venerdì 16 dicembre 2011

25 Dicembre 2011 – Natale di nostro Signore Gesù Cristo

«Non temete: ecco, vi annuncio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi, nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore, che è Cristo Signore. Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia».
Gesù è la più grande dimostrazione d'amore che il Padre ci abbia mai donato. Il Natale è la festa dell'amore puro, profondo, sincero e gratuito. Il Natale è la più bella notizia che si possa ancora raccontare a tutti gli uomini tristi e frastornati di questo mondo. Ce ne rendiamo conto? Un’idea simile dovrebbe commuoverci, intenerirci, farci sentire inondati di gioia! Dio, l'infinito, si è fatto vicino e si è legato in maniera irreversibile a noi per puro amore, per una sua irresistibile esplosione di bontà: questo deve farci amare la vita e deve ricolmarci di ottimismo.
In questa notte santa è impossibile non avvertire che qualcosa di grande è accaduto nel mondo. Siamo illuminati da una stella che è penetrata nel nostro buio e l'ha rischiarato per sempre. Accorgiamoci di Gesù: accogliamolo nella nostra vita e lasciamo continuare in noi quella novità e quella santità che con Lui è sbocciata a Betlemme. Dio si è fatto uomo! L'Infinito, l'Eterno, l'Onnipotente si preoccupa di noi, ha cura di noi, ha misericordia di noi. Dio l'infinto ci ama: è questa la vera, grande notizia del Natale. Ci ama al punto da mandare suo Figlio in questa storia così dura, ingrata, sterile. Dio non ha avuto paura: ha gettato il Figlio in mezzo a noi che non eravamo più figli; e continua a farlo ogni anno, perché ci ama; perché vuole caparbiamente darci un cuore nuovo, innamorato, di figli autentici.
Fratelli miei, quanta pena nei cuori degli uomini. Quanta ricerca di felicità; quante amarezze e quante sofferenze. Ebbene: noi tutti oggi sappiamo che la felicità esiste ed ha un suo recapito: Betlemme, Gesù, l'Emanuele.
Occorre uscire dalla prigione del nostro egoismo, dalla freddezza dell'indifferenza. Facciamoci piccoli e umili: andiamo a Betlemme, cioè a Cristo, apriamo il cuore ai fratelli, tendiamo la mano a chi ci sta accanto, rendiamo ospitale la nostra casa, il nostro ambiente, il nostro lavoro, il nostro paese, la nostra città, il nostro mondo. È soltanto nella via dell'amore che potremo fare esperienza di Dio. Ed è soltanto in Dio che troveremo la pace che ci manca.
Sono quattro le parole che puntualmente riecheggiano in tutti i brani che la liturgia ci propone nelle messe di Natale e del periodo natalizio: luce, gioia, bontà, pace.
Esse riassumono le caratteristiche di Gesù, il dono di Dio unico e irripetibile. Esse sintetizzano ciò che noi tutti, uomini e donne, desideriamo.
Si dice che il Natale è bello come un sogno. È vero. Perché ogni uomo e ogni donna sognano luce, gioia, bontà, pace. Un clima “da sogno” che questa festa riesce ogni anno a creare in noi con le luci, i presepi, gli alberi, le strade e le vetrine illuminate, le musiche semplici e ingenue, lo scambio di doni e di auguri, la riscoperta della famiglia, degli amici, dei lontani, di chi si trova in situazioni di angoscia e di dolore...
Lasciamoci prendere, fratelli, da questo sogno! È Dio che in Gesù vuole farci sognare una vita piena di luce, di gioia, di bontà, di pace. Come lui l'ha pensata e come noi la desideriamo. Lasciamoci penetrare da questo sogno, sempre più in profondità, in modo che diventi desiderio, progetto, impegno concreto, realtà.
Come? Lo dice Gesù: «Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date». Avete ricevuto da Dio luce, gioia, bontà, pace? Date il più possibile luce, gioia, bontà, pace.
Nostro compito non è il lamento, ma la testimonianza di una vita carica di questi doni. Sentiamo dire spesso: “Non ci sono più i valori di una volta! Non c'è più cristianesimo”. Ebbene, fratelli, che aspettiamo? Mettiamoceli noi questi valori! Mettiamocelo noi il cristianesimo! Questo è il nostro compito. Questo è la nostra festa di Natale.
Il Natale è bello perché riesce a far emergere il meglio di noi stessi. Impariamo allora a proiettare in tutti i giorni dell'anno questa bellezza del Natale.
Sì, fratelli: viviamo ogni giorno il Natale. Incontriamo quotidianamente Gesù, il Signore bambino, il nostro Salvatore.
Noi come lo incontriamo? dove lo troviamo oggi nella nostra vita concreta? Come possiamo accoglierlo perché sia realmente luce, pace, forza, salvezza della nostra vita e della vita del mondo e della nostra società?
Dio è con noi sempre, fratelli: anche oggi, anche domani. Noi lo possiamo incontrare nella vita della Chiesa, nella Parola di Dio, nei Sacramenti, negli uomini, nostri fratelli.
La Chiesa continua la presenza e l'opera di Gesù. Quando ascolto o leggo la Bibbia, il vangelo, è Cristo che parla al mio cuore e al cuore della Chiesa. Così quando ci accostiamo ai Sacramenti, quando ci confessiamo, quando ci comunichiamo, quando incontriamo il prossimo, è Gesù che noi incontriamo, è a Gesù che noi chiediamo perdono, è Gesù che si offre a noi in cibo, in nutrimento, in sostegno e forza.
Dio è sempre con noi, veramente: e noi possiamo essere sempre con Lui, possiamo vivere per Lui, accogliere e rendere viva la sua grazia in tutte le nostre azioni.

Dipende solo da noi: perché siamo noi che possiamo portare in ogni giornata della nostra vita, la luce e la grazia del Natale. Auguri, fratelli: buon Natale. Amen!




Ecco Dio, voi che lo aspettate fiduciosi.
Ecco Dio, voi che pensate di non averne bisogno.
Ecco Dio, voi professionisti del sacro, che l’abitudine
vi ha reso indifferenti.
Eccolo: inatteso,
sconvolgente, stordente, folle.

Un Dio che si annuncia a tutti,
anche a chi non se lo merita,
a chi non lo prega,
a chi maledice la vita.
Un Dio umile, che si fa riconoscere
dalle piccole cose,
umili compagne del nostro quotidiano.
Un Dio che ci cambia la vita;
una vita che – pur rimanendo la stessa -
assume comunque una luce diversa.

Ecco Dio, discepoli del Nazareno,
voi che in questa società dissacrata,
ancora non vi stancate di essere cristiani
di seguirlo, di pregarlo.
Ecco Dio,
anche se diverso da come noi lo vorremmo:
perché è un Dio bambino, che non risolve
magicamente i problemi,
ma ne crea, chiedendo accoglienza.
Un Dio che non condanna i malvagi,
ma che dai malvagi di sempre
è cercato per essere ucciso.
Un Dio che si rivolge ai poveri,
ai perdenti, agli inquieti, Lui per primo,
povero, perdente, inquieto per amore.

È Natale.
È il suo Natale. È il mio Natale.
Oggi, è per me, un giorno tutto nuovo:
perché Gesù vuol viverlo in me.
Lui non si è mai isolato dagli uomini:
ha camminato sempre al loro fianco.
Ma è con me,
che vuol camminare, da oggi,
tra gli uomini miei fratelli.
Incontrerà ciascuno, di quelli
che entreranno nella mia casa;
ciascuno, di quelli che incrocerò per la strada:
altri ricchi come quelli del suo tempo,
altri poveri, altri eruditi e altri ignoranti,
altri bimbi e altri vegliardi, altri santi e altri peccatori,
altri sani e altri infermi.
Tutti, sono quelli che è venuto a cercare.
Ciascuno, colui che è venuto a salvare.
Da oggi lo vuol fare con me.
A coloro che mi parleranno, "noi" avremo qualcosa di speciale da dire.
A coloro che mi oltraggeranno, "noi" avremo amore da restituire.
Ciascuno, esisterà per "noi", come se fosse l’unico.
Nel rumore alienante, troveremo nell’anima il silenzio da vivere.
Nel tumulto violento, porteremo col cuore la pace e l’amore.

Oggi, Natale, Egli esige il mio sì.
E nessuno al mondo,
di quel mondo in cui mi lascia per vivere con Lui,
può impedire la mia scelta di unirmi indissolubilmente a Lui.
Come un bimbo portato sulle braccia della madre,
io camminerò con Lui tra la folla:
Lui, vita della mia vita, luce dei miei occhi, sostegno dei miei passi.
Lui, l’inviato di Dio agli uomini di ogni tempo,
l’inviato agli uomini di questo tempo,
della mia città, del mio mondo.
Da questi fratelli miei più vicini,
che Lui mi farà servire, amare, salvare,
le onde della carità e dell'amore
raggiungeranno gli estremi della terra,
la fine dei tempi.

È Natale.
Giorno dell’amore di Dio.
Giorno indimenticabile,
perché è con me e in me,
che Gesù vuole viverlo ancora!

AUGURI!


