C'è uno che grida a squarciagola che c'è una via da preparare perché Gesù viene fra noi:
"Preparate la via del signore!". Altro che preparare l'albero natalizio, regali e cene esuberanti... Si tratta di una cosa ben più importante e impegnativa. Dio ci prende sul serio. Di certo lui passerà, sappiamo con certezza che lui viene, a noi il compito di preparargli la strada.
A volte il compito non è facile, come non lo fu per Giovanni Battista!
Lo scenario che ci presenta questo brano è, infatti, quello di un interrogatorio in cui ci sono da una parte i protagonisti, Giovanni e Gesù, ossia il testimone della Parola e la Parola e dall'altra gli antagonisti, i giudei, sacerdoti e leviti, che si presentano come gli avversari della Parola. Qui le possibilità sono due: chi sta con i protagonisti sceglie la verità, la libertà, la giustizia e la vita e chi sta con gli antagonisti sceglie la menzogna, la schiavitù, l'ingiustizia e la morte, per sé e per gli altri.
Amico, tu da che parte vuoi stare?
Chi sceglie di testimoniare la Parola, ossia preparare la via di Gesù di Nazareth, ha delle caratteristiche ben precise: non si accontenta del suo cercare, ma trova ciò che desidera e lo comunica agli altri con gioia; ha uno spirito libero, in contraddizione con la mentalità dominante.
Anche gli avversari sono testimoni. Certo! Testimoniano violenza, schiavitù, incoerenze.
Tra l'uno e l'altro non c'è una via di mezzo perché o si testimonia la verità o la menzogna, o si è luce o si è tenebre.
Ma cosa vuol dire essere testimone? Il termine greco significa "martire". Il testimone è uno che ha visto con i suoi occhi, udito con le sue orecchie e toccato con le sue mani e quindi racconta. Perciò la testimonianza è una esperienza di vita che si trasmette.
Ora, questo brano del Vangelo ci dice che il testimone non e' la parola, ma la voce che lo trasmette. Hai mai provato a dire una parola senza voce? Gli esperti della comunicazione ci dicono che non c'è parola udibile senza voce e che non c'è voce sensata senza parola. Per dirla in breve il messaggio di questo Natale non sono io, non sei tu, ma Gesù che entra in azione. Per farlo ha però bisogno della tua voce.
Il testimone non è neanche la “luce”, ma colui che la porta; non è neanche la “strada”, ma colui che la prepara. Ebbene: come cristiani abbiamo il compito di preparare con serietà e radicalità quelle strade in cui Gesù passerà per raggiungere ogni uomo, anche quelle dell'amico che sembra distante anni luce dalla scoperta di un Dio vivo e vero che cammina anche con lui.
venerdì 12 dicembre 2008
venerdì 5 dicembre 2008
7 Dicembre 2008 - II Domenica di Avvento
"Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri" grida Giovanni.
Non sono certo le vie del Signore ad essere storte o non giuste ma piuttosto le nostre vie, i nostri cammini, i nostri pensieri, le nostre scelte.
A cominciare dalle piccole scelte quotidiane che determinano la nostra vita, le nostre abitudini, che condizionano il nostro cuore.
Il Signore non viene con potenza e gloria umana ma nella logica dell'incarnazione, della povertà, della sofferenza.
Una logica piccola e umile. Ma in questa logica che crea e sostiene il creato, Egli viene con potenza.
"Ecco il vostro Dio! Ecco, il Signore Dio viene con potenza, il suo braccio esercita il dominio."
Ma che potenza è mai questa, di un Dio che si fa fragile neonato?
Che potenza è mai questa di un Dio che desidera dipendere dal si di una fanciulla?
Come può il nostro cuore comprenderla?
È un mistero che ci sfugge e tuttavia è un mistero senza il quale la ragione non riesce cogliere il senso della vita, delle cose e dell'esistenza.
Senza questo mistero della potenza di Dio nascosta a Betlemme e nella logica dell'incarnazione, noi non riusciremo mai a capire nulla della nostra vita.
Ogni nostro ragionare è inutile, ogni scienza è vuota.
Noi, senza questa sapienza divina, siamo ciechi, figli di ciechi che guidano altri ciechi.
