Due figli, amati, educati, eppure disobbedienti, incapaci di capire il padre. Sembra che la parabola racconti una vicenda di tante nostre famiglie. Ma non è su questo che dobbiamo mettere l'attenzione. La differenza tra il primo e il secondo figlio non sta nella risposta che danno al padre, ma nel loro comportamento.
Il primo sembra obbediente, ma di fatto il suo agire non corrisponde alle parole; il secondo disobbedisce con la bocca , ma obbedisce con la vita. Il primo non va a lavorare, il secondo si pente di quanto ha detto e diventa lavoratore. La differenza che corre tra quanti si ritengono giusti e poi non fanno ciò che Dio chiede e quanti si riconoscono peccatori e accolgono la chiamata a mutar vita. Gesù ha davanti "principi dei sacerdoti e anziani del Tempio", la crema della religiosità; si professano obbedienti scrupolosi della volontà di Dio, ma, in effetti, rifiutando il Figlio rifiutano la volontà del Padre. Davanti a loro deve giustificare la sua preferenza per i peccatori tanto disponibili ad ascoltarlo. Erano accorsi anche al Giordano per ricevere il battesimo di penitenza di Giovanni. Chi ha avuto il privilegio di essere chiamato per primo ad attendere la venuta, ora si trova sorpassato dai peccatori (pubblicani e prostitute sono l'immagine dell'infedeltà) che cambiano vita ed entrano nel regno.
Per noi, come per l'antico Israele, risuona forte l'invito alla conversione. Non basta dirci cristiani perché battezzati o genericamente praticanti; dobbiamo interrogarci se stiamo concretamente accogliendo la volontà del Padre su di noi e stiamo seguendo Gesù come discepoli che lo imitano. Due comportamenti, che si ritrovano anche nella società del nostro tempo, e potrebbero essere presi dalla pagina di Matteo per interrogarci; c'è chi sta nel "Tempio", e non è difficile stabilire come, per trarne vantaggio (per comprare e vendere direbbe l'episodio della purificazione), piuttosto che per farne una "casa di preghiera"; c'è chi si pavoneggia, come un fico sontuoso per il suo fogliame, per professare la sua fedeltà alla Chiesa, ma in realtà non fa frutti, non si comporta secondo la parola nella vita familiare o professionale, magari è di scandalo.
Gesù è contrario ad una religiosità che si ferma al rito e alla devozione senza che questa trasformi la vita. Giunge a preferire il figlio anarchico e svogliato che dice quel che pensa e si fa mettere in discussione all’altro che, salvando l’apparenza del bravo ragazzo, in realtà non muove un dito per aiutare il Padre.
Quanti cristiani si comportano così, fratelli!: persone che hanno fatto delle proprie convinzioni religiose (che a volte hanno a che fare con la fede, ma solo vagamente!) un pilastro e non si rendono conto di vivere in assoluta contraddizione con quello che dicono; altri, invece, che si dicono atei o non credenti, vivono poi una buona umanità, un’onestà e una correttezza assoluta, fedeli alla propria coscienza, consapevoli della propria amara fragilità.
Diceva un amico tormentato e passionale: «Quanto invidio quelli che credono! Come vorrei avere pace nel cuore e credere, finalmente!».
Gesù chiede onestà nei nostri rapporti, anche con lui.
Davanti a Dio non dobbiamo indossare il vestito del devoto, solo quello, a volte lacero e sporco, del cercatore di Dio, del discepolo che mendica dignitosamente senso e luce.
Senza questo passo fondamentale, quello della verità con noi stessi, finiremo con l’adorare un Dio che assomiglia tanto (troppo?) a noi stessi…
La fede cristiana ha una caratteristica che la rende unica: il fatto di credere in un Dio incarnato costringe la nostra spiritualità ad incarnarsi, obbliga la nostra preghiera a diventare azione, porta i nostri discorsi alla verifica continua nelle azioni.
Come sarebbe più comoda una fede che resta nei cieli! Una religione che si esaurisce nella preghiera e nel culto, nella devozione e nel timore!
Gesù chiede al proprio discepolo di imitarlo nelle parole e nelle opere, senza sfiancarsi alla ricerca di una pagana coerenza, ma nella serena consapevolezza che incontrare il Vangelo ci spinge a cambiare la vita.
Gesù non è morto in nome della coerenza, ma dell’amore.
Spesso cerchiamo nella nostra vita cristiana, e nella Chiesa, una coerenza asettica e inumana.
La Chiesa, invece, è fatta di peccatori perdonati che sanno indicare il volto della misericordia.
O così sarebbe bello che fosse!
La fede cristiana si pone nel mezzo tra due eccessi: la ricerca spocchiosa di un moralismo integerrimo, in cui la Chiesa diventa una èlite di benpensanti (a volte anche benfacenti), o una combriccola in cui conta solo l’aspetto esteriore e dietro si combinano le peggio cose.