mercoledì 14 dicembre 2011

18 Dicembre 2011 – IV Domenica di Avvento - B

«In quel tempo, l’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nazaret, a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, di nome Giuseppe. La vergine si chiamava Maria. Entrando da lei, disse: «Rallègrati, piena di grazia: il Signore è con te».
Esattamente ad una settimana dal Natale, rileggiamo ancora una volta (l’abbiamo appena letto il giorno dell’Immacolata, ricordate?) l’incontro tra l’arcangelo Michele, uno dei principi degli angeli, e Maria, una inesperta ragazzina di Nazareth. Un incontro semplice, silenzioso, nascosto, che ha comunque ispirato, durante i secoli, l’arte di migliaia di pittori, scultori,poeti e scrittori, e che noi invece – noi gli evoluti del ventunesimo secolo - rischiamo di leggere con la nostra consueta superficialità, come se si trattasse di una innocente favoletta.
E, invece, no, fratelli: il vangelo di oggi ci racconta ciò che è realmente accaduto! Con tutti i particolari. Dalle poche ma magistrali pennellate di contorno, delicatamente incisive com’è nello stile di Luca, emerge prepotentemente la grandezza del pensiero di Dio. In un paesino incollato ad un pendio roccioso, lontano dalle grandi strade commerciali, in una misera ma dignitosa casupola, ricavata nella roccia, avviene l’assurdo di Dio, l’inizio di una storia diversa, una storia di salvezza. Dio, stanco di essere incompreso, decide di venire a raccontarsi. La lunghissima storia di amicizia e di amore col popolo di Israele non è stata sufficiente per farsi capire e Dio, alla fine, sceglie di farsi uomo, di diventare uno di noi: ma per farlo gli serve un corpo, ha bisogno di una madre.
E Dio non sceglie la moglie dell’imperatore, non una scienziata o un premio Nobel, non una dinamica imprenditrice dei nostri giorni; ma una piccola adolescente, Mariam (la bella). È a lei che Dio chiede di diventare la sua porta d’ingresso nel mondo. Contro ogni buon senso, Maria accetta, ci sta; ci crede immediatamente, e noi, i saggi, non sappiamo se ridere o scuotere la testa davanti a tanta meravigliosa incoscienza; restiamo senza parole davanti alla sconcertante semplicità di questo dialogo, davanti al coraggio di questa ragazza ancora acerba, che parla alla pari con l’Assoluto, che gli chiede spiegazioni e chiarimenti.
Ma Dio non guarda con i nostri occhi, non ragiona con la nostra mente. Per calarsi nella storia, Egli sceglie un umile paesino sconosciuto, Nazareth; e a Nazareth, come madre, sceglie una altrettanto umile e sconosciuta bambina, Maria.
E nel silenzio, senza pubblicità, si consuma il grande mistero della divina umanità. Nessun satellite, nessuna diretta televisiva, nessun network è riuscito a riportarci l’accaduto.
Solo un assordante silenzio ci parla ancora oggi; e ci indica le illogiche scelte di Dio. A noi che cerchiamo sempre il consenso e la notorietà, l’efficienza e la produttività, Dio propone una logica nuova, diversa, la logica del “dentro”, basata sull’essenziale, sul mistero, sulla profezia, sulla verità di sé, sui risultati imprevisti e sconcertanti.
Siamo dunque alla fine dell’Avvento: dopo la figura di Isaia, il profeta dell’annuncio del Messia, dopo il Battista, il precursore che addita il Messia già adulto, oggi è d’obbligo fermarci a meditare sulla terza grande figura dell’avvento: la figura centrale, di colei cioè che offre il suo grembo per il divino concepimento del Messia uomo.
E che messaggio ci lancia Maria? “Accogliete il Signore!”. Non soltanto in occasione dell’imminente natale, ma durante tutta la nostra vita.
Sì, fratelli: accogliamo il Signore! Perché sarebbe perfettamente inutile avergli preparato la strada, per poi alla fine non accoglierlo.
Ma cosa significa “accogliere il Signore”?
Significa fare come ha fatto Maria. Accettare i suoi progetti, le sue proposte, lasciarsi portare da Lui, fidarsi di Lui. Ogni giorno, in ogni luogo, in ogni situazione. Sempre. Significa accettare di diventare la sua casa, significa accogliere questo ospite unico, infinito, nella sua luce, nel suo amore, nella sua bontà.
“Non temere, Maria”. Certo, non è stato sicuramente facile per Maria accogliere questo progetto. Dio non le ha certamente risparmiato le enormi difficoltà di questa scelta, perché la sua doveva essere una scelta libera, da innamorata. Una risposta generosa, franca, consapevole, dettata dall’amore, capite? Non come le nostre risposte: stanche sul nascere, legate alle circostanze, succubi del rispetto umano, condizionate dai nostri calcoli e dal nostro tornaconto. Avete ancora presente il momento in cui abbiamo detto il nostro “si” a Dio? Quanti tentennamenti, quante indecisioni, quanti ripensamenti, fratelli miei. Altro che risposta libera e gioiosa: la nostra adesione è tutto un programma. Eppure dovremmo avere sempre in mente che “hilarem datorem diligit Deus: Dio ama colui che gli dà con gioia” (2Cor 9,7). Una risposta ragionata, calcolata, per Dio non è una risposta. L’adesione a Dio deve essere un contratto irrevocabile, un concordato irrinunciabile, un investimento perpetuo senza alcuna pretesa di interessi.
Certo, è sicuramente lecito avere dei dubbi. Li ha avuti anche Maria: “Come è possibile questo?”. Ma i dubbi sono a monte, precedono la risposta; devono semmai essere l’occasione per dare una risposta ancor più vincolante e cosciente, più consapevole e autonoma.
Del resto i dubbi accrescono la fede. E avere fede significa porre la propria certezza in Dio, sempre, in qualunque situazione della nostra vita, bella o triste che sia.
La fede quindi fortifica la nostra risposta, la rende ferma e immutabile, le toglie qualunque velleità di ripensamenti; fede è totale fiducia in Dio, perché “niente è impossibile a Lui”.
Anzi, come amava ripetere un vecchio maestro, “tutto è possibile a chi crede”.
"Eccomi, sono la serva del Signore"; con queste parole Maria ha fatto il suo atto di fede. Ha creduto, ha accolto Dio nella sua vita, si è affidata a Lui, ha messo la sua vita a completa disposizione di Dio. Questa è la fede, fratelli miei; questo significa credere veramente. Questo è l’esempio che dobbiamo seguire, il modo con cui anche noi dobbiamo rispondere alla nostra chiamata. La fede di Maria non è stata tanto nel credere a un certo numero di verità, quanto nell’essersi fidata ciecamente di Dio, nell’essersi completamente abbandonata a Lui.
Maria ha accolto Dio nella sua vita. Ha creduto che “nulla è impossibile a Dio”. Ha detto il suo "sì" a occhi chiusi, in maniera totale e gioiosa. Ha concepito Cristo, come dice S. Agostino, prima nel cuore che nel corpo.
È questo l’esempio luminoso che ci viene proposto oggi da Maria. Imitiamola dunque, fratelli, imitiamola con fede, “concepiamo” anche noi Gesù nel nostro cuore. Diventiamo partecipi di questa sua sublime vocazione. Del resto, come hanno scritto Origene e S. Bernardo, “che beneficio avrei, se Gesù fosse nato soltanto una volta a Betlemme, e non continuasse a nascere per fede nel mio cuore?”
Sì, fratelli: dobbiamo far nascere Gesù in noi; dobbiamo accoglierlo nella nostra vita con tanta fede, nella grazia e nella santità che ci porta, nell'amore al prossimo, così come Lui stesso ci ha insegnato durante la sua vita terrena.
E allora, fratelli miei, coraggio, animo! Proprio quando pensiamo di avere sbagliato tutto nella nostra vita, quando non siamo soddisfatti dei risultati ottenuti o ci sentiamo attratti dall’assordante richiamo del mondo, guardiamo a Nazareth, guardiamo al silenzio di Maria, alla sua umile dedizione, al suo composto modo di fare, e lasciamoci sbalordire, lasciamoci incantare da tanta semplicità e fedeltà. Anche noi, sul suo esempio, non abbandoniamo, non rinunciamo, non molliamo mai; per nessuna ragione.
Tra una settimana è Natale. Presentiamoci anche noi a Betlemme, umilmente, senza pretese, così come siamo: ascoltiamo anche noi la voce del Signore che silenziosamente dice al nostro cuore: “lasciati amare; non preoccuparti di come hai preparato il tuo avvento, sono io che ti vengo incontro!”. Capite? Che vogliamo di più da Dio, fratelli? Egli è così: noi dobbiamo solo aspettare; dobbiamo chiudere gli occhi, e lasciarci finalmente incontrare! Amen.
 
AUGURI!
Buona preparazione all’incontro col Signore!


