Diverse e talora divergenti sono le interpretazioni date alla celebre frase-risposta di Gesù a coloro che volevano tendergli una trappola: una frase ad effetto, quasi una “scappatoia” con la quale Gesù risponde senza sbilanciarsi; una risposta ironica, come se Gesù volesse dire: solo quando c’è da pagare le tasse tirate fuori il problema della coscienza; una precisa definizione dei limiti di campo e dei rapporti reciproci fra Stato e Chiesa. Emerge comunque chiaro che ciò che importa è il regno di Dio. Questo è l’unico assoluto da ricercarsi. Gesù è venuto a predicare il regno: questa è la realtà fondamentale e discriminante. Di fronte a questo annuncio tutto passa in secondo piano. Con questo, Gesù non vuol negare la funzione di Cesare, ma vuol colpire i suoi avversari che non hanno compreso la sua missione e dimenticano la questione decisiva.
Spesso il brano odierno viene usato per riaffermare e per dare un fondamento biblico, rivelato, alla distinzione e reciproca autonomia tra la Chiesa e lo Stato. Molto probabilmente la risposta di Gesù non aveva questa intenzione: sia per il contesto del racconto, che non esigeva un pronunciamento su questo problema; sia per il contesto storico dei suoi tempi, nei quali non si distingueva ancora tra potere politico e religioso. Ma la risposta di Gesù è ugualmente illuminante perché indica una direzione. Gli Ebrei del tempo di Gesù erano abituati a concepire il regno inaugurato dal futuro Messia nella forma di una teocrazia, cioè come dominio diretto di Dio, tramite il suo popolo, su tutta la terra. La parola di Gesù rivela l’esistenza di un regno di Dio nella storia, nel quale è possibile ad ognuno, e non solo all’ebreo, entrare fin d’ora, senza attendere che si inauguri un ipotetico regno politico di Dio su tutta la terra. Il regno di Dio, infatti, è possibile all’interno di un regno pagano, non meno che nel quadro di una teocrazia, poiché non si identifica né con l’uno né con l’altra. Si rivelano così due modi qualitativamente diversi di dominazione e di sovranità di Dio sul mondo: la sovranità spirituale che costituisce il regno di Dio e che egli esercita direttamente in Cristo, e la signoria temporale che egli esercita indirettamente, mediante il libero gioco delle cause seconde.
La parola di Gesù richiama la nostra riflessione su uno dei problemi più importanti e cruciali dei cristiani oggi. L’uomo moderno ha la profonda convinzione di avere un compito storico da svolgere sulla terra, un compito che è proporzionato alle sue possibilità sempre maggiori e che implica un reale dominio sull’universo. Il fine è questo: la promozione della comunità umana nel seno di una “città” sempre più fraterna. Questa presa di coscienza si accompagna talvolta a una critica amara nei confronti della religione, che viene considerata la responsabile della secolare alienazione degli uomini. Molti assumono nei confronti della religione un atteggiamento di non considerazione, come se essa non avesse alcun apporto positivo da offrire. La fede cristiana, vissuta integralmente, lungi dal suggerire rassegnazione ed evasione nei confronti dei compiti terreni dell’uomo, aiuta il credente ad assumere le proprie responsabilità nel raggiungimento degli obiettivi che si impongono alla coscienza moderna. Gli appelli del mondo attuale trovano una eco sempre più profonda in vasti strati del popolo cristiano, e fortunatamente non sono scarsi i cristiani coerenti che si assumono i ruoli della promozione, della liberazione e della costruzione di una città terrena più giusta ed umana. Il Concilio Vaticano II ha dedicato una parte importante dei suoi lavori all’analisi delle preoccupazioni dell’uomo del XX secolo, problemi in apparenza più profani che religiosi, sicché le reticenze o le assenze del cristiano di ieri in rapporto al suo impegno nel mondo, dovrebbero essere superate. Rimane, tuttavia, una domanda: la costruzione della città terrena è un compito importante, ma non è essa caduca? Costruendo la città degli uomini si contribuisce o no all’edificazione del regno di Dio? Non sono due regni diversi?
La speranza cristiana, certo, non si compie pienamente se non nel mondo futuro. Tuttavia, essa mostra fin d’ora la sua efficacia: è una forza immensa nel mondo, è un fermento che lo fa lievitare, è un sale che dà senso e sapore allo sforzo umano di liberazione, all’impegno temporale. Non è alienazione, non è alibi. Non esistono due speranze: una terrena e l’altra celeste, la speranza è una sola: guarda alla realtà futura, ma, attraverso l’impegno cristiano, l’anticipa nella realtà terrestre.
Nella risposta di Gesù alla domanda insidiosa dei suoi interlocutori, non c’è condanna per il potere politico. Gesù distingue, istruisce e illumina su una grande realtà: la moneta coniata da Cesare ha la sua immagine e gli appartiene, l’uomo è creato e porta l’immagine di Dio e appartiene a Dio; egli non può essere usato e schiavizzato da nessun potere, al quale è comunque riconosciuta una sua propria sfera d’azione, purché non sia contro l’uomo.
giovedì 16 ottobre 2008
sabato 11 ottobre 2008
12 ottobre 2008 - XXVIII Domenica del Tempo Ordinario
L'importante e l'urgente
È istruttivo osservare quali sono i motivi per cui gli invitati della parabola rifiutano di venire al banchetto. Matteo dice che essi "non si curarono" dell'invito e "andarono chi al proprio campo, chi ai propri affari". Il Vangelo di Luca, su questo punto, è più dettagliato e presenta così le motivazioni del rifiuto: "Ho comprato un campo e devo andare a vederlo… Ho comprato cinque paia di buoi e vado a provarli… Ho preso moglie e perciò non posso venire" (Lc 14,18ss). Cos'hanno in comune questi diversi personaggi? Tutti e tre hanno qualcosa di urgente da fare, qualcosa che non può aspettare, che reclama subito la loro presenza. E cosa rappresenta invece il banchetto nuziale? Esso indica i beni messianici, la partecipazione alla salvezza recata da Cristo, quindi la possibilità di vivere in eterno. Il banchetto rappresenta dunque la cosa importante nella vita, anzi l'unica cosa importante. È chiaro allora in che consiste l'errore commesso dagli invitati; consiste nel tralasciare l'importante per l'urgente, l'essenziale per il contingente! Ora questo è un rischio così diffuso e così insidioso, non solo sul piano religioso, ma anche su quello puramente umano, che vale la pena riflettervi sopra un poco.
Anzitutto, appunto, sul piano religioso. Tralasciare l'importante per l'urgente, sul piano spirituale, significa rimandare continuamente il compimento dei doveri religiosi, perché ogni volta si presenta qualcosa di urgente da fare. È Domenica ed è ora di andare alla Messa, ma c'è da fare quella visita, quel lavoretto in giardino, il pranzo da preparare. La Messa può aspettare, il pranzo no; allora si rimanda la Messa e ci si mette intorno ai fornelli.
Ho detto che il pericolo di tralasciare l'importante per l'urgente è presente anche nell'ambito umano, nella vita di tutti i giorni, e vorrei accennare anche a questo. Per un uomo è certamente importantissimo dedicare del tempo alla famiglia, a stare con i figli, dialogare con essi se sono grandi, giocarci se sono piccoli. Ma ecco che all'ultimo momento si presentano sempre cose urgenti da sbrigare in ufficio, straordinari da fare sul lavoro, e si rimanda a un'altra volta, finendo per tornare a casa troppo tardi e troppo stanchi per pensare ad altro.
Per un uomo o una donna è cosa importantissima andare ogni tanto a far visita all'anziano genitore che vive solo in casa o in qualche ospizio. Per chiunque è cosa importantissima far visita a un conoscente malato per mostragli il proprio sostegno e rendergli forse qualche servizio pratico. Ma non è urgente, se rimandi, apparentemente non casca il mondo, forse nessuno se ne accorge. E così si rinvia.
La stessa cosa si realizza anche nella cura della propria salute che è anch'essa tra le cose importanti. Il medico, o semplicemente il fisico, avverte che ci si deve riguardare, prendere un periodo di riposo, evitare quel tipo di stress...Si risponde: sì, sì, lo farò senz'altro, appena avrò portato termine quel lavoro, quando avrò sistemato la casa, quando avrò estinto tutti i debiti...Finché ci si accorge che è troppo tardi. Ecco dove sta l'insidia: si passa la vita a rincorrere le mille piccole faccende da sbrigare e non si trova mai tempo per le cose che incidono davvero sui rapporti umani e possono fare la vera gioia (e, trascurate, la vera tristezza) nella vita. Così vediamo come il Vangelo, indirettamente, è anche scuola di vita; ci insegna a stabilire delle priorità, a tendere all'essenziale. In una parola, a non perdere l'importante per l'urgente, come successe agli invitati della nostra parabola. (P. Raniero Cantalamessa)
È istruttivo osservare quali sono i motivi per cui gli invitati della parabola rifiutano di venire al banchetto. Matteo dice che essi "non si curarono" dell'invito e "andarono chi al proprio campo, chi ai propri affari". Il Vangelo di Luca, su questo punto, è più dettagliato e presenta così le motivazioni del rifiuto: "Ho comprato un campo e devo andare a vederlo… Ho comprato cinque paia di buoi e vado a provarli… Ho preso moglie e perciò non posso venire" (Lc 14,18ss). Cos'hanno in comune questi diversi personaggi? Tutti e tre hanno qualcosa di urgente da fare, qualcosa che non può aspettare, che reclama subito la loro presenza. E cosa rappresenta invece il banchetto nuziale? Esso indica i beni messianici, la partecipazione alla salvezza recata da Cristo, quindi la possibilità di vivere in eterno. Il banchetto rappresenta dunque la cosa importante nella vita, anzi l'unica cosa importante. È chiaro allora in che consiste l'errore commesso dagli invitati; consiste nel tralasciare l'importante per l'urgente, l'essenziale per il contingente! Ora questo è un rischio così diffuso e così insidioso, non solo sul piano religioso, ma anche su quello puramente umano, che vale la pena riflettervi sopra un poco.