Gesù loda l’atteggiamento delle prostitute e dei pubblicani perché accolgono una Parola che li giudica e non si giustificano, perché accettano la sfida.
Non si dice se poi questa provocazione abbia portato a un cambiamento di vita. Per alcune prostitute divenute discepole e per Matteo il pubblicano è accaduto così.
Ma, qui, Gesù si concentra sull’atteggiamento di fondo: l’autenticità con Dio.
Non blandirlo, non indossare un abito che non è il nostro. Ma presentarci a lui nella nudità imbarazzata dell’essere.
Noi, operai della prima ora, siamo oggi chiamati a interrogarci sul nostro stare nella vigna del Signore.
Corriamo il rischio di vivere a compartimenti stagni: tiriamo fuori Dio cinque minuti al giorno, un’ora a settimana, finita la benedizione della Messa, amen, la vita ci aspetta fuori, Dio lo teniamo nei tabernacoli...
C’è da aver paura quando celebriamo il Dio della vita e fuori compiamo gesti di morte.
C’è da aver paura quando cantiamo l’amore che ci ha riuniti e fuori stoniamo con il nostro egoismo.
C’è da tremare all’idea di una comunità di fratelli che si radunano la domenica per il banchetto eucaristico e che fuori dalla chiesa neppure si salutano.
O la fede “detta” è “vissuta” o siamo ipocriti.
Attenzione, però! Questo è un obiettivo, una tensione che deve essere realizzata: infatti ricercare in noi e nelle comunità una perfezione asettica, puramente teorica, non è evangelico!
Il Signore chiede l’autenticità, apprezza di più il figlio che dice: “Non ce la faccio, non ne ho voglia” e poi si sforza, rispetto all’altro che dice “sì” e non si schioda.
«Anch’io come il figlio della parabola dico: «Non ne ho voglia, Signore.
Essere discepolo, lavorare nella vigna che è la Chiesa è faticoso e ci sono momenti in cui senti che non ce la fai e non ha senso quello che fai.
Gridare il Vangelo con la vita è impegnativo.
Preferisco galleggiare, preferisco vivere come tutti.
Ma, a pensarci bene, forse ancora qualche giorno nella vigna lo posso passare…».
Che il Signore ci spinga all’autenticità, ci doni di non fermarci alle parole (preti e ministri in testa, io per primo, in avanscoperta!) ma, con semplicità e coraggio, ci conceda di gridare il Vangelo con la nostra vita.
Solo così potremo diventare figli di quel Dio che continuamente cerca l’uomo per svelargli il suo amore».
Il primo sembra obbediente, ma di fatto il suo agire non corrisponde alle parole; il secondo disobbedisce con la bocca , ma obbedisce con la vita. Il primo non va a lavorare, il secondo si pente di quanto ha detto e diventa lavoratore. La differenza che corre tra quanti si ritengono giusti e poi non fanno ciò che Dio chiede e quanti si riconoscono peccatori e accolgono la chiamata a mutar vita. Gesù ha davanti "principi dei sacerdoti e anziani del Tempio", la crema della religiosità; si professano obbedienti scrupolosi della volontà di Dio, ma, in effetti, rifiutando il Figlio rifiutano la volontà del Padre. Davanti a loro deve giustificare la sua preferenza per i peccatori tanto disponibili ad ascoltarlo. Erano accorsi anche al Giordano per ricevere il battesimo di penitenza di Giovanni. Chi ha avuto il privilegio di essere chiamato per primo ad attendere la venuta, ora si trova sorpassato dai peccatori (pubblicani e prostitute sono l'immagine dell'infedeltà) che cambiano vita ed entrano nel regno.
Per noi, come per l'antico Israele, risuona forte l'invito alla conversione. Non basta dirci cristiani perché battezzati o genericamente praticanti; dobbiamo interrogarci se stiamo concretamente accogliendo la volontà del Padre su di noi e stiamo seguendo Gesù come discepoli che lo imitano. Due comportamenti, che si ritrovano anche nella società del nostro tempo, e potrebbero essere presi dalla pagina di Matteo per interrogarci; c'è chi sta nel "Tempio", e non è difficile stabilire come, per trarne vantaggio (per comprare e vendere direbbe l'episodio della purificazione), piuttosto che per farne una "casa di preghiera"; c'è chi si pavoneggia, come un fico sontuoso per il suo fogliame, per professare la sua fedeltà alla Chiesa, ma in realtà non fa frutti, non si comporta secondo la parola nella vita familiare o professionale, magari è di scandalo.
Gesù è contrario ad una religiosità che si ferma al rito e alla devozione senza che questa trasformi la vita. Giunge a preferire il figlio anarchico e svogliato che dice quel che pensa e si fa mettere in discussione all’altro che, salvando l’apparenza del bravo ragazzo, in realtà non muove un dito per aiutare il Padre.