mercoledì 30 novembre 2011

11 Dicembre 2011 – III Domenica di Avvento

«Venne un uomo mandato da Dio: il suo nome era Giovanni. Egli venne come testimone per dare testimonianza alla luce, perché tutti credessero per mezzo di lui. Non era lui la luce, ma doveva dare testimonianza alla luce…».
Anche questa domenica il vangelo si concentra sulla figura del Battista. Ma oggi Giovanni non è l’asceta duro di domenica scorsa, non è il profeta austero, intransigente, l’annunciatore di catastrofi nel caso gli uomini non si convertano.
Oggi ci viene dipinto da Giovanni, suo omonimo l'evangelista, come un “testimone”, un “indicatore”; noi moderni diremmo come un “navigatore satellitare”, un cartello segnalatore che dice: “Non guardate me, guardate più in là, guardate oltre me; dovete guardare verso la direzione che io vi indico”.
Qui il Battista è enigmatico, non spiega, non dice chi verrà e come verrà. Dice soltanto: “Preparate la via… verrà uno che non conoscete… e io di fronte a lui sono niente”.
Bene, fratelli: è proprio questa l’essenza dell’avvento. Giovanni “sente” che qualcosa deve succedere, che qualcosa deve avvenire; e attende, aspetta. Sente che sta per arrivare qualcuno, ma non sa chi.
Attendere vuol dire aspettarsi qualcosa di nuovo, di diverso, di insolito. Dobbiamo conservare la sorpresa, l'imprevisto, il poter essere “sorpresi”, perché se conosciamo già tutto, se abbiamo già provato e scritto tutto, che Natale è? Che Avvento è?
Prepararsi pertanto vuol dire: “Acconsenti che ti succeda qualcosa di cui non puoi disporre, che non puoi controllare, che non puoi gestire. Permetti che la vita ti faccia delle sorprese”.
Noi tendiamo a controllare tutto. Pianifichiamo tutto. Gestiamo tutto, o per lo meno ci proviamo. Ma Dio è l’ingestibile, perché Dio è il sempre nuovo, è il più grande, è l’oltre, il “più in là”. Se Dio non ci sorprende, non è Dio. Se Dio non ci spiazza, non è Dio. Se Dio non ci schiaffeggia rendendoci svegli, dandoci conto di certe cose, non è Dio.
Dio lo troviamo molto di più negli imprevisti che non in tutto ciò che pre-vediamo. Lasciamo allora, fratelli, che la vita ci sorprenda! Permettiamo alla vita di manifestare tutta la sua ampiezza e ricchezza. Ricordiamoci che la Vita lavora sempre con noi e mai contro di voi; se la ostacoliamo, ostacoliamo noi stessi.
Nel vangelo viene posta a Giovanni Battista una domanda che dovrebbe farci molto riflettere: “Chi sei tu?”. Già: “Chi siamo noi?”. “Sono un uomo, una donna, un marito, una mamma, un bravo cristiano…”. Sì, d'accordo, è tutto vero, ma non è tutto. Semmai questo è il nostro “ruolo”, è il vestito che indossiamo, ma dentro… chi siamo?
Il ruolo, quello visibile, quello che tutti vedono, è limitato, è limitante: ci permette di vivere una parte, ma solo una parte della vita. Molti di noi si sono investiti in un ruolo e continuano a vivere sempre e solo quello. Del resto vivere interpretando sempre lo stesso personaggio ci rassicura: lo conosciamo, ci viene bene, è facile; lo conosciamo bene, ma ci limita. Il ruolo ci ingabbia; ne diventiamo schiavi e, invece di aiutarci a vivere, ci imprigiona. Purtroppo in molte persone si è smarrita la persona ed è rimasto solo il ruolo. Se togliessimo il vestito, il ruolo, al suo interno non troveremmo niente.
Ma la domanda rimane: “Al di là di tutti i ruoli, di tutti i vestiti, chi siamo noi?”. Chi siamo noi dentro, in profondità, nell’intimità dell’anima? Questa è la grande domanda. Cos’è, cioè, che ci fa originali, irripetibili, esclusivi rispetto agli altri? Cos’è che ci rende diversi da tutti? Cos’è che ci rende insostituibili, unici davanti a Dio? Perché se non troviamo questo elemento distintivo, vuol dire che siamo uguali agli altri, che noi e altri siamo la stessa cosa; vuol dire che non siamo importanti, che uguali a noi ce ne sono a migliaia; vuol dire che invece dell'originale, siamo una fotocopia, un doppione, uno sbaglio: come se la vita, qualunque vita, si riducesse ad essere una semplice fotocopia! Impossibile: e se per assurdo fossimo uguali agli altri, allora vorrebbe dire che non stiamo vivendo la nostra vita, che abbiamo fallito tutto, che la nostra vita non ha alcun senso.
«Tu, chi sei? Egli confessò e non negò...». Il Battista inizia a dire prima di tutto cosa non è. “Non sono Elia, né Cristo, né un profeta”. È importante, fratelli, rifiutare tutti i ruoli che gli altri ci appiccicano addosso, tutte le etichette che ci incollano; è importante ribellarsi e dire agli altri: “No, non sono uguale a voi, non sono come voi! Io sono io; non sono te e nessun altro. Io ho il mio nome. Non vi piaccio come sono? Non soddisfo le vostre aspettative? Non rientro nei vostri schemi? Pazienza!”. È l’inizio della libertà, fratelli. Della nostra libertà. Perché noi siamo “altri”!
Il primo passo da fare sulla strada della vera vita è quindi liberarsi da ciò che non si è.
La prima grande scelta, come quella del Battista, è non voler essere come gli altri: “No, io non sono questo! Io sono Giovanni il Battista, non sono Elia, né il Cristo né un Profeta”.
Riconoscere di non essere ciò che gli altri vorrebbero, toglierci le maschere, le definizioni, le aspettative, le incrostazioni che gli altri ci hanno imposto, è un’operazione molto impegnativa, difficile, spesso anche dolorosa. Ma se coraggiosamente ci togliamo di dosso ciò che non è nostro, ciò che deturpa la nostra unicità, pian piano emergerà chi siamo, ciò che ci rende immagine e somiglianza di Dio. E ne varrà sicuramente la pena, fratelli!
“Io sono voce di uno che grida: Preparate la strada”. Giovanni è dunque un profeta; è questo il suo ruolo: ma oltre a ciò, egli ha trovato chi è veramente, la sua vera identità, ha capito qual è esattamente la sua missione: “Essere voce”. Egli ha trovato il vero motivo per cui vivere, la ragione per cui è stato creato, ciò che dà senso e valore alla sua vita. Lui è la “voce” che deve dire a tutti: “State attenti, preparate la via al Signore, non dormite, non sonnecchiate; il Signore vi passerà vicino, non lasciatevelo scappare! Dio c’è, ma se voi insistete a tenere gli occhi chiusi, non lo vedrete mai”.
Il Battista dà, presta la voce, ma le parole sono di un Altro.
È testimone della luce, illumina anche, ma non è la Luce. È come la luna che riflette una luce non sua; non è lei la fonte della luce: la sua “luce” viene dal sole. Come il Battista, anche noi dobbiamo essere“voce”; dobbiamo essere strumento, mezzo, veicolo di Qualcun altro. Dobbiamo cioè essere l’altoparlante di Colui che sussurra al microfono del nostro cuore. È questo, fratelli, il nostro primo compito: dar voce all’Infinito, al Dio, all’Oltre; dare voce alla Forza, allo Spirito che ci scuote dentro, ma che non ci appartiene. L’uomo è chiamato a testimoniare l’invisibile, il di più che si porta dentro. Questo è appunto il nostro servizio che dobbiamo a Dio: dare voce a ciò che abbiamo dentro!
Certo però, che se non lo ascoltiamo mai, è piuttosto difficile avere qualcosa "dentro"! Anzi impossibile.
Essere “strumenti” di Dio vuol dire permettere che sia Dio a scegliere, che sia Lui a utilizzarci come meglio crede; che sia Lui a farci la chiamata che ritiene più consona per noi. Sì, fratelli, perché noi viviamo in Lui e per Lui. La vita non è nostra. Noi siamo padri, madri, ma la paternità o la maternità non è nostra. Non la possediamo. Noi siamo veri, ma la verità non viene da noi. Noi diventiamo liberi, ma non siamo la libertà. Noi danziamo, ma non siamo la danza. Noi facciamo esperienza di Dio, lo sentiamo, lo percepiamo, ma non siamo Dio. Noi abbiamo un’anima, ma non siamo l’Anima. Siamo un verbo, ma non siamo il soggetto che lo coniuga. Il soggetto è sempre e solo Dio. È Lui che parla, è Lui che ispira, è Lui che chiama.
Il grande male dell’uomo è sentirsi proprietario delle cose e delle persone. Sentirle sue, quando non lo sono affatto. L’uomo è soltanto un amministratore, è semplicemente voce.
Nel vangelo c’è poi una sfumatura che merita di essere colta: “In mezzo a voi sta uno che non conoscete”. Una frase che detta così non è particolarmente incisiva; ma, se tradotta bene dal greco, diventa molto forte. Dice infatti: “In mezzo a voi ci sta uno che voi non volete conoscere”; non semplicemente, come suona il testo italiano, “uno che non conoscete”; la differenza sostanziale introduce una nuova situazione, ossia la scelta di “non conoscere” volutamente, di proposito. Di norma infatti, il verbo “conoscere”, in greco, viene espresso con gignèskw. Qui, invece, Giovanni usa un altro verbo: o‡date, che indica il “voler sapere, il conoscere con cognizione di causa, il conoscere senza dubbi, il vedere con i propri occhi. Quindi il verbo “non conoscete acquista una coloritura volutamente negativa, come a dire: in mezzo a voi c’è uno che voi “non conoscete perché non avete voglia di conoscerlo, non lo volete conoscere perché non lo vedete con i vostri occhi, e quindi non ammettete ripensamenti su di lui. In altre parole, si vuole evidenziare il fatto che i Giudei e i farisei hanno scelto deliberatamente, coscientemente, di non conoscere Gesù, di non avere nulla a che spartire con “Colui che viene”. È chiaro, allora, che qualunque cosa Lui successivamente faccia o dica – e la storia lo confermerà – non riuscirà in alcun modo a cambiare la loro decisione. Chi non vuol credere non crederà.
Giovanni Battista può urlare, scuotere, gridare, strattonare: ma non servirà. Se nella nostra testa abbiamo deciso a priori che una cosa non ci interessa, niente e nessuno potrà mai farci cambiare idea. Se abbiamo deciso che l'idea di Dio è ininfluente per la nostra vita, un accessorio senza alcuna importanza, nessuna predicazione ci potrà convertire, nessun grido profetico potrà mai scalfirci. Se abbiamo deciso di non metterci in gioco, non impareremo mai nulla dalla vita, perché una vita così non avrà mai nulla da insegnarci. Una situazione che è stata determinante soprattutto nel calo verticale subito dalla religiosità dei cristiani di oggi. Molti osservatori non condividono tale analisi; anzi la contestano, e fanno notare come, per esempio, la notte e il giorno di Natale le chiese siano sempre piene.
Non facciamoci illusioni, fratelli: le chiese saranno anche piene a Natale, ma in tutte le altre occasioni? Se potessimo leggere nel cuore di tanti di questi fedeli "occasionali", se potessimo fotografare il segreto del loro cuore, rimarremmo molto delusi: “Ma che ci sto a fare qui? Speriamo finisca presto; è tempo perso, non mi interessa; mi son lasciato coinvolgere dai figli, dalla moglie, giusto per farli contenti, ma a me questa storiella sdolcinata del Dio bambino, mi fa solo sorridere; e poi, io non so cosa farmene di Dio; a cosa mi servirebbe? Forse viene Lui a risolvere i miei problemi per arrivare a fine mese?”.
Fratelli miei, se l'uomo si ostina a non credere, a non volersi convertire, a non voler cambiare, statene certi, non lo farebbe neppure se Dio decidesse di tornare ancora lui su questa terra! Non crederebbe neppure se vedesse Dio faccia a faccia; neppure se Dio facesse chissà quali e quanti miracoli! Purtroppo, chi ha deciso di non credere, di non conoscere Dio, non crederà e non lo conoscerà. Non c’è niente da fare.
Voi mi direte che arrivare a tali conclusioni è semplicemente frutto di una mente pessimistica, contorta, maliziosa. Sono casi limite, inverosimili. E invece no, fratelli: sono anzi situazioni molto frequenti, tant'è che il Vangelo le chiama peccato contro lo Spirito Santo; l’unico peccato umano imperdonabile, perché è una strafottente e insensata negazione dell'amore di Dio.
Ecco, fratelli miei: quest’anno preghiamo per questi nostri fratelli, tanti o pochi che siano; la Luce del Natale rischiari finalmente le fitte tenebre del loro cuore.
E noi? Anche quest’anno Dio busserà al nostro cuore. Vuole ancora una volta ri-nascere dentro di noi. Gli apriremo il nostro cuore? Lo riconosceremo? Gli crederemo?
Fermiamoci un istante per tempo, e pensiamoci. Seriamente. Amen.


