martedì 22 dicembre 2009

25 Dicembre 2009 - NATALE DEL SIGNORE

Ecco Dio. Miagola, pigola, vagisce con una flebile voce, come fanno i cuccioli d'uomo appena nati. Gli occhi socchiusi, le minuscole mani serrate a pugno, appoggia il viso grinzoso all'acerbo seno della madre. Per un istante spalanca gli occhi, come ad essere rassicurato, poi ripiomba nel sonno.
La madre, inesperta, attinge il dito mignolo in una tazza di coccio e glielo appoggia sulle piccola labbra che si dischiudono e si bagnano del latte di capra.
Maria gli aggiusta la coperta di lana che protegge il corpo nudo del neonato dal freddo del deserto che lambisce le case di Betlemme. Sorride, pensando a quando, poche ore prima, la levatrice lo aveva rudemente pulito dalla placenta e dal sangue, incurante delle urla di protesta del piccolo.
Sorride, Maria, e guarda Giuseppe, seduto sulla paglia, esausto dal lungo viaggio e dalle emozioni delle ultime ore.
Anch'io taccio, in un angolo della stalla, senza fare rumore, sospeso fra la commozione e la stanchezza. Ecco Dio, dunque.
Siamo tutti spiazzati, ancora. Ecco Dio. Ecco com'è veramente. Che ha a che vedere, questo neonato, con l'idea che siamo fatti di Lui? Che c'entra? Guardo lungamente, ora anche Maria appoggia il capo alla parete di pietra, cercando un improbabile sonno. Ecco Dio: enorme inerme, possente fragile, debole per scelta. Suscita tenerezza, viene voglia di prenderlo in mano di accarezzarlo.
Maria ha creduto nelle parole del principe degli angeli, ha messo la sua vita nelle mani di Dio. E ora è lì, con il mistero dell'Universo che stringe a sé. Frastornata e meditabonda, con il suo cuore, immenso cuore di discepola, altalenante fra il gioire dell'essere diventata madre e lo stupirsi nel tenere Dio appeso al suo collo. Prima fra i folli di Dio, prima fra i credenti, prima fra le donne, benedette figlie di Eva che di Dio condividono il generare.
Giuseppe siede stanco. Anche lui ha detto sì, ma il suo è stato sofferto, faticoso, strappato.
I suoi sogni ora sono il sogno di Dio, non ha più futuro, né spazio, né ambizione, né comprensibile orgoglio di padre. Il Padre lo ha reso padre, lui, ora dovrà accudire Dio e la sua madre, proteggerli e lasciarli crescere, loro così abitati dal Mistero, lui così consapevole che la vita non si misura dai risultati ma dalla fedeltà agli eventi.
Sulle colline intorno a Betlemme, i pastori, i bastardi di Dio, i perdenti, gli zingari, gli arraffatori, gli uomini senza dignità, senza futuro, senza speranza, bestemmiano in cuor loro la sorte, ricacciando il dolore che sale a soffocare la gola e a riempire gli occhi di lacrime. Fine di un giorno uguale come i precedenti, uguale come i futuri, senza scampo, senza tregua, senza luce. E un angelo appare loro. Per voi…dice. Una mangiatoia... dice.
E vanno. E trovano Dio che abita una mangiatoia, come se fosse un trono, e capiscono che anche una mangiatoia che odora di sterco di pecora può diventare il trono del Dio degli sconfitti.
A est, lontano, un gruppo di curiosi accampati discutono, alzando il prezzo della scommessa: chi sostiene che il segno nel cielo indica la nascita di un re, altri dicono che, invece, prospetta una catastrofe, altri ancora che non significa nulla. E scherzano e ridono, mentre i servi portano la carne cotta al fuoco. Andranno a dormire presto, domani ripartiranno verso la Giudea. Sazi di denaro, sazi di cultura, sazi di beni. Ma ancora curiosi, ancora si interrogano e cercano.
A Gerusalemme i Sommi Sacerdoti commentano la giornata, pianificano il futuro del nuovo, splendido tempio. Alla fine si congedano, pregano, invocano al venuta del Messia. Qualcuno sorride: ci mancherebbe la venuta del Messia, ora.
Erode caccia la concubina dal suo letto, stenta a prendere sonno. Si affaccia sulla terrazza del palazzo che domina la sua città. No, la folla non lo ama, nonostante tutto, pazienza: se non sarà ricordato per la sua gloria, sarà ricordato per il suo odio.
E Noi? Ecco Dio, mi ripeto nella penombra della chiesa. Dio non si è ancora stancato di noi, se chiede di nascere. Prego, ora, affidando tutti, e tutti non riescono a stare nella mia povera preghiera. Penso a chi soffre, questa notte, perché nessun angelo gli ha ancora detto che Dio nasce proprio per lui. Prego per i tanti, migliaia, che ho incontrato in questo anno così doloroso e intenso, e a come Dio sia stupefacente nel disegnare nuove strade per chi si affida a Lui. Penso alla nostra Italia così litigiosa, così affaticata e delusa, che non ha più speranza, che pensa di essere davvero mediocre come appare, e chiedo al Signore un regalo: di ricordarci da dove proveniamo e verso chi andiamo, tutti.
Vedo il bambino, nella penombra della chiesa. E mi dico in che cavolo di guaio mi sono messo, seguendo un Dio che, invece di risolvermi i problemi, me ne crea a bizzeffe. Vorrei stringerlo fra le mie braccia, riempirlo di baci questo Dio, dire che lo amo, proprio perché così imprevedibile, perché così misteriosamente incontrabile e banale.
Apro un libretto di canti del banco e trovo un'immaginetta: contiene una preghiera di uno dei più feroci atei del secolo scorso, maestro del dubbio e della noia: Sartre.
«Maria guarda Gesù e pensa: questo Dio è mio figlio.
È Dio. E mi assomiglia.
Un Dio bambino che si può prendere fra le braccia, e coprire di baci.
Un Dio caldo, che sorride e respira.
Un Dio che si può toccare e che respira, un Dio che si può toccare e ride.
È in uno di questi momenti che dipingerei Maria, se fossi pittore.»
Buon Natale, cercatori di Dio. Lasciatevi trovare!.