Anzitutto, appunto, sul piano religioso. Tralasciare l'importante per l'urgente, sul piano spirituale, significa rimandare continuamente il compimento dei doveri religiosi, perché ogni volta si presenta qualcosa di urgente da fare. È Domenica ed è ora di andare alla Messa, ma c'è da fare quella visita, quel lavoretto in giardino, il pranzo da preparare. La Messa può aspettare, il pranzo no; allora si rimanda la Messa e ci si mette intorno ai fornelli.
Ho detto che il pericolo di tralasciare l'importante per l'urgente è presente anche nell'ambito umano, nella vita di tutti i giorni, e vorrei accennare anche a questo. Per un uomo è certamente importantissimo dedicare del tempo alla famiglia, a stare con i figli, dialogare con essi se sono grandi, giocarci se sono piccoli. Ma ecco che all'ultimo momento si presentano sempre cose urgenti da sbrigare in ufficio, straordinari da fare sul lavoro, e si rimanda a un'altra volta, finendo per tornare a casa troppo tardi e troppo stanchi per pensare ad altro.
Per un uomo o una donna è cosa importantissima andare ogni tanto a far visita all'anziano genitore che vive solo in casa o in qualche ospizio. Per chiunque è cosa importantissima far visita a un conoscente malato per mostragli il proprio sostegno e rendergli forse qualche servizio pratico. Ma non è urgente, se rimandi, apparentemente non casca il mondo, forse nessuno se ne accorge. E così si rinvia.
La stessa cosa si realizza anche nella cura della propria salute che è anch'essa tra le cose importanti. Il medico, o semplicemente il fisico, avverte che ci si deve riguardare, prendere un periodo di riposo, evitare quel tipo di stress...Si risponde: sì, sì, lo farò senz'altro, appena avrò portato termine quel lavoro, quando avrò sistemato la casa, quando avrò estinto tutti i debiti...Finché ci si accorge che è troppo tardi. Ecco dove sta l'insidia: si passa la vita a rincorrere le mille piccole faccende da sbrigare e non si trova mai tempo per le cose che incidono davvero sui rapporti umani e possono fare la vera gioia (e, trascurate, la vera tristezza) nella vita. Così vediamo come il Vangelo, indirettamente, è anche scuola di vita; ci insegna a stabilire delle priorità, a tendere all'essenziale. In una parola, a non perdere l'importante per l'urgente, come successe agli invitati della nostra parabola. (P. Raniero Cantalamessa)
giovedì 9 ottobre 2008
12 ottobre 2008 - XXVIII Domenica del Tempo Ordinario
«Venite alle nozze!»
Il tema della “convocazione” e del “raduno” universali percorre la Scrittura in tutti i suoi libri e definisce l’esperienza sia di Israele sia della Chiesa. Il popolo eletto percepisce la sua unità come quella di un raduno continuamente provocato dalla convocazione di Jahwè. Il quadro di questi raduni è quasi sempre cultuale e sacrificale e si richiama al grande raduno in cui fu conclusa l’alleanza, e prelude al raduno escatologico universale. Quando i profeti evocano l’avvenire messianico, fanno appello al tema dell’assemblea nella quale Jahwè radunerà non solo le 12 tribù di Israele, ma tutte le nazioni della terra.
Il disegno di riunire tutte le nazioni si realizza in Cristo. Dio vuole operare questo raduno attraverso il popolo eletto, già precedentemente destinato nei piani di Dio ad essere lo strumento privilegiato del raduno universale. Ma il rifiuto di Israele lo priva del suo privilegio e la riunione universale si farà attorno al Cristo crocifisso che risuscita dai morti. Alcuni elementi caratterizzano questo raduno e lo distinguono da quello descritto dall’Antico Testamento. E’ Dio, attraverso Gesù, che “convoca” questo raduno, ma il suo disegno di riunificazione non potrà riuscire senza l’attiva partecipazione e collaborazione dell’uomo. Il disegno di Dio costituisce un compito per l’uomo. Il regno di Dio non discende dal cielo come un lampo. Se è vero che Cristo costituisce la pietra d’angolo della costruzione, gli uomini non possono esimersi dal collaborare all’innalzamento dell’edificio. Più nessun privilegio è riconosciuto ad Israele in questa riunione universale. E’ l’atto di nascita di un nuovo universalismo, del resto già previsto nell’Antico Testamento. Il convito sul monte il Signore lo preparerà per tutti i popoli (Prima Lettura).
Dal giorno della Pentecoste il segno e il luogo privilegiati della riunione universale voluta da Dio sono la Chiesa. Il miracolo delle lingue e la presenza a Gerusalemme di genti venute da ogni parte del mondo esprimono bene fin dal suo nascere la natura e la missione della Chiesa, il cui mistero può esprimersi proprio in termini di convocazione e di raduno. La Chiesa non è fedele a se stessa se non si pone come ponte che unisce gli uomini non solo con Dio, ma anche fra di loro. Essa ha per compito quello di andare incontro agli uomini e di raggiungerli là dove si trovano.
Nel mondo moderno, secolarizzato, la situazione e la presenza della Chiesa tra gli uomini è molto cambiata. In tempi di “cristianità” la Chiesa radunava non solo attorno all’Eucaristia, ma anche in molti altri settori della vita e dell’attività umana, sui quali esercitava una vera tutela; oggi questo compito è molto diverso per le mutate condizioni. Potremmo dire che la vera unità, il vero raduno degli uomini avviene, oggi, al di fuori della sfera d’influsso della Chiesa, quando non in opposizione ad essa. La convocazione e il raduno degli uomini avviene oggi attorno agli ideali di giustizia, di liberazione, di presa di coscienza della propria dignità, che raccolgono le masse in partiti, in sindacati. Gli uomini si ritrovano uniti nella lotta contro le malattie, la fame, nel tentativo titanico di liberarsi dalle schiavitù e dai limiti delle forze della natura; si raccolgono attorno alla scienza e alla tecnica alla quale credono come in una nuova e terrena speranza; si raccolgono e si uniscono compatti nella lotta di classe, contro l’oppressione e il potere di un sistema. Questa raccolta e questa riunione è favorita e resa possibile dai grandi mezzi di comunicazione sociale di massa: radio-TV, giornali, sport...Questo è il terreno dove gli uomini, oggi, si incontrano e dove l’uomo moderno ha sempre più coscienza di portare a termine un destino storico che sembra estraneo alle preoccupazioni religiose. In questa situazione il cristiano prova la sensazione di sentirsi “disperso” in mezzo agli altri uomini, ma il cristiano non è mai un “isolato” perché resta membro vivo della Chiesa. Per portare nel pieno della vita la testimonianza della risurrezione di Cristo, come lievito nella pasta, il cristiano disperso ha bisogno di “segni” ecclesiali che sono gli altri membri vivi della Chiesa, sacerdoti e laici, come lui immersi nelle realtà quotidiane. La “convocazione” della Chiesa, in questi ambienti, non avviene tanto attraverso la Parola proclamata come nel passato, ma passa attraverso la testimonianza dei credenti che è davvero un appello per tutti alla salvezza e a una “riunione” molto più totale e profonda di quella che l’uomo riesce a costruire con le sue sole mani.
Tutti invitati alle nozze! Per questo la Chiesa evangelizza, essa va sollecita, sulle vie del mondo, per chiamare con urgenza tutti al banchetto preparato dal Padre, sul monte del Signore. Egli manterrà le sue promesse. L’ospite divino che ci accoglie nella sua tenda prepara per noi una mensa divina, succulenta, raffinata; nessuno ci può toccare e fare del male, chi infatti tocca l’ospitato, tocca l’ospite a danno suo. I servi, vescovi, presbiteri, diaconi, evangelizzatori, oranti, invitano al banchetto! La mensa è ricca, è la Parola e i divini Misteri, capaci di saziare la nostra fame e sete di vita piena.
Il tema della “convocazione” e del “raduno” universali percorre la Scrittura in tutti i suoi libri e definisce l’esperienza sia di Israele sia della Chiesa. Il popolo eletto percepisce la sua unità come quella di un raduno continuamente provocato dalla convocazione di Jahwè. Il quadro di questi raduni è quasi sempre cultuale e sacrificale e si richiama al grande raduno in cui fu conclusa l’alleanza, e prelude al raduno escatologico universale. Quando i profeti evocano l’avvenire messianico, fanno appello al tema dell’assemblea nella quale Jahwè radunerà non solo le 12 tribù di Israele, ma tutte le nazioni della terra.
Il disegno di riunire tutte le nazioni si realizza in Cristo. Dio vuole operare questo raduno attraverso il popolo eletto, già precedentemente destinato nei piani di Dio ad essere lo strumento privilegiato del raduno universale. Ma il rifiuto di Israele lo priva del suo privilegio e la riunione universale si farà attorno al Cristo crocifisso che risuscita dai morti. Alcuni elementi caratterizzano questo raduno e lo distinguono da quello descritto dall’Antico Testamento. E’ Dio, attraverso Gesù, che “convoca” questo raduno, ma il suo disegno di riunificazione non potrà riuscire senza l’attiva partecipazione e collaborazione dell’uomo. Il disegno di Dio costituisce un compito per l’uomo. Il regno di Dio non discende dal cielo come un lampo. Se è vero che Cristo costituisce la pietra d’angolo della costruzione, gli uomini non possono esimersi dal collaborare all’innalzamento dell’edificio. Più nessun privilegio è riconosciuto ad Israele in questa riunione universale. E’ l’atto di nascita di un nuovo universalismo, del resto già previsto nell’Antico Testamento. Il convito sul monte il Signore lo preparerà per tutti i popoli (Prima Lettura).
Dal giorno della Pentecoste il segno e il luogo privilegiati della riunione universale voluta da Dio sono la Chiesa. Il miracolo delle lingue e la presenza a Gerusalemme di genti venute da ogni parte del mondo esprimono bene fin dal suo nascere la natura e la missione della Chiesa, il cui mistero può esprimersi proprio in termini di convocazione e di raduno. La Chiesa non è fedele a se stessa se non si pone come ponte che unisce gli uomini non solo con Dio, ma anche fra di loro. Essa ha per compito quello di andare incontro agli uomini e di raggiungerli là dove si trovano.