Ma se il nostro cuore si umilia e finalmente ascolta, se il nostro cuore si commuove radicalmente e si mette all'opera nella carità, a partire dal sì! di Maria e dalla grotta di Betlemme..., allora inizieremo a comprendere tutto ciò che fino ad ora ci era sfuggito.
Ogni valle della solitudine sarà colmata e ogni monte della superbia, abbassato.
Fuggiamo dunque ogni distrazione del mondo con tutte le nostre forze.
Non perdiamoci in altre cose, inutili ed effimere.
Fissiamo il nostro sguardo in questo mistero.
Facciamone l’oggetto del nostro respiro, della nostra vita.
Taccia tutto e si faccia silenzio dentro e fuori di noi, perché Dio viene, non tarderà e porterà con sé il premio di se stesso che tutto riempie di gioia incontenibile.
Operiamo nella penitenza e nella carità guardando incessantemente all'incarnazione.
Il mistero ci avvolga e ci sommerga, ci riempia e ci dia nutrimento.
Il tempo si è fatto breve. Ora è il tempo della conversione, ora è il tempo della sua venuta.
Ora è il tempo del silenzio e dell'obbedienza.
Ora il tempo dell'umiltà, il tempo della gioia...
Facciamo attenzione, perché come dice Isaia, "Ecco, faccio una cosa nuova: non ve ne accorgete?" (Is 43,19)
Non sono certo le vie del Signore ad essere storte o non giuste ma piuttosto le nostre vie, i nostri cammini, i nostri pensieri, le nostre scelte.
A cominciare dalle piccole scelte quotidiane che determinano la nostra vita, le nostre abitudini, che condizionano il nostro cuore.
Il Signore non viene con potenza e gloria umana ma nella logica dell'incarnazione, della povertà, della sofferenza.
Una logica piccola e umile. Ma in questa logica che crea e sostiene il creato, Egli viene con potenza.
"Ecco il vostro Dio! Ecco, il Signore Dio viene con potenza, il suo braccio esercita il dominio."
Ma che potenza è mai questa, di un Dio che si fa fragile neonato?
Che potenza è mai questa di un Dio che desidera dipendere dal si di una fanciulla?
Come può il nostro cuore comprenderla?
È un mistero che ci sfugge e tuttavia è un mistero senza il quale la ragione non riesce cogliere il senso della vita, delle cose e dell'esistenza.
Senza questo mistero della potenza di Dio nascosta a Betlemme e nella logica dell'incarnazione, noi non riusciremo mai a capire nulla della nostra vita.
Ogni nostro ragionare è inutile, ogni scienza è vuota.
Noi, senza questa sapienza divina, siamo ciechi, figli di ciechi che guidano altri ciechi.
Ma se il nostro cuore si umilia e finalmente ascolta, se il nostro cuore si commuove radicalmente e si mette all'opera nella carità, a partire dal sì! di Maria e dalla grotta di Betlemme..., allora inizieremo a comprendere tutto ciò che fino ad ora ci era sfuggito.
Ogni valle della solitudine sarà colmata e ogni monte della superbia, abbassato.
Fuggiamo dunque ogni distrazione del mondo con tutte le nostre forze.
Non perdiamoci in altre cose, inutili ed effimere.
Fissiamo il nostro sguardo in questo mistero.
Facciamone l’oggetto del nostro respiro, della nostra vita.
Taccia tutto e si faccia silenzio dentro e fuori di noi, perché Dio viene, non tarderà e porterà con sé il premio di se stesso che tutto riempie di gioia incontenibile.
Operiamo nella penitenza e nella carità guardando incessantemente all'incarnazione.
Il mistero ci avvolga e ci sommerga, ci riempia e ci dia nutrimento.
Il tempo si è fatto breve. Ora è il tempo della conversione, ora è il tempo della sua venuta.
Ora è il tempo del silenzio e dell'obbedienza.
Ora il tempo dell'umiltà, il tempo della gioia...
Facciamo attenzione, perché come dice Isaia, "Ecco, faccio una cosa nuova: non ve ne accorgete?" (Is 43,19)
venerdì 28 novembre 2008
30 Novembre 2008 - I Domenica di Avvento
Avvento, l’attesa che apre all’amore
Avvento è il tempo dell’attesa. Il profeta Isaia apre le pagine di questi giorni come un maestro dell’attesa e del desiderio.