giovedì 17 dicembre 2009

20 Dicembre 2009 - IV Domenica di Avvento

Siamo ormai alle soglie del Natale. La liturgia di questa domenica ci consegna al giorno del Natale di Gesù. E ci consegna così come siamo: forse un poco più pronti ad accogliere il Signore, se ci siamo lasciati toccare il cuore dal Vangelo; oppure ancora appesantiti dai nostri pensieri e dai nostri affanni quotidiani tanto da trovare con fatica un po' di spazio per accogliere il Signore che viene. E' un giorno di grazia questa domenica perché ci apre al Natale e ci ripete di affrettare i passi del nostro cuore perché il Natale è per tutti. Tutti possiamo rinascere, nessuno è condannato a restare sempre identico a se stesso; e il mondo non è condannato al buio. Una luce sta per venire e tutti potranno vederla.
Sta davanti a noi la Madre di Gesù. Maria è l'esempio di come il credente attende il Signore, di come si può vivere il Natale. Per Lei il Natale non era quello facile e ormai scontato degli addobbi e delle vetrine a festa. Si trattava di un Natale vero, ossia della nascita di un bambino che le stava cambiando tutta la vita e tutte le decisioni che pure aveva già preso. Maria viene ad annunciarci questo Natale; viene ad annunciarlo in mezzo a noi con lo stesso amore con cui andò ad annunciarlo all'anziana cugina Elisabetta. Ella viene in mezzo a noi. Non parte più da Nazareth ma dal cielo e scende giù accanto ad ognuno di noi. Sì, attraversa i cieli per starci vicino.
E' venuta qui. Ma le resta da fare ancora un altro pezzo di strada, che è forse più arduo e più difficile di quello di traversare i cieli. E' quel tratto di cammino che lei deve compiere per raggiungere e toccare il nostro cuore. Le lasceremo superare le montagne di indifferenza e di egoismo che si ergono dentro di noi? Le permetteremo di oltrepassare le voragini di odio e di inimicizia che abbiamo scavato nel nostro animo? Le lasceremo aprirsi un varco tra le erbe velenose e amare che rendono insensibili i nostri cuori, cattivi i nostri pensieri e violenti i comportamenti? E riusciranno a sentire il suo saluto? Riusciranno ad ascoltare il Vangelo che ci viene annunciato? Beati noi se, visitati da Maria, ascoltiamo il suo saluto. Accadrà a noi quello che accadde ad Elisabetta. Scrive l'evangelista: "Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino le sussultò nel grembo. Elisabetta fu piena di Spirito Santo ed esclamò a gran voce: Benedetta tu fra le donne, e benedetto il frutto del tuo grembo!" Queste parole le ripetiamo ogni volta che recitiamo l'Ave Maria. Ma il loro vero senso glielo diamo oggi, ossia se il saluto di Maria ci tocca il cuore, se ci lasciamo commuovere da lei e dalla sua tenerezza nell'attesa di Gesù.
Lei è davvero "benedetta" tra tutti noi. Benedetta perché "ha creduto nell'adempimento delle parole del Signore". Questa prima beatitudine che leggiamo nel Vangelo è la ragione della nostra fede, il motivo della nostra gioia, anche se talora può costarci sacrificio. Così Maria si è preparata al Natale: accogliendo anzitutto la parola dell'angelo. Potremmo dire: ascoltando il Vangelo. Da questo ascolto è iniziata per lei una vita nuova. Ha deciso di seguire quello che l'angelo le ha detto, anche a costo di essere mal capita, anzi criticata, persino rigettata da Giuseppe. E, saputo dall'angelo di sua cugina Elisabetta era incinta, ha lasciato Nazareth per andare ad aiutarla, affrontando un lungo viaggio. Non è rimasta a preparare casa il Natale, è andata da un'anziana donna bisognosa d'aiuto. Ecco come fare spazio al Signore: una ragazza che visita un'anziana. Il cuore si allarga se smettiamo di pensare sempre a noi stessi; i pensieri diventano più teneri se ci avviciniamo a chi ha bisogno di aiuto; i comportamenti diventano più dolci se stiamo vicino ai poveri, ai deboli, ai malati, e impariamo ad amarli. La carità è una grande scuola di vita. Così Maria si è preparata al Natale: con il Vangelo ascoltato, custodito e messo in pratica. Oggi viene tra noi per coinvolgerci nell'attesa del suo Figlio. Facciamo in modo che questo sia anche il nostro Natale!