4 Dicembre 2011 – II Domenica di Avvento – Anno B

«Ecco, dinanzi a te io mando il mio messaggero: egli preparerà la tua via. Voce di uno che grida nel deserto: Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri, vi fu Giovanni, che battezzava nel deserto e proclamava un battesimo di conversione per il perdono dei peccati».
Oggi il vangelo si concentra sulla figura di Giovanni Battista, il cui compito è quello di preparare la strada alla venuta del Signore. Marco ci offre un Giovanni Battista singolare, vestito secondo l’usanza di quei profeti che esercitavano la loro missione ai margini delle città, predicando conversione e penitenza. Il suo vestito, come quello di Elia, è fatto di peli di cammello, con una cintura ai fianchi: una tenuta in netto contrasto con le prescrizioni giudaiche di purezza.
Il Battista non dà alcun valore al suo aspetto esteriore perché è coerente con se stesso: non ha bisogno né di vestiti, né di maschere sotto cui nascondersi. Certo, vestirsi bene è bello, vestirsi bene è segno di decoro e anche di amore per sé stessi, ma quando il vestirsi bene è più importante della persona o il vestirsi bene serve a nascondere ciò che siamo dentro, allora è schiavitù. Quegli uomini che sono sempre e solo vestiti bene, a puntino, “perfetti”, in genere sono uomini che si nascondono dietro il vestito. Valorizzano il contenente a discapito del contenuto. Mia nonna diceva sempre: “Ricordati che un asino vestito da re rimane sempre un asino”. Possiamo quindi metterci addosso tutto quello che vogliamo, ma il vestito non cambia in alcun modo quello che siamo dentro.
Giovanni Battista è consapevole di ciò: fa quello che deve fare e non guarda in faccia nessuno. È un uomo che non si lascia né condizionare né intimorire. Un uomo autonomo. Non segue nessuno e non gli interessa avere seguaci. Ha un modo diverso di concepire le cose: “Convertitevi e fatevi battezzare”. Questo è quello che conta. Punto.
Non si limita semplicemente a dire: “Fai questa cosa, comportati così, osserva questi precetti esteriori e poi sarai a posto (come facevano i farisei); ma ha una visione più ampia delle cose e del comportamento umano. Dice: “Se l’uomo non cambia dentro, nel suo intimo, nella sua anima, tutto il resto è inutile”.
Quando c’è un problema, l’importante non è trovare “una” risposta, ma “la” risposta; ciò che conta è avere la visione d’insieme del problema e affrontarlo alla radice.
Noi - soprattutto oggi - abbiamo bisogno di visioni d’insieme, di grandi visioni. Abbiamo bisogno di uomini che sappiano capire con il cuore, oltre che con la mente, qual è il bene vero per l’umanità. Abbiamo bisogno di uomini che ci insegnino a cercare, a perseguire e a lottare non solo per i nostri diritti ma per i diritti di tutti; non solo per il nostro bene ma per il bene di tutti. Difendere solo i propri diritti si chiama interesse; difendere i diritti di tutti si chiama giustizia; cercare solo il proprio bene si chiama narcisismo, egocentrismo; cercare il bene di tutti si chiama amore.
Oggi però la società ci insegna: “Trovati un bel lavoro e una bella posizione, pensa a te stesso, e gli altri si arrangino”. È pressoché impossibile sentirsi dire: “Ama tutti gli uomini, lotta per la giustizia, non pensare solo a te stesso. Non vedi quante ingiustizie ci sono nel mondo? Fa’ qualcosa”.
Tantissimi giovani non sanno cosa voglia dire battersi per qualcosa di grande, per dei valori universali, per qualcosa di trascendentale. Sanno sì lottare – quando hanno voglia di lottare - ma solo per la loro carriera, per le loro comodità, per il loro benessere, per il loro status symbol. Sono semplicemente degli “idioti”: dove, in greco, il termine “idiota” indica colui che è soltanto concentrato su di sé, che non sa vedere oltre il proprio tornaconto, oltre il proprio interesse, oltre il “se stesso”.
Oggi la quasi totalità delle persone vivono solo per il denaro, per il sesso, per la gloria, per il successo; è difficile trovare chi vive per la verità, chi vive per seguire la voce di Dio; persone insomma che facciano le cose in nome della propria coscienza, perché sono convinte che è giusto fare così, fedeli a se stesse e a Dio.
“Convertitevi e fatevi battezzare” ci grida Giovanni. “Convertirsi” vuol dire uscire appunto dal proprio egocentrismo, dal proprio infantilismo. Sì, perché siamo peggio dei bambini: avete presente? Il bambino rivendica tutto per sé; dice di ogni cosa: “È mio”. Tutto il mondo deve girare intorno a lui. Non esiste nient’altro che lui. I giocattoli sono tutti suoi. Il cibo è tutto suo. Tutti devono vivere in funzione sua.
Ecco: “convertirsi” significa diventare adulti, rendersi conto cioè che c’è un mondo più grande, più ampio, più vasto, che va oltre il nostro ridottissimo orizzonte. È accorgersi che non ci siamo solo noi al mondo. “Convertirsi” vuol dire appunto aprirsi a questo mondo, perché noi non siamo il mondo, ne facciamo solo parte; vuol dire anche combattere contro questo mondo, quando vuole imporsi con le sue discriminazioni. È capire che dobbiamo concorrere attivamente ad aiutare gli altri abitanti di questo mondo, perché sono nostri fratelli, anch'essi affamati di amore e di libertà.
Giovanni è l’icona della libertà, dell’uomo libero; non ha paura di stare da solo, di essere rifiutato, di non essere accettato. È un uomo autentico, vero, autonomo, uno che ha una strada davanti a sé e la percorre, senza esitazioni. Non gli interessa cosa diranno gli altri o se si attirerà le ire dei potenti (come Erode). Lui è portatore di un messaggio; ha un compito ben preciso: quello di essere “voce di uno che grida nel deserto”.
Egli sa bene che, nonostante siano in molti (tra cui Gesù) quelli che si fanno battezzare, la sua predicazione non avrà molto seguito, sarà disattesa, trascurata dai più; egli sa perfettamente di predicare “nel deserto”: e chi lo sente nel deserto? Chi può aderire al suo invito? Nessuno! Ciò nonostante egli non ha l’ansia dei risultati: “La gente non viene più in chiesa! Nessuno ascolta più! Ognuno si fa i fattacci suoi! Non è più come una volta! Che sto a fare qui? Perdo il mio tempo; non c’è più nessuno che voglia saperne di Dio!”.
Egli conosce i suoi limiti, che per lui non sono un problema. A lui importa svolgere a puntino, nel migliore dei modi, quello che è il suo compito, la sua missione, la sua “chiamata”: i frutti non dipendono da Lui: sarà un Altro che raccoglierà.
Anche per questo non ha molti riguardi: egli è un padre che sferza, che va giù dritto sapendo di far bene, un padre che lascia il segno, che ferisce in profondità:
“Raddrizzate i vostri sentieri, convertitevi, fatevi battezzare”. Cioè: “Svegliatevi una buona volta, non vedete che vi state prendendo in giro da soli? Vi state ingannando, state mentendo a voi stessi; siete degli “idioti”, state vivendo una vita completamente falsa! Cambiate, rinnovatevi!”.
Parole dure le sue, parole che scuotono gli ascoltatori di sempre: è un po’ come mollare loro dei sonori ceffoni. Ma ciò non significa che Giovanni Battista non ami i suoi discepoli: egli li “ama in maniera dura”: li provoca, li ferisce, mette ciascuno davanti alla propria verità; li costringe a prendersi le loro responsabilità; li avvisa che se non vogliono crescere, se non vogliono capire, si tagliano fuori da soli, rimangono lì, sono fuori.
Esattamente il contrario di quanto fa il mondo di oggi; la nostra società è falsamente buonista. È permissiva. È ipocrita, ingannatrice. Noi oggi abbiamo bisogno più che mai di tanti Giovanni Battista, di padri veri che ci mettano, senza tanti fronzoli, di fronte alle nostre responsabilità e che ci costringano a scegliere, a crescere, ad accettare le conseguenze del nostro vivere.
Sì, fratelli, perché la vita è nelle nostre mani e nelle nostre scelte. Smettiamola dunque di fare le vittime, gli incompresi, gli offesi! Diventiamo finalmente responsabili di noi stessi. “Raddrizza la tua vita e convertiti”: che vuol dire: “Rischia una buona volta!”. Rischia questa tua vita insignificante; osala, giocala, insegui un sogno, persegui un ideale, credi con tutto il cuore a qualcosa di grande. Rischiare vuol dire “trascendersi”, andare oltre noi stessi, non accettare di essere solo “quel che siamo”, sapendo bene che possiamo essere di più. Molto di più. “Convertirsi”, allora, vuol dire anche “rischiare”: Vuol dire lasciare qualcosa di certo, di acquisito, qualcosa che conosciamo, per andare verso qualcosa di nuovo, che non conosciamo, che va oltre la nostra esperienza. A noi invece piace vivere in una botte di ferro! Ci piace non correre rischi. Non avere imprevisti. La nostra società moderna si regge su grandi dispensatori di certezze: sullo stipendio fisso, sulla pensione, sulla previdenza, sulle assicurazioni, sugli allarmi che ci proteggono, sulle droghe e sui psicofarmaci che ci danno la felicità. Istituzioni, partiti, associazioni, media, tutti tentano di venderci sicurezze, garanzie, certezze. Ma la vita non è così; quantomeno la vita dell’anima. La “nostra” vita, quella che Dio ci ha dato in gestione, è ben altra cosa: dobbiamo perciò rompere con questa mentalità, dobbiamo fare un taglio netto.
Se il bambino non avesse il coraggio di lasciare le sue sicurezze di bambino, non diventerebbe un adolescente; e se l’adolescente non avesse a sua volta il coraggio di lasciare le sue sicurezze, non diventerebbe mai un adulto. Così, se noi non tronchiamo con le ideologie del mondo, del perenne “bambino”, se non abbandoniamo le sue idee, le sue convinzioni, le sue fissazioni, non capiremo mai chi siamo realmente, non diventeremo mai noi stessi, non potremo realizzare mai la nostra vita “divina”.
Rischiare tutto per Gesù, pertanto, è crearci nuove possibilità, è diventare più forti, diversi, diventare nuovi: è ri-nascere. Allora rischiare vuol dire affrontare i problemi che contano; vuol dire mettersi in discussione e vedere i punti di vista del fratello, dell’altro; vuol dire fare una cosa che non abbiamo mai fatta; una che abbiamo paura di fare; prendere noi l’iniziativa, correre il pericolo di essere ridicolizzati dal mondo, di essere rifiutati o esclusi. Noi dobbiamo credere: credere in Lui, anche se nessuno ci crede. Tutto questo è rischiare; è andare con fiducia verso la Luce; è andare senza esitazioni verso Colui che sappiamo essere la vera Sapienza, la Fiducia, l’Amore, Dio. Rischiare è provare a vivere senza farsi condizionare e imprigionare dalla paura del mondo. Perché questa paura uccide. Dio invece è Vita, è Spirito purificatore. Giovanni l’aveva capito molto bene allora, e questo continua a ripeterci oggi.
«Io vi ho battezzato con acqua, ma egli vi battezzerà in Spirito Santo».
È il battesimo del fuoco dell’Amore. Vivere senza lasciarsi dominare dal mondo, impedire che la sua paura ci domini, ci uccida, impostare la nostra esistenza su altri parametri, ecco, questo è il battesimo del fuoco.
Il battesimo d’acqua è rendersi conto, prendere consapevolezza di essere figli di Dio. È il sentirsi amati da Lui, è il percepire la nostra dignità, le nostre potenzialità: “Io sono figlio dell’Altissimo”. Il battesimo d’acqua è sapere ciò che Dio ha fatto per noi, spontaneamente, senza alcun nostro coinvolgimento. È un dono gratuito. E tutti siamo stati battezzati nell’acqua.
Ma il vero battesimo, fratelli, è quello di fuoco; è, cioè, il modo con cui noi sviluppiamo il battesimo d’acqua, è il modo in cui noi viviamo concretamente la nostra vita, se, per dirla secondo il vangelo, ci lasciamo guidare e penetrare dallo Spirito.
Il battesimo di fuoco, è il battesimo dello Spirito, è diventare “altri”, è far crescere in noi quel progetto iniziale con cui la bontà di Dio ci ha segnati con il battesimo d’acqua. Dobbiamo diventare noi quel progetto, dobbiamo svilupparlo, completarlo, meritarlo. Non un dono, ma un guadagno sudato. È la nostra trasformazione. È raggiungere l’Amore, purificarci con il suo fuoco, toglierci le impurità (pur, in greco = fuoco); è partorirci tra fatiche, pianti, lotte e dolore; è insomma diventare a tutti gli effetti, meritatamente, quelli che eravamo già, figli di Dio; ma questa volta diventandolo di nostro, volendolo a tutti i costi, contro tutto e contro tutti.
Anche Gesù, dopo il suo battesimo d’acqua, avrà il suo battesimo di fuoco, nel deserto. Dovrà confrontarsi anch’Egli con il demonio, con la possibilità di rinunciare alla sua missione, di abdicare a ciò che era: il Figlio di Dio. Ed è proprio per diventare se stesso, che dovette diventare fino in fondo ciò che era: il Figlio di Dio.
Battesimo di fuoco è dunque far crescere in noi il Figlio dell’Uomo, è dare spazio (convertirsi, diventare nuovi) al Dio che è già in noi. È di fuoco, questo battesimo, perché “ci brucia”, ci saggia, ci prova, ci purifica, ci riscalda, ci illumina, ci appassiona, ci prende l’anima. È di fuoco perché è l’incontro con Dio, sono le nozze con Lui, è la percezione della nostra missione, è il lasciarsi condurre e trasformare da Lui: “Fidati di me e lasciati condurre dove io ti mostrerò. Lascia che io cresca e divenga in te”.
Questo è Natale, fratelli: far nascere, far crescere il Figlio di Dio dentro di noi. Dio nasce; la sua parte la fa sempre; continuamente e puntualmente. Ma noi, noi i suoi prescelti, gli permettiamo di crescere? Noi, la facciamo la nostra parte? Dio, di suo, nasce in tutti. Nasce, per esempio, in Erode ma non trova in lui possibilità di crescita perché è un uomo schiavo del potere e del piacere. Dio nasce in Giuda Iscariota, ma anche qui non ha spazio per svilupparsi, per crescere, perché Giuda è imprigionato dalla paura, e dall’avidità. Dio nasce in Pilato ma anche in lui non può crescere perché stritolato dalle sue manie di grandezza e di potere. Dio nasce nel giovane ricco, senza trovare neppure in lui possibilità di crescita, perché questa gli avrebbe comportato un radicale cambiamento di vita, lasciare le amicizie, i modi di pensare, di agire. Dio nasce nel fariseo ma anche in lui non può svilupparsi perché troppo preoccupato di non perdere la faccia davanti agli altri, di fare brutta figura, di non risultare gradito o di essere escluso.
Dio nasce proprio in tutti: ma sono pochi quelli che sono disposti a riceverlo e a consentirgli di crescere.
Ebbene fratelli: anche quest’anno Dio continua a nascere nel nostro cuore. Puntualmente come sempre. Gli faremo anche noi problema per svilupparsi? Lo soffocheremo ancora con la nostra indifferenza? Lo abortiremo con il nostro egoismo? Oppure in questo Natale, riusciremo finalmente a cambiare qualcosa di essenziale nella nostra vita? Coraggio, fratelli, guardiamoci bene dentro il cuore, dentro l’anima: sicuramente abbiamo ancora spazio per Gesù, per quello che di nuovo egli intende portarci. Non occupiamolo questo spazio, non sprechiamolo anche questa volta, non soffochiamolo, caricandolo di superfluo, di indifferenza, di ingratitudine. Prepariamoci dunque con grande cura e per tempo a questo importantissimo evento. Anzi, pensiamoci già da oggi. Da subito. Amen.


