Nella prospettiva del rendiconto La parabola dei talenti, oggetto del vangelo di oggi, è tra le più note. Un uomo, partendo per un lungo viaggio, affida i suoi beni ai dipendenti: a uno cinque talenti, a un altro due, a un terzo uno, “secondo le capacità di ciascuno”. Al ritorno chiede loro conto di come li hanno amministrati, e loda i primi due che si sono dati da fare e li hanno raddoppiati, mentre rimprovera il terzo che non ha fatto nulla e si limita a restituirgli quanto aveva ricevuto. Il significato è chiaro: Dio affida a ciascun uomo un tesoro, con l’incarico di farlo fruttare perché un giorno vorrà sapere come è stato impiegato. All’epoca di Gesù i talenti erano monete, le monete in oro di maggior valore; in seguito, proprio in base a questa parabola il termine ha assunto il significato che gli si dà oggi. Per talenti di una persona oggi si intendono le sue doti naturali, di mente o di cuore; per estensione vi si possono comprendere le capacità acquisite con l’impegno nello studio, con la costanza nell’applicazione, o anche per dono della sorte. Insomma, le capacità positive a disposizione di ciascuno, le possibilità di bene che ciascun uomo è in grado di gestire.
Allora è chiaro il significato della parabola, a cominciare dal diverso numero di talenti affidati ai singoli: tutti ne hanno almeno uno; Dio non lascia nessuno privo di capacità. Non tutti sono Leonardo o Einstein, ma tutti sanno dare una carezza o mormorare una preghiera. L’importante è non chiudersi in una presunta autosufficienza, non farsi vincere dalla pigrizia o dall’indifferenza. Tutti siamo parte di un’unica grande famiglia, del cui benessere siamo tutti corresponsabili: ciascuno secondo le sue possibilità, o contribuisce al miglioramento delle sue condizioni o inevitabilmente le peggiora. L’impegno di trafficare i propri talenti è un’applicazione della suprema, onnicomprensiva legge dell’amore, risuonata anche nel vangelo di qualche domenica fa: mettendo a frutto le proprie capacità di bene si dimostra di amare Dio che lo comanda, e di amare il prossimo che ne trarrà vantaggio. Ma per tale impegno, la parabola dei talenti offre una motivazione in più: un giorno ce ne sarà chiesto il rendiconto, e solo gli operosi si sentiranno dire: “Bene, servo buono e fedele: vieni, prendi parte alla gioia del tuo padrone”. La prospettiva finale, l’esito annunciato degli atteggiamenti assunti durante la vita terrena, dice anche quanto sia infondata l’opinione di chi ritiene che la fede si occupi soltanto dell’aldilà, che i credenti disdegnano questo mondo corrotto e destinato a finire e pensano soltanto a salvarsi l’anima. Niente di più sbagliato; è vero che salvarsi l’anima è il fine di ogni uomo, ma questo avverrà soltanto se qui, ora, a beneficio di questo mondo, ciascuno impegna tutti i talenti che Dio gli ha affidato. 'Tutti' i suoi talenti, perché, come si dice altrove nella Scrittura, a chi più è stato dato, più sarà richiesto. E nel rendiconto non importerà se il talento ha riguardato il creare una medicina che ha salvato migliaia di vite, o l’umile dare ogni giorno le medicine a un solo ammalato; l’inventare una macchina che allevi la fatica, o il lavorare con fatica quotidiana per sostentare la famiglia. L’importante è “mettercela tutta”, e in ogni caso con umiltà, senza dimenticare che quanto di buono un uomo sa fare è reso possibile da talenti di cui non è il dispotico padrone, ma soltanto il responsabile amministratore.
Allora è chiaro il significato della parabola, a cominciare dal diverso numero di talenti affidati ai singoli: tutti ne hanno almeno uno; Dio non lascia nessuno privo di capacità. Non tutti sono Leonardo o Einstein, ma tutti sanno dare una carezza o mormorare una preghiera. L’importante è non chiudersi in una presunta autosufficienza, non farsi vincere dalla pigrizia o dall’indifferenza. Tutti siamo parte di un’unica grande famiglia, del cui benessere siamo tutti corresponsabili: ciascuno secondo le sue possibilità, o contribuisce al miglioramento delle sue condizioni o inevitabilmente le peggiora. L’impegno di trafficare i propri talenti è un’applicazione della suprema, onnicomprensiva legge dell’amore, risuonata anche nel vangelo di qualche domenica fa: mettendo a frutto le proprie capacità di bene si dimostra di amare Dio che lo comanda, e di amare il prossimo che ne trarrà vantaggio. Ma per tale impegno, la parabola dei talenti offre una motivazione in più: un giorno ce ne sarà chiesto il rendiconto, e solo gli operosi si sentiranno dire: “Bene, servo buono e fedele: vieni, prendi parte alla gioia del tuo padrone”. La prospettiva finale, l’esito annunciato degli atteggiamenti assunti durante la vita terrena, dice anche quanto sia infondata l’opinione di chi ritiene che la fede si occupi soltanto dell’aldilà, che i credenti disdegnano questo mondo corrotto e destinato a finire e pensano soltanto a salvarsi l’anima. Niente di più sbagliato; è vero che salvarsi l’anima è il fine di ogni uomo, ma questo avverrà soltanto se qui, ora, a beneficio di questo mondo, ciascuno impegna tutti i talenti che Dio gli ha affidato. 'Tutti' i suoi talenti, perché, come si dice altrove nella Scrittura, a chi più è stato dato, più sarà richiesto. E nel rendiconto non importerà se il talento ha riguardato il creare una medicina che ha salvato migliaia di vite, o l’umile dare ogni giorno le medicine a un solo ammalato; l’inventare una macchina che allevi la fatica, o il lavorare con fatica quotidiana per sostentare la famiglia. L’importante è “mettercela tutta”, e in ogni caso con umiltà, senza dimenticare che quanto di buono un uomo sa fare è reso possibile da talenti di cui non è il dispotico padrone, ma soltanto il responsabile amministratore.