Nel mondo moderno, secolarizzato, la situazione e la presenza della Chiesa tra gli uomini è molto cambiata. In tempi di “cristianità” la Chiesa radunava non solo attorno all’Eucaristia, ma anche in molti altri settori della vita e dell’attività umana, sui quali esercitava una vera tutela; oggi questo compito è molto diverso per le mutate condizioni. Potremmo dire che la vera unità, il vero raduno degli uomini avviene, oggi, al di fuori della sfera d’influsso della Chiesa, quando non in opposizione ad essa. La convocazione e il raduno degli uomini avviene oggi attorno agli ideali di giustizia, di liberazione, di presa di coscienza della propria dignità, che raccolgono le masse in partiti, in sindacati. Gli uomini si ritrovano uniti nella lotta contro le malattie, la fame, nel tentativo titanico di liberarsi dalle schiavitù e dai limiti delle forze della natura; si raccolgono attorno alla scienza e alla tecnica alla quale credono come in una nuova e terrena speranza; si raccolgono e si uniscono compatti nella lotta di classe, contro l’oppressione e il potere di un sistema. Questa raccolta e questa riunione è favorita e resa possibile dai grandi mezzi di comunicazione sociale di massa: radio-TV, giornali, sport...Questo è il terreno dove gli uomini, oggi, si incontrano e dove l’uomo moderno ha sempre più coscienza di portare a termine un destino storico che sembra estraneo alle preoccupazioni religiose. In questa situazione il cristiano prova la sensazione di sentirsi “disperso” in mezzo agli altri uomini, ma il cristiano non è mai un “isolato” perché resta membro vivo della Chiesa. Per portare nel pieno della vita la testimonianza della risurrezione di Cristo, come lievito nella pasta, il cristiano disperso ha bisogno di “segni” ecclesiali che sono gli altri membri vivi della Chiesa, sacerdoti e laici, come lui immersi nelle realtà quotidiane. La “convocazione” della Chiesa, in questi ambienti, non avviene tanto attraverso la Parola proclamata come nel passato, ma passa attraverso la testimonianza dei credenti che è davvero un appello per tutti alla salvezza e a una “riunione” molto più totale e profonda di quella che l’uomo riesce a costruire con le sue sole mani.
Tutti invitati alle nozze! Per questo la Chiesa evangelizza, essa va sollecita, sulle vie del mondo, per chiamare con urgenza tutti al banchetto preparato dal Padre, sul monte del Signore. Egli manterrà le sue promesse. L’ospite divino che ci accoglie nella sua tenda prepara per noi una mensa divina, succulenta, raffinata; nessuno ci può toccare e fare del male, chi infatti tocca l’ospitato, tocca l’ospite a danno suo. I servi, vescovi, presbiteri, diaconi, evangelizzatori, oranti, invitano al banchetto! La mensa è ricca, è la Parola e i divini Misteri, capaci di saziare la nostra fame e sete di vita piena.
giovedì 2 ottobre 2008
5 ottobre 2008 - XXVII Domenica del Tempo ordinario
Lasciamoci coltivare dal Signore
Gesù ha scelto, nel suo ministero, un messianismo fatto di tenerezza e di toni pacati, rifiutando il miracolo e preferendo il dialogo all'atto di forza. Ora, a distanza di tre anni, Gesù sa di avere fallito la sua missione.
La gente lo ha seguito, prima attratta dalla sua mitezza, poi dal suo innovativo modo di parlare di Dio; i miracoli, compiuti con parsimonia, senza mai violare la libertà di chi vi assiste, hanno accresciuto al sua fama. Deluso e amareggiato, il Signore si ritira in una sfera più intima, ma anche dai suoi apostoli riceve una cocente delusione: non hanno capito il suo progetto, litigano (e ti pareva!) sul loro ruolo nel futuro governo di Israele.
La folla, dopo un primo momento di euforia, cambia idea sul Nazareno: il Regno di Dio non è arrivato, i romani sono ancora lì, con la loro arroganza; Gesù è solo un clamoroso bluff.
Totalmente Dio, totalmente di Dio, l'uomo Gesù di Nazareth, si accorge di avere sopravvalutato gli uomini, cede alla sensazione (terribile), di avere completamente fallito il bersaglio.
Una sensazione tragica, che ho visto sul volto di molti fratelli adulti, di molte sorelle, al tramonto della loro vita. La sensazione di chi non può più tornare sui propri passi.
Cosa fare, ora?
Gesù parla, gli occhi bassi, seduto, quasi pensando tra sé e sé.
Racconta di una vigna, una bella vigna, data in gestione a dei vignaioli assassini.
É la tragica storia di Dio e dell'umanità, di una incomprensione che fatica a risolversi, di un dolore, il dolore di Dio, che spiazza e interroga.
Il dolore di Dio, palpabile in questa tragica parabola, mi zittisce.
Gesù parla (me lo vedo), la voce rotta dall'emozione: che fare? Che farò?
La storia dell'umanità è la storia di un amore in crisi, di un innamorato passionale, Dio, e di una sposa tiepida e opportunista: l'umanità.
Leggete bene, ve ne prego: quanta dignità in questo padrone che prepara con cura e amore la vigna da dare in affitto, quanta idiota arroganza in questi fittavoli che pensano, uccidendo il figlio del padrone, di diventare eredi!
Immagine dell'umanità che non riconosce il proprio Creatore, il proprio limite, questa tragica parabola è la sintesi della storia fra Dio e Israele, fra Dio e l'umanità. L'uomo non riconosce il suo Creatore, si sostituisce a lui: ecco il peccato di fondo, la tragica fragilità dell'uomo, credere di essere autosufficiente, senza dover rendere conto, misconoscere il proprio limite.
Ancora oggi accade così, in questi deliranti tempi in cui, invece di riconoscere la propria origine e la propria dignità, l'umanità pensa a come fregare il proprietario, nega l'evidenza della propria creaturalità, si perde nel delirio di onnipotenza di chi crede di manipolare l'origine della vita, il cosmo, la natura.
Che fare? Mi commuove questo Dio onnipotente fermato dal nostro rifiuto, come un amante scosso, un genitore ferito, un amico che si scopre improvvisamente tradito.
Che fare? Questo Dio sconsiderato rischia la vita del figlio, pensando, così facendo, di suscitare rispetto nell'uomo, se non giustizia. E invece no, anche questo gesto è stravolto, incompreso.
Che fare? Gesù non sa più cosa dire, aspetta una risposta dai fittavoli che, ingenuamente, nell'ottusità del loro cuore, non capiscono che proprio di loro si sta parlando. E inveiscono: morte, punizione, vendetta, maniere forti!
Il vangelo dunque ci presenta la situazione disperata di una vigna, che dopo essere stata accuratamente fatta fruttificare dal suo padrone, ora che è affidata a dei vignaioli profittatori, sta andando in rovina.
Tutti i richiami del padrone e i suoi messaggeri sono rifiutati, annientati.
Ma sulle rovine di questa vigna il padrone ricostruisce la sua casa. I vignaioli omicidi saranno allontanati, e altri faranno fruttificare la vigna.
Il richiamo è per noi, carissimi fratelli. Anzi, proprio per me.
Perché anche dentro di me c'è sempre la tentazione del vignaiolo omicida: annullare l'altro, profittare delle cose e delle occasioni, rifiutare tutto ciò che non viene costruito e ideato da me.
Il mondo e il presente sono due grandi occasioni dove io posso mostrare la mia potenza e giocare le mie carte vincenti, per il mio successo materiale o per il mio potere personale.
Anche dal punto di vista spirituale, sono un divoratore di situazioni che mi si confanno, e mi riempiono moralmente, a tal punto da farmi parere a me stesso e agli altri un padreterno.
In questa autostrada che percorro a velocità sempre più crescente e in modo sempre più spericolato, non mi curo più delle regole del buon senso, delle leggi vigenti, del buon senso e del rispetto, della presenza dell'altro.
Tutto quanto, nel mio agire spericolato della mia vita, mentre appare sempre più piacevole e travolgente per me, travolge sempre più le cose e le persone che incontro su questa strada.
Tutto accresce la mia utilità, la mia convenienza, la mia bella figura, la mia intoccabilità di buon credente nella vita, accresce la quantità delle mie pratiche e delle mie partecipazioni alla collettività, tutto mi fa essere uno proiettato a razzo nella socialità, nella spiritualità, nella vitalità.
Tutto a scapito dell'altro e del mondo.
L'altro e il mondo diventano la mia spazzatura, il luogo dove riporre il resto di tutto ciò che faccio, il luogo dove lasciare tutto quello che ho appena vissuto, sperimentato, gustato, assaporato per me.
Ma ciò che noi scartiamo ogni giorno, non è altro che la primizia della vigna rinnovata.
Ma come è possibile questo?
La potenza della verità è superiore a noi: quello che scartiamo, essa lo recupera, lo trasforma; quelli che noi eliminiamo, ce li rimette in piedi e in prima fila, a costruire la nuova umanità, quella vera, e non la nostra.
Dice Gesù: Che cosa dovevo fare di più che non ho fatto?
Egli, con immagini, esempi e parabole, ci ricorda il suo amore provvidente, rigenerante e creativo.
"Dio è amore". Meraviglioso il cantico della vigna di Isaia, propostoci nella prima lettura. È un poema che esprime il grande amore di Dio verso il suo popolo, ma la gente è ingrata, non vuole o non può apprezzare tutta questa cura che il Signore ha. Gesù torna su questo argomento, ripetendo quasi il profeta Isaia. Gesù, nuovo profeta, è venuto a ricordare e portare a compimento l'amore grande di Dio, ma ancora una volta il popolo non corrisponde.
Gesù non sarà accolto, sarà ucciso.
Dio non si stanca di continuare il suo dialogo d'amore: uccidono i profeti, uno, poi l'altro, poi l'altro. Ma Dio manda suo Figlio. Gesù parla di se stesso. Sottolinea che non ci può essere un amore più grande di questo: dare la vita.
