-16.22-26).
Oggi
celebriamo la festa del “Corpo e del Sangue” del Signore: una festa nata a
seguito del miracolo eucaristico di Bolsena, piccolo centro non lontano da Roma.
Un sacerdote dubita della presenza reale di Cristo nel pane e nel vino; durante
una messa, al momento dello “spezzare il pane”, dalla piccola ostia zampilla
del sangue, che macchia vistosamente il corporale steso sull’altare; ancora
oggi quella tovaglietta macchiata è esposta alla venerazione dei fedeli nel
Duomo di Orvieto. L’autenticità del miracolo è immediatamente confermata da due
eminenti teologi, san Tommaso d’Aquino e san Bonaventura da Bagnoregio, inviati
sul luogo dal Papa, insieme al vescovo di Orvieto, per le verifiche del caso. Dal
1264 questa festa è estesa a tutta la chiesa.
Originariamente
però, già nel primo millennio, con il nome “Corpo del Signore” non si intendeva
l’eucarestia, ma l’assemblea che si riuniva per celebrarla, ossia gli uomini e
le donne che costituivano la nascente Chiesa (tant’è che ancora oggi ricordiamo
questa antichissima tradizione mediante l’incensazione durante la messa: si
incensa infatti Dio rappresentato oltre che dall’altare, dal Vangelo, dal Pane
consacrato, anche dall’assemblea dei fedeli). Erano pertanto le persone il
“verum corpus Christi”; l’eucarestia era il “corpus mysticum”. Poi, nei secoli,
le cose si sono invertite.
Ora, amare
un pezzo di pane può essere anche facile; credere che in questo pane ci sia Dio,
anche se più impegnativo, non è che ci stravolga concretamente la vita. Ma,
fratelli miei, amare le persone che ci stanno intorno, vedendo in esse Dio, beh
questa è tutta un’altra cosa. Vedere e credere, che anche in “certi” volti, in
certi personaggi, spesso antipatici e insopportabili, ci sia veramente Dio, è decisamente
impegnativo, coinvolgente e sconcertante. Non lo sarà per i santi, ma sicuramente
lo è per noi. Madre Teresa infatti era solita dire: “Mi è particolarmente
difficile pensare che chi riesce a vedere il Corpo di Cristo in un pezzo di
pane, non riesca poi a vederlo nelle persone, negli uomini e nei volti del
prossimo”. E un santo predicatore le faceva eco: “Non so se chi ama Dio ami anche
l’uomo. Ma so che chi ama l’uomo, ama sicuramente Dio”.
Nel
Vangelo di oggi Gesù in pratica ci dice: “non solo io vivo, ma voglio fare di
questa mia vita un dono d’amore per voi e per il mondo intero”. Ecco, fratelli,
questo è il punto. Per cui, noi che ci professiamo discepoli, fratelli di
Cristo, non solo viviamo, ma dobbiamo anche mettere questa nostra vita a
servizio degli altri. Questa deve essere per noi una necessità, un bisogno
imprescindibile della nostra esistenza. Altrimenti, che ci stiamo a fare in
questo mondo? perché vivere? Se la nostra vita non serve a nessuno, se non è
utile per qualcuno o per qualcosa, che significato ha vivere? A questo punto esserci
o non esserci, è la stessa cosa.
Ricordo
che per la mia Cresima, da ragazzo, mi regalarono un orologio: una volta era il
massimo, era un oggetto da “grandi”; e la Cresima sanciva proprio l’ingresso del
ragazzo tra i cristiani “adulti”. Era così bello, quell’orologio, che i miei
genitori decisero di non farmelo portare perché avrei potuto perderlo. Non lo
portai e cadde nel dimenticatoio. Quando anni dopo lo ritrovammo, non
funzionava più. Ora, che senso aveva avuto metterlo via? Non era servito a
niente. Ebbene, fratelli, molte vite sono proprio così: per paura di osare, di
perdersi, di rischiare, di sbagliare, vivono sulla difensiva, sull’indecisione,
sulla eccessiva prudenza, sul non esporsi più di tanto; vite che passano e non
lasciano segno; vite che non servono a nessuno, che si trascinano in giornate tristi,
vuote, buie.
Chi
segue Cristo, invece, ha bisogno di sentire che la sua esistenza è dono, che lui
è un servo utile, che è come il grano che si frantuma per diventare alimento
per gli altri. Questo dobbiamo essere noi: pane e vino; dobbiamo infondere
forza, dobbiamo placare la sete, dobbiamo offrire agli altri gusto, saggezza,
sapore. Solo così, per noi e per il mondo, vivere avrà veramente un senso; solo
così la nostra vita avrà dato i suoi frutti. Quante persone muoiono invece con
il rimorso di non aver vissuto! Quanti si rendono conto troppo tardi che la
loro vita non è mai stata “dono”; non sono serviti a nulla, sono stati inutili,
completamente insignificanti per il mondo intero! È come se non avessero mai vissuto.
Gesù in
pratica ci dice: “Io voglio che la mia vita sia un pane che vi nutre”. Vuole cioè
che la sua vita ci offra sostentamento, ci dia forza e lucidità, ci faccia
crescere, ci renda maturi.
Purtroppo
la vita passa, fratelli miei. Non illudiamoci di rimanere qui per l’eternità,
di vivere per sempre. Anche per noi arriverà il “nostro giorno”, lo sappiamo: allora
non facciamoci trovare a mani vuote, offriamo con gioia i frutti del nostro
amore: perché solo se saremo stati “vita che dà vita”, solo se nel nostro
vivere quotidiano ci saremo “consumati”, non avremo motivo di temere, nulla potrà
turbarci: allora potremo serenamente passare la mano. Chi vive in pieno, non teme
di morire.
Facciamo
allora, fratelli, il punto della situazione e chiediamoci seriamente: la nostra
vita è “pane” che nutre qualcuno? È vino che disseta e corrobora? Oppure è soltanto
un tempo che scorre inutilmente? C’è tanta gente che non si dà mai, che non si
concede mai; se parliamo con loro non ci fanno mai vedere quello che hanno
dentro, gente che ha troppa paura di impegnarsi per qualcosa di vero, di bello.
E si giustificano dicendo: “È troppo difficile”. Non riescono a donarsi. Per
paura di perdersi, di sbagliare, non si danno, e non capiscono che è proprio facendo
così che si perdono. Noi invece, con i nostri fratelli, con la nostra famiglia,
con le nostre comunità con cui abitiamo, come la mettiamo? Ci siamo mai chiesto
a che serve condividere una stessa casa, se poi neppure ci si parla? Che senso
ha? Nessuno: perché se non c’è comunicazione tra noi, se le nostre anime non si
incontrano, non si toccano, non si parlano, se i nostri occhi non si penetrano,
noi “stiamo” insieme solo perché “facciamo” insieme tante cose; ma non possiamo
certo dire che “siamo” insieme. Il dono più importante che possiamo fare agli
altri non sono i nostri soldi, offrire le cose più belle e varie di questo
mondo; il vero dono è donare ciò che siamo, ciò che abbiamo dentro, la nostra
parte più vera, più profonda: la nostra anima, i nostri dubbi, le nostre paure,
i nostri slanci. Solo donandoci agli altri così, senza riserve, gli altri
potranno averci, potranno conoscerci, potranno averci nel loro cuore e nella loro
anima.
Gesù
non ci ha lasciato nulla di questo mondo in eredità: non ricchezze, non una
casa, non un libro, non una dottrina e neppure una regola. Gesù ci ha lasciato
solo se stesso, attraverso un po’ di pane e di vino: “Io sono il pane vivo,
disceso dal cielo”. Dio si è fatto carne per noi: è questo il suo grande dono,
è questo il grande mistero che la Chiesa oggi medita. Gesù è venuto su questa terra,
si è incarnato, ha assunto un corpo mortale; non è rimasto lassù col Padre, ma ha
accettato di abbassarsi al nostro livello umano; Lui, il senza macchia, si è
fatto carico di tutte le nostre colpe, si è fatto carne, ha assunto un corpo da
offrire in sacrificio sulla croce, pagando così il prezzo per il nostro riscatto:
un corpo che ha voluto lasciare qui tra noi nel pane consacrato, instaurando
una costante opera di mediazione tra noi e il Padre: è vero: noi possiamo arrivare
a Dio anche attraverso l’amore per una persona, attraverso un paesaggio, un
tramonto, attraverso il sorriso di un bambino, di una madre, attraverso le
lacrime di chi è felice… Anche queste sono “mediazioni”. Ma, fratelli miei, l’autentica,
la più grande mediazione, è quella di Cristo: Dio continua a darsi a noi in un
rapporto di amicizia e di grazia, attraverso il pane della domenica, attraverso
appunto il corpo di Gesù; e questo
rapporto con Dio continua anche attraverso il “nostro” corpo, trasformato con Cristo in Cristo; e continua ancora attraverso
il corpo dei “nostri” fratelli, nei quali
vediamo Cristo.
Possiamo
definire il Cristianesimo la “religione del corpo”.
Per secoli si è fatta una netta distinzione tra ciò che è materiale (e quindi il
corpo, tutto ciò che è umano) e ciò che è spirituale. E si diceva: “Tutto ciò
che è materia è destinato a morire, è indegno, spregevole. Tutto ciò che è
spirito è invece elevato e sublime. Quindi umiliamo il più possibile la materia,
perché solo così emergerà lo spirito”. Con tali premesse, seguire Dio
significava “crocifiggere” in suo nome il proprio corpo, vivere nella fuga e nel disprezzo del mondo. La via della santità,
fino a qualche decennio fa, passava solo attraverso la completa rinuncia ad ogni
piacere, di qualunque natura (cibo, sesso, affetti, amicizie, divertimento,
allegria). Così, andare al cinema era “peccato”, andare a ballare era peccato:
qualunque divertimento era demoniaco. Tutto ciò che era “corporale” era automaticamente
sporco, diabolico, negativo, causa di perdizione.