venerdì 25 novembre 2011

27 Novembre 2011 – I Domenica di Avvento - B

«Fate attenzione, vegliate, perché non sapete quando è il momento…».
Dio vuole incontrarsi con l’uomo. È il motivo chiave di queste domeniche che precedono il Natale, e che fa da filo conduttore per tutto il periodo d’Avvento. “Avvento” deriva infatti dal latino “ad-venio” che letteralmente significa: “Ti vengo incontro”.
Il vangelo di questa prima domenica, ci vuol ricordare appunto la “venuta” di Gesù: non tanto quella storica, verificatasi oltre duemila anni fa in quel di Betlemme, e neppure quella finale, la “parusia”; ma quella privata, la venuta personale, quella che farà per ciascuno di noi, quando deciderà di prelevarci da questo mondo. È la venuta che decreterà il nostro passaggio da questa vita a quella eterna, cui nessuno può sottrarsi, e che ci viene presentata oggi come il “ritorno del padrone”.
Un ritorno assolutamente certo, di cui però ignoriamo sia la data che l’ora. È questa incertezza, quindi, che ci impone una costante preparazione: dobbiamo cioè essere sempre pronti ad accogliere il ritorno di Gesù, in qualunque momento della nostra vita. Non possiamo correre il rischio di farci sorprendere impreparati, di farci cogliere di sorpresa: anche se qualunque evento della nostra vita, indipendente dalla nostra volontà, implica sempre una qualche “sorpresa”. Tutto ciò che ci viene incontro d’improvviso, anche se pensato e aspettato, non è mai come noi ce lo siamo immaginato, pianificato. Ha sempre qualche margine di imprevedibilità che ci sfugge, che va oltre. Bene: la venuta di Dio per noi, quella che stabilisce la nostra “fine”, non deve assolutamente essere un finale a “sorpresa!”. Richiede tassativamente del “nostro”.
Questo “ad-venio”, questo “ti vengo incontro” non si riferisce pertanto alla sola disponibilità di Gesù: anche noi siamo invitati, siamo sollecitati a muoverci nella sua direzione, a preparare il nostro cammino per raggiungerlo all’appuntamento finale. E come? Dobbiamo prima di tutto attutire l’effetto “sorpresa”: non possiamo cioè pretendere di essere gli unici artefici del nostro futuro, del nostro domani; dobbiamo permettere che ci sia anche Dio ad occuparsi della nostra vita, dobbiamo lasciargli volutamente un po’ di spazio, perché sia Lui a condurci, a suggerirci i comportamenti idonei. Inutile quindi voler pianificare ad ogni costo l’ignoto, finendo magari per impegnare il nostro tempo, la nostra volontà, le nostre facoltà, in cose superflue, inutili, transitorie, trascurando di proposito quelle importanti, quelle essenziali, quelle legate appunto alla imponderabilità e all’effetto sorpresa della sua venuta.
La nostra vita cristiana deve essere sì un’av-ventura: un cammino verso qualcuno che non conosciamo: ma deve essere anche un andare incontro prudente, ragionato, ponderato; dobbiamo arrivare assolutamente preparati a questo “rendez vous” finale, a questo “summit” riservatissimo e segretissimo tra Lui e noi. Io e Lui, faccia a faccia, completamente soli.
È difficile, fratelli, pensare a queste cose. È innaturale: chiudere la nostra esistenza, troncare improvvisamente la nostra vita, abbandonare i nostri affetti, i nostri cari, rinunciare al compimento di tutti i nostri progetti, prospettarci nella mente l’istante ultimo in cui, volenti o nolenti, saremo costretti a passare definitivamente la mano. È impensabile. È questo il motivo per cui molte persone non pensano mai a questo momento, preferiscono non approfondire la loro ricerca interiore: rimangono sempre a livelli superficiali: “E se poi scopro di aver vissuto a vuoto, di non aver concluso granché, di dover per questo cambiare radicalmente vita, di dover rinunciare ai piaceri che allietano i miei giorni?”. Troppa fatica; non vogliono sorprese, vogliono soltanto certezze, soltanto le “loro” certezze: e non si accorgono che finiranno col dover affrontare solo “sorprese”!
Come deve essere allora la nostra “attesa”? Ce lo insegna il Vangelo: deve essere vigile; un’attesa paziente; un’attesa proficua, mirata, cosciente.
Del resto tutti gli avvenimenti di questo mondo hanno un tempo di attesa, di germinazione, di incubazione, di fermentazione. Prima del loro tempo le cose non nascono: per fare un figlio ci vogliono nove mesi; prima che arrivi la primavera, dobbiamo passare attraverso il freddo e il niente dell’inverno; perché arrivi la luce del giorno, ci vuole prima il buio della notte.
L’attesa è il tempo in cui noi lavoriamo, ci diamo da fare, operiamo; indipendentemente dal fatto che tutto sembri fermo, che niente sembri nascere o crescere: “Perché mai dobbiamo insistere così a vuoto, senza poter cogliere risultati immediati ed evidenti?”; ma è nell’attesa che capiremo come insistendo su di una questione, perseverando, non solo la risolveremo, ma ci trasformeremo, impareremo a vivere, ad essere diversi.
La gente invece si stanca subito: vuole risultati, vuole successi immediati, vuole traguardi facili. Quando stanno per iniziare un cammino spirituale, immancabilmente dicono: “Ci vuole troppo tempo, è tutto troppo incerto, i risultati non sono sicuri”. E non capiscono che bisogna invece lavorare a lungo, impegnarsi molto, anche se sembra che non succeda proprio nulla. Il cammino spirituale è un cammino in cui effettivamente non succede mai niente di sensazionale, di strepitoso, di eclatante; ma con pazienza, senza chiasso, quasi per miracolo, improvvisamente qualcosa si muove, qualcosa di nuovo s’innesca nella nostra vita e pian piano tutto cambia radicalmente. Non è un miracolo fratelli: è solo il frutto di un lungo, silenzioso e costante lavoro, di una umile e operosa fiducia in Lui, nell’aver vissuto proficuamente il suo “avvento”. Perché l’attesa è tenacia: è rimanere ancorati nella certezza che la Sua semente è la migliore, che il calore del Suo amore è decisivo per la nascita e lo sviluppo, e che il frutto arriverà sicuramente, in ogni caso.
È la perseveranza, fratelli, che fa la differenza. Una virtù oggi molto trascurata, obsoleta, di altri tempi. Oggi le mode cambiano e noi con esse. Oggi tutto è in divenire, cangiante; se Gesù è “fermo” a duemila anni fa, che possiamo farci? Si adatti anche Lui ai tempi, La Parola ci segua: si allinei anch’essa con le nostre esigenze, si metta al nostro passo, e noi la seguiremo. Illusi! Pensiamo di cambiare il mondo? È il mondo che cambia noi, fratelli, questa è la verità.
Continuiamo invece a lavorare in silenzio, ad arare, a girare la terra, a concimare, a togliere i sassi: e un giorno vedremo finalmente fiorire qualcosa. La vita è tempo di attesa, è il tempo in cui dobbiamo prepararci ad accogliere Colui che verrà. Prepariamoci con cura, lasciamoci forgiare dalla sua Parola, aspettiamo: perché è nell’attesa che la nostra mente, le nostre capacità, le nostre forze si formano, si preparano alla Sua venuta.
Il vangelo di oggi ci ripete proprio questo. Dobbiamo vegliare, aspettare in piedi il ritorno del padrone. L’invito è chiaro per tutti: ognuno deve rimanere vigile, sveglio, non deve prendere sonno. Perché questo è il grande pericolo della vita: prendere sonno, vegetare, sopravvivere.
“Sii presente con la mente, non lasciarla incustodita, non essere altrove. Prega e canta insieme agli altri”, raccomandava l’anziano Maestro a noi piccoli “monaci” adolescenti, per combattere il sonno, grande nemico della preghiera notturna.
È l’invito che tutti dobbiamo accogliere: Preghiamo, rimaniamo svegli, desti, apriamo il nostro cuore a Dio; innalziamo i nostri lamenti, i nostri inni, la nostra rabbia e il nostro stupore a Lui. Facciamolo con la pienezza dell’anima e con tutta la forza del nostro cuore. È così che vivremo l’avvento della nostra vita, è così che veglieremo l’arrivo del padrone.
Non rimaniamo assenti a noi stessi: quando guardiamo, osserviamo bene, entriamo in ciò che vediamo, emozioniamoci, lasciamoci toccare da ciò che vediamo. E quando ascoltiamo, apriamo le orecchie, prestiamo attenzione; e quando piangiamo, piangiamo veramente. Siamo noi stessi in ogni istante, sempre lì, presenti dove siamo.
Lo dico anche a te, che in questo momento stai leggendo queste semplici considerazioni; rimani qui! Non scappare. Non correre via. Vivi, assapora, senti questo momento, anche se lo ritieni poca cosa. Capita a tutti di essere materialmente presenti in un posto, ma con la mente, con i pensieri, stare già altrove. È normale, fratelli: ma,e se Dio ci aspettasse proprio qui, in queste righe?