Si attende non per una mancanza, ma per una pienezza, una sovrabbondanza. Come fa ogni donna incinta, quando l’attesa non è assenza, ma evento di completezza e di totalità, esperienza amorosa dell’essere uno e dell’essere due al tempo stesso. Il mio avvento è come di donna «in attesa», quando la segreta esultanza del corpo e del cuore deriva da qualcosa che urge e gonfia come un vento misterioso la vela della vita. Attendere con tutto me stesso significa desiderare, «attendere è amare» (Simone Weil). Così io attendo un Signore che già vive e ama in me; ogni persona attende un uomo e un Dio che già sono dentro di lei, ma che hanno sempre da nascere; l’umanità intera porta il Verbo, è gravida di un progetto, custodisce il sogno di tutta la potenzialità dell’umano, l’attesa di mille realizzazioni possibili, porta in sé l’uomo che verrà. Attendere, allora, equivale a vivere. Ma a vivere d’altri. Un doppio rischio incombe su di noi: il «cuore indurito», secondo Isaia ( perché lasci che si indurisca il nostro cuore?), e quella che Gesù chiama «una vita addormentata» ( vegliate, vigilate, state attenti... che non vi trovi addormentati). Qualcuno ha definito la durezza del cuore e la vita addormentata come «il furto dell’anima» nel nostro contesto culturale. Il furto della profondità, dell’attenzione, il vivere senza mistero, il furto del cuore tenero: è un tempo senza pietà, ci siamo negati al suo abbraccio e siamo avvizziti come foglie. Scrive un poeta: Io vivere vorrei / addormentato / entro il dolce / rumore della vita
(Sandro Penna). Io no, voglio vivere vigile a tutto ciò che sale dalla terra o scende, vegliando su tutti gli avventi del mondo: sulle cose che nascono, sulla notte che finisce, sui primi passi della luce, custodendo germogli, e la loro musica interiore.
Vivere attenti è il nome dell’avvento. Vivere attese e attenzioni, due parole che derivano dalla medesima radice: tendere verso qualcosa, il muoversi del corpo e del cuore verso Qualcuno che già muove verso di te. Vivere attenti: agli altri, ai loro silenzi, alle loro lacrime e alla profezia; in ascolto dei minimi movimenti che avvengono nella porzione di realtà in cui vivo, e dei grandi sommovimenti della storia. Attento alla Vita che urge, tante volte tradita, ma ogni volta rinata.
Avvento è il tempo dell’attesa. Il profeta Isaia apre le pagine di questi giorni come un maestro dell’attesa e del desiderio.
Si attende non per una mancanza, ma per una pienezza, una sovrabbondanza. Come fa ogni donna incinta, quando l’attesa non è assenza, ma evento di completezza e di totalità, esperienza amorosa dell’essere uno e dell’essere due al tempo stesso. Il mio avvento è come di donna «in attesa», quando la segreta esultanza del corpo e del cuore deriva da qualcosa che urge e gonfia come un vento misterioso la vela della vita. Attendere con tutto me stesso significa desiderare, «attendere è amare» (Simone Weil). Così io attendo un Signore che già vive e ama in me; ogni persona attende un uomo e un Dio che già sono dentro di lei, ma che hanno sempre da nascere; l’umanità intera porta il Verbo, è gravida di un progetto, custodisce il sogno di tutta la potenzialità dell’umano, l’attesa di mille realizzazioni possibili, porta in sé l’uomo che verrà. Attendere, allora, equivale a vivere. Ma a vivere d’altri. Un doppio rischio incombe su di noi: il «cuore indurito», secondo Isaia ( perché lasci che si indurisca il nostro cuore?), e quella che Gesù chiama «una vita addormentata» ( vegliate, vigilate, state attenti... che non vi trovi addormentati). Qualcuno ha definito la durezza del cuore e la vita addormentata come «il furto dell’anima» nel nostro contesto culturale. Il furto della profondità, dell’attenzione, il vivere senza mistero, il furto del cuore tenero: è un tempo senza pietà, ci siamo negati al suo abbraccio e siamo avvizziti come foglie. Scrive un poeta: Io vivere vorrei / addormentato / entro il dolce / rumore della vita
(Sandro Penna). Io no, voglio vivere vigile a tutto ciò che sale dalla terra o scende, vegliando su tutti gli avventi del mondo: sulle cose che nascono, sulla notte che finisce, sui primi passi della luce, custodendo germogli, e la loro musica interiore.