Ma non
è così, fratelli: il nostro corpo è abitazione
di Dio, è tempio di Dio; il corpo dei
nostri fratelli è Dio, esattamente come corpo
di Dio è il “pane consacrato” della domenica che noi assumiamo. Dio è qui, in
noi, nel nostro corpo. Lo Spirito di
Dio, su questa terra, esiste solo attraverso un corpo: quello di Gesù, il nostro, quello dei fratelli, della Chiesa.
Il corpo diventa così spirituale e lo
Spirito diventa corporeo. Quando stiamo male nel corpo, anche lo spirito soffre, e quando lo spirito sta bene, anche
il corpo sta bene. Tante nostre
malattie corporali, sono solo malattie dell’anima: possiamo infatti prendere
tutte le medicine possibili, ma non arriveremo mai a star bene; perché non è il
nostro corpo ad essere ammalato, è il
nostro spirito. Il corpo non è altro
che la visualizzazione, il “monitor”, lo schermo del nostro spirito. Chi non
ama il proprio corpo non ama neppure Dio,
perché il nostro corpo è a pieno
titolo inabitazione dello Spirito.
Il
corpo ha dunque bisogno della nostra anima, come l’anima ha bisogno del nostro
corpo: se il nostro corpo ha bisogno di carezze e di contatto, è perché la
nostra anima ha bisogno di amore, di essere riconosciuta e accarezzata. Se il nostro
corpo ha bisogno di coccole, di abbracci e di gesti affettivi è perché lo
spirito esige concretezza: è lui che ha bisogno di contatti veri, profondi, perché
lui vuole incontrarci là dove non abbiamo paura, dove gli altri non possono intromettersi,
dove gli altri non possono sedurci (se-durre:
attirare sé); là dove siamo veramente noi, dove nessuno può “cambiarci” in qualcos’altro.
Se il nostro corpo ha bisogno di piacere, è perché il nostro spirito aspira a tutto
ciò che è bello, buono e divino. Curare quindi il nostro corpo significa curare anche la nostra anima. Tenerlo in forma,
significa “tenere in forma” l’anima. Se ci ingolfiamo di cibo, di alcolici e di
droghe, se amiamo gli eccessi estremi di qualunque natura, vuol dire che la
nostra anima è gravemente ammalata; ed ha bisogno di disintossicarsi dal “troppo”,
ha bisogno di pause salutari per eliminare quella “sazietà mortale” che le
impedisce di ascoltare lo “Spirito che parla ai nostri cuori”. È proprio vero,
fratelli: il nostro corpo ha bisogno
di silenzio, di meditazione, di solitarie occasioni di preghiera, per potersi
integrare completamente nel Corpo di Dio; perché, come dicevo, il Cristianesimo
è la religione del corpo.
Ogniqualvolta
ci accostiamo alla Comunione, il Corpo di Cristo viene dentro di noi, viene ad abitare
in casa nostra; nonostante quel che siamo, nonostante tutto, Lui non si
vergogna di noi, viene anzi per amarci, è felice di incontrarci, di diventare
un tutt’uno con noi, di immedesimarsi in noi: Corpo nel corpo. Allora, fratelli
miei, in quel prodigioso momento, alle parole “Corpo di Cristo”, e alla nostra
conferma “Amen, Sì”, esprimiamo umilmente in cuor nostro: “Signore, questo è il
“mio” di corpo…” e sentiremo Gesù che a sua volta ci dirà “Amen, Sì, lo so”.
Capite? Noi diciamo “sì “ a Lui, e Lui risponde “sì” a noi; una accettazione totale.
Un “si”, quello di Dio, portatore di grazie e benedizioni; un “si”, il nostro,
che ci deve seriamente impegnare nella vita, sintonizzandoci sulle importanti parole
di Paolo: «Voi che avete
accolto Cristo Gesù, il Signore, in lui camminate, radicati e costruiti su di
lui, saldi nella fede…» (Col 2,6); pertanto
«vi esorto a offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo, gradito a
Dio, come vostro culto spirituale» (Rom 12,1); poiché «se vivete
secondo la carne, morirete; se invece uccidete con lo Spirito le azioni del
corpo, vivrete. Tutti quelli infatti che sono guidati dallo Spirito di Dio,
sono figli di Dio» (Rom 8,13s)». Amen.
«Andate dunque e fate discepoli
tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito
Santo» (Mt 28, 16-20).
Oggi è
la festa della Trinità. Una solennità in cui la Chiesa celebra un Dio che è
comunione, amore, relazione, famiglia. Dio non è un’entità solitaria, ma una
realtà dinamica, viva e “relazionale”. Sì, fratelli, Dio è “relazione”: Dio è
amore e comunione. Relazione, amore, comunione, sono concetti che tutti conosciamo, che tutti sperimentiamo
nella nostra vita. Nell’amore, infatti, ciò che conta è l’essere uniti,
legati insieme dalla condivisione, essere all’unisono, senza per questo perdere la
propria identità: è importante donarci senza perderci; è importante
essere uniti senza annullarci, è importante rimanere divisi senza separarci.
È da questi concetti che noi possiamo trarre un’idea di Dio Trinità, dell’amore
trinitario: un Dio unito ma non uniforme; separato ma non diviso. La Trinità, prima di essere dogma, è quindi per noi esperienza: quella stessa esperienza
che fecero i primi cristiani e i primi discepoli. Sperimentarono cioè che Dio è
amore, che Dio è relazione, che in Dio c’è unione ma non fusione, diversità ma
non separazione. Capirono che il Padre, suo Figlio Gesù e lo Spirito, da una
parte erano tre esperienze diverse, tre persone, ma contemporaneamente erano lo
stesso Dio, erano la stessa esperienza. E per esprimere queste verità,
utilizzarono l’immagine che tutti conosciamo: la famiglia. Sì, la famiglia è
come Dio: è comunione, amore, relazione, un rapporto di stretta unione tra persone distinte…
Ci sono tanti invece che dicono di sapere chi è Dio,
ma non vogliono fare esperienza di Dio; e non capiscono che senza “provarlo”
non arriveranno mai a capirlo. Non capiranno mai che Dio è relazione, amicizia,
amore, incontro, comunione.
“La
Trinità è relazione tra un Io, un Tu e un Noi” scriveva Papa Benedetto XVI: una
magistrale definizione che esprime appunto l’esistenza di una relazione
fondante, di un dialogo d’amore intimo: in Dio c’è un Padre che ama il Figlio e
che è amato dal Figlio. Il loro amore è lo Spirito.
Questo
fratelli è Dio-famiglia. Questa deve essere esattamente anche la nostra di famiglia:
la vera forza della famiglia non sta tanto nel fatto che due persone stanno
insieme, che convivono, quanto invece nella profonda e sacra relazione d’amore che
si instaura tra loro. Più ciascuno di loro è se stesso (persona), più c’è
profondità e maggiore è lo scambio, l’apertura verso l’altro; più c’è amore
(spirito), più c’è complicità, confidenza, fiducia. Ecco perché ogni vera relazione deve
essere in qualche modo trinitaria, deve cioè essere composta da tre elementi:
l’io, il tu e il noi.
L’io significa che io sono io, che io ci sono, che io sto in piedi
con le mie gambe, che sono persona. Io sono io e non te. Io sono unico (unus) e
non posso confondermi con te. Molti pensano che fare le stesse cose significhi unione:
sì, può aiutare, ma non è questa l’unità di due entità distinte. Molti pensano che
stando insieme, alla pari, arriverà anche l’intimità. Ma non funziona così.
Molti credono che vivendo in due i problemi personali di ciascuno passeranno.
Ma non è così. L’unione, l’intimità, l’affiatamento si raggiungono soltanto
attraverso l’accettazione dell’altro come persona, nella sua singolarità. Molti
pensano di raggiungere un rapporto ideale mediante una totale “fusione” con il
partner, mediante l’annientamento della propria personalità, nel non poter più vivere
senza di lui, nel dipendere totalmente da lui, nell’attendere da lui qualunque
cosa, ogni attenzione. Ma è una fusione destinata a frantumarsi. Ogni rapporto
è così come siamo noi. Se noi siamo entità mature, consapevoli, aperte, lo saranno altrettanto
anche i nostri rapporti, altrimenti no.
Lo
stesso vale per il secondo elemento, il tu:
vuol dire che tu devi essere te stesso; che tu non sei me e io non sono te. Per
cui nella famiglia non dobbiamo fare necessariamente le stesse identiche cose;
non dobbiamo pensarla esattamente alla stesa maniera; non dobbiamo essere “fusi”;
ma uniti; due entità distinte, con tutte le loro caratteristiche e peculiarità,
ma unite. Le
coppie che fanno rigorosamente sempre e tutto insieme, nascondono la paura
dell’individualità. Sembrano coppie romantiche, di grande amore, ma nel loro
guscio c’è tanta paura. Tu sei tu e io sono io: non facciamo confusione.
Unità non è uni-formità o uni-direzionalità. Se tu non sei tu, non
accetterai neppure che io sia io. Perché prima o poi mi vorrai cambiare; perché
vorrai che io faccia ad ogni costo esattamente come te; perché non accetterai
la mia diversità, poiché non accetti la tua. Ciò che trasforma il rapporto in vera unità, in vera unione, è invece il terzo elemento, il noi. La vera forza della famiglia sta proprio
nella relazione reciproca; è il rapporto fra l’io
e il tu, che forma il noi. Nient’altro. È quello che
costruiamo insieme, tu ed io, la nostra “coesione”, la nostra unità. È quello
che c’è fra me e te che ci tiene uniti. Se non c’è niente tra noi, non può
esserci rapporto, è normale. Magari staremo anche insieme, ma solo per
convenienza, per abitudine; forse anche per paura di iniziare a vivere veramente,
preferendo piuttosto tirare avanti.
È il noi che dice quanto ci amiamo. È lo
spirito che c’è fra me e te che dice com’è il nostro rapporto: un rapporto vero,
intenso, è infatti dato dalla capacità che due persone hanno di uscire individualmente da
sé stesse (senza perdersi) per creare un noi, uno spazio in cui possono esprimersi
e accogliersi.