Prendiamo i nostri tempi, le nostre pause di riflessione. Non assecondiamo la nostra mente, che è in continuo movimento, che ci porta sempre in altri posti, in altri pensieri, in altri luoghi, in altri problemi. È sempre altrove. E se noi la seguiamo continuamente, in altre realtà, in altri mondi, in quale mondo finiremo a vivere noi?
Rimaniamo vivi, fratelli. Che non ci succeda di dormire nella vita, di “tirare avanti”, di vegetare. Che non ci succeda che il cuore batta soltanto perché è un muscolo o che la bocca si apra solo perché dobbiamo mangiare. Una vita da morti non si può chiamare vita.
L’invito del vangelo è forte: “Vegliate”, “state in guardia”. Fate come le sentinelle o i guardiani che prevengono possibili intrusioni. Nella vita normale, siamo pieni di allarmi, siamo circondati da telecamere, circondati da custodi, stiamo in allerta su tutto e su tutti; possibile che ci lasciamo sorprendere proprio sulle cose dell’anima?
Cerchiamo di approfondire anche altri significati di quel “vegliate”, ripetuto con tanta insistenza dal Vangelo odierno:
1. “Stai attendo a quando Lui passa”.
Vegliare non vuol dire smettere di lavorare, far finta di niente, tirare avanti aspettando che “qualcosa succeda”: se non facciamo niente, non succederà mai niente; vegliare vuol dire cogliere oggi, nel presente, la voce dell’anima che ci chiama. Vegliare vuol dire non poltrire, non sonnecchiare. Quando Dio, quando la Vita passa, bisogna seguirla. Quando la Vita chiama bisogna rispondere, bisogna andare, costi quel che costi, anche se si ha paura, anche se non si capisce, anche se sembra strano, anche se non siamo d’accordo. Venne un Dio bambino: e molti dissero: “Dio non è lui, non è qui! Tutto questo non c’entra con Lui”. E lo rifiutarono. E si misero “fuori”. Persero l’occasione di riconoscerlo al suo passaggio.
2. “Stai attento a quello che fai passare dentro di te”.
Cosa entra nel nostro cuore? Cosa entra nella nostra anima? Quando andiamo al supermercato per la spesa, stiamo molto attenti al costo del prodotto, alla sua origine, da chi è fatto, dove è confezionato, agli ingredienti, alla scadenza…. Bene: facciamo un sacco di controlli per quello che è destinato ad entrare nel nostro corpo, e poi non facciamo niente per quello che entra nella nostra anima! Non lasciamoci fuorviare; come un buon guardiano della casa, osserviamo attentamente che tipo di pensieri vogliono introdursi nella nostra anima, nel nostro cuore: perché i buoni pensieri ci rendono buoni, mentre quelli cattivi ci rendono malvagi; come siamo dentro, fratelli, così siamo fuori. Cattivi dentro, cattivi fuori. Custodiamo attentamente i nostri “ingressi”: occhi, orecchi, naso, bocca, tatto ecc.! Non comportiamoci da incoscienti. Azioniamo i nostri “buttafuori”.
Spesso i pensieri più velenosi, si affacciano travestiti da buone ispirazioni: dobbiamo fare molta attenzione, fratelli, perché se imprudentemente lasciamo loro spazio, rischiamo di ammorbare completamente la nostra anima. Lo stesso vale anche per le persone, per le amicizie. A volte capita di affidarci a persone apparentemente amabili, disponibili e generose, che poi si rivelano completamente l’opposto: persone che finiscono per essere sempre e soltanto negative, logorroiche, che criticano e sparlano continuamente di tutto e di tutti. Che facciamo? Beh, siamo noi i padroni, siamo noi che dobbiamo avere la massima prudenza nel consentire l’ingresso di chicchessia nell’intimo della nostra casa. Siamo noi che dobbiamo scegliere con oculatezza chi far entrare e chi lasciare fuori; soprattutto siamo noi che dobbiamo sbattere fuori chi si è introdotto con l’inganno. Siamo obbligati a farlo, per il nostro bene.
3. “Stai a contatto con la realtà”.
Non cedere alle illusioni. Non volerti lanciare in voli pindarici; conosciamo tutti cosa ci aspetta poi. Non contrabbandiamo per misticismo semplici devozioni a sfondo maniacale, ripetitive e ossessionanti. Il mistico non è uno sprovveduto, con la testa tra le nuvole, un maniaco che vuol farsi accreditare visioni soprannaturali, catalessi celestiali, soprattutto in presenza di testimoni; il mistico è uno molto concreto, uno che è molto “vigile”, uno che conosce bene con chi ha a che fare; è uno che non dorme sulle cose, che non si inganna sulle motivazioni del suo agire; uno che ama perdutamente, conoscendo bene il destinatario del suo amore; uno che vede le cose che lo riguardano esattamente come sono, con tutti i loro limiti e difetti, uno insomma che ha i piedi ben piantati per terra.
Non illudiamoci dicendo: “Ma col tempo le cose cambieranno”. In genere il tempo passa e le cose restano come sono! Il tempo da solo non cambia nulla, scorre soltanto. “Quando sarò più libero, allora mi dedicherò a Dio”: sono parole senza senso; non c’è bisogno di essere liberi da nulla per amare Dio; serve solo volerlo incontrare, volerlo vedere, saperlo riconoscere nel prossimo, assaporarlo, viverlo nel presente. Se non lo amiamo oggi, come pensiamo di farlo domani? Non cambierà nulla, fratelli. Sono solo fantasie e stupidi alibi per giustificare il nostro non far nulla. Soprattutto non illudiamoci: non lasciamoci cullare dalle mille illusioni del nostro vivere da mediocri. A volte ci illudiamo pensando che l’amore basti, che con l’amore si vada dappertutto. No, non basta; se non c’è convinzione, se non c’è la volontà di cambiare, di mettersi in discussione, di evolvere, di migliorare, di essere sempre più onesti e sinceri con noi stessi e con gli altri, anche con l’amore più grande siamo destinati a fare ben poca strada.
Altra illusione è quella di pensare di non essere poi così tanto cattivi, di essere quantomeno migliori di tanti altri, di essere tutto sommato dei buoni, di essere dei “quasi a posto”, bisognosi al più di qualche ritocchino ogni tanto! Facciamo attenzione, fratelli miei, non dimentichiamo che Gesù, con questi “quasi perfetti”, ebbe i suoi problemi più grossi. Fu ucciso proprio dalle persone che pensavano di essere buone, brave, senza problemi e tanto religiose. No, fratelli: non creiamoci ansie inutili, tranquilli: non siamo assolutamente migliori di nessun altro. Convincersi di esserlo, è soltanto superbia.
Evitiamo anche di illuderci pensando che per non avere problemi, sia sufficiente non considerarli, non farci caso; tanto, come vengono, così se ne vanno: “chiodo schiaccia chiodo”! Niente di più falso, fratelli: chiodo più chiodo, fanno due chiodi con due buchi distinti che non scacciano un bel niente!
Altra illusione: siamo convinti di fare molta strada soltanto perché ci agitiamo molto, perché siamo sempre in movimento. Ma anche chi sta per annegare in mare si agita tanto, si sbraccia, ma ciò non gli basta per stare a galla, per mettersi in salvo.
Sono solo alcune delle tante illusioni che cercano di sedurci, fratelli: sono inutili tentativi di aggrapparci, per non cadere, a qualcosa che non c’è, che non esiste che, anche se ci fosse, non può tenere, perché non ha consistenza alcuna. La più grande illusione è rifiutarsi di vedere ciò che invece è necessario vedere, perché se non guardiamo tutta la nostra bella costruzione prima o poi crollerà (illusione, da ludere, giocare, divertirsi: il bel gioco è finito)
Quando ero giovane studente, mi capitava di incrociare spesso, anche nello stesso giorno, un monaco molto anziano e sofferente, che invariabilmente ricambiava il mio saluto sussurrandomi: “Sta’ in campana, Mario!”. Nient’altro. Solo queste parole. Una “perla” della sua saggezza, con la quale evidentemente voleva mettermi in guardia dalle illusioni giovanili: “Svegliati, non dormire, stai attento, apri gli occhi!”. Una raccomandazione che ancora oggi mi risuona severa nella mente. 
E chiudo con una storiella che può far sorridere ma che è anche molto indicativa su come anche noi a volte rischiamo di comportarci. «Si incontrano due tipi: “Henry, come sei cambiato! Eri tanto alto, e adesso sei così basso! Eri così robusto, e ora sei magrissimo! Eri tanto biondo, e ora sei castano. Cosa ti è successo, Henry?”. E l’altro: “Non sono Henry, sono John!”. “Oddio, hai cambiato anche il nome!”».
Fratelli miei, non c’è peggior cieco di chi non vuol vedere!
Bene: il vangelo di oggi ripete anche a noi: “Sta’ in campana”. Sì, fratelli: stiamo tutti in campana, in ogni momento; apriamo bene gli occhi, perché non succeda che Colui che viene all’improvviso “non ci trovi addormentati”.
«Gesù, fammi parlare sempre come se fosse l’ultima parola che dico. Fammi agire sempre come se fosse l’ultima azione che faccio. Fammi soffrire sempre come se fosse l’ultima sofferenza che ho da offrirti. Fammi pregare sempre come se fosse l’ultima possibilità, che ho qui in terra, di parlare con te». Amen.