Dio non vuole perdere la speranza che ha verso gli uomini.
Dio non ha paura di dare il suo Figlio, per dimostrare che con lo stesso amore ama anche ciascuno di noi. Per Dio, l'uomo ha lo stesso valore di suo Figlio.
Nella nostra vita deve essere presente questo ringraziamento al Signore: è il dono più grande: abbiamo capito quanto Dio ama il suo popolo. Questo dono è Gesù Crocifisso. Ringraziamento non solo per le cose belle, ma per tutta la potenza di grazia che c'è anche nel sacrificio e nella sofferenza della vita.
Dio per salvare il suo popolo, l'intera umanità, ha dato ciò che aveva di più caro.
Noi siamo come questi vignaioli: abbiamo ricevuto tante cose.
I vignaioli hanno dimenticato chi è il padrone; hanno voluto farsi essi padroni della loro vita, della vita del mondo.
Il cantico della vigna possiamo dunque applicarlo a noi e contemplare quanta cura il Signore ha per la sua vigna, cioè per il suo popolo, per l'umanità, per ciascuno di noi.
"Che cosa dovevo fare di più, che non ho fatto?" Non avremmo mai voluto sentire questo lamento di Dio. Eppure esprime tutta l'intensità dell'amore di Dio e tutta la tragedia del peccato dell'uomo.
Un giorno, in una rivelazione a S. Margherita Gesù dirà: "Ecco quel Cuore che ha tanto amato gli uomini e che non riceve che ingratitudini e oltraggi!".
Oggi ci è richiesta una forte revisione di vita. Sappiamo contemplare e percepire tutto quello che il Signore ha fatto e fa per ciascuno di noi, per la Chiesa, per l'umanità, per l'universo intero? "La sua bontà è grande come il cielo", possiamo dire anche noi con il salmo. Avvertiamo veramente e concretamente la paternità di Dio sulla nostra vita?
Ci accorgiamo di essere amati, desiderati, voluti dal Padre o Lui è per noi una figura lontana? Siamo figli grati, riconoscenti, pieni di amore?
Chiediamoci: perché nella nostra società c'è tanto rifiuto di Dio? Perché tanta indifferenza o lotta contro i valori e i segni della fede? Qual è la nostra riflessione e il nostro atteggiamento di fronte a tutto questo?
Ma anche quando non corrispondiamo, anche quando rifiutiamo il Signore Gesù, Lui, il Cristo, rimane sempre la pietra angolare, il Salvatore, la roccia.
Quel Figlio, morto sulla croce, "pietra scartata dai costruttori" diventa "testata d'angolo", il fondamento di tutto. Che altro poteva fare il Signore? Dio ha amato fino al segno estremo: Dio ha tanto amato il mondo da mandare Suo Figlio che verrà consegnato alla morte di croce. Gesù, sulla croce, come dice S. Paolo, "mi ha amato e ha dato tutto se stesso per me". Questa è l'opera mirabile del Signore. La risurrezione di Cristo diventa il fondamento e l'inizio di ogni vita nuova. E' la rivincita, la vittoria dell'amore. Ma "il regno di Dio sarà tolto a quelli che lo hanno rifiutato e sarà dato ad un altro popolo che lo farà fruttificare".
Invece, che cosa fanno i vignaioli? Vogliono possedere ciò che non si può possedere: la vigna non è loro. La vigna va curata, fatta fruttificare, lavorata, ma non è loro. E questo è il loro problema. Il grande problema dell’uomo è che la morte esiste. Per cui l’uomo non ha potere su nulla. Non c’è nessuna cosa a cui tu possa dire: “Tu sei mia”. L’uomo, se ci pensa bene, non è proprietario di nulla. Non abbiamo diritto a niente e nessuno ci deve qualcosa perché non possediamo nulla. Questo ci fa sentire vulnerabili, spogli, nudi e impotenti. Per questo ci illudiamo possedendo e accumulando.
L’amore non si può possedere. L’amore va espresso, condiviso, manifestato, ma non lo puoi possedere. L’altro non puoi farlo tuo. L’altro rimarrà sempre un dono. “Tu sei mio! Mi devi amare! Con tutto quello che io faccio per te!”. “No, caro! Non ti devo niente!”.
La vita non si può possedere. Può essere vissuta, intensa, realizzata, gustata, ma non si può possederla. La vita non si possiede: si vive. Non dare anni alla tua vita, ma dà vita ai tuoi anni. C’è della gente che si comporta come se dovesse vivere per sempre. Non la capisco. Puoi decidere come vivere, ma non puoi decidere sulla vita.
La vigna è la mia vita. La mia vita è stata creata perché porti frutti, perché sia feconda e si espanda.
La Vita, Dio, ha fatto ciò che doveva fare: poi ha affidato a me la mia esistenza. La mia vita non è mia, mi è stata donata, come la vigna del vangelo, perché porti frutto, perché sia gustosa come il vino.
Dio non mi abbandona e quando si accorge che ho sovvertito l’ordine, quando mi allontano dal portare frutto, dall’essere ciò che posso essere, quando mi allontano dalla mia essenza, allora mi manda dei messaggi: “Stai attento perché qui le cose non vanno; stai andando incontro alla tua rovina”.
Ma l’uomo spesso se ne infischia di questi messaggi, ride e fa finta di niente.
Invece ascoltiamoli questi messaggi, ascoltiamoli nel nostro cuore, dove Dio ci parla silenzioso.
Altrimenti saremo proprio come quei vignaioli: degli stolti! Come pensavano infatti di farla franca?
La vita è così: alcuni messaggi si capiscono subito, altri nel tempo. Ma ciò che è importante è accogliere tutto, ascoltare ciò che ci succede, le malattie del nostro corpo, i sentimenti della nostra anima, i fatti che ci succedono. Tutto parla (o niente parla). Ciò che conta è rimanere aperti e anche se qualcosa non si capisce subito non buttarla in cantina, in soffitta, dimenticarla, ma tenerla lì. A suo modo e a suo tempo parlerà.
Io sono io, ma non sono mio.
Continuerò a combattere, ad accumulare, a protestare, a volere, a possedere, a gestire; continuerò a voler conquistare qualcosa che non si può conquistare; continuerò a rincorrere qualcosa che non si può rincorrere. E mi attaccherò alle cose, alle persone, al raggiungere traguardi, successi e fama…
Ma così non mi potrò mai abbandonare sereno nelle braccia della vita perché vivo ancora nell’illusione di possedere qualcosa, che qualcosa sia mio, di aver potere di vita e di morte su qualcuno. Ma non è così!
Pensiamoci!
La gente lo ha seguito, prima attratta dalla sua mitezza, poi dal suo innovativo modo di parlare di Dio; i miracoli, compiuti con parsimonia, senza mai violare la libertà di chi vi assiste, hanno accresciuto al sua fama. Deluso e amareggiato, il Signore si ritira in una sfera più intima, ma anche dai suoi apostoli riceve una cocente delusione: non hanno capito il suo progetto, litigano (e ti pareva!) sul loro ruolo nel futuro governo di Israele.
La folla, dopo un primo momento di euforia, cambia idea sul Nazareno: il Regno di Dio non è arrivato, i romani sono ancora lì, con la loro arroganza; Gesù è solo un clamoroso bluff.
Totalmente Dio, totalmente di Dio, l'uomo Gesù di Nazareth, si accorge di avere sopravvalutato gli uomini, cede alla sensazione (terribile), di avere completamente fallito il bersaglio.
Una sensazione tragica, che ho visto sul volto di molti fratelli adulti, di molte sorelle, al tramonto della loro vita. La sensazione di chi non può più tornare sui propri passi.
Cosa fare, ora?
Gesù parla, gli occhi bassi, seduto, quasi pensando tra sé e sé.
Racconta di una vigna, una bella vigna, data in gestione a dei vignaioli assassini.
É la tragica storia di Dio e dell'umanità, di una incomprensione che fatica a risolversi, di un dolore, il dolore di Dio, che spiazza e interroga.
Il dolore di Dio, palpabile in questa tragica parabola, mi zittisce.
Gesù parla (me lo vedo), la voce rotta dall'emozione: che fare? Che farò?
La storia dell'umanità è la storia di un amore in crisi, di un innamorato passionale, Dio, e di una sposa tiepida e opportunista: l'umanità.
Leggete bene, ve ne prego: quanta dignità in questo padrone che prepara con cura e amore la vigna da dare in affitto, quanta idiota arroganza in questi fittavoli che pensano, uccidendo il figlio del padrone, di diventare eredi!
Immagine dell'umanità che non riconosce il proprio Creatore, il proprio limite, questa tragica parabola è la sintesi della storia fra Dio e Israele, fra Dio e l'umanità. L'uomo non riconosce il suo Creatore, si sostituisce a lui: ecco il peccato di fondo, la tragica fragilità dell'uomo, credere di essere autosufficiente, senza dover rendere conto, misconoscere il proprio limite.
Ancora oggi accade così, in questi deliranti tempi in cui, invece di riconoscere la propria origine e la propria dignità, l'umanità pensa a come fregare il proprietario, nega l'evidenza della propria creaturalità, si perde nel delirio di onnipotenza di chi crede di manipolare l'origine della vita, il cosmo, la natura.
Che fare? Mi commuove questo Dio onnipotente fermato dal nostro rifiuto, come un amante scosso, un genitore ferito, un amico che si scopre improvvisamente tradito.
Che fare? Questo Dio sconsiderato rischia la vita del figlio, pensando, così facendo, di suscitare rispetto nell'uomo, se non giustizia. E invece no, anche questo gesto è stravolto, incompreso.
Che fare? Gesù non sa più cosa dire, aspetta una risposta dai fittavoli che, ingenuamente, nell'ottusità del loro cuore, non capiscono che proprio di loro si sta parlando. E inveiscono: morte, punizione, vendetta, maniere forti!