La
relazione è quindi l’elemento universale indispensabile per ogni rapporto, ne è lo stile. In questo senso l’amore deve essere relazionale: deve
cioè dare e ricevere, altrimenti non è amore. Il parlarsi deve essere relazionale: altrimenti diventa
monologo, autoritarismo, imposizione. Se non accetto le posizioni dell’altro,
se non lo ascolto, se non cambio io stesso, non c’è relazione. Relazionarsi vuol dire sentire, ascoltare l’altro,
cercare di capire chi è, cosa gli piace, cosa desidera. Senza la relazione, le persone sono solo oggetti.
Anche l’educare deve essere relazionale;
come pure il lavoro, il gioco, l’amicizia, la preghiera. Tutto deve essere
improntato alla “relazione”, tutto deve corrispondere al nostro “stile” di vita:
e vivere in uno stile relazionale vuol dire appunto vivere secondo il modello
trinitario. E tanto basta; perché per noi cristiani è il massimo.
Proprio
per questo, fratelli miei, dobbiamo lavorare sodo sul nostro relazionarci: è infatti la qualità delle
nostre relazioni che ci qualifica come cristiani; sono le nostre relazioni che,
ci piaccia o no, danno un valore e un senso alla nostra esistenza.
A
volte ci lamentiamo e diciamo: “Nessuno mi ama! Sono solo!”. È vero; ma dovremmo
anche chiederci: “Ma io, in che maniera mi pongo?”. Perché se è vero che abbiamo
il diritto di essere amati, è altrettanto vero che abbiamo il dovere di renderci
amabili. Se gli altri ci rifiutano, spesso lo fanno perché hanno ottimi motivi
per farlo. Se nessuno ci ama, per prima cosa dobbiamo verificare se non dipenda
proprio da noi. Non meravigliamoci. Noi tutti sappiamo infatti che la bontà
della nostra vita, la nostra maturità, la nostra serenità, l’amore, l’armonia, la
preghiera, la fede, dipendono semplicemente dalla nostra capacità di intessere relazioni
positive, sane, profonde e durature. E oggi, cari fratelli, la Trinità ci
ricorda appunto questo: che tutto è “relazione”; che il Tutto è “relazione”; che
Dio Padre, Figlio e Spirito Santo, sono in perenne “relazione”; e che pertanto anche
noi, creature mortali, dobbiamo vivere sempre in “relazione”. È questo il nostro DNA
trinitario. Amen.
«Quando verrà lui, lo Spirito
della verità, vi guiderà a tutta la verità» (Gv 15,26-27; 16,12-15).
Con la
Pentecoste il tempo del Gesù terreno e delle sue apparizioni termina: si apre
un nuovo tempo, il tempo dell’uomo, il tempo della Chiesa, dello Spirito.
Cos’è
successo nel frattempo? Dopo la morte di Gesù, gli apostoli vengono presi da un
profondo sconforto, dalla paura, dalla delusione. Si sono rinchiusi nel
Cenacolo, stanno tutti insieme, hanno una paura folle. Il Cenacolo, in cui
tutto ricorda ancora la presenza di Gesù, è per loro come un grembo materno, si
sentono avvolti, protetti: lì si sentono al sicuro, nascosti. I cinquanta
giorni, che sono trascorsi dalla Pasqua, sono stati per loro un tempo di forte
crisi, di forte scelta, di ridiscussione della loro vita.
Poi scoppia
questo terremoto: un uragano, uno scossone elettrizzante. Lo Spirito è sceso
nei loro cuori, nelle loro menti. Ed ha letteralmente scombussolato la loro
esistenza. I loro pensieri, le loro incertezze, la loro vita che prima andava
in un senso, ora improvvisamente cambiano direzione. Da timorosi, dimessi e
spaventati, diventano forti, intrepidi, battaglieri: diventano “altri”. Si sono
lasciati “scombussolare” dallo Spirito: perché, fratelli miei, lo Spirito
scombussola, e noi dobbiamo lasciarlo fare: perché mai, nessuno Spirito, potrà
mai scendere in chi non accetta di lasciarsi scombussolare. Certo, non è una
cosa da nulla; si tratta di prendere o lasciare; all’istante. Perché lo Spirito
è impetuoso, distrugge all’istante le nostre sicurezze, i nostri progetti, i nostri
rifugi mentali, i nidi della nostra tiepidezza.
Quando
invochiamo lo Spirito, fratelli, ricordiamoci bene delle conseguenze: il nostro
radicale cambiamento di punto in bianco non potrà più essere rimandato, non
avremo più scuse, deve essere affrontato. Subito. Con generosità, senza calcoli
o sconti.
Quanti
cristiani invece pensano a vanvera dello Spirito: non sanno cosa significhi. Non
sanno cosa comporti. Vogliono lo Spirito, ma non vogliono cambiare: stanno bene
così come sono; ma non capiscono che così facendo rifiutano lo Spirito!
L’irruzione
dello Spirito è accompagnato da una crisi. La parola greca “crisi” vuol dire separare,
distinguere, dividere: la crisi è quindi un punto di svolta, di
separazione, un momento in cui è necessario distinguere ciò che dobbiamo tenere
e ciò che dobbiamo lasciare; riconoscere il nuovo e avere il coraggio di
lasciare il vecchio. È pertanto impossibile crescere, evolvere, rinascere, sfuggendo
le crisi. Tutte le nostre crisi; che sono tante: ci sono le crisi della vita: gli anni
che corrono inesorabilmente; il passaggio dalla giovinezza all’età matura; i sessant’anni;
la morte delle persone che amiamo; una persona amata che ci lascia, che si
allontana da noi; le disavventure e le difficoltà economiche, la perdita del
lavoro. Ci sono le crisi mentali e spirituali: la nostra fede non ci soddisfa
più; abbiamo bisogno di maggiori certezze; le nostre sicurezze non ci servono
più; le nostre convinzioni vengono scalzate. Ci sono le crisi affettive: il
nostro modo di amare non va più bene, richiede nuovi impulsi, maggiore
profondità; emergono paure, blocchi o cose che ignoravamo; ci accorgiamo di non
essere poi così tanto liberi.
Ogni
crisi è una sofferenza, un travaglio, un conflitto; ma ci matura, ci fa più
forti, ci scuote.
La
crisi è pertanto il momento della discesa dello Spirito, il momento in cui ci purifichiamo,
in cui lasciamo spazio perché la Vita ci faccia più veri, più maturi, più liberi
e più trasparenti; il momento in cui Dio ci modella e ci plasma, ci forgia e ci
rende come Lui vuole: ecco perché chi evita la crisi, rimane infantile,
involuto.
La
festa di Pentecoste esprime dunque questa verità: Dio abita dentro di noi. Dio
non è più presente fisicamente in mezzo a noi, ma è presente in noi con il suo
Spirito.
Quando
noi sentiamo questa affermazione pur registrandola con la mente e sapendola
ripetere a memoria, in pratica rimaniamo interdetti: “Cosa vuol dire? Io non
sento nulla! Cos’è questo Spirito?”. In effetti, se chiediamo alle persone
cos’è lo Spirito, la maggior parte non sa cosa rispondere. E se non sa
risponderci, è perché non lo conosce, non l’ha mai sperimentato, non l’ha mai
vissuto. Molti pensano che lo Spirito sia un di più, un qualcosa che si aggiunge
a quello che già siamo. Per cui ne possono fare anche a meno. Stanno benone
così come sono. Ma lo Spirito, fratelli, non è un’aggiunta, non è un qualcosa di
appiccicaticcio; è qualcosa che noi già abbiamo, già siamo, senza saperlo né
averlo mai saputo.
Lo Spirito non decide un bel giorno della nostra vita di scendere dentro di
noi, ma abita già in noi (ricordate il “soffio di vita” della creazione?). Lo
Spirito pertanto altro non è che il modo con cui Dio abita in noi. Essere dello
Spirito, spirituali, non vuol dire pregare molto, o fare cose pie e religiose,
frequentare la chiesa o andare in pellegrinaggi. Essere spirituali vuol dire essere
dello Spirito, vivere dimostrando a tutti chi abbiamo dentro, chi è la nostra
guida che ci abita dentro. È uno stile di vita.
I
mistici cristiani (Eckhart) dicevano: “Tutte le creature sono orme di Dio...
Dio ha creato tutte le cose; non che le abbia fatte divenire, e poi se ne sia
andato per la sua strada, ma è rimasto in esse”. Eppure se noi guardiamo una
persona, non vediamo Dio, vediamo solo una persona. Che cosa invece vedevano i
santi? Madre Teresa è chiara. Un giorno disse ad un giornalista: “Vede, io Dio
lo vedo chiaramente. È qui in questo uomo che soffre o in quello lì, in quel
letto, abbandonato da tutti. Dio è in me, è in lei. Io lo vedo. Se lei non lo
vede purtroppo non dipende da me, ma solo da lei. Per me lui è evidente!”. Che
cosa vedeva questa donna? Che occhi aveva per vedere Dio presente in ogni
creatura? Era una santa; e i Santi, si sa, quando guardavano le persone, non
vedevano il corpo, la materialità, ma la luce, lo Spirito che abitava in esse.