Vivere attenti è il nome dell’avvento. Vivere attese e attenzioni, due parole che derivano dalla medesima radice: tendere verso qualcosa, il muoversi del corpo e del cuore verso Qualcuno che già muove verso di te. Vivere attenti: agli altri, ai loro silenzi, alle loro lacrime e alla profezia; in ascolto dei minimi movimenti che avvengono nella porzione di realtà in cui vivo, e dei grandi sommovimenti della storia. Attento alla Vita che urge, tante volte tradita, ma ogni volta rinata.
giovedì 20 novembre 2008
23 Novembre 2008 - Festa di Cristo Re dell'universo
L’amore è il fondamento della regalità di Cristo; l’amore, che non è un attributo, una qualità aggiunta, ma la sostanza stessa di Dio e, perciò, del Figlio; un amore effusivo, in quanto dono incessante per il bene dell’altro; un dono infinito, libero, gratuito, che in Gesù si fa servizio.
La regalità di Cristo è amore che serve; è l’amore sollecito del pastore, nel quale Gesù stesso si identifica: quel pastore buono, che non ha pace, finché l’ultima pecorella non sia rientrata nell’ovile, al sicuro; quel pastore buono, del quale le pecore conoscono la voce e lo seguono, fiduciose nella sua guida, perché unico pastore che per il suo gregge dà la vita.
Il nostro Dio, è il Dio che salva, il Dio-Re che, nel Figlio Gesù, concretamente, è sceso in mezzo al suo gregge, per illuminarlo e risanarlo, per soccorrerlo nel faticoso e insidioso cammino della vita, per curarne le ferite ed ogni infermità.
Ora, questo Sovrano, questo Re d’Amore, cosa attende dai suoi?
Nient’altro che una risposta d’amore, la quale deve concretizzarsi nell’attenzione al prossimo; sarà, infatti, l’amore, il metro di giudizio alla fine della vita, alla fine del tempo e della Storia, quando, come ci ricorda il Vangelo di oggi, «il Figlio dell'uomo verrà nella sua gloria con tutti i suoi angeli, e si siederà sul trono della sua gloria. E saranno riunite davanti a lui tutte le genti, ed egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dai capri e porrà le pecore alla sua destra e i capri alla sinistra».
“Attraverso l’amore, scrive Tolstoj, si ha coscienza di tutto ciò che è bene, e colui, che ha conosciuto l’amore, non ha più paura di vivere né di morire…»; non ha paura di vivere perché la vita è l’occasione che Dio gli dà per beneficare il prossimo, e non ha paura di morire, perché la morte segnerà l’incontro definitivo col suo Redentore, il suo Sovrano glorioso.
È, infatti, attraverso le opere dell’amore, che noi diventiamo partecipi della regalità di Cristo, nostro Signore e Maestro, che abbiamo contemplato sfigurato dal dolore e dalla morte, Egli sarà il nostro Re glorioso, se lo sapremo riconoscere in ogni uomo affamato, assetato, pellegrino, nudo, malato, condannato, perseguitato e carcerato; forse l’ultimo e il più ripugnante degli uomini, ma sempre segno della presenza del Cristo sofferente, che, ancora, cammina sulle nostre strade.
E non importa se per questi fratelli sfortunati, noi faremo cose grandi; è segno d’amore anche un sorriso, una parola di vicinanza e solidarietà; se, poi, è nelle nostre possibilità fare di più, è nostro dovere dare, darsi da fare per risollevare quel “ Cristo sofferente”, che ci si fa incontro, e rendere la sua esistenza meno indegna della condizione umana.
Nell’orizzonte dell’amore, nessun gesto è trascurabile, neppure il più semplice, perché è destinato a trasformarsi in benedizione.
«Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno..»; un regno aperto a chiunque si lasci fecondare dall’Amore: un regno cui potremo aspirare grazie alla potenza del nostro amore.