venerdì 18 novembre 2011

20 Novembre 2011 – Nostro Signore Gesù Cristo, Re dell’universo

«Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria, e tutti gli angeli con lui, siederà sul trono della sua gloria. Davanti a lui verranno radunati tutti i popoli. Egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dalle capre, e porrà le pecore alla sua destra e le capre alla sinistra».
Con questa domenica si conclude l’anno liturgico. E come meditazione finale, la Chiesa ci propone una visione apocalittica: Gesù Cristo, Re dell’Universo, attorniato dai suoi angeli, che giudica tutti i popoli. È il giudizio universale, quel giudizio che tutti cerchiamo di minimizzare, di accantonare nella nostra mente, ma che a tutti, inutile negarlo, incute una seria preoccupazione.
Di fronte a tale scenario noi restiamo sconcertati ed interdetti. Il clima è cupo, la visione di questo giudice implacabile - come il possente Cristo di Michelangelo della cappella Sistina - fa decisamente paura. Cos’ha a che vedere questa pagina con il Gesù dolce e misericordioso del resto del vangelo? Matteo si è sbagliato? O ci sbagliamo noi continuando a professare un Dio dal volto amoroso e compassionevole?
Due aspetti, quelli di oggi, che solo apparentemente sono in contrasto tra loro. Prima di tutto la qualifica di “Re” attribuita a Cristo: una denominazione altisonante e ieratica che male si adatta anche questa al Gesù, umile e remissivo, Padre innamorato, Pastore sollecito, che siamo abituati a vedere attraverso la Parola: un Re che entra nella sua città cavalcando non un nervoso destriero bianco, ma un tranquillo e lento somaro; un Re che si mette a lavare i piedi dei suoi sudditi; un re che svalorizza il potere umano, invitando tutti indistintamente a farsi servi degli altri; un re che invece di dire ai suoi “amatemi”, li esorta con “amatevi gli uni gli altri”; un Re contestato e deriso, un Re sconfitto più di tutti gli sconfitti, fragile più di ogni fragilità. Un Re senza trono e senza scettro, appeso nudo ad una croce, un Re che necessita di un cartello per essere identificato, un Re senza potere se non quello devastante dell’amore. Che c’è di “regale” in tutto questo?
C’è poi la figura di questo giudice incorruttibile e severo, che siede sul suo trono per valutare, premiare e condannare: e, guarda caso, lo fa proprio nei confronti di coloro che Lui stesso ha talmente amato da offrire la propria vita per loro morendo sulla croce.
Ripeto: potrebbe sembrare una contraddizione, ma non lo è: perché la Chiesa, buona conoscitrice delle necessità dei suoi figli, con questa festa di “Cristo, Re dell’universo”, ci vuol ricordare una grande realtà, un valore importantissimo, una verità fondamentale: che Gesù - per noi eletti, noi figli, noi sua Chiesa - rappresenta veramente tutto. Lui è l’essenziale, lo sposo, il testimone del Padre, il nostro intercessore presso Dio, il nostro avvocato. In una parola è il nostro “Re” indiscusso, il nostro Signore e Maestro, colui che dà misura e senso ad ogni nostra esperienza umana, che ci svela il mistero nascosto nei secoli.
Dire che Cristo è "sovrano" della nostra vita, significa riconoscere che solo in lui ha senso il nostro percorso di vita e di fede. E, permettetemi, è molto consolante, alla fine dell’anno liturgico, ribadire con forza, tutti insieme, questa nostra convinzione. Sì, fratelli, perché siamo stati noi che lo abbiamo eletto tale, noi che gli abbiamo detto “sì”; siamo stati noi a volere che fosse Lui a guidare la nostra vita di Chiesa e di discepoli, noi a volerlo nostro “unico rappresentante” di fronte al mondo.
Quindi, nessuna contraddizione se oggi la Liturgia ci presenta un “Re amoroso e misericordioso” e insieme un “Re giusto e inflessibile giudice”; un re che Verifica minuziosamente la bontà delle nostre scelte di vita, la nostra coerenza su quanto gli abbiamo promesso; in una parola, se siamo stati o no all’altezza del suo amore, donando anche noi amore.
Gesù durante la sua vita terrena non ha mai “giudicato”; e non lo farà neppure allora. Dio non giudica, fratelli, Dio “svela”. Dio cioè farà vedere quello che non abbiamo voluto far vedere, quello che noi ci siamo nascosti, quello che abbiamo lasciato appositamente nell’ombra.
Il suo “giudizio”, il giudizio di questo Re misericordioso, consisterà semplicemente nel rendere pubblica, nello svelare la situazione reale di ciascuno, nel portare tutto a galla, allo scoperto: non ci sarà più alcun angolo buio nel nostro cuore; nulla potrà più rimanere nascosto nell’ombra. Quel giorno tutto apparirà nel vero senso della parola, tutto sarà chiaro, tutto illuminato. E ognuno saprà da solo, senza bisogno di sentenze, se andare alla destra o alla sinistra del Re.
Il testo di Matteo pone una insistenza quasi puntigliosa su alcuni “bisogni”: fame, sete, essere forestieri, nudi, malati, carcerati; ed è in funzione della loro “soddisfazione”, che noi saremo chiamati a documentare pubblicamente il nostro operato: È chiaro che si tratta di una provocazione voluta: sono tutti “bisogni” che implicano “azione”, esigono cioè da parte nostra un amore concreto, attivo, un amore che non si deve fermare alle belle parole; un amore azione, interessamento, preoccupazione, un reale darsi da fare.
Ci sono milioni di uomini che muoiono di fame ogni anno: conosciamo bene questa realtà, perché ciclicamente viene riproposta all’attenzione del mondo da alcune organizzazioni internazionali. Ma parliamo, parliamo, e poi nessuno fa nulla: il nostro alibi è che c’è già chi ci deve pensare; e poi noi abbiamo il lavoro, la spesa da fare, mille cose da sbrigare, le pulizie di casa che non finiscono mai, guardare la tv, qualche meritato divertimento. Insomma ci sono tante cose per noi ben più importanti dei cinquanta milioni di morti di fame.
Ancora: un miliardo di persone bevono acqua non potabile, contraendo ogni genere di infezione, o ne sono completamente senza. Allucinante al giorno d’oggi. E noi che facciamo? Anche qui grandi conferenze, grandi parole, grandi convegni. Certo per noi è facile parlare, con il frigo e la dispensa pieni di bevande, o con l’acqua potabile che scorre in abbondanza quando apriamo il rubinetto di casa. Anzi, guai se per caso dovessero temporaneamente sospenderne l’erogazione: andremmo in mille escandescenze. Ci arrabbieremmo. Per così poco? Dovremmo invece pensare un pò di più a chi non ce l’ha mai, a chi muore per la sua mancanza!
I forestieri sono i vicini, quelli che vivono attorno a noi: sono gli immigrati, quelli che vengono da altre città, quelli che abitano qui per lavoro, quelli che per necessità hanno abbandonato il loro ambiente, la loro famiglia, quelli che non hanno amicizie o compagnie. Forestieri sono anche persone che conosciamo, persone anziane, colleghi di lavoro, che per i motivi più disparati non hanno nessuno con cui condividere una gioia, una bella notizia, un dispiacere; non hanno nessuno con cui passare qualche ora, andare al cinema, passeggiare, mangiare una pizza. Piccole cose di una serena convivenza. Ma tanto si sa, noi siamo a posto: noi gli amici li abbiamo già, che possiamo farci?
I nudi sono quelle persone che nessuno copre, che nessuno difende, che nessuno considera; quelli che sono privi di qualunque conforto umano, che vivono alla deriva, ai quali viene negata la loro dignità di persone: una esagerazione? Nossignori; facciamo un giro per le grandi città, nelle periferie, e ce ne renderemo conto!
I malati. Quante persone sono malate nel fisico o nell’anima. Per chi è in ospedale, nella solitudine, avere qualcuno vicino è come vedere la luce alla fine di un tunnel completamente buio. Quando un malato è triste, disperato, quando non intravvede alcuna soluzione possibile, quando si sente infermo anche nell’anima, quando con tutte le forze cerca qualcuno che si interessi a lui, che lo ascolti, che condivida le sue sofferenze, ecco: avere questo qualcuno vicino potrebbe essere la sua salvezza. Noi, come ci comportiamo in proposito?
Le nostre carceri sono sovraffollate. Ma non è solo questo il dramma. Il dramma è la solitudine, lo squallore di certi ambienti. Il dramma è che il carcere è un’onta dalla quale non ci si riprende più. Il dramma è che nessuno vuole più il carcerato nel mondo del lavoro, nella società. Il dramma è che se uno non era un criminale incallito, in carcere impara a diventarlo. Hai voglia a strombazzare di “recupero”: spesso la cura è peggiore del male. Non possiamo proprio far niente in proposito?
Ecco: il “tesario d'esame” è questo: situazioni che esigono tutte un nostro coinvolgimento. Non grandi cose, ma anche piccole condivisioni, una fraterna comprensione, un piccolo slancio di carità, un sostegno morale… Qualunque cosa, purché non rimanga un pio desiderio. Ripeto: non saremo giudicati sui nostri pii propositi; non saremo giudicati su quello che avremmo voluto fare, se avessimo avuto tempo o possibilità; non saremo giudicati sulle nostre buone intenzioni, ma su ciò che concretamente abbiamo fatto, su come l’abbiamo fatto, sulla nostra buona volontà.
Dopo l’esame personale di ciascuno, il testo del Vangelo introduce, come risultato, due possibilità diverse, due destinazioni opposte, in funzione dei singoli comportamenti: una per gli eletti, l’altra per i condannati. Uno è invece l'elemento che giustifica questa scelta: una domanda accorata che sgorga da entrambe le schiere: consolante per i primi, tragica e disperata per i secondi: “Quando Signore?”. Già, “quando”? Nessuno se n'era accorto; nessuno aveva capito di aver avuto a che fare non con dei bisognosi, ma con Dio in persona: non ci avevano mai pensato. Sì, fratelli, perché Dio non è visibile a occhio nudo, non è riconoscibile, non è individuabile; è in incognito, è misterioso. E tutti, sia gli eletti che i dannati, lo hanno amato o rifiutato senza rendersene conto: gli uni hanno amato l’uomo e, pur non vedendo in lui Dio, lo hanno comunque amato; gli altri, non amando l’uomo, hanno rifiutato anche Dio.