Ora
cosa c’entra questo con la festa di Pentecoste? C’entra, fratelli, eccome: perché
lo Spirito abita ogni cosa, è ogni cosa. Si tratta di andare oltre le
apparenze. Gesù fu precisamente l’uomo del guardare oltre le apparenze, del
guardare dentro la realtà. Questa cosa Lui la chiamava “Regno di Dio”. E lo
diceva sempre: “Il Regno di Dio non è un paradiso lontano, ma è qui, oggi,
adesso. Dipende dai tuoi occhi”. Gesù vedeva un fiore e vedeva Dio (vedeva la
luce, lo Spirito del fiore). Gesù vedeva gli uccelli del cielo ed esclamava: “Che
meraviglia; chi può vestire come loro? Come sono liberi!”. Gesù vedeva i fatti che
accadevano e vi leggeva la mano di Dio che insegnava. Gesù vedeva i sofferenti,
i poveracci, i bisognosi e mentre tutti cercavano di evitarli, Lui li
abbracciava, li incontrava, li baciava, li accarezzava e coglieva il loro bisogno
d’amore, donando amore. Gesù vedeva i peccatori e mentre tutti si fermavano
all’apparenza (“Siete peccatori, avete sbagliato, lontani da Dio!”), Lui andava
dentro. Sapeva cogliere la luce che li abitava dentro; sapeva vedere la forza e
il desiderio di vita nascosti dentro di loro. Lui vedeva un pescatore qualsiasi
e vi coglieva i desideri profondi del suo animo. Lui era vicino in croce ad un assassino, un omicida e, mentre tutti vedevano il malfattore, Lui gli disse: “Oggi
sarai con me in Paradiso”. Fu condannato a morte e, mentre noi non proviamo che
rabbia verso coloro che lo condannarono, Lui vide la luce che si nascondeva nel
profondo delle loro tenebre e disse: “Padre perdonali, perché non sanno quello
che fanno”. Gesù non vedeva la materia; Gesù vedeva lo Spirito, la luce che c’è
dentro ad ogni essere.
E noi?
Ci sarà capitato di passare qualche volta davanti ad un albero secolare. Sta lì
da tanto tempo, prima di noi; e chissà quanto tempo rimarrà lì, anche dopo di noi.
Ma noi non ci siamo mai resi conto che c’è, che sta lì; non ci siamo mai fermati
ad ammirarlo veramente, non ci siamo mai seduti alla sua ombra, insomma non lo abbiamo
mai “visto” per quello che realmente è. Per noi è solo un tronco di legno; non ci
siamo mai fermati ad “ascoltarlo”, a “parlargli”; non abbiamo mai imparato nulla
da lui. Non abbiamo colto il suo Spirito, non lo abbiamo mai considerato come
un essere vivente, che parla attraverso lo stormire delle sue fronde, non abbiamo mai provato ad entrare nella sua luce che cattura dal sole. Siamo troppo distratti, indifferenti: e
come facciamo con quell’albero, così purtroppo facciamo anche con i nostri
fratelli. E questo non va.
Abbiamo
un sacco di cose da fare, e questo ci tiene tesi, ci assilla: ma non ci chiediamo
mai il vero perché della nostra irrequietezza e del nostro nervosismo. Nel nostro
intimo siamo sempre insoddisfatti, mai pienamente felici. Cerchiamo di farcene una
ragione: “pazienza, bisogna accontentarsi; è così per tutti”; ma la verità è
che non riusciamo a capire cosa sia quello che non va in noi. E continuiamo a
correre, a fare, a produrre, e non ci accorgiamo di essere fermi, concentrati
sul materiale. Non riusciamo ad entrare nello Spirito che c’è in ogni cosa. Questo
è il problema, fratelli. Non riusciamo a vedere il divino, vedere Dio, che si nasconde
dentro le persone e la vita stessa.
Ci
siamo mai chiesto perché sbattiamo le porte così forte? Perché urliamo sempre
quando parliamo? Perché siamo sempre arrabbiati? Perché non c’è luce nel nostro
volto? Perché non sappiamo esprimere un sentimento che sia uno? Perché, se possiamo
“fregare” gli altri, lo facciamo volentieri? Perché niente ci intenerisce?
Perché non sappiamo dire “grazie”? Perché non sappiamo pregare? È chiaro: siamo
fermi al materiale. Purtroppo viviamo in una società che è incapace di guardare
allo spirituale, e questo non ci aiuta. È una vera malattia. Suo unico interesse
è l’avere: “Quanto costa? Quanti soldi hai? Quanti soldi servono? Quanti soldi
ti danno?”; come pure la centralità dell’io, l’egocentrismo: “Io…, io…; Io
faccio così; se non ci fossi io; ti dico io cosa fare; io di qua, io di là;
parlo io; io so; io non ho bisogno…”. Noi ci scandalizziamo per ciò che succede
nel mondo, per le notizie dei telegiornali; ma dimentichiamo che siamo noi a comportarci
così, è la società che noi stessi formiamo.
Perché,
quando il valore che conta è vincere sempre, eccellere, essere sempre i primi
in tutto, è naturale che lo Spirito passa in seconda linea; è in questo modo che
lo perdiamo, che perdiamo l’anima dello “stare” insieme. Quando giudichiamo o
valutiamo le persone in base al vestito; quando ammiriamo le auto e le case
della gente, invidiandole; quando il nostro unico pensiero è il conto in banca;
quando il divertimento viene prima di ogni cosa; quando tutto viene monetizzato;
quando ragioniamo in base alla logica del “do ut des”; quando non sappiamo più
pregare, non troviamo più il tempo per congiungere le mani, per fare silenzio,
per metterci in contatto con la nostra anima, ebbene, fratelli, siamo già al capolinea:
ci siamo sganciati dallo Spirito, abbiamo fatto del materialismo il centro
della nostra vita. Siamo materia quando dovremmo essere Spirito: così siamo materia quando
alla domenica vediamo sull’altare il pane, e siamo invece Spirito quando vediamo
in quel pane, il Pane divino, il Cristo. Siamo materia quando vediamo nell’amico,
nella persona che incontriamo, soltanto uno che ci importuna, che ci scoccia, che
ci dà fastidio; siamo Spirito quando iniziamo a vedere il lui uno che soffre,
che vive un dramma, uno che ha un cuore e un’anima. Siamo materia quando al
mattino vediamo soltanto un altro giorno pesante da superare; siamo Spirito quando
vediamo un’altra opportunità donatami da Dio per sperimentare la sua infinita bontà
e misericordia. Siamo materia quando qualunque cosa ci fa innervosire; siamo
Spirito quando iniziamo a chiederci il perché di questo nervosismo, cosa dobbiamo
imparare e fare, cosa dobbiamo cambiare del nostro comportamento o del nostro modo
di pensare. Siamo materia quando guardiamo alla nostra vita in termini di
successi, di conquiste, di cose raggiunte, di posizione sociale, di quale
immagine diamo agli altri; siamo Spirito quando finalmente iniziamo a percepire
i movimenti del nostro cuore e della nostra anima. Così, materia è mangiare, Spirito
è gustare; materia è respirare, Spirito è essere consapevoli del soffio di Vita
che inspiriamo per noi ed espiriamo per gli altri. La nostra vita può essere insieme terribilmente materiale o divinamente
Spirituale, può essere piena di buio o di luce. Tutto per noi può essere
materia, o tutto può essere Spirito: dipende solo da noi; da come noi ci poniamo e guardiamo.
Ben
venga allora, fratelli, questo uragano dello Spirito! Scenda nei nostri cuori
quella scintilla divina che rianimi il nostro fuoco che langue. Perché a noi serve
veramente una Pentecoste, una crisi, uno scossone, uno Spirito che distrugga i
nostri nascondigli e ci butti fuori; che ci costringa ad uscire dai nostri
cenacoli di paura. Uno Spirito che ci costringa a camminare a testa
alta, sulle vie della vita, incuranti del mondo, impassibili di fronte alle sue
insidiose lusinghe. Dio è con noi, fratelli; Dio è in noi! Ascoltiamolo! Amen.
Fino
al V secolo la festa della Resurrezione di Gesù, comprendeva anche l’Ascensione
e la Pentecoste. Solo successivamente sono nate tre feste: Gesù è vivo? Sì,
Gesù non è rimasto nella morte (Resurrezione);
e dov’è adesso Gesù? È salito al cielo, cioè è in Dio (Ascensione) e lascia a noi il compito di proseguire la sua opera.
E ci lascia soli? No, perché è presente in mezzo a noi con il suo Spirito (Pentecoste). Dunque «Andate in tutto il mondo e proclamate il
Vangelo a ogni creatura… Allora essi partirono e predicarono dappertutto»
(Mc 16, 15-20).
La duplice
sottolineatura fatta dal vangelo dell’andare
e del predicare, non è casuale ma
voluta. All’ordine impartito, segue puntualmente il suo compimento. Viene cioè
rimarcata l’importanza della missione: non siamo invitati ad andare per “esibirci”,
per fare gli “uomini immagine”, ma per “predicare”, per far “conoscere” e testimoniare
il vangelo a tutti, ovunque.
Chi
c’era prima che andava dappertutto? Chi era prima il maestro e predicatore?
Gesù, ovvio. Ma adesso Lui non c’è più, è asceso in cielo, e manda noi suoi
discepoli. Noi dunque siamo i nuovi Gesù. E notiamo bene: “In tutto il mondo…
ad ogni creatura… dappertutto”: il vangelo, (eu-anghelion=buona/bella
notizia), l’annuncio, infatti, è per tutti, indistintamente; la chiamata alla
salvezza e alla santità è universale, fratelli, per cui dobbiamo essere noi a
renderla possibile a tutti, anche se sappiamo che salvezza e santità non sono riservate
automaticamente a “tutti”, ma soltanto a quei “molti” che liberamente
accetteranno il messaggio e lo vivranno fedelmente. Del resto cosa ha fatto
Gesù qui in terra? Mentre i religiosi ebrei dicevano: “Questi sì e quelli no;
questi sono buoni e quelli cattivi; questi sono degni e quelli no; questi in
paradiso perché puri, quelli all’inferno perché impuri (donne, peccatori,
pubblicani, pastori, pescatori, lebbrosi, ammalati, usurai, ecc.)”, Gesù invece
diceva: “Io vado da tutti. Io non guardo in faccia nessuno, non guardo la carta
d’identità, io guardo il cuore. Io ho un messaggio da proporre al vostro cuore,
un messaggio di luce, di vita, di amore, di riconciliazione, di pace, di
verità. E vengo da voi. Se mi accogliete bene; se non mi accogliete vado da
un’altra parte. Ma Dio è per voi e per tutti”. Una volta si leggevano queste
parole pensando: “Bisogna convertire il mondo. Bisogna cristianizzare il mondo
intero. Bisogna battezzare tutti”. Ma Gesù non vuole assolutamente fare
proseliti o seguaci “per forza”. Gesù vuole solo che il suo vangelo, il suo
messaggio d’amore arrivi proprio a tutti. In altre parole vuol dire: “Guardate
che Dio è già dentro di voi! Tiratelo fuori, vivetelo, esprimetelo. Se volete
la salvezza, dovete fare così. Non avete idea di quanta forza, di quanta
potenza, di quanta energia voi disponiate dentro di voi. Voi potenzialmente siete
già tutti di Dio: io non vengo per aggiungervi qualcosa dentro, ma solo per dimostrarvelo,
per farvelo capire bene, perché possiate toccare con mano, vedere e rendervi
conto, di ciò che siete e di ciò che con
me potrete essere”.