giovedì 10 dicembre 2009

13 Dicembre 2009 - III Domenica di Avvento

"Rallegratevi nel Signore, sempre; ve lo ripeto ancora, rallegratevi".
È la domenica chiamata "gaudete", la domenica della gioia. Paolo era in carcere a Roma e forse aveva già di fronte la prospettiva della sentenza capitale. Eppure esorta a gioire perché, aggiunge, "Il Signore e vicino". Il motivo della gioia sta proprio nella prossima venuta del Signore. Abbiamo ascoltato anche il profeta Sofonia che dice a Gerusalemme di rallegrarsi: "Gioisci Israele e rallegrati con tutto il cuore, figlia di Gerusalemme!".
Perché? "Il Signore - dice il profeta - ha revocato la tua condanna, ha disperso il tuo nemico... Il Signore tuo Dio in mezzo a te è un salvatore potente... Ti rinnoverà con il suo amore". Si parla della liberazione di Gerusalemme: scompare la condanna, si toglie l'assedio alla città, il nemico è disperso e la città può finalmente tornare a vivere. Il Signore l'ha salvata. La Parola di Dio invita a non lasciarci sopraffare dall'angoscia. Certo, ne abbiamo tutti i motivi guardando il nostro mondo, vedendo le numerose guerre e le innumerevoli ingiustizie. Come non essere tristi e angosciati di fronte a tanta violenza? Eppure siamo esortati a gioire. Non è questione di ottimismo: è l'avvicinarsi del Natale il motivo della nostra gioia. Non siamo più soli, il Signore viene accanto a noi. La liturgia interrompe la stessa severità del tempo di Avvento come a farci pregustare il Natale. Tutto nella liturgia si fa invito pressante perché ognuno si disponga ad accogliere il Signore; perché ognuno si sollevi dal sonno dell'egoismo e dall'ubriacatura dell'orgoglio per andare incontro a Gesù.
Restano pochi giorni al Natale e il nostro cuore è ancora distratto e impreparato. Luca scrive che tutto il popolo era nell'attesa del Messia, di colui che avrebbe cambiato la vita, che avrebbe liberato gli uomini e le donne dalle schiavitù di questo mondo. Per questo molti lasciavano le loro città per recarsi nel deserto ed incontrare Giovanni Battista. Anche noi abbiamo lasciato le nostre case per partecipare alla santa liturgia. E Giovanni Battista, in certo modo, continua a parlare con lo
stesso vigore, con la stessa forza di cambiamento che aveva nel deserto accanto al fiume Giordano. Assieme a quella folla di uomini e di donne, assieme a quei soldati e a quei pubblicani, ci siamo anche noi e, con loro, chiediamo: "Che cosa dobbiamo fare?". È la nostra domanda di oggi: "che cosa dobbiamo fare per accogliere il Signore che viene?". Giovanni risponde con semplicità e chiarezza: "Chi ha due tuniche, ne dia una a chi non ne ha; e chi ha da mangiare, faccia altrettanto". È la carità la prima risposta. E poi, rivolto ai pubblicani e ai soldati, dice di non esigere nulla di più di quanto è stato fissato, di non maltrattare e di non estorcere niente a nessuno.
Chiede, insomma, di essere giusti e rispettosi gli uni degli altri.
Il predicatore del deserto ci ricorda che l'attesa del Messia si compie tra carità e giustizia, tra misericordia e rispetto, tra tenerezza e compassione. Non dice forse Paolo ai Filippesi: "La vostra affabilità sia nota a tutti gli uomini"? Il Signore verrà, scenderà nel cuore di ognuno e ci battezzerà in Spirito Santo e fuoco. Nessuno resterà con quello che possiede. nessuno rimarrà così com'è. Lo Spirito Santo allargherà le pareti dei nostri cuori e il fuoco del suo amore ci guiderà.