L’amore per Dio, quando si ama il prossimo, è un amore inconsapevole, inconscio. Nessun santo sapeva di essere santo amando il prossimo. Chi ama Dio non “sa” di amarlo. Se noi amassimo uno sapendo che poi erediteremo le sue ricchezze, è chiaro che lo stiamo usando. Lo stessa cosa succede quando noi amiamo il prossimo per avvicinarci a Dio! Anche in questo caso noi stiamo usando qualcuno. Perché, se noi amiamo il prossimo semplicemente per essere dei cristiani in regola, per sentirci a posto con Dio, perché c’è un comandamento che ce lo impone, scusate, ma che razza di amore è il nostro? Stiamo veramente amando, o stiamo facendo dei progetti per il futuro? L’amore non va mai strumentalizzato; in nessun caso. Neppure per arrivare a Dio. Pertanto, e lo ripeto per maggior chiarezza, non “dobbiamo” amare il prossimo per “amare Dio”, perché in questo modo lo facciamo per nostra comodità, per avere un tornaconto, elevato quanto si vuole (Dio), ma pur sempre un tornaconto. Invece il fratello, il prossimo, va amato per se stesso, perché ci entra dentro l’anima, perché il suo volto ci penetra dentro, ci tocca il cuore.
La prima preoccupazione di chi cerca la perfezione, è di sapere se la sua vita è gradita o no a Dio, se piace o no a Lui, di sapere se è bravo o no, se ha fatto giusto il suo compitino: non lo saprà mai. “Quando Signore?” Nessuno lo sa: d’altronde, se Dio venisse qui da noi in veste ufficiale, tutti faremmo a gara per aiutarlo, per metterlo a suo agio, per farcelo immediatamente “amico”; vorremmo ovviamente entrare tutti nelle sue grazie, tra i suoi intimi, perché tutti vorremmo essere presentati da Lui al Padre, essere considerati bravi figli, bravi discepoli. Ma Dio non è visibile in questo mondo, fratelli; se lo fosse, amarlo sarebbe molto facile per tutti; difficile è invece amarlo senza vederlo, amarlo nell’altro, nel prossimo, nello sconosciuto, nell’uomo della porta accanto. Diceva Madre Teresa: “Non so mai se chi dice di amare Dio, lo ami davvero. Ma so che chi ama l’uomo, lo sappia o no, ama Dio”.
C’è dunque una diversa destinazione: quelli a destra, sono i salvati; quelli a sinistra, i dannati. Ma perché mai “destra” e “sinistra”?
La destra, per gli antichi, è il segno della luce, della ragione, di chi vede le cose e se ne preoccupa. La sinistra, invece, è segno del buio, dell’inconsapevolezza, del non accorgersi, del disinteresse. Ecco, la differenza tra i due schieramenti è proprio qui: c’è chi si lascia toccare, colpire, segnare da chi incontra, c’è chi gli parla, chi si immedesima con lui, e chi, invece, alza una barriera, si protegge, si schernisce, si difende. La differenza quindi è tra chi “sente” la vita dell’altro e vi partecipa con la sua, e chi al contrario ne rimane fuori, non entra, non si lascia coinvolgere, non si lascia toccare da ciò che l’altro vive; rimane insensibile, indifferente, schermato, menefreghista.
C’è una parola moderna che stabilisce bene ciò che differenzia le due schiere: è l’“empatia”.
Empatia vuol dire infatti entrare dentro, sentire dentro; percepire, cioè, quello che anche l’altro percepisce. Viene dalla parola greca “patos” - che vuol dire sentire, patire, e indica un sentimento forte e profondo, simile alla sofferenza - e dalla desinenza “in” che vuol dire dentro.
L’empatia è dunque la capacità di lasciarsi toccare dalle persone. Noi piangiamo con facilità davanti alle scene commoventi di un film, ci identifichiamo con i nostri campioni sportivi ed esultiamo con essi per la vittoria. Ma ci risulta difficile “sentire” cosa l’altro sente, “vivere” quel che l’altro vive; non riusciamo a percepire il suo dolore, la sua sofferenza, l’intensità delle sue parole e dei suoi gesti. Non siamo in sintonia con lui, gli siamo fuori e lui non ci è dentro. In questo caso, fratelli, non può esserci amore: dove c’è distacco, divisione, non esiste amore. L’amore è invece vicinanza, è unione, è entrare dentro l’altro: è, insomma, “empatia”, un sentimento che ci cambia, che ci fa diversi, che ci modella, che ci fa vedere le cose da altre prospettive.
Ma il vangelo non si esaurisce qui: lo stesso impegno che dobbiamo avere verso il prossimo, dobbiamo averlo anche verso noi stessi; dobbiamo cioè soddisfare, oltre quelli degli altri, anche i nostri “bisogni”. Sì, fratelli, perché succede anche a noi di essere affamati, di essere assetati, e dobbiamo quindi darci da “mangiare e da bere”. Chi di noi non ha fame d’amore? Chi di noi non ha sete di dolcezza? Chi di noi può dire: “Io basto a me stesso! Io non ho bisogno di nessuno!?” Solo un pazzo, solo un esaltato. Dobbiamo invece tener sempre nel giusto conto anche il nostro bisogno di amore, di tenerezza, di affetto, di complimenti; di stare con persone che ci amano, che ci apprezzano, che ci stimano, che hanno fiducia in noi.
L’amore è come la ricarica per il telefono, la benzina per l’auto, il cibo per il corpo. Non se ne può fare a meno. Non possiamo lavorare, faticare, correre in continuazione, e pensare di poter resistere senza alcuna ricarica.
Ascoltiamo dunque i bisogni del nostro cuore, della nostra anima: ascoltiamoli attentamente perché capita anche a noi di sentirci forestieri e carcerati; anche noi ci sentiamo talvolta di vivere in un mondo ostile, estranei a tutti e a tutto: ed è qui, in questo momento, che abbiamo bisogno anche noi di accoglienza, di un consiglio, di una buona parola, di assicurazioni.
Invece spesso noi ci teniamo tutto dentro. Neghiamo a noi stessi di aver bisogno di aiuto. Siamo così orgogliosi da preferire di star male, piuttosto che ammettere la nostra debolezza. Ma il nostro orgoglio non ci ripaga mai, fratelli, ricordiamocelo. Se ci sentiamo tremendamente soli, forse dipende dal fatto che non vogliamo nessuno vicino a noi. Se talvolta gli altri non ci amano, forse siamo noi che non vogliamo farci amare!
Quando ci guardiamo nello specchio dell’anima, succede a volte di sentirci nudi, di vederci cioè per quelli che siamo in realtà, al di là di tutte le maschere e i camuffamenti con cui ci travisiamo, e ci assale un senso di rifiuto per noi stessi. Non ci vorremmo così; ci vorremmo diversi; ci vorremmo migliori; vorremmo non vivere certe cose e non fare certi pensieri. Ecco, è proprio in questi momenti che ci dobbiamo amare e accogliere per quello che siamo. È difficile, ma dobbiamo accettarci così, capire che dobbiamo fare i conti con la nostra fragilità, che possiamo ammalarci e avere bisogno di aiuto; che in questi casi dobbiamo ricorrere a qualche “medico”, che illumini le nostre ombre. Un “medico”? Sissignori: perché quando il nostro cuore si irrigidisce e rifiuta di aprirsi, allora abbiamo bisogno di un “medico”; quando la nostra mente insiste nella ripetizione maniacale di certi schemi, allora abbiamo bisogno di un “medico”; quando la nostra anima non riesce più a vivere, a gioire, a stupirsi, allora abbiamo bisogno di un “medico”; quando il nostro spirito si rifiuta di perdonare, allora soprattutto abbiamo bisogno di un “medico”. Non possiamo pretendere di essere Dio e di risolvere tutto da soli. Non possiamo pensare di essere onnipotenti e di bastare a noi stessi. Non possiamo infine essere così stupidi di credere di non aver bisogno dell’aiuto di nessuno, neppure di Dio.
È una faccenda molto seria, fratelli. Perché alla fine dei tempi, davanti al Cristo in maestà, al Re dell’universo, dovremo dare testimonianza anche su questo.
Il risultato? “I maledetti al supplizio eterno, e i giusti alla vita eterna”. Non c’è alternativa.
Fratelli miei: mettiamo allora da parte il nostro bel “taccuino” su cui abbiamo segnato puntigliosamente le ore di preghiera, le messe e le confessioni, le opere buone e i sacrifici fatti con cristiana rassegnazione; nonché le eventuali giustificazioni da tirare fuori nel caso Dio fosse più esigente di quanto ci è stato detto. Mettiamo da parte tutti i nostri bei discorsetti. Perché il Signore ci chiederà soltanto se lo avremo riconosciuto nel povero, nel debole, nell'affamato, nel solo, nell'anziano abbandonato, nel parente scomodo. Sì: avete capito bene. Il giudizio sarà tutto sulla carità che abbiamo praticato. E sul cuore con cui l’abbiamo praticata.
La nostra messa domenicale, fratelli, non può, non deve esaurirsi in Chiesa: deve continuare fuori, nella vita quotidiana. Perché solo così la preghiera, l'eucarestia, la confessione, diventano strumenti di comunione e di amore col Cristo e tra di noi; solo così potremo fare della nostra vita il luogo della carità. Nel lavoro, nello studio, a scuola o all’università, nei lavori di casa o in ufficio, per strada a piedi o in macchina: è qui che noi ci salveremo. Ma solo, e sottolineo solo, se sapremo portare il nostro amore da dentro a fuori, da vicino a lontano, se sapremo riconoscere il volto del Cristo adorato nel volto di chi incontriamo ogni giorno.
Non c’è altro da dire, fratelli. Viviamo così e non preoccupiamoci d’altro. Ma viviamo così da oggi, da ora, da subito, immediatamente; perché in quel giorno non avremo più tempo di far nulla, tutto sarà già compiuto. Allora Cristo sarà nostro Signore e Re nei secoli eterni se avremo amato veramente, diventando trasparenza della sua misericordia e testimoni credibili della sua compassione. Amen.