Non si
tratta dunque di convertire tutto il mondo, ma di annunciare che il Dio del
vangelo è veramente il Dio di tutti, di quelli che credono e di quelli che non
credono, di quelli vicini e di quelli lontani, dei buoni e dei non buoni, dei
giusti e dei non giusti. Non si tratta di mettere Dio “dentro”, ma di farlo tirar
fuori! Perché Dio è la possibilità di un incontro, di una esperienza che tutti
possiamo fare, di una semplice parola, perché Dio vive già dormiente in noi.
La
catechesi, la predicazione, gli esercizi spirituali, non servono per
“aggiungere”: devono soltanto far “emergere”, far risplendere la grandezza di
Dio che vive in noi, di quel Dio che vive “diverso” ma unico, in ogni creatura.
Dio è una presenza costante. Educare a Dio vuol dire quindi mettere ogni
creatura in collegamento, in relazione col Dio che già vive dentro di lei. Poi
sarà lei a decidere sul da farsi. Non noi. Non gli altri. Altrimenti diventa
imposizione, violenza: come se tutti dovessero avere la nostra stessa idea, condividere
la nostra medesima esperienza di Dio, privata e personale, senza accorgerci che
così facendo invece di avvicinare i nostri fratelli a Dio, semplicemente li allontaniamo
dal “loro” Dio, dal Dio che coabita in loro, dalla loro risposta personale, una
volta che noi glielo abbiamo indicato.
Siamo
dunque noi i chiamati ad essere nuovi Gesù. Lui non c’è più, ci siamo noi. Gesù ha
vissuto un tempo storico, circa trentatre anni. Poi se ne è andato. Ma adesso
ci siamo noi. Il vangelo è chiaro: «Essi
(cioè noi) partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore operava
insieme con loro e confermava la parola con i prodigi che l’accompagnavano».
Sono
le ultime parole del vangelo di Marco: la storia di Gesù finisce qui; e da qui
inizia quella della Chiesa, la nostra storia. Lui non c’è più, anche se in
effetti c’è sempre; perché Lui vive in noi: Egli continua a vivere attraverso
le nostre mani, i nostri piedi e le nostre labbra, le nostre azioni. «Operava insieme con loro»: in greco è “sinergia”: noi agiamo e Lui è la nostra
forza; con l’Ascensione, come abbiamo detto, Dio non agisce più se non
attraverso di noi, solo ed esclusivamente attraverso di noi.
Purtroppo
il nostro cristianesimo è ancora troppo bambino: noi siamo interessati
soprattutto a chiedere; noi chiediamo tutto a Dio (che faccia questo, che ci
tolga il dolore, che ci cambi la vita, che cambi il mondo e gli altri, che ci
mandi il miracolo o quello che ci serve). Siamo come i bambini che chiedono,
chiedono, chiedono. Ma ora, fratelli, siamo diventati grandi, e il nostro
cristianesimo, la nostra fede, devono essere adulti: Dio c’è? No, se pensiamo
che Lui debba fare tutto ciò che dobbiamo fare noi, fare le cose al posto
nostro. Dio in questo modo non interviene più, non scende più. Non possiamo più
appellarci a Lui. Dio c’è? Sì, se finalmente siamo convinti che Lui è la forza
che c’è in noi, che Lui è la fiducia e la vita che abitano in noi, alle quali possiamo
liberamente e continuamente attingere. Da questo punto di vista Lui è sempre
con noi e lavora (sin-energia) con
noi e attraverso di noi.
Poi
c’è una frase da chiarire: «Chi crederà e
sarà battezzato sarà salvo, ma chi non crederà sarà condannato». È la
conseguenza finale. Il concetto di salvezza implica purtroppo quello di
condanna: o ti salvi o sei condannato, perso, morto; o vai in paradiso
(salvezza) o vai all’inferno (condanna). Ma prima di arrivare a tanto, urliamo
a tutto il mondo cosa vuol dire “salvezza” nel vangelo di Gesù: “salvezza”, per
Gesù, è vivere alla luce del vangelo, cioè una vita vibrante, appassionata,
dove la gioia si esprime, l’amore fluisce e scorre, la tristezza e il pianto
escono, la voglia di cantare e di vivere si sprigionano, dove si va al di là di
se stessi, dove insomma ci si sente “vivi”. Questo per Gesù è “credere”: perché
quando incontri veramente Dio ti infiammi, bruci di vita. Prima eri freddo, di
ghiaccio, morto; improvvisamente ti riscaldi, ti sciogli e diventi meravigliosamente
vivo. “Salvarsi”, per Gesù, vuol dire salvarsi dal morire di ogni giorno,
dall’essere spenti, dall’essere come dei morti che vivono. “Condanna” è non
credere; cioè non poter pensare o non riuscire ad essere così vivi. Vuol dire chiudersi,
rifiutare l’annuncio, ignorarlo volutamente. Per questo è importantissimo che
tutti lo conoscano.
E quali
sono i segni che accompagneranno il nostro “andare”
e “predicare”? «… nel mio nome scacceranno demoni, parleranno lingue nuove,
prenderanno in mano serpenti e, se berranno qualche veleno, non recherà loro
danno…».
Quando
pensiamo alla vita dei Santi, diciamo: “Che uomini straordinari! Come hanno
fatto a fare tutto quello che hanno fatto?”. E rimaniamo stupiti, meravigliati,
come se fossero dei super-uomini, dei super-eroi. Invece è vero il contrario:
non sono loro che hanno vissuto da super-eroi, siamo noi che viviamo decisamente
al di sotto delle nostre possibilità. Quello che loro hanno fatto, è esattamente
ciò che tutti possiamo fare, ciò che tutti possiamo vivere.
«Parlare lingue nuove». Ma, fratelli, abbiamo mai ascoltato
i nostri discorsi? Di cosa parliamo noi? Del tempo, di ciò che ha fatto o detto
il vicino, il collega, il capoufficio; dell’ultimo gossip; con tante chiacchiere,
tante insinuazioni, tanti giudizi, con tante parole vuote, senz’anima. Per il
semplice fatto che parliamo, siamo convinti di comunicare, di trasmettere, di
esprimerci. Ma non è così. Però possiamo farlo con altri linguaggi, diversi dal
nostro; con quelle “lingue nuove” di cui parla il vangelo: come per esempio il “linguaggio del silenzio”: ti ascolto; faccio
silenzio e ti ascolto; ascolto le tue parole e il tuo cuore. Ascolto la natura,
il canto degli uccelli; ascolto il mio cuore che batte o il respiro della mia
anima. C’è il “linguaggio degli occhi”:
fermiamoci un momento e guardiamoci negli occhi. Perché gli occhi sono lo
specchio dell’anima; attraverso gli occhi raggiungiamo l’anima dei fratelli. Il
“linguaggio del corpo”: abbracci,
carezze, baci, coccole, contatto: con chi ci sta vicino, con chi amiamo e ci
ama, con i figli, è un linguaggio indispensabile. Il “linguaggio del cuore”: esprimere le nostre emozioni, le nostre
paure, i nostri bisogni e desideri. Il “linguaggio
dell’anima”: piangere di gioia, commuoversi, stupirsi, meravigliarsi,
essere felici; un linguaggio che unisce e rende compartecipi.
Ebbene,
fratelli, noi siamo troppo distratti: non ci rendiamo conto di quanta vita, di quanta
energia, di quanta forza, di quante vibrazioni noi possiamo comunicare con questi
linguaggi, con queste parole che non sono “parole”.
«Prendere in mano i serpenti». Il serpente è pericoloso, a
volte mortale. Lo sappiamo bene; quante volte infatti evitiamo le persone,
perché le giudichiamo “serpenti”; quante volte fuggiamo dai nostri doveri,
dalle cose che dobbiamo fare: ci fanno paura, siamo convinti di non farcela, sono
troppo grandi, troppo pericolose. Invece la nostra è solo paura. “Con me puoi
tutto”, dice il Signore. “Prendi in mano ciò che ti fa paura!”. Andare in
chiesa, vivere da cristiani, onestamente, non ci dice più nulla? Affrontiamo la
questione. Perché tirare avanti e fingere che tutto vada bene? Parliamone
umilmente con la nostra guida spirituale! C’è qualcosa che non va con i
fratelli? Qualcosa di segreto che ci turba? Prendiamo in mano la situazione. “È
difficile, mi vergogno!”: tranquilli, abbiamo dentro di noi tutta la forza per
farlo, perché Lui è con noi, Lui lavora (sinergia)
con noi. C’è una questione scottante, scabrosa, un problema veramente difficile,
che ci fa paura? Prendiamola in mano, Lui è con noi. Se, fratelli, ci fissiamo soltanto
sul problema, non abbiamo molte possibilità di risolverlo. Ma se guardiamo anche
alla Sua forza che è in noi, allora tutto sarà più semplice, tutto si potrà affrontare
e superare.
«Se berranno qualche veleno,
non recherà loro danno».