giovedì 3 dicembre 2009

6 Dicembre 2009 - II Domenica di Avvento

Ogni uomo vedrà la salvezza di Dio!
"Il cristianesimo non è una dottrina, non è una teoria di ciò che è stato e di ciò che sarà nell'anima umana, ma è la descrizione di un evento reale nella vita dell'uomo": così scriveva il filosofo austriaco Ludwig Wittgenstein. L'intuizione è felicissima e coglie il cuore (l'essenza) del cristianesimo. Il cristianesimo, certo, ha una sua visione del mondo; offre una dottrina su Dio, sull'uomo, sulla vita e la storia; propone anche una morale, un culto e dei riti; ma è questo e tutto questo a partire da un evento, anzi da una persona, il Cristo storicamente esistito, nato, crocifisso e risorto. Scriveva Romano Guardini: "Con Gesù Cristo l'esistenza umana entra in una nuova situazione, il mondo intero viene afferrato dal fervore divampato in Palestina".
Da domenica scorsa abbiamo ripreso la lettura del vangelo di Luca, l'evangelista più attento, tra i quattro, alla imprescindibile e fondante dimensione storica del cristianesimo. È l'unico infatti ad affrescare, all'inizio dell'attività pubblica di Gesù, un grande fondale in cui è ambientata la vicenda di Cristo.
Siamo verso l'anno 28-29 d.C.: a Roma, da 15 anni, è imperatore Tiberio Cesare; Pilato, in suo nome, è prefetto-governatore della Giudea. L'evangelista, in rapida carrellata, parte da Roma, per arrivare alla Palestina e finire a Gerusalemme, dove sono sommi sacerdoti Caifa e il suocero Anna. Come si può notare anche in altri passi della sua opera, s. Luca prende come estremi del vasto scenario Roma e Gerusalemme: il primo volume inizia con una sorta di "grand'angolo" su Gerusalemme (con l'annuncio a Zaccaria: 1,1-25) e termina con Gesù che a Gerusalemme, sul monte degli Ulivi, benedice i suoi prima di salire al cielo (24,50s). Il volume n. 2 dell'opera lucana - gli Atti degli apostoli - ricomincia da Gerusalemme con un secondo racconto dell'ascensione di Gesù al cielo (cfr. At 1,6-11) e termina a Roma con l'arrivo dell'apostolo Paolo.
La Palestina - come Luca la rappresenta con fedele adesione alla storia - appare come un oscuro brano di mondo, divisa in piccole regioni e governata da piccoli potenti: sembrano loro i signori della storia, e invece - ci vuol dire l'evangelista - la storia è dominata dalla parola di Dio, che scende (lett. avvenne: v. 2) su Giovanni: questo è l'avvenimento che fa la differenza e determina un salto di qualità con il passato.
Anche Luca, come Matteo e Marco, riporta la citazione del profeta Isaia: Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri! (40,3-5), ma solo Luca la prolunga fino alle parole: e ogni uomo vedrà la salvezza di Dio (v. 6). Per dire "salvezza", l'evangelista non usa il termine greco abituale - soterìa - ma un suo sinonimo più raro, sotèrion, che egli poi riprenderà intenzionalmente al termine del suo secondo volume, gli Atti, quando descrive Paolo prigioniero a Roma e riporta le sue ultime parole, quasi come un testamento: "Sia noto a voi - Paolo si rivolge per l'ultima volta ai suoi fratelli ebrei che si ostinano a non accogliere il vangelo di Gesù Cristo - che questa salvezza (sotèrion) viene rivolta ai pagani ed essi l'ascolteranno" (At 28,28). L'evangelista vuol dimostrare che la salvezza preparata da Giovanni e realizzata da Gesù, è destinata a tutti i popoli. Una volta che questo messaggio sarà arrivato a Roma, Luca può chiudere il suo secondo grande racconto, quello degli Atti degli apostoli: la sua "tesi" risulta ampiamente dimostrata.