Il vangelo dunque ci presenta la situazione disperata di una vigna, che dopo essere stata accuratamente fatta fruttificare dal suo padrone, ora che è affidata a dei vignaioli profittatori, sta andando in rovina.
Tutti i richiami del padrone e i suoi messaggeri sono rifiutati, annientati.
Ma sulle rovine di questa vigna il padrone ricostruisce la sua casa. I vignaioli omicidi saranno allontanati, e altri faranno fruttificare la vigna.
Il richiamo è per noi, carissimi fratelli. Anzi, proprio per me.
Perché anche dentro di me c'è sempre la tentazione del vignaiolo omicida: annullare l'altro, profittare delle cose e delle occasioni, rifiutare tutto ciò che non viene costruito e ideato da me.
Il mondo e il presente sono due grandi occasioni dove io posso mostrare la mia potenza e giocare le mie carte vincenti, per il mio successo materiale o per il mio potere personale.
Anche dal punto di vista spirituale, sono un divoratore di situazioni che mi si confanno, e mi riempiono moralmente, a tal punto da farmi parere a me stesso e agli altri un padreterno.
In questa autostrada che percorro a velocità sempre più crescente e in modo sempre più spericolato, non mi curo più delle regole del buon senso, delle leggi vigenti, del buon senso e del rispetto, della presenza dell'altro.
Tutto quanto, nel mio agire spericolato della mia vita, mentre appare sempre più piacevole e travolgente per me, travolge sempre più le cose e le persone che incontro su questa strada.
Tutto accresce la mia utilità, la mia convenienza, la mia bella figura, la mia intoccabilità di buon credente nella vita, accresce la quantità delle mie pratiche e delle mie partecipazioni alla collettività, tutto mi fa essere uno proiettato a razzo nella socialità, nella spiritualità, nella vitalità.
Tutto a scapito dell'altro e del mondo.
L'altro e il mondo diventano la mia spazzatura, il luogo dove riporre il resto di tutto ciò che faccio, il luogo dove lasciare tutto quello che ho appena vissuto, sperimentato, gustato, assaporato per me.
Ma ciò che noi scartiamo ogni giorno, non è altro che la primizia della vigna rinnovata.
Ma come è possibile questo?
La potenza della verità è superiore a noi: quello che scartiamo, essa lo recupera, lo trasforma; quelli che noi eliminiamo, ce li rimette in piedi e in prima fila, a costruire la nuova umanità, quella vera, e non la nostra.
Dice Gesù: Che cosa dovevo fare di più che non ho fatto?
Egli, con immagini, esempi e parabole, ci ricorda il suo amore provvidente, rigenerante e creativo.
"Dio è amore". Meraviglioso il cantico della vigna di Isaia, propostoci nella prima lettura. È un poema che esprime il grande amore di Dio verso il suo popolo, ma la gente è ingrata, non vuole o non può apprezzare tutta questa cura che il Signore ha. Gesù torna su questo argomento, ripetendo quasi il profeta Isaia. Gesù, nuovo profeta, è venuto a ricordare e portare a compimento l'amore grande di Dio, ma ancora una volta il popolo non corrisponde.
Gesù non sarà accolto, sarà ucciso.
Dio non si stanca di continuare il suo dialogo d'amore: uccidono i profeti, uno, poi l'altro, poi l'altro. Ma Dio manda suo Figlio. Gesù parla di se stesso. Sottolinea che non ci può essere un amore più grande di questo: dare la vita.
Dio non vuole perdere la speranza che ha verso gli uomini.
Dio non ha paura di dare il suo Figlio, per dimostrare che con lo stesso amore ama anche ciascuno di noi. Per Dio, l'uomo ha lo stesso valore di suo Figlio.
Nella nostra vita deve essere presente questo ringraziamento al Signore: è il dono più grande: abbiamo capito quanto Dio ama il suo popolo. Questo dono è Gesù Crocifisso. Ringraziamento non solo per le cose belle, ma per tutta la potenza di grazia che c'è anche nel sacrificio e nella sofferenza della vita.
Dio per salvare il suo popolo, l'intera umanità, ha dato ciò che aveva di più caro.
Noi siamo come questi vignaioli: abbiamo ricevuto tante cose.
I vignaioli hanno dimenticato chi è il padrone; hanno voluto farsi essi padroni della loro vita, della vita del mondo.
Il cantico della vigna possiamo dunque applicarlo a noi e contemplare quanta cura il Signore ha per la sua vigna, cioè per il suo popolo, per l'umanità, per ciascuno di noi.
"Che cosa dovevo fare di più, che non ho fatto?" Non avremmo mai voluto sentire questo lamento di Dio. Eppure esprime tutta l'intensità dell'amore di Dio e tutta la tragedia del peccato dell'uomo.
Un giorno, in una rivelazione a S. Margherita Gesù dirà: "Ecco quel Cuore che ha tanto amato gli uomini e che non riceve che ingratitudini e oltraggi!".
Oggi ci è richiesta una forte revisione di vita. Sappiamo contemplare e percepire tutto quello che il Signore ha fatto e fa per ciascuno di noi, per la Chiesa, per l'umanità, per l'universo intero? "La sua bontà è grande come il cielo", possiamo dire anche noi con il salmo. Avvertiamo veramente e concretamente la paternità di Dio sulla nostra vita?
Ci accorgiamo di essere amati, desiderati, voluti dal Padre o Lui è per noi una figura lontana? Siamo figli grati, riconoscenti, pieni di amore?
Chiediamoci: perché nella nostra società c'è tanto rifiuto di Dio? Perché tanta indifferenza o lotta contro i valori e i segni della fede? Qual è la nostra riflessione e il nostro atteggiamento di fronte a tutto questo?
Ma anche quando non corrispondiamo, anche quando rifiutiamo il Signore Gesù, Lui, il Cristo, rimane sempre la pietra angolare, il Salvatore, la roccia.
Quel Figlio, morto sulla croce, "pietra scartata dai costruttori" diventa "testata d'angolo", il fondamento di tutto. Che altro poteva fare il Signore? Dio ha amato fino al segno estremo: Dio ha tanto amato il mondo da mandare Suo Figlio che verrà consegnato alla morte di croce. Gesù, sulla croce, come dice S. Paolo, "mi ha amato e ha dato tutto se stesso per me". Questa è l'opera mirabile del Signore. La risurrezione di Cristo diventa il fondamento e l'inizio di ogni vita nuova. E' la rivincita, la vittoria dell'amore. Ma "il regno di Dio sarà tolto a quelli che lo hanno rifiutato e sarà dato ad un altro popolo che lo farà fruttificare".
Invece, che cosa fanno i vignaioli? Vogliono possedere ciò che non si può possedere: la vigna non è loro. La vigna va curata, fatta fruttificare, lavorata, ma non è loro. E questo è il loro problema. Il grande problema dell’uomo è che la morte esiste. Per cui l’uomo non ha potere su nulla. Non c’è nessuna cosa a cui tu possa dire: “Tu sei mia”. L’uomo, se ci pensa bene, non è proprietario di nulla. Non abbiamo diritto a niente e nessuno ci deve qualcosa perché non possediamo nulla. Questo ci fa sentire vulnerabili, spogli, nudi e impotenti. Per questo ci illudiamo possedendo e accumulando.
L’amore non si può possedere. L’amore va espresso, condiviso, manifestato, ma non lo puoi possedere. L’altro non puoi farlo tuo. L’altro rimarrà sempre un dono. “Tu sei mio! Mi devi amare! Con tutto quello che io faccio per te!”. “No, caro! Non ti devo niente!”.
La vita non si può possedere. Può essere vissuta, intensa, realizzata, gustata, ma non si può possederla. La vita non si possiede: si vive. Non dare anni alla tua vita, ma dà vita ai tuoi anni. C’è della gente che si comporta come se dovesse vivere per sempre. Non la capisco. Puoi decidere come vivere, ma non puoi decidere sulla vita.
La vigna è la mia vita. La mia vita è stata creata perché porti frutti, perché sia feconda e si espanda.
La Vita, Dio, ha fatto ciò che doveva fare: poi ha affidato a me la mia esistenza. La mia vita non è mia, mi è stata donata, come la vigna del vangelo, perché porti frutto, perché sia gustosa come il vino.
Dio non mi abbandona e quando si accorge che ho sovvertito l’ordine, quando mi allontano dal portare frutto, dall’essere ciò che posso essere, quando mi allontano dalla mia essenza, allora mi manda dei messaggi: “Stai attento perché qui le cose non vanno; stai andando incontro alla tua rovina”.
Ma l’uomo spesso se ne infischia di questi messaggi, ride e fa finta di niente.
Invece ascoltiamoli questi messaggi, ascoltiamoli nel nostro cuore, dove Dio ci parla silenzioso.
Altrimenti saremo proprio come quei vignaioli: degli stolti! Come pensavano infatti di farla franca?
La vita è così: alcuni messaggi si capiscono subito, altri nel tempo. Ma ciò che è importante è accogliere tutto, ascoltare ciò che ci succede, le malattie del nostro corpo, i sentimenti della nostra anima, i fatti che ci succedono. Tutto parla (o niente parla). Ciò che conta è rimanere aperti e anche se qualcosa non si capisce subito non buttarla in cantina, in soffitta, dimenticarla, ma tenerla lì. A suo modo e a suo tempo parlerà.
Io sono io, ma non sono mio.
Continuerò a combattere, ad accumulare, a protestare, a volere, a possedere, a gestire; continuerò a voler conquistare qualcosa che non si può conquistare; continuerò a rincorrere qualcosa che non si può rincorrere. E mi attaccherò alle cose, alle persone, al raggiungere traguardi, successi e fama…
Ma così non mi potrò mai abbandonare sereno nelle braccia della vita perché vivo ancora nell’illusione di possedere qualcosa, che qualcosa sia mio, di aver potere di vita e di morte su qualcuno. Ma non è così!