Quanti cristiani si comportano così, fratelli!: persone che hanno fatto delle proprie convinzioni religiose (che a volte hanno a che fare con la fede, ma solo vagamente!) un pilastro e non si rendono conto di vivere in assoluta contraddizione con quello che dicono; altri, invece, che si dicono atei o non credenti, vivono poi una buona umanità, un’onestà e una correttezza assoluta, fedeli alla propria coscienza, consapevoli della propria amara fragilità.
Diceva un amico tormentato e passionale: «Quanto invidio quelli che credono! Come vorrei avere pace nel cuore e credere, finalmente!».
Gesù chiede onestà nei nostri rapporti, anche con lui.
Davanti a Dio non dobbiamo indossare il vestito del devoto, solo quello, a volte lacero e sporco, del cercatore di Dio, del discepolo che mendica dignitosamente senso e luce.
Senza questo passo fondamentale, quello della verità con noi stessi, finiremo con l’adorare un Dio che assomiglia tanto (troppo?) a noi stessi…
La fede cristiana ha una caratteristica che la rende unica: il fatto di credere in un Dio incarnato costringe la nostra spiritualità ad incarnarsi, obbliga la nostra preghiera a diventare azione, porta i nostri discorsi alla verifica continua nelle azioni.
Come sarebbe più comoda una fede che resta nei cieli! Una religione che si esaurisce nella preghiera e nel culto, nella devozione e nel timore!
Gesù chiede al proprio discepolo di imitarlo nelle parole e nelle opere, senza sfiancarsi alla ricerca di una pagana coerenza, ma nella serena consapevolezza che incontrare il Vangelo ci spinge a cambiare la vita.
Gesù non è morto in nome della coerenza, ma dell’amore.
Spesso cerchiamo nella nostra vita cristiana, e nella Chiesa, una coerenza asettica e inumana.
La Chiesa, invece, è fatta di peccatori perdonati che sanno indicare il volto della misericordia.
O così sarebbe bello che fosse!
La fede cristiana si pone nel mezzo tra due eccessi: la ricerca spocchiosa di un moralismo integerrimo, in cui la Chiesa diventa una èlite di benpensanti (a volte anche benfacenti), o una combriccola in cui conta solo l’aspetto esteriore e dietro si combinano le peggio cose.
Gesù loda l’atteggiamento delle prostitute e dei pubblicani perché accolgono una Parola che li giudica e non si giustificano, perché accettano la sfida.
Non si dice se poi questa provocazione abbia portato a un cambiamento di vita. Per alcune prostitute divenute discepole e per Matteo il pubblicano è accaduto così.
Ma, qui, Gesù si concentra sull’atteggiamento di fondo: l’autenticità con Dio.
Non blandirlo, non indossare un abito che non è il nostro. Ma presentarci a lui nella nudità imbarazzata dell’essere.
Noi, operai della prima ora, siamo oggi chiamati a interrogarci sul nostro stare nella vigna del Signore.
Corriamo il rischio di vivere a compartimenti stagni: tiriamo fuori Dio cinque minuti al giorno, un’ora a settimana, finita la benedizione della Messa, amen, la vita ci aspetta fuori, Dio lo teniamo nei tabernacoli...
C’è da aver paura quando celebriamo il Dio della vita e fuori compiamo gesti di morte.
C’è da aver paura quando cantiamo l’amore che ci ha riuniti e fuori stoniamo con il nostro egoismo.
C’è da tremare all’idea di una comunità di fratelli che si radunano la domenica per il banchetto eucaristico e che fuori dalla chiesa neppure si salutano.
O la fede “detta” è “vissuta” o siamo ipocriti.
Attenzione, però! Questo è un obiettivo, una tensione che deve essere realizzata: infatti ricercare in noi e nelle comunità una perfezione asettica, puramente teorica, non è evangelico!
Il Signore chiede l’autenticità, apprezza di più il figlio che dice: “Non ce la faccio, non ne ho voglia” e poi si sforza, rispetto all’altro che dice “sì” e non si schioda.
«Anch’io come il figlio della parabola dico: «Non ne ho voglia, Signore.
Essere discepolo, lavorare nella vigna che è la Chiesa è faticoso e ci sono momenti in cui senti che non ce la fai e non ha senso quello che fai.
Gridare il Vangelo con la vita è impegnativo.
Preferisco galleggiare, preferisco vivere come tutti.
Ma, a pensarci bene, forse ancora qualche giorno nella vigna lo posso passare…».
Che il Signore ci spinga all’autenticità, ci doni di non fermarci alle parole (preti e ministri in testa, io per primo, in avanscoperta!) ma, con semplicità e coraggio, ci conceda di gridare il Vangelo con la nostra vita.
Solo così potremo diventare figli di quel Dio che continuamente cerca l’uomo per svelargli il suo amore».
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