In questa seconda tappa dell'Avvento, la Chiesa ci mette alla scuola di Giovanni il Battista e ci fa riascoltare il suo grido ruvido e sferzante: "Convertitevi!". Noi ci diciamo credenti e praticanti: e perché mai dovremmo convertirci? La conversione riguarda chi da cattivo diventa buono, da peccatore si fa giusto, ma noi ci sentiamo così puliti, così devoti: del resto non siamo già cristiani?
Non ci rendiamo conto che è proprio da questa presunzione che dobbiamo convertirci: dalla supposizione illusoria e infondata che, tutto sommato, siamo già a posto, che va bene così, e quindi non abbiamo bisogno di alcuna conversione.
Ma proviamo a domandarci: è proprio vero che nelle varie situazioni e circostanze della vita condividiamo sempre gli stessi sentimenti di Gesù Cristo? per esempio, quando subiamo qualche torto o qualche affronto, riusciamo a perdonare di cuore chi ci ha fatto soffrire? Quando ci troviamo in una prova o sotto l'assillo di una grave preoccupazione, è proprio vero che rimettiamo la nostra causa a Dio, nella fiducia che non dobbiamo angustiarci per nulla? Quando siamo chiamati a condividere gioie o dolori, sappiamo sinceramente piangere con chi piange e gioire con chi gioisce? Quando dobbiamo mostrare coraggiosamente la nostra fede, ci capita forse di vergognarci del vangelo? E stiamo imparando a vivere il nostro quotidiano sempre e in ogni situazione, felice o avversa, nella lode al Signore e nel ringraziamento sincero e convinto che tutto è segno, grazia e dono?
È soprattutto nel campo della costruzione della civiltà dell'amore che dobbiamo vigilare. Questo nostro tempo, che si svolge tra il primo e l'ultimo avvento di Cristo, è già carico di eternità. Cammina verso un avvenire: ma quello stesso avvenire lo porta già in seno, come una madre incinta porta in grembo il bambino che dovrà nascere. La storia è il campo di azione in cui l'uomo è chiamato a collaborare con Dio. Il Battista con la sua predicazione e il ministero di battezzatore, ha aperto le porte dell'avvenire. Così ogni uomo è autore di un frammento di storia il cui significato positivo o negativo si ripercuote su tutta la famiglia umana. "Ogni istante del tempo - scriveva s. Francesco di Sales - viene a te con un dovere da compiere e una grazia per compierlo bene; e ritorna all'eternità, per essere per sempre ciò che tu ne avrai fatto". Questo pone la nostra fragile libertà in una situazione drammatica, perché ogni frammento di tempo ha un peso decisivo. Ne siamo consapevoli? E non abbiamo davvero niente da autocontestarci?
"Ogni uomo vedrà la salvezza di Dio": e chi appartiene ad un'altra religione e senza sua colpa passa tutta la vita senza mai incontrare esplicitamente Gesù Cristo? La parola di Dio ci rassicura: Dio "vuole che tutti gli uomini siano salvati" per mezzo di Gesù Cristo, unico mediatore (1Tm 2,4-6) e per vie solo a lui conosciute porta gli uomini che senza loro colpa ignorano il vangelo alla salvezza. Ma ciò non toglie che noi cristiani abbiamo il dovere di far conoscere Gesù Cristo a quanti ancora non lo conoscono. "Guai a me se non annunciassi il vangelo", gridava s. Paolo. Se a noi il Signore Gesù ha cambiato la vita, come non sentire la passione di farlo conoscere a quanti incontriamo al lavoro, a scuola, nel condominio, in ospedale?
Se ci guardiamo intorno, certamente troviamo persone interessate e disponibili a cominciare o a ricominciare un cammino di fede, se incontrassero dei cristiani innamorati di Gesù Cristo: non dovremmo e non potremmo essere noi quei cristiani?
Ma dobbiamo deciderci una buona volta: dobbiamo spalare le montagne dell'orgoglio e dell'invidia, riempire le voragini scavate dall'indifferenza e dall'indolenza, raddrizzare i sentieri di tanti nostri compromessi e peripezie a zig-zag. Il cantiere è aperto, i lavori sono in corso...