Pensiamoci!
venerdì 26 settembre 2008
28 Settembre 2008 - XXVI Domenica del Tempo ordinario
La coerenza... onestà nei rapporti con Dio
Due figli, amati, educati, eppure disobbedienti, incapaci di capire il padre. Sembra che la parabola racconti una vicenda di tante nostre famiglie. Ma non è su questo che dobbiamo mettere l'attenzione. La differenza tra il primo e il secondo figlio non sta nella risposta che danno al padre, ma nel loro comportamento.
Il primo sembra obbediente, ma di fatto il suo agire non corrisponde alle parole; il secondo disobbedisce con la bocca , ma obbedisce con la vita. Il primo non va a lavorare, il secondo si pente di quanto ha detto e diventa lavoratore. La differenza che corre tra quanti si ritengono giusti e poi non fanno ciò che Dio chiede e quanti si riconoscono peccatori e accolgono la chiamata a mutar vita. Gesù ha davanti "principi dei sacerdoti e anziani del Tempio", la crema della religiosità; si professano obbedienti scrupolosi della volontà di Dio, ma, in effetti, rifiutando il Figlio rifiutano la volontà del Padre. Davanti a loro deve giustificare la sua preferenza per i peccatori tanto disponibili ad ascoltarlo. Erano accorsi anche al Giordano per ricevere il battesimo di penitenza di Giovanni. Chi ha avuto il privilegio di essere chiamato per primo ad attendere la venuta, ora si trova sorpassato dai peccatori (pubblicani e prostitute sono l'immagine dell'infedeltà) che cambiano vita ed entrano nel regno.
Per noi, come per l'antico Israele, risuona forte l'invito alla conversione. Non basta dirci cristiani perché battezzati o genericamente praticanti; dobbiamo interrogarci se stiamo concretamente accogliendo la volontà del Padre su di noi e stiamo seguendo Gesù come discepoli che lo imitano. Due comportamenti, che si ritrovano anche nella società del nostro tempo, e potrebbero essere presi dalla pagina di Matteo per interrogarci; c'è chi sta nel "Tempio", e non è difficile stabilire come, per trarne vantaggio (per comprare e vendere direbbe l'episodio della purificazione), piuttosto che per farne una "casa di preghiera"; c'è chi si pavoneggia, come un fico sontuoso per il suo fogliame, per professare la sua fedeltà alla Chiesa, ma in realtà non fa frutti, non si comporta secondo la parola nella vita familiare o professionale, magari è di scandalo.
Gesù è contrario ad una religiosità che si ferma al rito e alla devozione senza che questa trasformi la vita. Giunge a preferire il figlio anarchico e svogliato che dice quel che pensa e si fa mettere in discussione all’altro che, salvando l’apparenza del bravo ragazzo, in realtà non muove un dito per aiutare il Padre.
Quanti cristiani si comportano così, fratelli!: persone che hanno fatto delle proprie convinzioni religiose (che a volte hanno a che fare con la fede, ma solo vagamente!) un pilastro e non si rendono conto di vivere in assoluta contraddizione con quello che dicono; altri, invece, che si dicono atei o non credenti, vivono poi una buona umanità, un’onestà e una correttezza assoluta, fedeli alla propria coscienza, consapevoli della propria amara fragilità.
Diceva un amico tormentato e passionale: «Quanto invidio quelli che credono! Come vorrei avere pace nel cuore e credere, finalmente!».
Gesù chiede onestà nei nostri rapporti, anche con lui.
Davanti a Dio non dobbiamo indossare il vestito del devoto, solo quello, a volte lacero e sporco, del cercatore di Dio, del discepolo che mendica dignitosamente senso e luce.
Senza questo passo fondamentale, quello della verità con noi stessi, finiremo con l’adorare un Dio che assomiglia tanto (troppo?) a noi stessi…
La fede cristiana ha una caratteristica che la rende unica: il fatto di credere in un Dio incarnato costringe la nostra spiritualità ad incarnarsi, obbliga la nostra preghiera a diventare azione, porta i nostri discorsi alla verifica continua nelle azioni.
Come sarebbe più comoda una fede che resta nei cieli! Una religione che si esaurisce nella preghiera e nel culto, nella devozione e nel timore!
Gesù chiede al proprio discepolo di imitarlo nelle parole e nelle opere, senza sfiancarsi alla ricerca di una pagana coerenza, ma nella serena consapevolezza che incontrare il Vangelo ci spinge a cambiare la vita.
Gesù non è morto in nome della coerenza, ma dell’amore.
Spesso cerchiamo nella nostra vita cristiana, e nella Chiesa, una coerenza asettica e inumana.
La Chiesa, invece, è fatta di peccatori perdonati che sanno indicare il volto della misericordia.
O così sarebbe bello che fosse!
La fede cristiana si pone nel mezzo tra due eccessi: la ricerca spocchiosa di un moralismo integerrimo, in cui la Chiesa diventa una èlite di benpensanti (a volte anche benfacenti), o una combriccola in cui conta solo l’aspetto esteriore e dietro si combinano le peggio cose.
Gesù loda l’atteggiamento delle prostitute e dei pubblicani perché accolgono una Parola che li giudica e non si giustificano, perché accettano la sfida.
Non si dice se poi questa provocazione abbia portato a un cambiamento di vita. Per alcune prostitute divenute discepole e per Matteo il pubblicano è accaduto così.
Ma, qui, Gesù si concentra sull’atteggiamento di fondo: l’autenticità con Dio.
Non blandirlo, non indossare un abito che non è il nostro. Ma presentarci a lui nella nudità imbarazzata dell’essere.
Noi, operai della prima ora, siamo oggi chiamati a interrogarci sul nostro stare nella vigna del Signore.
Corriamo il rischio di vivere a compartimenti stagni: tiriamo fuori Dio cinque minuti al giorno, un’ora a settimana, finita la benedizione della Messa, amen, la vita ci aspetta fuori, Dio lo teniamo nei tabernacoli...
C’è da aver paura quando celebriamo il Dio della vita e fuori compiamo gesti di morte.
C’è da aver paura quando cantiamo l’amore che ci ha riuniti e fuori stoniamo con il nostro egoismo.
C’è da tremare all’idea di una comunità di fratelli che si radunano la domenica per il banchetto eucaristico e che fuori dalla chiesa neppure si salutano.
O la fede “detta” è “vissuta” o siamo ipocriti.
Attenzione, però! Questo è un obiettivo, una tensione che deve essere realizzata: infatti ricercare in noi e nelle comunità una perfezione asettica, puramente teorica, non è evangelico!
Il Signore chiede l’autenticità, apprezza di più il figlio che dice: “Non ce la faccio, non ne ho voglia” e poi si sforza, rispetto all’altro che dice “sì” e non si schioda.
«Anch’io come il figlio della parabola dico: «Non ne ho voglia, Signore.
Essere discepolo, lavorare nella vigna che è la Chiesa è faticoso e ci sono momenti in cui senti che non ce la fai e non ha senso quello che fai.
Gridare il Vangelo con la vita è impegnativo.
Preferisco galleggiare, preferisco vivere come tutti.
Ma, a pensarci bene, forse ancora qualche giorno nella vigna lo posso passare…».
Che il Signore ci spinga all’autenticità, ci doni di non fermarci alle parole (preti e ministri in testa, io per primo, in avanscoperta!) ma, con semplicità e coraggio, ci conceda di gridare il Vangelo con la nostra vita.
Solo così potremo diventare figli di quel Dio che continuamente cerca l’uomo per svelargli il suo amore».
Il primo sembra obbediente, ma di fatto il suo agire non corrisponde alle parole; il secondo disobbedisce con la bocca , ma obbedisce con la vita. Il primo non va a lavorare, il secondo si pente di quanto ha detto e diventa lavoratore. La differenza che corre tra quanti si ritengono giusti e poi non fanno ciò che Dio chiede e quanti si riconoscono peccatori e accolgono la chiamata a mutar vita. Gesù ha davanti "principi dei sacerdoti e anziani del Tempio", la crema della religiosità; si professano obbedienti scrupolosi della volontà di Dio, ma, in effetti, rifiutando il Figlio rifiutano la volontà del Padre. Davanti a loro deve giustificare la sua preferenza per i peccatori tanto disponibili ad ascoltarlo. Erano accorsi anche al Giordano per ricevere il battesimo di penitenza di Giovanni. Chi ha avuto il privilegio di essere chiamato per primo ad attendere la venuta, ora si trova sorpassato dai peccatori (pubblicani e prostitute sono l'immagine dell'infedeltà) che cambiano vita ed entrano nel regno.
Per noi, come per l'antico Israele, risuona forte l'invito alla conversione. Non basta dirci cristiani perché battezzati o genericamente praticanti; dobbiamo interrogarci se stiamo concretamente accogliendo la volontà del Padre su di noi e stiamo seguendo Gesù come discepoli che lo imitano. Due comportamenti, che si ritrovano anche nella società del nostro tempo, e potrebbero essere presi dalla pagina di Matteo per interrogarci; c'è chi sta nel "Tempio", e non è difficile stabilire come, per trarne vantaggio (per comprare e vendere direbbe l'episodio della purificazione), piuttosto che per farne una "casa di preghiera"; c'è chi si pavoneggia, come un fico sontuoso per il suo fogliame, per professare la sua fedeltà alla Chiesa, ma in realtà non fa frutti, non si comporta secondo la parola nella vita familiare o professionale, magari è di scandalo.
Gesù è contrario ad una religiosità che si ferma al rito e alla devozione senza che questa trasformi la vita. Giunge a preferire il figlio anarchico e svogliato che dice quel che pensa e si fa mettere in discussione all’altro che, salvando l’apparenza del bravo ragazzo, in realtà non muove un dito per aiutare il Padre.
Quanti cristiani si comportano così, fratelli!: persone che hanno fatto delle proprie convinzioni religiose (che a volte hanno a che fare con la fede, ma solo vagamente!) un pilastro e non si rendono conto di vivere in assoluta contraddizione con quello che dicono; altri, invece, che si dicono atei o non credenti, vivono poi una buona umanità, un’onestà e una correttezza assoluta, fedeli alla propria coscienza, consapevoli della propria amara fragilità.
Diceva un amico tormentato e passionale: «Quanto invidio quelli che credono! Come vorrei avere pace nel cuore e credere, finalmente!».