Gli altri sparlano di noi, con cattiveria. È veleno. Veleno puro. Ma dobbiamo
essere “superiori”, sapere che questo è lo scotto che tutti prima o poi devono
pagare: del resto “se sei buono ti tirano le pietre”, come diceva una vecchia
canzone; e se sei cattivo anche. La maldicenza fa parte della natura umana: non
ci si può proteggere dal giudizio degli altri. Noi saremo sempre e
continuamente sottoposti a giudizio, critica, osservazione, disapprovazione: ma
possiamo imparare a disinteressarci e continuare per la nostra strada, al di là
di tutto questo. È chiaro che a nessuno piace non essere apprezzato, capito,
giudicato positivamente; anzi a tutti fa male il veleno della critica. Ma Dio,
che è dentro di noi, è più forte delle critiche di tutte le persone; se siamo
ancorati nella Vita, diventeranno innocue, sarà un gioco berle e mandarle giù.
E
concludo: Lui è dunque asceso al cielo: ma ora, fratelli, al suo posto qui
sulla terra ci siamo noi. Ascensione non significa “sottrazione” della persona
di Gesù al nostro contatto, ma “moltiplicazione” della sua presenza attraverso
noi. Beh, pensiamo, è un’impresa difficile, a volte disperata! Ma non è vero: dobbiamo
solo pensare che dentro di noi c’è Lui; Lui, che continua a vivere in noi con
tutta la sua forza. Quello che ha fatto Lui, lo possiamo fare anche noi. E se siamo
convinti di questo, niente ci sarà impossibile, nulla potrà abbatterci. Non a
caso Gesù disse: “Chi crede in me compirà le opere che io compio e ne farà di
più grandi perché io vado al Padre” (Gv
14,12). Ecco, fratelli, questo ci dice l’Ascensione: e allora perché stiamo
ancora col naso all’insù, a “guardare il
cielo” (At 1,11)? Perché continuiamo a rimanere “imbambolati” e dubitiamo
ancora? Muoviamoci. Tutto dipende da noi, tutti ci stanno aspettando! Amen.
«Come il Padre ha amato me,
anch’io ho amato voi. Rimanete nel mio amore. Se osserverete i miei
comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del
Padre mio e rimango nel suo amore»(Gv 15,9-17).
Se ci
guardiamo intorno, mentre ci vengono proclamate dall’ambone queste parole, la
reazione che notiamo è soltanto quella di una totale indifferenza. Non incidono
più, non colpiscono più, ci scivolano addosso, senza provocarci più alcuna
emozione. Del resto sono sempre le stesse parole, sentite e risentite in tutte
le salse; ci sono state bombardate nelle orecchie fin dal catechismo della
prima comunione, e riascoltate poi durante gli anni in migliaia di prediche e
di conferenze. Ma perché puntualmente ogni tanto ci viene riproposta questa
raccomandazione? Perché non ci viene detto qualcosa di diverso? Ebbene,
fratelli: non si può. Non c’è niente di diverso che sia altrettanto
fondamentale, altrettanto essenziale di questo comandamento di Gesù. È il punto
di partenza del cammino cristiano; è il testamento originale di Gesù; sono le
parole chiave di tutto il suo Vangelo. Dobbiamo amarci; i cristiani devono
amarsi. Punto.
Invece
pensiamo: “Noi siamo cristiani, e quindi questo lo facciamo già”. Mah!, è
davvero così scontato, così pacifico, che noi cristiani, gente che preghiamo,
che andiamo a messa, che facciamo pratiche di carità... ci amiamo veramente? Una
volta sicuramente: alludendo ai cristiani, la gente diceva: “Guardate come si
amano!”. Ma oggi? Anche oggi dicono di noi la stessa cosa? Scusate, ma ho dei
dubbi. Io perlomeno non l’ho mai sentita. Oggi ci definiscono semmai: “Quelli
che vanno in chiesa”, e quasi sempre lo dicono in un tono dispregiativo. Hanno
ragione? Beh, se noi prendessimo sul serio il comandamento dell’amore, questo
non succederebbe; questa sarebbe un’offesa bruciante, un giudizio superficiale
e limitativo, una grave carenza di obiettività: sicuramente non sarebbe un modo
corretto per identificarci. Succede però, fratelli miei, che proprio noi per
primi siamo convinti che, per essere buoni cristiani, sia sufficiente andare in
chiesa!
E allora
dobbiamo fare un piccolo esame di coscienza, dobbiamo chiederci seriamente: “In
che cosa si deve contraddistinguere un cristiano? Cosa lo identifica come tale?
Forse il fatto, come abbiamo detto, di andare a Messa? Il fatto di non
commettere peccati? Il fatto di pregare? Di destinare l’8x1000 alla Chiesa
Cattolica? Che cosa, dunque? Ebbene: la risposta ce la dà Gesù, dicendo
semplicemente: “vi riconosceranno dall’amore”. Ecco: è soltanto dall’amore che
si riconosce un cristiano; un vero cristiano
risalta subito per la passione, per l’entusiasmo con cui agisce, per la
discrezione e la riservatezza con cui tratta le persone e le cose: si distingue
cioè per l’amore che lo anima; solo per l’amore. Non dai vestiti, non dalle
croci d’oro appese al collo, non dalle messe domenicali o dalle scelte
politiche. Ma solo ed esclusivamente dall’amore. Non un amore qualunque, come potrebbe
essere inteso dal mondo, ma un amore identico a quello che ci ha insegnato
Cristo. Questo occorre ripeterlo e precisarlo, perché nulla di più ambiguo -
oggi – si nasconde sotto la parola “amore”.
Dietro
questa parola si celano una varietà infinita di significati: passione,
attrazione, erotismo, carità, benevolenza, interesse, coinvolgimento,
oblazione... Com’è, allora, l’amore cristiano che ci deve animare? Un amore dal
collo torto e lo sguardo melenso, riservato estaticamente ad una qualunque immagine
di Gesù e della Madonna? Nossignori: l’amore dei cristiani è un qualcosa di ben
più profondo: un amore che prima di essere donato agli altri, noi stessi lo
riceviamo dall’alto, lo accogliamo come un dono divino. È come in una fontana
dei villaggi di montagna: riceve l’acqua dalla sorgente fino a riempirsi
completamente; e, una volta piena fino
all’orlo, la lascia scorrere attraverso tanti rivoli, verso fiori, giardini,
colture secche e bisognose di vita. Ecco: il nostro amore è come quest’acqua
limpida e benefica; amare i fratelli, per il cristiano, non è uno sforzo, non è
un lavoro, non è una rappresentazione scenica; è una cosa naturale: significa riversare
spontaneamente e silenziosamente quello stesso amore che lui riceve
gratuitamente da Dio; quell’amore che, una volta saturato il suo cuore, si spande
a caduta sui fratelli. Noi infatti amiamo perché ci sentiamo fortemente amati.
Ci scopriamo scelti, pensati, calati in un progetto meraviglioso; ci sentiamo cercati
e svelati a noi stessi; ci scopriamo belli dentro, perché illuminati dal
Signore; capaci di amare oltre il possibile, perché riempiti dall’amore di Dio.
Scopriamo così che è l’amore, e solo l’amore, che riempie il mondo e regge
l’universo. Sentiamo che è possibile superare qualunque difficoltà, che
possiamo vincere qualunque rigurgito di egoismo che – talvolta – può distorcere
il nostro sorriso. Si, fratelli: noi possiamo amare ed accogliere gli altri,
perché Lui per primo ci ha amati e ci ama. Lo possiamo fare perché Egli, paziente
e misericordioso, ci ha dato la vita intera per poter restituire agli altri il
grande amore di cui ci ha privilegiati.
Certo,
non è sempre tutto rose e fiori; talvolta l’amore anche tra gli stessi fratelli
cristiani può essere sofferto e faticoso, può incontrare resistenze e contrasti,
imporre rinunce e privazioni.
Del
resto il nostro rapporto non si fonda sulla simpatia, ma sulla fraternità, e dobbiamo avere il coraggio di perdonare
presente ingratitudini, favorire sempre le ragioni dell’altro anche quando sono
sfavorevoli a noi. Dobbiamo imitare Gesù, nostro Maestro, che amò i “suoi” fino
alla fine, fino alle estreme conseguenze; dobbiamo amare fino al punto di
trasformare la nostra vita in un donarsi spontaneo e senza calcoli, sapendo
che, come dice Gesù, se uno perde la sua vita, la dona, la offre, la spende per
gli altri, in definitiva la guadagna. E dobbiamo farlo senza ricorrere a falsi
misticismi, senza ingenuità, ma vivendo la nostra quotidianità, disposti anche
a subire qualche incomprensione e qualche fregatura, pur di mantenere, quando
ci chiniamo sul prossimo, quello stesso sguardo benevolo che ebbe Gesù.
Questa
è la vita cristiana, fratelli: questo è il nostro programma; e penso che dovremo
tutti lavorare ancora sodo perché – almeno nelle nostre Pasque domenicali – si
respiri nella Chiesa vera accoglienza e carità, e non la noiosa fatica di dover
assolvere a un dovere...
Gesù è
stato chiaro: chi ama deve arrivare a sacrificare anche la vita per tutti i
propri fratelli. E sottolineo “per tutti”: anche per coloro che non conosciamo,
che non ci sono simpatici; anche per coloro che ci crocifiggono e che
preferiremmo evitare. L'amore che Gesù ci chiede è esattamente quello del
samaritano. Un amore che vede, si accorge, ha compassione, si fa vicino; un
amore che soprattutto interviene subito, in prima persona: fascia le ferite
all'uomo dopo averle pulite con olio e vino, lo carica sul somaro, lo porta al
pronto soccorso, sta con lui fino al giorno dopo. Un amore insomma che si
preoccupa della soluzione completa del problema. È questo, fratelli, il comportamento
che ci chiede Gesù. Non lo scarto, non le mezze misure, non i ritagli di tempo
tanto per…, ma il meglio, il tutto. Con tutti. Ogni giorno. Dovunque.