(Fonte: Il pane della Domenica. Meditazioni sui vangeli festivi", Ave, Roma 2009)

martedì 24 novembre 2009

29 Novembre 2009 - I Domenica di Avvento

La Parola di Dio ci dice: Vegliate: state svegli, state attenti, vigilate!
Cosa significa essere svegli? Pensiamo all'autista di un camion o di una macchina: un autista deve essere sempre sveglio per non incorrere in pericoli che sarebbero gravissimi.
Bene: anche noi dobbiano essere così attenti, così svegli, così vigilanti, perché viene il Signore.
Noi aspettiamo questa venuta. E poiché c'è sempre un'attesa e una preparazione prima di un incontro finale e decisivo, aspettare l'incontro definitivo con il Signore non deve essere causa di pensieri tristi, ma deve essere un pensiero di speranza, di gioia.
È bello pensare che al termine della nostra vita il Signore ci aspetta a braccia aperte. Noi sappiamo dove stiamo andando: non sappiamo quando, ma sappiamo dove: nella braccia del Padre nostro che è nei cieli. Questo ci commuove. Noi sappiamo che la nostra vita, a volte travagliata, a volte con prove e sofferenze, questa nostra vita avrà una conclusione felice. Sappiamo che il Signore ci attende per darci la vita che non avrà più fine, nella pace e nella gioia, nella pienezza del suo amore. Quando si sa perché si vive, vale la pena vivere e vivere nel modo migliore. La fede dà questo senso pieno all'esistenza, altrimenti saremmo tentati tante volte di disperazione. Questa attesa del Signore ringiovanisce la nostra vita, ci fa sentire come bambini che hanno tutto il loro futuro davanti. Per noi, anche a 80 anni e più, il futuro è avanti, la nostra piena realizzazione deve ancora arrivare. E se fisicamente sono calate le forze, ci è dato il tempo della vigilanza, della preghiera, della preparazione, dell'amore, in attesa dell'Incontro e dell'abbraccio con il Signore.
"State attenti, vegliate, perché non sapete quando sarà il momento preciso". Non serve consolarsi dicendo che nessuno sa quando sarà la fine del mondo. C'è una venuta, un ritorno di Cristo, che ha luogo nella vita di ogni persona, nel suo passaggio all'eternità. Per migliaia e migliaia di persone la fine del mondo è oggi. Oggi è l'incontro con il Signore. Oggi occorre essere pronti.
Ma Gesù è già presente tra di noi, nella sua comunità che è la Chiesa, nella Parola di Dio che leggiamo e accogliamo; è presente nell'Eucaristia. Lo accogliamo nelle nostre mani e nel nostro cuore: a volte lo prendiamo così veloci che quasi non ci accorgiamo che è il Signore.
Siamo invitati ad essere attenti e svegli perché Dio arriverà. Nello stesso tempo dobbiamo essere attenti perché Gesù è già presente in mezzo a noi: nella Parola, nei sacramenti, nelle persone, nei poveri.
Si tratta di essere attenti davanti alla presenza di Dio, di riconoscerlo. E tante volte Cristo Gesù si rende presente là dove noi non pensiamo.
Iniziamo l'Avvento. Imploriamo la venuta di Gesù, perché ci renda partecipi della grazia e della salvezza.
Come vivere questa implorazione e questa attesa nel mondo concreto di oggi? Ci aiuta in questa preghiera il testo del profeta Isaia che è un ripensare all'amore e alla paternità di Dio, che è un prendere coscienza dei nostri peccati e dei peccati dell'umanità, per gridare al Signore l'invocazione più profonda, più sincera, più accorata: Vieni a salvarci o Signore! Ne fa di peccati l'umanità di oggi? Basta guardarsi attorno o seguire i telegiornali! Ciascuno di noi ne fa di peccati? Basta essere sinceri. Non è buona cosa illudersi, pensare che non abbiamo peccati o sentirci abbastanza a posto. Ne è segno la confessione che facciamo di rado o con un esame di coscienza su poche cose, quasi con un confronto sulla mentalità mondana, anziché su tutti i dieci comandamenti e sul comandamento dell'amore: "Amerai Dio con tutto il cuore e il prossimo come te stesso". Ne è segno a volte la superficialità con cui celebriamo l'Eucaristia o facciamo la comunione.
E' importante prendere coscienza di tutti i peccati nostri e dell'umanità, dei nostri peccati come umanità, non per abbatterci, ma per rivolgerci a chi ci può salvare, a chi ci può dare la forza di fare tutta la nostra parte, nel lottare contro il male e nell'intensificare il bene.
Se chiediamo aiuto per finta, è chiaro che non siamo convinti. Ma se siamo coscienti e sinceri, siamo come quelli che in certe situazioni stanno per essere sommersi dalle acque delle alluvioni e rischiano di morire. Questi non invocavano "venite a salvarci" per finta, ma con tutto se stessi, finché qualcuno con qualunque mezzo, anche l'elicottero, non arriva a portarli in salvo.
Il profeta dice: "Tu Signore sei nostro Padre, da sempre ti chiami nostro Salvatore. Perché ci lasci vagare lontano dalle tue vie e lasci indurire il nostro cuore? Ritorna per amore dei tuoi servi. Se tu squarciassi i cieli e scendessi"!. Gesù lo ha fatto e lo fa: ha squarciato i cieli.
"Tu hai fato le cose più belle e più grandi, ma noi abbiamo peccato contro di te e siamo stati ribelli e ora ne sperimentiamo tutto il castigo e tutto il male che ci siamo dati da noi stessi.
Ma tu Signore sei nostro Padre, noi siamo argilla e tu Colui che dà forma, tutti noi siamo opera delle tue mani".
Allora "Fa splendere il tuo volto e salvaci, Signore. Mostraci la tua misericordia e donaci la tua salvezza".
C'è questa coscienza dei nostri peccati e dei peccati del mondo? C'è il grido sincero e accorato perché il Signore ci venga a salvare? Siamo pronti a fare la nostra parte in questa opera di salvezza? Abbiamo voglia di vivere così il Natale invocando la presenza di Gesù Cristo Figlio di Dio, Salvatore di questa nostra umanità, in tutte le sue disperazioni e malvagità?
Così possiamo credere e accogliere l'incarnazione di Gesù nella nostra storia attuale e in questa nostra storia vogliamo la presenza di Dio.