Da tempo gli scienziati mandano segnali nel cosmo in attesa di risposte da parte di esseri intelligenti esistenti in qualche pianeta sperduto. La Chiesa da sempre intrattiene un dialogo con abitanti di un altro mondo, i santi. Questo è ciò che proclamiamo dicendo: "Credo nella comunione dei santi". Se anche esistessero abitanti al di fuori del sistema solare, la comunicazione con essi sarebbe impossibile perché tra la domanda e la risposta dovrebbero passare milioni di anni. Qui invece la risposta è immediata perché c'è un centro di comunicazione e di incontro comune che è il Cristo risorto. Forse anche per il momento dell'anno in cui cade, la festa di Tutti i santi, ha qualcosa di particolare che spiega la sua popolarità e le numerose tradizioni ad essa legate in alcuni settori della cristianità. Il motivo è in ciò che dice Giovanni nella seconda lettura. In questa vita, "noi siamo figli di Dio, ma ciò che saremo ancora non appare"; siamo come l'embrione nel senso della madre che anela a nascere. I santi sono quelli che sono "nati" (la liturgia chiama "giorno natalizio", dies natalis, il giorno della loro morte); contemplarli è contemplare il nostro destino. Mentre intorno a noi la natura si spoglia e cadono le foglie, la festa di Tutti i santi ci invita a guardare in alto; ci ricorda che non siamo destinati a marcire in terra per sempre come le foglie. Il brano evangelico è quello delle Beatitudini. Una beatitudine in particolare ha ispirato la scelta del brano: "Beati coloro che hanno fame e sete di giustizia perché saranno saziati". I santi sono coloro che hanno avuto fame e sete di giustizia, cioè, nel linguaggio biblico, di santità. Non si sono rassegnati alla mediocrità, non si sono accontentati delle mezze misure. Ci aiuta a capire chi sono i santi la prima lettura della festa. Essi sono "coloro che hanno lavato le loro vesti nel sangue dell'Agnello". La santità si riceve da Cristo; non è di produzione propria. Nell'Antico Testamento essere santi voleva dire "essere separati" da tutto ciò che è impuro; nell'accezione cristiana vuol dire piuttosto il contrario e cioè "essere uniti", s'intende a Cristo. I santi, cioè i salvati, non sono soltanto quelli elencati nel calendario o nell'albo dei santi. Vi sono anche i "santi ignoti": quelli che hanno rischiato la vita per i fratelli, i martiri della giustizia e della libertà, o del dovere; i "santi laici", come li ha chiamati qualcuno. Senza saperlo anche le loro vesti sono state lavate nel sangue dell'Agnello, se hanno hanno vissuto secondo coscienza e hanno avuto a cuore il bene dei fratelli. Una domanda viene spontanea: "Cosa fanno i santi in paradiso? La risposta è, anche qui, nella prima lettura: i salvati adorano, gettano le loro corone davanti al trono, gridano: "Lode, onore, benedizione, azione di grazia...". Si realizza in essi la vera vocazione umana che è di essere "lode della gloria di Dio" (Ef 1,14). Il loro coro è guidato da Maria che in cielo continua il suo cantico di lode: "L'anima mia magnifica il Signore". È in questa lode che i santi trovano la loro beatitudine ed esultanza: "Il mio spirito esulta in Dio". L'uomo è ciò che ama e ciò che ammira. Amando e lodando Dio ci si immedesima con Dio, si partecipa della sua gloria e della sua stessa felicità. Un giorno un santo, S. Simeone il Nuovo Teologo, ebbe una esperienza mistica di Dio così forte che esclamò tra sé: "Se il paradiso non è che questo, mi basta!". Ma la voce di Cristo gli disse: "Sei ben meschino se ti accontenti di questo. La gioia che hai provato in confronto a quella del paradiso è come un cielo dipinto sulla carta rispetto al cielo vero" (padre Raniero Cantalamessa).