La regalità di Cristo è amore che serve; è l’amore sollecito del pastore, nel quale Gesù stesso si identifica: quel pastore buono, che non ha pace, finché l’ultima pecorella non sia rientrata nell’ovile, al sicuro; quel pastore buono, del quale le pecore conoscono la voce e lo seguono, fiduciose nella sua guida, perché unico pastore che per il suo gregge dà la vita.
Il nostro Dio, è il Dio che salva, il Dio-Re che, nel Figlio Gesù, concretamente, è sceso in mezzo al suo gregge, per illuminarlo e risanarlo, per soccorrerlo nel faticoso e insidioso cammino della vita, per curarne le ferite ed ogni infermità.
Ora, questo Sovrano, questo Re d’Amore, cosa attende dai suoi?
Nient’altro che una risposta d’amore, la quale deve concretizzarsi nell’attenzione al prossimo; sarà, infatti, l’amore, il metro di giudizio alla fine della vita, alla fine del tempo e della Storia, quando, come ci ricorda il Vangelo di oggi, «il Figlio dell'uomo verrà nella sua gloria con tutti i suoi angeli, e si siederà sul trono della sua gloria. E saranno riunite davanti a lui tutte le genti, ed egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dai capri e porrà le pecore alla sua destra e i capri alla sinistra».
“Attraverso l’amore, scrive Tolstoj, si ha coscienza di tutto ciò che è bene, e colui, che ha conosciuto l’amore, non ha più paura di vivere né di morire…»; non ha paura di vivere perché la vita è l’occasione che Dio gli dà per beneficare il prossimo, e non ha paura di morire, perché la morte segnerà l’incontro definitivo col suo Redentore, il suo Sovrano glorioso.
È, infatti, attraverso le opere dell’amore, che noi diventiamo partecipi della regalità di Cristo, nostro Signore e Maestro, che abbiamo contemplato sfigurato dal dolore e dalla morte, Egli sarà il nostro Re glorioso, se lo sapremo riconoscere in ogni uomo affamato, assetato, pellegrino, nudo, malato, condannato, perseguitato e carcerato; forse l’ultimo e il più ripugnante degli uomini, ma sempre segno della presenza del Cristo sofferente, che, ancora, cammina sulle nostre strade.
E non importa se per questi fratelli sfortunati, noi faremo cose grandi; è segno d’amore anche un sorriso, una parola di vicinanza e solidarietà; se, poi, è nelle nostre possibilità fare di più, è nostro dovere dare, darsi da fare per risollevare quel “ Cristo sofferente”, che ci si fa incontro, e rendere la sua esistenza meno indegna della condizione umana.
Nell’orizzonte dell’amore, nessun gesto è trascurabile, neppure il più semplice, perché è destinato a trasformarsi in benedizione.
«Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno..»; un regno aperto a chiunque si lasci fecondare dall’Amore: un regno cui potremo aspirare grazie alla potenza del nostro amore.
giovedì 13 novembre 2008
16 novembre 2008 - XXXIII Domenica del Tempo Ordinario
Nella prospettiva del rendiconto
La parabola dei talenti, oggetto del vangelo di oggi, è tra le più note. Un uomo, partendo per un lungo viaggio, affida i suoi beni ai dipendenti: a uno cinque talenti, a un altro due, a un terzo uno, “secondo le capacità di ciascuno”. Al ritorno chiede loro conto di come li hanno amministrati, e loda i primi due che si sono dati da fare e li hanno raddoppiati, mentre rimprovera il terzo che non ha fatto nulla e si limita a restituirgli quanto aveva ricevuto. Il significato è chiaro: Dio affida a ciascun uomo un tesoro, con l’incarico di farlo fruttare perché un giorno vorrà sapere come è stato impiegato. All’epoca di Gesù i talenti erano monete, le monete in oro di maggior valore; in seguito, proprio in base a questa parabola il termine ha assunto il significato che gli si dà oggi. Per talenti di una persona oggi si intendono le sue doti naturali, di mente o di cuore; per estensione vi si possono comprendere le capacità acquisite con l’impegno nello studio, con la costanza nell’applicazione, o anche per dono della sorte. Insomma, le capacità positive a disposizione di ciascuno, le possibilità di bene che ciascun uomo è in grado di gestire.