giovedì 19 novembre 2009

22 Novembre 2009 - XXXIV Domenica del Tempo Ordinario - Festa di Cristo Re

Con questa domenica si chiude l'anno liturgico. Tra sette giorni la Liturgia della Chiesa inviterà i credenti ad iniziare un nuovo tempo di preghiera e di memorie sante. Non si tratta semplicemente di un ciclo temporale che si aggiunge ad altri calendari (scolastico, solare, giudiziario, amministrativo, e così via).
Il tempo liturgico è altro da quello ordinario o da quelli stabiliti dagli uomini. E', infatti, un tempo nel quale non siamo noi, o le vicende di questo mondo, a decidere le scadenze e a segnare i ritmi e gli obiettivi, come sempre accade.
Nel tempo liturgico siamo noi ad essere guidati: veniamo, infatti, come sottratti alla normalità delle nostre abitudini e delle nostre preoccupazioni per essere inseriti in un altro ritmo temporale: quello di Gesù. Sono le pagine del Vangelo a scandire il tempo dell'anno liturgico perché i credenti, strappati dal tempo dei propri affari, siano trasportati dentro la storia stessa di Gesù, divenendo così suoi contemporanei.
Da Natale a Pasqua sino a Pentecoste siamo chiamati a stare accanto a Gesù che nasce, che cresce, che predica e che guarisce percorrendo le strade e le piazze della sua terra, che soffre e che muore sulla croce, che però risorge, che ascende al cielo e che manda lo Spirito santo sulla Chiesa inviandola sino agli estremi confini della terra. L'anno liturgico, insomma, è Cristo stesso ("annus est Christus", diceva l'antica saggezza cristiana) che ci viene donato.
Quest'ultima domenica dell'anno liturgico fa celebrare ai credenti la festa di Gesù Cristo, Re dell'universo. E' la festa della Sua signoria sul mondo, sul creato, sugli uomini, sulla storia. E' una domenica che viene per così dire a coronare tutta la vicenda di Gesù e della stessa storia umana. E' la festa in cui contempliamo Cristo nella pienezza della sua signoria sul creato. Ma il paradosso di questa festa sta nel fatto che mentre vediamo Cristo, come Re dell'universo, il Vangelo ce lo presenta umiliato, ridicolizzato, sconfitto.
Questo stridente contrasto porta a chiederci: ma che re è il nostro? Che regalità è la sua? E che regno è quello su cui governa? E lo scetticismo di Pilato di fronte all'affermazione di coloro che gielo avevano condotto perché lo condannasse. Infatti, chiede incuriosito: "Tu sei il re dei giudei?" L'aspetto arrendevole e modesto di Gesù, era ben lontano da quello di un sobillatore capace di mettersi alla testa di una banda armata. Eppure, Gesù non nega l'affermazione fatta da Pilato: "Tu lo dici, io sono re!" Ma, per chiarire il senso di questa affermazione, aggiunge immediatamente: "Il mio regno non è di questo mondo". E ne porta una prova lampante: "Se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai giudei".
E' tutto vero, anche se viene da pensare che quei pochi amici che pure aveva, non solo non lo hanno difeso, al contrario lo hanno abbandonato dandosi alla fuga; solo uno ha tentato la difesa con un colpo di spada, ma si è attirato una dura reprimenda da parte di Gesù. Il Maestro, il pastore resta solo. Ma che re è? Certo, non lo è alla maniera di questo mondo. E lo dice con chiarezza: "Il mio regno non è di questo mondo". In quattro righe questa affermazione è ripetuta per ben due volte: "Il mio regno non è di quaggiù".
La sua regalità non trae origine dal mondo, non poggia sul consenso della gente (fosse anche da un ampio consenso democratico) e non dipende dalle sue qualità; essa viene dall'alto, da Dio. I profeti avevano preannunciato l'avvento di questo nuovo re. La profezia di Daniele riportata nella prima lettura della Liturgia parla infatti di "uno, simile a figlio d'uomo" che appare sulle nubi del cielo e che riceve dal "vegliardo" il "potere, la gloria e il regno". E la visione continua con una scena grandiosa: "Tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano; il suo potere è un potere eterno, che non tramonta mai, e il suo regno è tale che non sarà mai distrutto".
La visione del profeta Daniele si consuma nella sua pienezza nel regno di cui parla Gesù, un regno che viene dal cielo e per questo eterno e indistruttibile. Ma non è lontano ed estraneo alla terra. Al contrario, pur non essendo del mondo il potere di Cristo si esercita nella terra e nella storia degli uomini. E Pilato a suo modo lo capisce, tanto che conclude: "Dunque, tu sei re?" E come dire che l'accusa rivolta a Gesù è giusta. Ed in effetti Gesù afferma che è venuto nel mondo proprio per "rendere testimonianza alla verità". E aggiunge: "Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce!".
La verità di cui Gesù parla non sono principi logici astratti o idee belle da contemplare. La verità è una storia, ossia la storia dell'amore di Dio per gli uomini. Egli, come scrive Giovanni nel suo Vangelo: "ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna. Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui" (Gv 3, 16-17).
Gesù è il volto concreto dell'amore di Dio, il volto concreto della Verità, il testimone dell'inimmaginabile "passione" di Dio per gli uomini. E' vera regalità quella di Gesù, anche se agli occhi del mondo è davvero strana. Egli regna dal pretorio, ma stando dalla parte dello sconfitto. Egli si erge a maestro autorevole, ma stando dalla parte degli imputati. Il suo potere è la forza dell'amore, è la forza della misericordia, della compassione e della mitezza. Così Egli governa i cuori degli uomini e la loro storia.
L'amore appare debole agli occhi degli uomini, ma è forte agli occhi di Dio. E' una forza reale. Del resto Gesù lo ha detto fin dall'inizio della sua missione sul monte delle Beatitudini: "Beati i miti, perché erediteranno la terra" (Mt 5, 5). La terra non è dei violenti, ma dei miti, dei misericordiosi. La vera grandezza, la vera regalità, il vero potere, sta nel lasciarsi conquistare dalla "verità" di Dio, ossia dal suo sconfinato amore che giunge sino a dare la vita per gli uomini. Di questo amore ha bisogno il mondo. Perché l'amore sconfigge ogni male, compresa la morte.
In questa domenica che chiude l'anno liturgico, la Chiesa ci fa vedere la conclusione della storia: Gesù trionfa sul male e instaura il regno dell'amore. Giovanni, come a descrivere la liturgia celeste di questa domenica, ci apre uno spiraglio sul cielo: "Ecco, viene sulle nubi del cielo e ognuno lo vedrà, anche quelli che lo trafissero e tutte le nazioni della terra si batteranno per lui il petto".