Perché?
perché l'amore è da Dio, l'amore è Dio stesso; e se vogliamo che Dio sia
presente in noi e intorno a noi, dove viviamo, lavoriamo, dove preghiamo, dove ci
muoviamo, dobbiamo semplicemente amare così. Le chiese, le pratiche di pietà,
le attività pastorali, i gruppi parrocchiali, servono soltanto se sono un mezzo
per praticare questo amore “speciale”. Se al contrario sono occasioni per
coltivare il nostro orgoglio, i nostri personalismi, se si riducono a fonti di maldicenze,
di critiche, di cattivi esempi, diamoci un taglio: facciamo una bella pulizia,
rovesciamo (come ha fatto Gesù all’ingresso del Tempio) qualche bel tavolino
con i suoi infedeli gestori, fosse pure quello della “Caritas”! Dobbiamo tener
sempre presente che il volontariato stesso è un corollario dell’amore, un
veicolo dell’amore, ma non è l’amore: dobbiamo noi trasformarlo in amore; né
più né meno come succede con l’automobile: è costruita per correre, per
muoversi velocemente, ma non lo farà mai se non saremo noi a metterci benzina e
a guidarla.
«Amatevi gli uni gli altri». Non è un consiglio, fratelli:
questo è un comandamento! È il comandamento! Per cui la messa, il volontariato,
le opere parrocchiali e tutto il resto, sono soltanto un dono, la possibilità
che ci viene offerta per riuscire a metterlo in pratica.
Può anche
sembrarci strano che l'amore, di sua natura oblativo, ci venga imposto, comandato.
Noi pensiamo infatti che non si possa coniugare imposizione e amore, obbligo e
spontaneità. Invece Gesù qui condiziona l’amore all’obbedienza: dobbiamo cioè
amare come risposta ad un suo ordine ben preciso.
Questo
comandamento però mette in gioco due elementi: forza e amore: ci impone cioè di
combattere con la forza dell'amore, l'amore per la forza. Perché, fratelli, l'amore
per la forza è l'ultimo amore che resta prima di raggiungere il nulla, prima cioè
della nostra autodistruzione. Invece la forza dell'amore, Gesù ce l'ha
dimostrata con la sua passione e morte, foriera di gloria e risurrezione. Così
adesso può dirci: «Questo è il mio
comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati». Non si
tratta più quindi di un “comandamento” dall'esterno che ci impone
l'impossibile, bensì di una esperienza di amore donata dall'interno; un amore pertanto
che, per sua natura, deve essere ulteriormente partecipato ad altri. Si,
fratelli, perché l'amore cresce attraverso l'amore. L'amore è “divino” perché
viene da Dio e ci unisce a Dio; e mediante questo processo unificante, ci
trasforma in un “Noi” che supera le nostre divisioni e ci fa diventare una cosa
sola, fino a quando, alla fine, Dio sarà “tutto in tutti”.
Accogliamo
quindi con obbedienza di figli questo amore che viene da Dio e ad esso
rispondiamo con l'adesione della nostra fede e con la pratica delle buone opere,
che Dio ci chiede, per essere i suoi fedeli testimoni. Torniamo alle origini,
fratelli miei. Torniamo al tempo in cui dicevano di noi: “Guardate come si
amano”. In questo modo, già fin d’ora, la gioia vera di Gesù sarà in noi, e questa
nostra gioia sarà piena. Amen.
«Rimanete in me e io in voi.
Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite,
così neanche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi
rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete
far nulla». (Gv 15,1-8)
Fino a
domenica scorsa il vangelo si era preoccupato di descriverci gli eventi
accaduti immediatamente dopo la risurrezione di Gesù. Dalla quarta domenica di
Pasqua invece abbiamo fatto un brusco salto indietro: dalle apparizioni di Gesù
risorto ai suoi, siamo passati a meditare alcuni brani particolarmente
significativi, tratti dal discorso di addio pronunciato da Gesù nel
cenacolo dopo la cena del giovedì santo, immediatamente prima della sua cattura
e della sua morte. Un lungo discorso, che è un po’ il suo testamento spirituale (Gv 13-17), in cui Gesù apre il proprio cuore ai discepoli e parla di ciò che più gli preme;
parla di sé, di loro, di ciò che li aspetterà, dell’amore e dell’odio che
troveranno.
Abbiamo meditato domenica sull’immagine del buon pastore: un “pastore bello” che non
ci abbandonerà; qualunque cosa accada lui veglierà sulla nostra
sopravvivenza. Oggi invece ci viene proposta un’altra immagine, altrettanto
carica di significato, quella della vite e dei tralci: la sopravvivenza questa
volta è possibile solo se saremo noi a rimanere uniti a Lui, come tralci alla
vite-Vita.
Gli
apostoli e i primi cristiani concepivano in questo modo il loro rapporto con il
Signore: Lui la vite, loro i tralci. Il tralcio è indipendente, un'altra cosa rispetto alla
vite. Il tralcio non è la vite. Ma il tralcio, se unito alla vite, porta
frutto; lontano da lei, tagliato via, dissecca e non potrà mai più portare frutto. La vite è
per il tralcio la forza, il nutrimento, la vita, il suo tutto. E il tralcio,
pur essendo tralcio, diverso dalla vite, è un tutt'uno con la vite.
L’immagine,
molto chiara e accattivante, rende perfettamente ciò che dovrebbe essere la
comunità cristiana. Tutti uniti (un’unica vite) ma ciascuno nella sua grande
diversità (tralci diversi con una resa diversa). Sì perché, fratelli, pur nella
nostra unicità con la vite, siamo peraltro assolutamente “diversi” tra noi,
siamo tutti “entità autonome”. Guardiamoci attorno: c’è chi ama l’arte, chi il disegno, chi la
musica, chi la pittura, chi lo studio, chi la letteratura, chi lo sport, chi
viaggiare. Ma se non siamo per niente studiosi, o artisti, o musicisti, o sportivi,
non per questo siamo inferiori agli altri: siamo tutti tralci; ma “altri”. Ogni tralcio è se stesso, siamo
noi, sono io: nome e cognome.
Spesso
succede, invece, di pensarci tutti uguali: e pretendiamo non di uniformarci noi agli altri,
ma di uniformare gli altri a noi. Se non corrispondono al nostro modello, non
ci vanno bene, li critichiamo, li giudichiamo, li condanniamo. Non sappiamo
accettare la coesistenza con gli altri, l’unicità degli altri. E ci succede questo, fratelli, perché siamo noi stessi
che non ci conosciamo, non accettiamo la nostra unicità, perché non ne apprezziamo il valore e la potenzialità, e quindi non la viviamo.
Se invece noi
viviamo noi stessi, automaticamente accettiamo che anche gli altri vivano loro stessi, vivano cioè la loro realtà, le
loro aspirazioni. Ma se noi non riusciamo a farlo, al momento dell'inevitabile confronto con l'altro, la
nostra frustrazione esplode, ci provoca invidia, rabbia, malessere, cattiveria.
Ciò che
conta invece, fratelli, è che ognuno deve vivere se stesso, deve potersi esprimere al massimo delle
sue potenzialità, essere esattamente il tralcio che lui deve essere. Ciò che conta è che
ognuno deve portare frutto secondo le sue potenzialità. Ciò che unisce una
famiglia, una comunità, non è fare le stesse cose, ma è l’amore, la
circolazione della linfa, il dialogo, la condivisione, l’unione profonda che si
crea e che viene vissuta comunitariamente.
Molte
famiglie si credono unite perché, magari, si ritrovano insieme tutte le
domeniche. Ma non è questa l’unità. L’unità è essere uniti nell’anima, in
profondità, sentire che anche gli altri percepiscono il nostro profondo e che noi
sentiamo il loro. Come la vite con i suoi tralci. Questa è unità.
L’immagine
della vite, della vigna, era molto usata al tempo di Gesù. Israele era la vigna
di Dio. Nel Cantico dei Cantici la sposa invita lo sposo nelle vigna, il luogo
dell’amore, dell’estasi, della gioia nuziale. Il vino, frutto della vite, per
gli antichi era il simbolo della felicità, dell’ebbrezza, dell’intensità del
piacere, della vita vera. Quando a Cana, alle nozze, manca il vino la festa sembra compromessa,
sembra finire; ma poi ci pensa Gesù e la festa e le danze ricominciano con
maggior entusiasmo perché il vino, quello migliore, improvvisamente è
ricomparso in abbondanza.
L’immagine
dei tralci uniti alla vite, proposta dal vangelo di oggi, ci dice quindi gioia,
felicità, frutto abbondante, vendemmia assicurata: e ciò grazie alla vita,
alla linfa che scorre continuamente al loro interno. Il riferimento a noi è
immediato: se perdiamo contatto con le nostre radici, con la vite, con la Vita,
nessuna gioia è più possibile. Noi infatti siamo come tanti tralci: per cui non separiamoci dalla
vite, dalla nostra unica fonte di Vita; non isoliamoci mai, non separiamo mai
il nostro cuore dalla nostra anima, non distruggiamo la comunione profonda che
li lega, non tagliamoci fuori dal nostro profondo, da ciò che abbiamo e
proviamo dentro di noi, perché, in quel preciso momento, noi ci perderemo; non avremo
più linfa e seccheremo, moriremo, diventeremo inutili sarmenti destinati a bruciare. È
la legge inesorabile della vita, della natura.
Gesù si
propone come la Vite-Vita vera: “Io sono il sapore della vita, io sono il gusto
della vita, io sono l’ebbrezza della vita, io sono l’elisir della vita, io sono
il vero piacere della vita”.
Ogni
volta che il sacerdote nell’eucaristia pronuncia sul vino: “Questo è il mio
calice, versato per voi”, ci suggerisce due cose importanti: che il sangue rappresenta la
sofferenza, l’aspetto difficile della vita, l’aspetto duro, ostico, doloroso (del
resto nel vangelo si parla di essere potati, purificati, tagliati); ma ci dice
anche che quel vino è Gesù stesso, quel vino è il nostro gusto, il nostro sapore, la
nostra gioia di vivere; è ciò che ci infonde vitalità, entusiasmo, serenità, vita pura.