Allora è chiaro il significato della parabola, a cominciare dal diverso numero di talenti affidati ai singoli: tutti ne hanno almeno uno; Dio non lascia nessuno privo di capacità. Non tutti sono Leonardo o Einstein, ma tutti sanno dare una carezza o mormorare una preghiera. L’importante è non chiudersi in una presunta autosufficienza, non farsi vincere dalla pigrizia o dall’indifferenza. Tutti siamo parte di un’unica grande famiglia, del cui benessere siamo tutti corresponsabili: ciascuno secondo le sue possibilità, o contribuisce al miglioramento delle sue condizioni o inevitabilmente le peggiora. L’impegno di trafficare i propri talenti è un’applicazione della suprema, onnicomprensiva legge dell’amore, risuonata anche nel vangelo di qualche domenica fa: mettendo a frutto le proprie capacità di bene si dimostra di amare Dio che lo comanda, e di amare il prossimo che ne trarrà vantaggio. Ma per tale impegno, la parabola dei talenti offre una motivazione in più: un giorno ce ne sarà chiesto il rendiconto, e solo gli operosi si sentiranno dire: “Bene, servo buono e fedele: vieni, prendi parte alla gioia del tuo padrone”. La prospettiva finale, l’esito annunciato degli atteggiamenti assunti durante la vita terrena, dice anche quanto sia infondata l’opinione di chi ritiene che la fede si occupi soltanto dell’aldilà, che i credenti disdegnano questo mondo corrotto e destinato a finire e pensano soltanto a salvarsi l’anima. Niente di più sbagliato; è vero che salvarsi l’anima è il fine di ogni uomo, ma questo avverrà soltanto se qui, ora, a beneficio di questo mondo, ciascuno impegna tutti i talenti che Dio gli ha affidato. 'Tutti' i suoi talenti, perché, come si dice altrove nella Scrittura, a chi più è stato dato, più sarà richiesto. E nel rendiconto non importerà se il talento ha riguardato il creare una medicina che ha salvato migliaia di vite, o l’umile dare ogni giorno le medicine a un solo ammalato; l’inventare una macchina che allevi la fatica, o il lavorare con fatica quotidiana per sostentare la famiglia. L’importante è “mettercela tutta”, e in ogni caso con umiltà, senza dimenticare che quanto di buono un uomo sa fare è reso possibile da talenti di cui non è il dispotico padrone, ma soltanto il responsabile amministratore.
Allora è chiaro il significato della parabola, a cominciare dal diverso numero di talenti affidati ai singoli: tutti ne hanno almeno uno; Dio non lascia nessuno privo di capacità. Non tutti sono Leonardo o Einstein, ma tutti sanno dare una carezza o mormorare una preghiera. L’importante è non chiudersi in una presunta autosufficienza, non farsi vincere dalla pigrizia o dall’indifferenza. Tutti siamo parte di un’unica grande famiglia, del cui benessere siamo tutti corresponsabili: ciascuno secondo le sue possibilità, o contribuisce al miglioramento delle sue condizioni o inevitabilmente le peggiora. L’impegno di trafficare i propri talenti è un’applicazione della suprema, onnicomprensiva legge dell’amore, risuonata anche nel vangelo di qualche domenica fa: mettendo a frutto le proprie capacità di bene si dimostra di amare Dio che lo comanda, e di amare il prossimo che ne trarrà vantaggio. Ma per tale impegno, la parabola dei talenti offre una motivazione in più: un giorno ce ne sarà chiesto il rendiconto, e solo gli operosi si sentiranno dire: “Bene, servo buono e fedele: vieni, prendi parte alla gioia del tuo padrone”. La prospettiva finale, l’esito annunciato degli atteggiamenti assunti durante la vita terrena, dice anche quanto sia infondata l’opinione di chi ritiene che la fede si occupi soltanto dell’aldilà, che i credenti disdegnano questo mondo corrotto e destinato a finire e pensano soltanto a salvarsi l’anima. Niente di più sbagliato; è vero che salvarsi l’anima è il fine di ogni uomo, ma questo avverrà soltanto se qui, ora, a beneficio di questo mondo, ciascuno impegna tutti i talenti che Dio gli ha affidato. 'Tutti' i suoi talenti, perché, come si dice altrove nella Scrittura, a chi più è stato dato, più sarà richiesto. E nel rendiconto non importerà se il talento ha riguardato il creare una medicina che ha salvato migliaia di vite, o l’umile dare ogni giorno le medicine a un solo ammalato; l’inventare una macchina che allevi la fatica, o il lavorare con fatica quotidiana per sostentare la famiglia. L’importante è “mettercela tutta”, e in ogni caso con umiltà, senza dimenticare che quanto di buono un uomo sa fare è reso possibile da talenti di cui non è il dispotico padrone, ma soltanto il responsabile amministratore.