Gesù chiede onestà nei nostri rapporti, anche con lui.
Davanti a Dio non dobbiamo indossare il vestito del devoto, solo quello, a volte lacero e sporco, del cercatore di Dio, del discepolo che mendica dignitosamente senso e luce.
Senza questo passo fondamentale, quello della verità con noi stessi, finiremo con l’adorare un Dio che assomiglia tanto (troppo?) a noi stessi…
La fede cristiana ha una caratteristica che la rende unica: il fatto di credere in un Dio incarnato costringe la nostra spiritualità ad incarnarsi, obbliga la nostra preghiera a diventare azione, porta i nostri discorsi alla verifica continua nelle azioni.
Come sarebbe più comoda una fede che resta nei cieli! Una religione che si esaurisce nella preghiera e nel culto, nella devozione e nel timore!
Gesù chiede al proprio discepolo di imitarlo nelle parole e nelle opere, senza sfiancarsi alla ricerca di una pagana coerenza, ma nella serena consapevolezza che incontrare il Vangelo ci spinge a cambiare la vita.
Gesù non è morto in nome della coerenza, ma dell’amore.
Spesso cerchiamo nella nostra vita cristiana, e nella Chiesa, una coerenza asettica e inumana.
La Chiesa, invece, è fatta di peccatori perdonati che sanno indicare il volto della misericordia.
O così sarebbe bello che fosse!
La fede cristiana si pone nel mezzo tra due eccessi: la ricerca spocchiosa di un moralismo integerrimo, in cui la Chiesa diventa una èlite di benpensanti (a volte anche benfacenti), o una combriccola in cui conta solo l’aspetto esteriore e dietro si combinano le peggio cose.
Gesù loda l’atteggiamento delle prostitute e dei pubblicani perché accolgono una Parola che li giudica e non si giustificano, perché accettano la sfida.
Non si dice se poi questa provocazione abbia portato a un cambiamento di vita. Per alcune prostitute divenute discepole e per Matteo il pubblicano è accaduto così.
Ma, qui, Gesù si concentra sull’atteggiamento di fondo: l’autenticità con Dio.
Non blandirlo, non indossare un abito che non è il nostro. Ma presentarci a lui nella nudità imbarazzata dell’essere.
Noi, operai della prima ora, siamo oggi chiamati a interrogarci sul nostro stare nella vigna del Signore.
Corriamo il rischio di vivere a compartimenti stagni: tiriamo fuori Dio cinque minuti al giorno, un’ora a settimana, finita la benedizione della Messa, amen, la vita ci aspetta fuori, Dio lo teniamo nei tabernacoli...
C’è da aver paura quando celebriamo il Dio della vita e fuori compiamo gesti di morte.
C’è da aver paura quando cantiamo l’amore che ci ha riuniti e fuori stoniamo con il nostro egoismo.
C’è da tremare all’idea di una comunità di fratelli che si radunano la domenica per il banchetto eucaristico e che fuori dalla chiesa neppure si salutano.
O la fede “detta” è “vissuta” o siamo ipocriti.
Attenzione, però! Questo è un obiettivo, una tensione che deve essere realizzata: infatti ricercare in noi e nelle comunità una perfezione asettica, puramente teorica, non è evangelico!
Il Signore chiede l’autenticità, apprezza di più il figlio che dice: “Non ce la faccio, non ne ho voglia” e poi si sforza, rispetto all’altro che dice “sì” e non si schioda.
«Anch’io come il figlio della parabola dico: «Non ne ho voglia, Signore.
Essere discepolo, lavorare nella vigna che è la Chiesa è faticoso e ci sono momenti in cui senti che non ce la fai e non ha senso quello che fai.
Gridare il Vangelo con la vita è impegnativo.
Preferisco galleggiare, preferisco vivere come tutti.
Ma, a pensarci bene, forse ancora qualche giorno nella vigna lo posso passare…».
Che il Signore ci spinga all’autenticità, ci doni di non fermarci alle parole (preti e ministri in testa, io per primo, in avanscoperta!) ma, con semplicità e coraggio, ci conceda di gridare il Vangelo con la nostra vita.
Solo così potremo diventare figli di quel Dio che continuamente cerca l’uomo per svelargli il suo amore».
domenica 29 giugno 2008
29 giugno 2008 - Solennità dei SS. Pietro e Paolo
In quel tempo, Gesù, giunto nella regione di Cesarèa di Filippo, domandò ai suoi discepoli: «La gente, chi dice che sia il Figlio dell’uomo?» . Risposero: «Alcuni dicono Giovanni il Battista, altri Elìa, altri Geremìa o qualcuno dei profeti». Disse loro: «Ma voi, chi dite che io sia?». Rispose Simon Pietro: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente». E Gesù gli disse: «Beato sei tu, Simone, figlio di Giona, perché né carne né sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli. E io a te dico: tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le potenze degli inferi non prevarranno su di essa. A te darò le chiavi del regno dei cieli: tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli».
La gente, chi dice che sia il Figlio dell’uomo? La risposta è bella e insieme sbagliata: Dicono che sei un profeta, una creatura di fuoco e di luce, come Elia; una creatura di forza e di vento, come il Battista; profeta, voce di Dio e suo respiro. Ma voi, chi dite che io sia? Gesù è la domanda dentro le nostre risposte facili, è domanda che risveglia, che fa vivere. Dio crea la fede attraverso domande. Ma voi… La domanda è preceduta da una contrapposizione: Ma voi, voi invece, che cosa dite? Voi che mi seguite da anni, voi che mi avete visto sorridere, piangere, respirare, moltiplicare il pane... Come se i Dodici fossero di un altro mondo; come se non dovessero mai omologarsi al sistema. A nome di ogni credente, Cristina Campo testimonia: Ci sono due mondi: io sono dell’altro. Pietro risponde: Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente. E Gesù: Su questa pietra edificherò la mia Chiesa. Pietro è roccia per la Chiesa, e per l’uomo, nella misura in cui ripete che Dio si è donato in Cristo, che Cristo, crocifisso, è vivente, che tutti siamo figli nel Figlio. Questa è la fede- roccia, il primato di Pietro che costruisce la Chiesa. Come Pietro, modello del credente, anch’io sono chiamato a diventare roccia e chiave: roccia che dà appoggio, sicurezza, stabilità al fratello che mi è affidato; chiave che apre le porte belle di Dio, di un Regno dove la vita fiorisca. Come Pietro anch’io chiamato a legare e a sciogliere, a creare cioè nella mia storia strutture di riconciliazione, di prossimità. Ma tu, chi dici che io sia? Io capisco di Cristo solo ciò che vivo di Cristo. La vita non sta in ciò che dico della vita, ma in ciò che vivo della vita. Cristo non è uno che devo capire, ma uno che mi attrae; non uno che interpreto, ma uno che mi afferra. La croce non ci fu data per capirla, ma per aggrapparci ad essa. « Capire » Gesù, definirlo, può essere anche facile, ma « comprenderlo » nel senso originario di prendere per me, afferrare, stringere, possedere il suo segreto, è possibile solo se la sua vita mi ha « afferrato » . Corro perché conquistato, dice Paolo. Corro perché preso, vinto, prigioniero, sedotto da Cristo. La nostra vita non avanza per decreti, ma per una passione. Non per colpi di volontà, ma per attrazione. Io sono cristiano per divina seduzione: io, prigioniero di Cristo ( Ef 4,1), afferrato da Lui, corro per afferrarlo. ( Letture: Atti degli Apostoli 12,1- 11; Salmo 33; 2 Timoteo 4,6- 8.17- 18; Matteo 16,13- 19). (Ermes Ronchi, Avvenire, 26 giugno 2008)
La gente, chi dice che sia il Figlio dell’uomo? La risposta è bella e insieme sbagliata: Dicono che sei un profeta, una creatura di fuoco e di luce, come Elia; una creatura di forza e di vento, come il Battista; profeta, voce di Dio e suo respiro. Ma voi, chi dite che io sia? Gesù è la domanda dentro le nostre risposte facili, è domanda che risveglia, che fa vivere. Dio crea la fede attraverso domande. Ma voi… La domanda è preceduta da una contrapposizione: Ma voi, voi invece, che cosa dite? Voi che mi seguite da anni, voi che mi avete visto sorridere, piangere, respirare, moltiplicare il pane... Come se i Dodici fossero di un altro mondo; come se non dovessero mai omologarsi al sistema. A nome di ogni credente, Cristina Campo testimonia: Ci sono due mondi: io sono dell’altro. Pietro risponde: Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente. E Gesù: Su questa pietra edificherò la mia Chiesa. Pietro è roccia per la Chiesa, e per l’uomo, nella misura in cui ripete che Dio si è donato in Cristo, che Cristo, crocifisso, è vivente, che tutti siamo figli nel Figlio. Questa è la fede- roccia, il primato di Pietro che costruisce la Chiesa. Come Pietro, modello del credente, anch’io sono chiamato a diventare roccia e chiave: roccia che dà appoggio, sicurezza, stabilità al fratello che mi è affidato; chiave che apre le porte belle di Dio, di un Regno dove la vita fiorisca. Come Pietro anch’io chiamato a legare e a sciogliere, a creare cioè nella mia storia strutture di riconciliazione, di prossimità. Ma tu, chi dici che io sia? Io capisco di Cristo solo ciò che vivo di Cristo. La vita non sta in ciò che dico della vita, ma in ciò che vivo della vita. Cristo non è uno che devo capire, ma uno che mi attrae; non uno che interpreto, ma uno che mi afferra. La croce non ci fu data per capirla, ma per aggrapparci ad essa. « Capire » Gesù, definirlo, può essere anche facile, ma « comprenderlo » nel senso originario di prendere per me, afferrare, stringere, possedere il suo segreto, è possibile solo se la sua vita mi ha « afferrato » . Corro perché conquistato, dice Paolo. Corro perché preso, vinto, prigioniero, sedotto da Cristo. La nostra vita non avanza per decreti, ma per una passione. Non per colpi di volontà, ma per attrazione. Io sono cristiano per divina seduzione: io, prigioniero di Cristo ( Ef 4,1), afferrato da Lui, corro per afferrarlo. ( Letture: Atti degli Apostoli 12,1- 11; Salmo 33; 2 Timoteo 4,6- 8.17- 18; Matteo 16,13- 19). (Ermes Ronchi, Avvenire, 26 giugno 2008)