Ecco perché la vita deve essere un piacere; vivere, deve essere bello, gustoso,
appassionante, altrimenti è una pena, un peso insopportabile. Gesù non è stato e
non sarà mai nemico del piacere, della gioia, del divertimento: lui è la vite, è l’origine stessa del piacere!
Gesù mangiava, beveva, faceva festa, e... guarda guarda, per dare felicità non rispettava neppure il sabato. Egli amava la
vita perché Lui era la vera Vita.
E allora,
fratelli, che aspettiamo? Coraggio: come il vino che gustiamo ci rallegra la vita e l’anima,
così non dobbiamo temere di accostarci anche ad altri piaceri della vita: come dare (e ricevere)
un bacio, una tenera effusione amorosa, un lungo e carezzevole abbraccio alla
persona che condivide la nostra quotidiana esistenza; non dobbiamo aver timore, farci scrupoli, di ricevere le sue tenerezze;
come pure non dobbiamo temere di concederci qualche giornata di svago con gli
amici, di farci una lunga passeggiata, un bel viaggio turistico, di andare al cinema o al teatro per assistere
ad uno spettacolo che valga. Gesù è
il vino, è il gusto, il sapore della vita; provare il piacere di vivere, gustare
la gioia della vita, è un modo giusto per esprimergli riconoscenza per la Sua bontà,
per prepararci a sperimentare con il poco di ora, la grande felicità eterna, il Suo gusto, il suo sapore eterno, il suo amore incontenibile e senza fine, nella visione beatifica di Dio.
Molte
persone straparlano di amore, di amore di Dio: sono convinte di essere loro gli
unici illuminati, gli unici destinatari, gli autentici depositari, gli esclusivi dispensatori dell'amore divino; e per essere degni di questa “alta” vocazione, conducono una vita triste,
sconsolata, inerte, con scelte volutamente cariche di sacrifici, di sofferenze,
di privazioni. Ma non è così, fratelli, che dimostriamo di “amare Dio”. Non è
questo l’amore che Dio vuole da noi. Dio ha creato il mondo, le persone, le
cose, il buon cibo, il sole, il vento, le stelle, i fiori e i colori, solo ed esclusivamente per
noi; perché noi li potessimo gustare, assaggiare e assaporare; perché noi potessimo
gioirne, riempiendoci il cuore e l’anima. Dio è buono, fratelli. Egli ci ama e ci vuole soddisfatti. Non
dobbiamo quindi aver paura di essere felici. Il Talmud dice in proposito:
“Saremo giudicati su tutti i piaceri legittimi a cui abbiamo rinunciato”. E
Gesù ci ripete: “Non assolutizzate mai il piacere, non siatene dipendenti, non siatene
succubi, non attaccatevi smodatamente alle cose terrene; ma gustate e godete di
tutto ciò che io ho creato per voi”. Sì, fratelli: tutto ciò che esiste, il
mondo intero, esiste per noi; ed esiste non perché lo possediamo, lo rapiniamo o pretendiamo di dominarlo egoisticamente, in maniera esclusiva; ma esiste perché lo godiamo serenamente, con le persone che amiamo.
Per
natura, invece, noi vogliamo possedere sempre tutto: vogliamo che tutto il
mondo esista soltanto per noi, sia esclusivamente al nostro servizio. E ci
comportiamo così anche con le persone: noi non le godiamo, non gustiamo la gioia
della loro presenza; siamo preoccupati soltanto di possederle, di sottometterle e basta. Succede un po’
anche quando guardiamo un bel paesaggio: non ci fermiamo ad ammirarlo, non ci
interessa di goderlo nella sua maestosità, ma siamo preoccupati solo di
fotografarlo in ogni particolare; vogliamo in qualche modo catturarlo, possederlo, tenerlo per sempre
con noi, piuttosto che assaporarlo serenamente lì, sul posto, dal vivo.
Godere
è lasciare che le cose esistano, che ci siano, nella loro splendida
bellezza. Godere e sentirle vibrare dentro di noi, assaporarle, ma lasciarle libere dove sono,
non volerle possedere, circuire, perché non sono nostre. L’amore, fratelli
miei, è gioia e dà vita, sempre; il possesso invece, anche se accattivante, se soddisfa al
momento, a lungo andare svilisce, perde la sua attrazione e intristisce l’anima.
L’immagine
della vite ci ricorda soprattutto la legge fondamentale della sopravvivenza: se
ci stacchiamo dalla linfa che ci nutre, moriamo. Ecco perché il vangelo dice: “Rimanete in me”. Lo ripete quasi
ossessivamente. Perché in questo “rimanere” c’è il segreto di ogni cosa. Se ci
stacchiamo dal nostro profondo per noi è la fine.
Perché
molti sono infelici? Credete veramente che se avessero più soldi sarebbero più
felici? Perché molti sono sempre arrabbiati? Credete che sia sempre colpa degli
altri? Perché molti sono continuamente annoiati? Credete veramente che non ci
sia nulla che li possa entusiasmare? No, fratelli. Purtroppo noi siamo convinti
che avendo quella determinata cosa, quando raggiungeremo quella certa meta:
quando avremo ottenuto la laurea o saremo sposati o avremo figli o la casa
nuova, allora sì che saremo felici. Invece ci stiamo illudendo. Se crediamo che
la felicità consista nell’avere, nel godere, nell’essere e basta, ci stiamo
illudendo, fratelli. Per tutta la vita continueremo invano a rincorrere questo
o quello, senza alcun risultato, perché ciò che noi cerchiamo non è all’esterno,
ma è dentro di noi. Se noi continuiamo a cercare lontano da noi, non vedremo
mai nulla di ciò che ci sta vicino. Se noi non “ci” sentiamo, non “ci” percepiamo,
non potremo mai sentire né percepire nulla.
Le
parole di Gesù sembrano astratte, teoriche, riservate ai grandi mistici:
“Rimanete in me; io in voi; voi in me”. Sembrano difficili, ma al contrario dicono
una cosa semplice e vera: l’intimità è data non da quanto facciamo, ma da
quanto in profondità noi andiamo.
Marito
e moglie stanno insieme da una vita; ma succede che tra loro non ci sia intimità: se due sposi non sanno parlarsi delle loro emozioni più intime, non
sanno dirsi le loro paure, i loro desideri, le loro ferite, se non condividono
ogni stato d’animo, se non si lasciano commuovere, se non piangono davanti all’altro,
ma che intimità c’è? Non basta abitare sotto lo stesso tetto per essere intimi.
E neanche andare a letto insieme. Intimità è incontrarsi in profondità, dentro
l’anima, nudi e spogli, con tutti i nostri difetti e le nostre miserie, i
nostri antiestetismi spirituali e corporali, e accoglierci e amarci lo stesso, per quello che siamo. Anche
senza ritocchi o interventi rigeneranti di chirurgia plastica!
Intimità
è dunque entrare dentro. Chi dice: “Di certe cose preferisco non parlare perché
poi mi commuovo”, rimane all’esterno. E quello che dice: “Io non voglio
raccontare niente di me perché mi fa star male”, rimane fuori. Come faranno ad
entrare in intimità con qualcuno, se hanno paura di scendere dentro loro stessi?
Non
basta venire in chiesa e riempire Dio di parole e preghiere. Molti parlano a Dio ma non con Dio. Molti, anche persone religiose e consacrate, non provano
nessuna vibrazione interiore, nessuna vitalità, nessuno slancio quando sono in
chiesa, quando pregano, quando cantano. Non si commuovono di fronte alle parole
del vangelo; non si lasciano mettere in seria discussione da ciò che sentono;
non provano l’ebbrezza del canto o l’intensità del silenzio. Insomma, non
parlano con Dio; lo riempiono semplicemente di parole.
Abbiamo
detto che la vita è fatta anche di cose esterne, di superficie, non solo di
austerità. E che a volte fare quattro risate, bere un bicchiere di vino in
compagnia, o chiacchierare “del più e del meno” (senza spettegolare!), fa
proprio bene, ci riconcilia con la vita. Ma la vera
felicità della vita, fratelli, il suo essere feconda e vitale, sta solo dentro,
all’interno, nell’anima delle cose. Essere felici significa raggiungere il
centro della vita: essere cioè “al centro”, nel luogo esatto dove palpita la vita, dove scorrono le emozioni, il pianto e le risa, il dolore e l’amore. Vuol
dire percepire la linfa che scorre nei nostri tessuti vitali, esserne riempiti,
saturati, sommersi. Se infatti andiamo al mare nel caldo torrido dell’estate, e non ci tuffiamo
completamente dentro l’acqua, non sentiremo refrigerio, non proveremo sollievo. Per
provarlo, dobbiamo andare sotto, immergerci dentro. Così anche vivere,
fratelli, è “stare sotto”. Essere vitali, portare frutto, significa vivere in profondità
con noi stessi, vuol dire “entrarci” dentro e conoscerci a fondo, vivere al
centro di noi, nella nostra anima. Se rimaniamo lì, allora veramente “ci” sentiamo;
allora veramente capiamo chi siamo, e percepiamo tutte le nostre potenzialità. Portare
frutto, ripeto, significa incontrare il mistero della vita che è nascosto in noi,
entrarci dentro; entrare in Lui che è Vita dentro di noi, e cercare di capirlo,
di goderlo, rimanendo incantati dalla Sua grandezza, dalla Sua bellezza, dalla
Sua immensità; e irradiare prepotentemente tutto questo, all’esterno; conviverlo con i fratelli nel loro intimo, nella loro anima. Portare
frutto nel nostro relazionarci quotidiano, significa infatti incontrare anche l’altro
nella sua parte più profonda, più interna, dove è più vero, dove è maggiormente
se stesso; lì dove possiamo scorgere anche in lui il volto di Gesù. Perché il nostro
prossimo, il nostro fratello, è Lui, sempre e soltanto Lui! Basta saperlo
vedere.
Ecco, fratelli miei; così c’è incontro. Solo così c’è unione tra i tralci e la vite;
solo così il frutto è assicurato! «Perché
senza di me, voi non potete far nulla». Parole sacrosante. Vere. Meditiamole! Amen.