giovedì 6 novembre 2008
9 Novembre 2008 - Dedicazione della Basilica Lateranense
Curiosa, la festa di oggi: in tutto il mondo i cristiani romani celebrano la dedicazione della Cattedrale di Roma, come se fosse la propria Chiesa e la domenica assume un contorno di riflessione particolare. La ragione di questa festa è semplice: la liturgia ci richiama al ruolo centrale della Chiesa di Roma nella nostra esperienza e al ruolo del luogo di culto per i cristiani. Per alcune chiese italiane la prossima settimana sarà, tra l'altro, l'occasione di riflettere sul proprio essere chiesa locale. Cos'è "chiesa"? Ci viene spontaneo pensare ad un luogo, vero? D'altronde la storia dell'arte ci consegna scenari straordinari, gare di bellezza, Cattedrali che sfidano il tempo per dare lode al Signore. Nel cristianesimo come in ogni cultura e civiltà, l'arte esprime il proprio meglio quando cerca di raggiungere Dio, quando cerca di esprimere il concetto assoluto di bellezza. Ma, amici, la chiesa ha senso solo se contiene una Chiesa, cioè una comunità. La visione cristiana del tempio è piuttosto dissacrante: non esistono luoghi che contengono Dio, ma luoghi che contengono comunità che lodano Dio. Perciò le nostre chiese sono un riferimento continuo alla Chiesa fatta da persone vive. Anzi: il rischio di ridurre a museo i nostri luoghi di culto è reale e questo ci deve spronare a costruire comunità. Cos'è la Chiesa? E' il sogno di Dio, fratelli e sorelle radunati dalla sua Parola che, mettendo al servizio del Regno i propri doni, costruiscono il luogo che rende presente l'amore di Dio. Detta così è poetica e bella, concretamente, poi, ci scontriamo con la nostra fragile esperienza di comunità... Comunità stanche gestite semi-dispoticamente da sacerdoti troppo legati al proprio ruolo, comunità-alloggio che vengono vissute come un'istituzione distributrice di servizi, comunità-fantasma nella nostre grandi città in cui chi partecipa chiede solo di essere lasciato in pace ad assolvere le proprie devozioni. No, amici, realizziamo il sogno di Dio, diventiamo – finalmente – Chiesa: radunati intorno alla Parola, vivendo il proprio ministero e la propria vocazione, lasciando da parte guru e santoni, consapevoli di essere stati scelti, facciamo diventare i nostri templi dei luoghi di incontro e di accoglienza, luoghi di stile e di vangelo, luoghi che custodiscono il pane del cammino e la parola. Conserviamo le nostre chiese, valorizziamole, ma soprattutto il restauro del fuori sia sempre secondo o contemporaneo al restauro dentro la comunità. Celebrare la Cattedrale di Roma significa prendere a cuore il destino di quel pezzo di Chiesa che abita il mio quartiere, la mia città, significa rendere presente nella realtà povera che è la Parrocchia un pezzo di Regno. Ma la dedicazione della Basilica Lateranense ci spinge ad una seconda riflessione sulla cattolicità romana, cioè sulla chiesa universale (senza confini, questo significa "cattolica"!) in comunione con la chiesa madre di Roma. La Cattedrale, luogo in cui si custodisce la cattedra, il luogo da cui il Vescovo annuncia la parola, è segno di unità per tutte le parrocchie di una Chiesa locale. Nell'esperienza della Chiesa cattolica Roma, sede dell'apostolo Pietro e luogo di martirio suo e di Paolo, riveste una centralità spirituale e una vocazione particolare, la vocazione alla custodia del deposito della fede. Di cosa si tratta? Un compito difficile affidato a Pietro e alla sua comunità: custodire la fede. In parole semplici: amico che ascolti, chi ti garantisce che la mia interpretazione della Parola sia quella vissuta da duemila anni di cristianesimo? Che io non sia uno dei tanti mullah con una mia carismatica e personale interpretazione del Vangelo? Chi garantisce a me di essere nel solco scavato dall'esperienza delle comunità illuminate dallo Spirito dono del Risorto? Semplice: la comunione con Pietro e la sua Chiesa, il guardare a quella cattedra, a quell'insegnamento che diventa tutela e custode della Parola, non la Parola influenzata dalle correnti di pensiero, interpretata a proprio comodo dall'ultima moda di turno, no: la Parola vera quella pronunciata da Gesù e riecheggiata dai testimoni. Oggi è la festa della cattolicità della Chiesa e della sua unità, della bellezza della diversità e della ricchezza dell'unione intorno al carisma di Pietro, rude pescatore chiamato ad essere roccia irremovibile nella custodia delle parole del Maestro.