venerdì 20 giugno 2008
22 Giugno 2008 - XII Domenica del Tempo Ordinario
La persecuzione
Il popolo di Dio ha sperimentato, durante tutta la sua storia, la violenta opposizione dei popoli vicini. Il mistero della persecuzione, pur essendo connesso al mistero della sofferenza in genere, ne è distinto. La sofferenza costituisce un tormentoso problema, perché tocca tutti gli uomini anche i giusti e gli innocenti. La persecuzione colpisce i giusti proprio perché giusti; raggiunge specialmente i profeti a causa del loro amore a Dio e della loro fedeltà alla sua parola. Geremia occupa fra i perseguitati un posto speciale: egli ha espresso meglio degli altri lo stretto legame che esiste tra la persecuzione e la missione profetica.Una figura profetica: il Servo sofferenteIl Servo sofferente compie il piano di Dio con l’accettazione dei maltrattamenti che il popolo gli infligge. La ragione profonda che spiega il dramma del giusto perseguitato è messa in luce dal libro della Sapienza: il giusto è diventato per l’empio «insopportabile solo al vederlo» (Sap 2,14); è «di imbarazzo» (Sap 2,12), un testimone del Dio vivente che si preferisce misconoscere.Condannando Gesù al supplizio della croce, gli Ebrei continuano l’ingiustizia dei loro antenati che hanno perseguitato i profeti, e così tentano di opporsi al piano di Dio. Ma il calcolo dell’uomo peccatore si rivela sbagliato. I «principi di questo mondo», crocifiggendo il «Signore della gloria», diventano, in realtà, gli strumenti della Sapienza divina (1 Cor 2,8), perché la morte di Cristo diventa salvezza del mondo e gloria di Dio.La persecuzione: una beatitudineNell’insegnamento di Gesù, la persecuzione diventa oggetto di beatitudine: «Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno...» (Mt 5,11). Essa è inevitabile: «Un servo non è più grande del suo padrone. Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi». Impegnarsi a vivere seguendo la via di Dio significa incontrare nel proprio cammino difficoltà sempre nuove e sempre più grandi.In un mondo che è dominato dall’egoismo e dalla ricerca del proprio interesse, chi predica l’amore, là povertà e il perdono sarà inevitabilmente perseguitato, perché il peccato è profondamente radicato nel cuore dell’uomo. Ma il perseguitato non teme. Egli ha fiducia nel Signore. I persecutori possono uccidere solo il corpo, ma non hanno il potere di mandare in rovina l’anima.Il cristiano affronta la persecuzione con gioia: gli apostoli «se ne andarono dal sinedrio lieti di essere stati oltraggiati per amore del nome di Gesù» (At 5,41); e san Paolo: «Sono pervaso di gioia in ogni nostra tribolazione» (2 Cor 7,4).Vera e falsa persecuzioneIl Concilio ha chiesto alla Chiesa di cambiare il suo atteggiamento nei confronti del mondo: essa non è più la roccaforte isolata, ma il lievito che vuole animare e permeare con il vangelo la massa. Non dobbiamo pensare che questa riconciliazione sia facile e che dopo di essa gli uomini possano con facilità tendersi la mano. Nella misura in cui alcuni metteranno veramente in pratica le beatitudini evangeliche, per una autentica promozione umana, costoro conosceranno la persecuzione. L’opposizione tra la sapienza del mondo e la sapienza di Cristo è inevitabile e irriducibile.Non tutte le volte, però, che la Chiesa sperimenta la persecuzione, è per la sua fedeltà al vangelo e per l’imitazione di Cristo sulla via della croce; qualche volta è stata perseguitata e osteggiata perché in ritardo sulla storia, per pigrizia o per mancanza di fiducia o di coraggio. E’ doloroso costatare come idee cristiane ed evangeliche quali: libertà, uguaglianza, diritti della persona, democrazia, abbiano trovato in alcuni settori della Chiesa resistenze, sospetti e talora anche opposizione. Talvolta la ostilità contro la Chiesa è nata da un amore deluso verso di essa. I limiti umani della Chiesa cioè dei cristiani, le connivenze inconsapevoli, forse, ma reali con situazioni di ingiustizia e di potere, le paure e le esitazioni, i silenzi, la mancanza di coraggio... le hanno fatto rivoltare contro persino uomini onesti e di buona volontà.In più di un caso le persecuzioni contro la Chiesa trovano la loro origine in una concezione errata della religione che sembra conculcare la libertà e l’autonomia dell’uomo.Ma c’è infine anche una persecuzione che possiamo chiamare « satanica ». E’ il lievito nero del mondo che si diffonde e ramifica come un cancro che corrode i tessuti dell’umanità; è come un corpo mistico del male, col quale, nonostante ogni gesto di buona volontà, la Chiesa non può entrare in dialogo, perché si tratta del nemico irriducibile, dell’avversario che lotta contro Cristo e il suo regno. E questo, nonostante tanto scetticismo, è un male che esiste ed è molto attivo.
Il popolo di Dio ha sperimentato, durante tutta la sua storia, la violenta opposizione dei popoli vicini. Il mistero della persecuzione, pur essendo connesso al mistero della sofferenza in genere, ne è distinto. La sofferenza costituisce un tormentoso problema, perché tocca tutti gli uomini anche i giusti e gli innocenti. La persecuzione colpisce i giusti proprio perché giusti; raggiunge specialmente i profeti a causa del loro amore a Dio e della loro fedeltà alla sua parola. Geremia occupa fra i perseguitati un posto speciale: egli ha espresso meglio degli altri lo stretto legame che esiste tra la persecuzione e la missione profetica.Una figura profetica: il Servo sofferenteIl Servo sofferente compie il piano di Dio con l’accettazione dei maltrattamenti che il popolo gli infligge. La ragione profonda che spiega il dramma del giusto perseguitato è messa in luce dal libro della Sapienza: il giusto è diventato per l’empio «insopportabile solo al vederlo» (Sap 2,14); è «di imbarazzo» (Sap 2,12), un testimone del Dio vivente che si preferisce misconoscere.Condannando Gesù al supplizio della croce, gli Ebrei continuano l’ingiustizia dei loro antenati che hanno perseguitato i profeti, e così tentano di opporsi al piano di Dio. Ma il calcolo dell’uomo peccatore si rivela sbagliato. I «principi di questo mondo», crocifiggendo il «Signore della gloria», diventano, in realtà, gli strumenti della Sapienza divina (1 Cor 2,8), perché la morte di Cristo diventa salvezza del mondo e gloria di Dio.La persecuzione: una beatitudineNell’insegnamento di Gesù, la persecuzione diventa oggetto di beatitudine: «Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno...» (Mt 5,11). Essa è inevitabile: «Un servo non è più grande del suo padrone. Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi». Impegnarsi a vivere seguendo la via di Dio significa incontrare nel proprio cammino difficoltà sempre nuove e sempre più grandi.In un mondo che è dominato dall’egoismo e dalla ricerca del proprio interesse, chi predica l’amore, là povertà e il perdono sarà inevitabilmente perseguitato, perché il peccato è profondamente radicato nel cuore dell’uomo. Ma il perseguitato non teme. Egli ha fiducia nel Signore. I persecutori possono uccidere solo il corpo, ma non hanno il potere di mandare in rovina l’anima.Il cristiano affronta la persecuzione con gioia: gli apostoli «se ne andarono dal sinedrio lieti di essere stati oltraggiati per amore del nome di Gesù» (At 5,41); e san Paolo: «Sono pervaso di gioia in ogni nostra tribolazione» (2 Cor 7,4).Vera e falsa persecuzioneIl Concilio ha chiesto alla Chiesa di cambiare il suo atteggiamento nei confronti del mondo: essa non è più la roccaforte isolata, ma il lievito che vuole animare e permeare con il vangelo la massa. Non dobbiamo pensare che questa riconciliazione sia facile e che dopo di essa gli uomini possano con facilità tendersi la mano. Nella misura in cui alcuni metteranno veramente in pratica le beatitudini evangeliche, per una autentica promozione umana, costoro conosceranno la persecuzione. L’opposizione tra la sapienza del mondo e la sapienza di Cristo è inevitabile e irriducibile.Non tutte le volte, però, che la Chiesa sperimenta la persecuzione, è per la sua fedeltà al vangelo e per l’imitazione di Cristo sulla via della croce; qualche volta è stata perseguitata e osteggiata perché in ritardo sulla storia, per pigrizia o per mancanza di fiducia o di coraggio. E’ doloroso costatare come idee cristiane ed evangeliche quali: libertà, uguaglianza, diritti della persona, democrazia, abbiano trovato in alcuni settori della Chiesa resistenze, sospetti e talora anche opposizione. Talvolta la ostilità contro la Chiesa è nata da un amore deluso verso di essa. I limiti umani della Chiesa cioè dei cristiani, le connivenze inconsapevoli, forse, ma reali con situazioni di ingiustizia e di potere, le paure e le esitazioni, i silenzi, la mancanza di coraggio... le hanno fatto rivoltare contro persino uomini onesti e di buona volontà.In più di un caso le persecuzioni contro la Chiesa trovano la loro origine in una concezione errata della religione che sembra conculcare la libertà e l’autonomia dell’uomo.Ma c’è infine anche una persecuzione che possiamo chiamare « satanica ». E’ il lievito nero del mondo che si diffonde e ramifica come un cancro che corrode i tessuti dell’umanità; è come un corpo mistico del male, col quale, nonostante ogni gesto di buona volontà, la Chiesa non può entrare in dialogo, perché si tratta del nemico irriducibile, dell’avversario che lotta contro Cristo e il suo regno. E questo, nonostante tanto scetticismo, è un male che esiste ed è molto attivo.
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