giovedì 12 novembre 2009

15 Novembre 2009 - XXXIII Domenica del Tempo Ordinario

Incamminati verso la conclusione dell’Anno liturgico, siamo invitati dalla Parola di Dio a prendere atto di due realtà inseparabili tra di loro e indispensabili per noi: la fedeltà di Dio agli uomini e la fedeltà degli uomini a Dio. Guardando al momento finale del nostro cammino di fede e di speranza, la Liturgia odierna ci ricorda che Dio non abbandona alla morte i suoi figli, perché la vita eterna a noi promessa è il segno pieno e perfetto della carità di Dio per noi.
Gli avvenimenti ultimi della storia dell’uomo e del mondo intero sono legati al mistero di Dio e del suo Cristo: il Signore è il primo e l’ultimo, il principio e la fine. Le realtà celesti fanno irruzione nella storia fin dal primo momento della rivelazione e sempre sono presenti.
Sarà la venuta di Cristo a porre fine alle cose corruttibili e a deporre il germe di immortalità. Questa prenderà forma piena e definitiva con il ritorno glorioso del Signore alla fine del mondo. Nell’attesa, la Comunità cristiana, lungi dall’allentare l’impegno nelle realtà umane (lavoro, politica, società e famiglia), si immerge in esse al fine di elevarle e di trasformarle in “cieli nuovi” e “terra nuova”.
Con la risurrezione di Gesù, il mondo e la storia sono entrati nella loro fase finale, nella pienezza dei tempi. Le promesse di Dio si sono compiute e i cicli e la terra nuovi sono già stati inaugurati. In Cristo, Dio ha già detto la sua parola definitiva; in noi è già stato deposto lo Spirito che è il seme delle realtà future.
Comprendere ciò significa comprendere che il cristiano è l'uomo del futuro. Ciò significa non tanto che il cristiano è l'uomo che “aspetta il futuro” che gli sarà dato dopo la morte; ma piuttosto che è l'uomo che costruisce oggi il suo futuro. In un certo senso, dopo Cristo, tutto è fatto: non attendiamo più nulla di sostanzialmente nuovo. Eppure è altrettanto vero che tutto rimane da fare. Si tratta di far “fare pasqua” al mondo, di “far passare” tutte le realtà della creazione nella sfera di Cristo, il quale alla fine “ricapitolerà” in sé tutte le cose. È questa la grande opera che riempie il tempo della Chiesa; ed è lungi dall'essere compiuta. Oltre che un compito personale e sociale, il cristiano deve svolgere sulla terra anche un compito che potremmo chiamare cosmico. Come il peccato di Adamo non ha avuto solo conseguenze per l'uomo, ma ha avuto un contraccolpo anche nel cosmo e nella materia, che è diventata opaca (nasconde Dio invece di manifestarlo), pesante (trascina verso il basso invece di elevare) e ribelle all'uomo («con il sudore del tuo volto mangerai...»), così la redenzione di Cristo ha toccato tutto l'universo. Egli ha salvato tutto l'uomo, anche il corpo destinato alla risurrezione e alla gloria insieme allo spirito. Solidale con il primo Adamo nella caduta, la creazione è chiamata a partecipare anche alla vittoria del secondo Adamo. San Paolo vede la natura tesa verso la redenzione e sente i suoi gemiti, simili a quelli di una partoriente (Rm 8,12-22). Tutte le cose tendono a Cristo che «ricapitolerà in sé il creato» (Ef 1,9). Salvatore dell'uomo, Cristo lo è anche dell'universo. In questo sforzo, in questa tensione il cristiano è chiamato a svolgere un ruolo insostituibile. È il cristiano che con il suo lavoro, con il sacrificio e la preghiera “umanizzerà” questo mondo e preparerà quella trasformazione dell'universo nei «cieli nuovi» e nella «nuova terra» che inaugurerà il definitivo Regno di Dio. In una parola «ciò che l'anima è nel corpo, questo devono essere i cristiani nel mondo» (Lettera a Diogneto, 6).
II cristiano è un pellegrino su questa terra. Non è un cittadino, ma un esule in marcia verso la vera Patria. Egli considera la terra non come una dimora permanente, ma come la tappa di un viaggio. Per questo non vi costruisce una casa di solida pietra, ma solo una tenda, come il viandante che sosta nel deserto. Una interpretazione unilaterale ed ingiusta delle realtà umane (favorita, peraltro, da certa predicazione altrettanto unilaterale e miope) ha fatto sì che molti uomini del nostro tempo guardino con diffidenza alla religione cristiana, quasi fosse nemica del mondo, della vita, del progresso, dell'impegno umano; una religione di evasione, di disimpegno, di rinuncia passiva e vile; l'oppio che addormenta l'uomo e lo distoglie da ogni interesse verso la città terrena, facendogli balenare la promessa di un aldilà felice e illusorio. Diverso è, invece, il compito del cristiano nel mondo: «Il cristiano non è un evaso, al contrario un impegnato come persona nell’incremento, nella riuscita, nella salvezza del mondo. Sa che l'universo intero ha un solo principio di consistenza, di movimento, di fine: Cristo, perché “per mezzo di lui sono state fatte tutte le cose e in lui trovano la loro consistenza” (Col 1,16-18). Cristo è in tal modo il grande “Adunatore” che lavora nell'intimo delle anime e delle cose a tutto santificare, a tutto unire, a tutto consacrare alla gloria di Dio. Il cristiano si impegna volontariamente a questa gigantesca impresa, al suo posto, a suo tempo, con le proprie risorse. Non lavora da solo: collabora... Lavora con coraggio, perché la fatica è dura; con fede, perché il compito è misterioso e senza proporzione con le forze umane; lavora a far crescere l'universo e a far spuntare la nuova creazione attraverso il travaglio caotico e doloroso, pieno di speranza e di affanni, travaglio che non è, però, quello di un'agonia, ma di un parto» (J. Mouroux).
Dobbiamo, quindi, immergerci con fiducia e con impegno nel fluire del tempo, sapendo di essere costruttori della storia della salvezza, insieme con Cristo. Possiamo comprendere la storia, il mondo e noi stessi solo in intima relazione con Lui. Il Concilio Vaticano II riporta questa stupenda affermazione: «Solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo» (Gaudium et Spes, 22). È come dire che il temporaneo riceve luce dall’eterno, il finito dall’infinito. La nostra attività di cristiani inizia con la conoscenza di Cristo e continua nell’attesa della sua venuta. L’incontro con Lui è troppo importante perché si possa a cuor leggero vivere spiritualmente disattenti.
Se Domenica scorsa eravamo invitati a misurare la nostra relazione con i beni, oggi la Liturgia ci induce a confrontarci con la storia. E lo fa muovendo il nostro sguardo in direzione del compimento. Non per impaurirci, ma per consolarci. Non per farci almanaccare su date e indizi premonitori, ma per farci vivere bene il presente: con la venuta di Cristo è già eternità, anche se il gioco del tempo continua, con regole nuove.
C’è una consolante certezza che ci viene comunicata oggi: il Signore, Crocifisso e Risorto, ritornerà nella gloria.