venerdì 31 ottobre 2008
Chi crede nel Figlio ha la vita eterna, e io lo risusciterò nell'ultimo giorno
"Non vogliamo, fratelli, che ignoriate la condizione di quelli che dormono nel Signore, affinché non siate tristi come quelli che non hanno speranza” (l Ts 4,13). Così l’apostolo Paolo scrive alla comunità cristiana di Tessalonica. Con questa memoria liturgica oggi la Chiesa vuole sostenere la nostra speranza. Non è a caso che la festa di Tutti i Santi sia così strettamente unita alla memoria dei nostri cari che ci hanno preceduto. Per certi versi direi che è la stessa festa che continua. Se pensiamo a coloro che sono morti, particolarmente a quelli che sono più cari al nostro cuore, non possiamo non sentire la tristezza della separazione. Tuttavia l’apostolo Paolo ci invita a non dimenticare il futuro che è riservato ai figli di Dio. “Voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto uno spirito da figli... E se siamo figli, siamo anche eredi”, scrive Paolo ai Romani. Aggiunge: “Io ritengo che le sofferenze del momento presente non sono paragonabili alla gloria futura che dovrà essere rivelata in noi” (Rm 8,15.18). Oggi, la santa liturgia schiude ai nostri occhi uno spiraglio di questa “gloria futura”. Per noi è futura; per i nostri cari è svelata. Essi abitano su quel monte alto ove il Signore ha preparato un banchetto per tutti i popoli. Il velo “che copre la faccia” e che fa ripiegare su se stessi è stato definitivamente strappato; i loro occhi contemplano il volto di Dio, nessuno più versa lacrime di tristezza, semmai sono di commozione senza fine. La liturgia ci dona oggi questa visione, perché sappiamo dove essi sono e dove noi andremo. La morte ci separa, è vero, e ne sentiamo tutta la tristezza; eppure non ci allontana gli uni dagli altri, non rompe i vincoli di amore che abbiamo legato sulla terra, non ci fa uscire dalla famiglia di Dio alla quale siamo stati chiamati. È quanto il Signore Gesù ci dice nel brano evangelico che abbiamo ascoltato (Mt 25,31-46). Sì, l’unica cosa che conta nella vita è l’amore: l’unica cosa che resta di tutto quel che abbiamo detto e fatto, pensato e programmato, è l’amore. L’amore è sempre grande: sebbene si manifesti in gesti piccoli come un bicchiere d’acqua, un pezzo di pane, una visita, una parola di conforto, una mano che stringe. L’amore è grande perché è sempre una scintilla di Dio che infuoca e salva la terra. Quell’abside d’oro, care sorelle e fratelli. ove vivono i santi e i nostri cari, quel mosaico infuocato possiamo costruirlo già da ora con le piccole tessere dell’amore per tutti e particolarmente per i poveri. Beati noi, se seguiremo poveramente ma decisamente il Vangelo. Ci sentiremo dire al termine dei nostri giorni: “Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo” (Mt 25,34). Allora la nostra gioia sarà piena.
Iscriviti a:
Post (Atom)